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1 STORIA DELLA MUSICA 2012-2013 Prof. Paolo Gallarati Parte Monografica: Lettura della Traviata Premessa 1) Elementi di drammaturgia musicale Questa parte monografica del corso di Istituzioni di storia della musica ha lo scopo d’illustrare alcuni meccanismi fondamentali che regolano il funzionamento della drammaturgia musicale e mostrare, dunque, la specificità del melodramma, che possiede alcune caratteristiche parzialmente affini e altre molto diverse da quelle del teatro parlato, non senza realizzare, in alcuni casi, effetti di sinestesia e d’articolazione spazio-temporale simili a quelli del cinematografo. Vi sono, nell’opera, molte convenzioni che costituiscono indubbiamente un ostacolo ad un approccio immediato: ma ogni forma di spettacolo ha le sue convenzioni (nella tragedia greca, ad esempio, esse non sono meno imperiose di quanto non lo siano nel melodramma) che, una volta comprese e accettate, non disturbano più e permettono al fruitore di recepire il messaggio in tutta la complessità della sua natura. Si potrebbe dire, approssimativamente, che, se il teatro di parola è un teatro delle idee, quello musicale è un teatro delle passioni. Naturalmente, questa definizione non va presa in senso assoluto, perché anche il teatro delle idee esprime sentimenti e passioni e, attraverso la musica del melodramma, filtrano idee e concetti. Però, l’oggetto principale della rappresentazione è da una parte, appunto, un fatto razionale, dall’altra, emotivo, perché i mezzi principali di cui si servono i due generi di rappresentazione drammatica sono, da un lato la parola, capace di esprimere significati precisi, dall’altro la musica che, anche sposata ad un testo, non perde mai il suo tasso d’ambiguità e la sua polivalenza espressiva, e si pone come strumento ideale per evocare ciò che sfugge al controllo della ragione e appartiene al flusso metarazionale di emozioni, sentimenti, passioni, vita psicologica cosciente e subcosciente. La musica, come s’è detto, non esprime nulla di preciso. Non si può tradurre esattamente in suoni l’affermazione «il sole splende». Però si possono esprimere la sensazione esterna di luce e calore; il sentimento che quella condizione ambientale suscita nei personaggi, che può variare da un semplice senso di benessere ad una panica esaltazione, al fastidio della calura e dell’accecamento. L’opera è formata dall’incontro fra la musica e il testo, chiamato «libretto» dall’antica usanza di distribuire agli spettatori un librino tascabile su cui è stampato il poema drammatico. L’elaborazione musicale del testo si attua attraverso due elementi: il canto e l’orchestra. Testo, canto e orchestra hanno ciascuno una vita espressiva autonoma, e dall’incontro di questa triplice espressività nasce la drammaturgia musicale. Nel teatro recitato l’attore può variare il significato delle parole attraverso l’intonazione della recitazione. Nell’opera questa possibilità è enormemente potenziata perché la varietà delle melodie che si possono applicare ad una frase verbale, ad una battuta, non ha limiti. Inoltre, il canto e l’orchestra, indipendentemente l’uno dall’altra, possono, di volta in volta, confermare, esaltare ma anche ignorare o, addirittura, contraddire il significato delle parole. Immaginiamo che, in una scena d’opera, un personaggio faccia ad un altro una dichiarazione d’amore. Le soluzioni musicali possibili sono diverse. Per esempio, il cantante può lanciarsi in una bella melodia affettuosa, piana, liscia; l’orchestra la sostiene, le dà risalto, l’avvolge di timbri chiari, dolci, morbidi. Ci sarà dunque un accordo tra il significato del testo, l’intonazione espressiva del canto e quella dell’orchestra. Ma se, sotto quel canto lirico, dolce, appassionato, l’orchestra

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STORIA DELLA MUSICA 2012-2013

Prof. Paolo Gallarati

Parte Monografica: Lettura della Traviata

Premessa 1) Elementi di drammaturgia musicale Questa parte monografica del corso di Istituzioni di storia della musica ha lo scopo d’illustrare

alcuni meccanismi fondamentali che regolano il funzionamento della drammaturgia musicale e mostrare, dunque, la specificità del melodramma, che possiede alcune caratteristiche parzialmente affini e altre molto diverse da quelle del teatro parlato, non senza realizzare, in alcuni casi, effetti di sinestesia e d’articolazione spazio-temporale simili a quelli del cinematografo. Vi sono, nell’opera, molte convenzioni che costituiscono indubbiamente un ostacolo ad un approccio immediato: ma ogni forma di spettacolo ha le sue convenzioni (nella tragedia greca, ad esempio, esse non sono meno imperiose di quanto non lo siano nel melodramma) che, una volta comprese e accettate, non disturbano più e permettono al fruitore di recepire il messaggio in tutta la complessità della sua natura.

Si potrebbe dire, approssimativamente, che, se il teatro di parola è un teatro delle idee, quello musicale è un teatro delle passioni. Naturalmente, questa definizione non va presa in senso assoluto, perché anche il teatro delle idee esprime sentimenti e passioni e, attraverso la musica del melodramma, filtrano idee e concetti. Però, l’oggetto principale della rappresentazione è da una parte, appunto, un fatto razionale, dall’altra, emotivo, perché i mezzi principali di cui si servono i due generi di rappresentazione drammatica sono, da un lato la parola, capace di esprimere significati precisi, dall’altro la musica che, anche sposata ad un testo, non perde mai il suo tasso d’ambiguità e la sua polivalenza espressiva, e si pone come strumento ideale per evocare ciò che sfugge al controllo della ragione e appartiene al flusso metarazionale di emozioni, sentimenti, passioni, vita psicologica cosciente e subcosciente. La musica, come s’è detto, non esprime nulla di preciso. Non si può tradurre esattamente in suoni l’affermazione «il sole splende». Però si possono esprimere la sensazione esterna di luce e calore; il sentimento che quella condizione ambientale suscita nei personaggi, che può variare da un semplice senso di benessere ad una panica esaltazione, al fastidio della calura e dell’accecamento.

L’opera è formata dall’incontro fra la musica e il testo, chiamato «libretto» dall’antica usanza di distribuire agli spettatori un librino tascabile su cui è stampato il poema drammatico. L’elaborazione musicale del testo si attua attraverso due elementi: il canto e l’orchestra. Testo, canto e orchestra hanno ciascuno una vita espressiva autonoma, e dall’incontro di questa triplice espressività nasce la drammaturgia musicale.

Nel teatro recitato l’attore può variare il significato delle parole attraverso l’intonazione della recitazione. Nell’opera questa possibilità è enormemente potenziata perché la varietà delle melodie che si possono applicare ad una frase verbale, ad una battuta, non ha limiti. Inoltre, il canto e l’orchestra, indipendentemente l’uno dall’altra, possono, di volta in volta, confermare, esaltare ma anche ignorare o, addirittura, contraddire il significato delle parole.

Immaginiamo che, in una scena d’opera, un personaggio faccia ad un altro una dichiarazione d’amore. Le soluzioni musicali possibili sono diverse. Per esempio, il cantante può lanciarsi in una bella melodia affettuosa, piana, liscia; l’orchestra la sostiene, le dà risalto, l’avvolge di timbri chiari, dolci, morbidi. Ci sarà dunque un accordo tra il significato del testo, l’intonazione espressiva del canto e quella dell’orchestra. Ma se, sotto quel canto lirico, dolce, appassionato, l’orchestra

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scandisce, ad esempio, una pulsazione sinistra, come un rintocco funebre, l’espressione cambia completamente e può significare che la serenità di quell’a-more è minacciata da un presentimento inquietante. Facciamo un altro esempio, sempre riferito alla stessa dichiarazione d’amore; il canto, invece di essere piano, liscio, melodico, è tormentato e contorto, ci sono degli intervalli che esprimono un senso di sforzo innaturale; alle parole, la musica aggiunge un imprevisto senso d’insicurezza, insinuando il dubbio che quell’amore sia tormentato in partenza, e alterando completamente il significato letterale del testo. Oppure, sempre sulle stesse parole, il cantante può assumere, perché no, toni grotteschi, enfatici, comici: vorrà dire che finge, magari per far capire ad un terzo personaggio che ascolta, o al pubblico presente in sala, che questa dichiarazione d’amore è un inganno, o una burla scherzosa. L’opera richiede, dunque, un ascolto molto selettivo, attento ai dislivelli espressivi creati dalla musica rispetto al testo verbale e capace di cogliere ciò che il canto aggiunge al testo e l’orchestra al canto, nella continua interferenza dei tre canali di comunicazione.

Consideriamo, ad esempio, il preludio strumentale che apre l’ultimo atto del Don Carlo di Verdi, dove la protagonista, Elisabetta, disperata per il suo amore impossibile, giunge presso la tomba di Carlo V, a pregare. Il preludio rappresenta due situazioni contrastanti. C’è dapprima un corale d’ottoni, molto pesante e cupo: è la rappresentazione musicale del sepolcreto. Questo corale è però spezzato da incandescenti ventate degli archi che salgono come grida di dolore e di passione, due, tre volte, s’innalzano, poi si ripiegano, come spossate: è la rappresentazione del dramma che lacera l’animo di Elisabetta, mentre entra in quel luogo funebre. Quindi la musica rende tangibile il rapporto tra individuo e ambiente, esaltandone reciprocamente la forza espressiva. Nell’a-ria che segue, il canto svolge questo conflitto tra desolazione, paura e aspirazione all’amore impossibile.

Talvolta l’orchestra assume un andamento così indipendente dal canto che sembra commentare le situazioni drammatiche, facendole vedere, in un certo senso, «dall’esterno». Questo ha permesso d’individuare, nel suo comportamento, la voce dell’au-tore, la presenza dell’io narrante che consente di assimilare l’opera ad un racconto, secondo il titolo di un libro sulla semiotica del melodramma1; un racconto in cui il musicista commenta i fatti, collega i dialoghi, entra come interlocutore tra i personaggi. C’è, dunque, nell’opera una componente narrativa inesistente nel teatro di prosa, dove manca una voce esterna che osserva gli avvenimenti, mettendo in prospettiva la realtà drammatica e presentandola sotto un’imprevedibile molteplicità di apparenze.

Questo gioco d’interferenza tra significato del testo, espressione del canto ed espressione dell’orchestra determina, dentro l’opera, una serie di prospettive drammaturgiche specifiche. Per esempio, la musica può creare effetti d’avvicinamento e allontanamento dagli eventi rappresentati, analoghi ai mutamenti d’inquadratura utilizzati nel cinematografo quando si passa dal primo piano alla visione totale.

Si veda l’ultimo atto della Traviata. Violetta, mortalmente malata, è nella sua camera da letto, dopo quella che rimarrà l’ultima notte della sua vita. La donna è ormai esangue, priva di forze. La musica scava nei suoi sentimenti con estrema delicatezza e profonda intimità, rappresenta il suo stato fisico con un suono diafano, quasi spettrale, mentre l’attenzione del teatro buio converge su di lei, ingigantita in un primo piano tra i pochi oggetti – il letto, il comodino da notte, il bicchiere d’acqua, lo specchio – che arredano l’ambiente, musicalmente saturo di sofferenza e di dolore. Quando però Violetta, nel primo atto, era comparsa in una festa dove gli invitati intrecciavano danze, chiacchierando fra loro, e cantando con il coro in sonorità squillanti, l’inquadratura musicale si era ampliata a comprendere il totale del palcoscenico. Ma, improvvisamente, in una scena di questo tipo, può emergere la voce di un personaggio che cova un pensiero segreto, un dramma interiore, qualcosa da nascondere tra la gente che lo circonda (si pensi alla scena finale di Un ballo in maschera); basta una frase musicale, una linea di canto autonoma che esca fuori di quella massa, un restringersi della sonorità a dimensione cameristica perché noi, immediatamente, individuiamo, al centro della folla, il singolo; e quindi percepiamo un effetto di primo piano all’interno della

1 Cfr. L. ZOPPELLI, L’opera come racconto. Modi narrativi nel teatro musicale dell’Ottocento, Venezia, Marsilio, 1994,

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totalità. Insomma, la musica, come una macchina da presa, “taglia” l’inquadratura della scena con estrema libertà e varietà.

Per determinare questi effetti, ha una grande importanza il trattamento musicale della parola. La musica può esaltarla nella sua natura fonetica e semantica, dare espressione alle sillabe, alla prosodia, al ritmo del discorso, oppure sovrapporsi alla parola uniformandone il ritmo, disarticolandola, rendendola incomprensibile attraverso l’uso dei vocalizzi; nel primo caso avremo un effetto realistico di avvicinamento alle persone, ai fatti; nel secondo un allontanamento dalla realtà della situazione, con vari fini che vanno dalla pura evasione decorativa alla resa della vita sentimentale, psicologica, subcosciente. Rendendo percepibile la parola nell’intimità della sua natura sonora, la musica opera effetti di primo piano; allontanandosi dalla parola, l’“inquadratura” musicale della scena tende ad una visione a maggiore distanza, inglobando solisti e coro in un quadro generale.

Lo spazio, inoltre, può anche dilatarsi in misura impensabile quando, ad esempio, il compositore piazza della musica fuori scena. Si pensi ad un corteo che passa di lontano, accompagnato da una marcia; ad un personaggio che canta dietro le quinte, oppure ad un temporale che avanza, e che la musica fa vivere, al di là del palcoscenico, in echi e prospettive sonore: nella nostra immaginazione “vediamo”, attraverso i suoni, uno spazio che si apre oltre il fondale e si perde, virtualmente, all’infinito. Di questa stereofonia spaziale c’è un esempio superbo nella scena del «Miserere» nel Trovatore, articolata sul rapporto fra tre fonti sonore: Eleonora, che canta la sua disperazione in primo piano perché Manrico, condannato a morte, è prigioniero in una torre ed è prossimo all’esecuzione capitale; sul palcoscenico c’è la torre da cui proviene il canto del tenore; fuori scena si sente un coro maschile che prega per i condannati alla prossima esecuzione. Così, quando Leonora canta guardiamo lei, poi la nostra attenzione si sposta sul coro fuori scena dove immaginiamo spazi non rappresentati visivamente, indi rimbalza, ancora, in cima alla torre da cui proviene il canto di Manrico. Le tre fonti sonore, attivandosi in successione prima e in sovrapposizione poi, provocano lo stesso effetto ottenuto dal cinema con il cambiamento d’inquadratura, la contemporaneità d’immagini diverse, la dissolvenza incrociata. Analogo spiazzamento del punto di fuga prospettico lo troviamo nell’ultimo atto di Rigoletto, in cui i suoni-rumori della tempesta in arrivo e dell’orologio che batte le ore in lontananza aprono allo spazio sonoro una dimensione che va oltre quella del palcoscenico e si apre ad una profondità suggestiva.

Ma, oltre a questa modulazione dello spazio, la musica applicata al teatro può anche operare una modulazione del tempo e far rivivere fatti, sentimenti, passioni, presentando nuovamente motivi che sono già risuonati in altre situazioni. Nel primo atto della Traviata, ad esempio, c’è un duetto tra Alfredo e Violetta in cui, per la prima volta, Alfredo canta una dichiarazione d’amore sincero, con una melodia famosissima e bellissima sulle parole «di quell’amor ch’è palpito | dell’universo intero». Quando, nell’ultimo atto, Violetta, ormai alla fine, legge una lettera in cui le si promette il sospirato ritorno di Alfredo, in orchestra risuona il tema d’amore ascoltato all’inizio dell’opera, ridestando un cumulo di memorie, dolcezze, sofferenze passate. Questa melodia, resa spettrale da un’orchestra diafana, senza suono, ritorna, ancora una volta, nel momento in cui Violetta muore, come se l’accompagnasse nel trapasso con una sorta di viatico, d’estrema unzione. Quindi il tempo passato ritorna presente attraverso la musica; il ricordo diventa tangibile; l’esperienza si accumula nella coscienza e affiora come fatto interiore, attraverso i temi, ricorrenti e deformati.

In tutta l’opera di Wagner, la tecnica dei motivi conduttori determina simili interferenze della memoria. Ci sono temi che si presentano per la prima volta in certe situazioni, e poi ritornano, deformati ma sempre riconoscibili, a distanza di pagine e pagine di partitura. L’ascoltatore percepisce, così, attraverso la musica, una trama psicologica che gli permette di cogliere la complessità dell’esperienza interiore accumulatasi e trasformatasi nel tempo. I personaggi, che hanno nel frattempo vissuto, rivivono il passato attraverso il ritorno di certe figure musicali: si creano, così, dei cortocircuiti di grande potenza espressiva, capaci di produrre forti scosse emotive. Una cosa è, infatti, esprimere un ricordo a parole, un’altra riascoltare un tema capace di rendere

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nuovamente presente un fatto, un’immagine, un personaggio in un contesto drammatico del tutto diverso. Si crea, in tal modo, una compresenza di conscio e inconscio, che la musica rende bruciante nella sua immediatezza.

Oltre a questa capacità di far rivivere il ricordo, la drammaturgia musicale sfrutta, in modo molto evidente, la possibilità di concentrare o dilatare il tempo. Può esserci, per esempio, una situazione di terrore collettivo: i personaggi sono in pericolo e devono fuggire. Ma il momento viene dilatato dalla musica: tutto si blocca in una di quelle situazioni sovente derise da chi non capisce le convenzioni del teatro d’opera perché è impossibile, sul piano razionale, accettare il fatto che tutti si esortino a partire, pur continuando a star fermi. In realtà, non è l’azione che si vuole rappresentare, bensì lo stato d’animo che si crea nei personaggi nel momento in cui prendono atto del pericolo: la musica dilata il senso di paura, d’ansia, d’angoscia, e lo rappresenta in una forma astratta ma efficacissima sul piano emotivo. Una musica di terrore, ad esempio, può essere lentissima, e allungare il momento singolo in un lungo passo, sospeso fuori del tempo. La rappresentazione è irreale, perché nella vita non succede così; ma è anche molto vera, perché quel sentimento, così dilatato, acquista una forza d’impatto emotivo e psicologico che non avrebbe se fosse risolto semplicemente in un grido e tutti i presenti, subito, scappassero. Pensiamo, ancora, ai grandi momenti lirici del melodramma in cui i personaggi, cantando, ripetono più volte le parole: alcuni versi che, se recitati, passerebbero in pochi secondi, durano molto di più, mentre la musica dà loro spessore e significato.

Ma, se è possibile una dilatazione del tempo, può esserci, attraverso la musica, una sua compressione, quando, nei pezzi concertati, ci sono magari in scena quattro, cinque, sei o più personaggi che cantano contemporaneamente parole diverse. Nel teatro parlato queste battute sarebbero recitate una dopo l’altra. Il musicista, invece, può sovrapporle e concentrare, così, il tempo, in un precipitare vorticoso di frasi, parole, sillabe che s’addos-sano le une alle altre, in una rappresentazione esclusivamente musicale della situazione drammatica.

Anche nel teatro di prosa ci può essere una concentrazione e una dilatazione del tempo: in Shakespeare, per esempio, il passaggio fulmineo da una scena all’altra può sottintendere intervalli di ore, giorni, mesi, o anche di anni. Oppure ci sono monologhi in cui l’analisi poetica dilata il sentimento in una dimensione irreale, ma tanto più vera. La musica, però, in questo senso, può fare di più, e si dimostra molto più elastica della parola, ad esempio quando porta al proscenio quattro, cinque o sei personaggi e li blocca, sovrapponendo le loro voci, in pezzi musicali lentissimi, oppure velocissimi: nelle opere di Rossini ci sono brani d’assie-me in cui l’azione si arresta mentre i personaggi cantano dapprima lentamente, poi un po’ più rapidamente, fino ad arrivare ad un vortice di frasi musicali e di elementi ritmici e fonetici che si combinano in una velocità vertiginosa; ma la scena resta ferma, e la situazione assolutamente statica.

Dunque l’opera ci porta in un mondo irreale, in cui i mezzi naturali della comunicazione quotidiana saltano, per il fatto stesso che i personaggi cantano invece di parlare. Ma quel sistema fantastico creato dalla musica non è evasione, né puro divertimento, bensì interpretazione del mondo. Ci sono, infatti, diversi modi di fare teatro musicale e di rappresentare in musica l’uomo e i suoi conflitti. Certo, l’opera si è evoluta e ha continuamente oscillato tra il desiderio di piacere al pubblico, stupirlo, divertirlo, intrattenerlo, e l’esigenza di esprimere conflitti drammatici. Le trasformazioni sono state molto notevoli ma non vanno viste in senso evoluzionistico, per cui ciò che viene dopo è meglio di ciò che viene prima: ogni momento vale di per sé ed ogni forma d’arte va colta in rapporto alle sue esigenze espressive.

Detto questo, passiamo ad alcune considerazioni sulla funzione del libretto d’opera. Negli ultimi anni c’è stata una netta rivalutazione del genere, sovente considerato un sottoprodotto letterario in base all’abitudine, sbagliata, di leggerlo come un dramma. Ma il libretto non è paragonabile a un dramma e neppure a un poema drammatico perché non aspira a trasmettere un messaggio in proprio. La sua funzione è quella di un’impalcatura, di uno scheletro destinato a sparire sotto il corpo della musica che lo riveste. Il valore di un libretto sta, dunque, essenzialmente nella sua funzionalità, rispetto a cui la qualità letteraria, complessivamente maggiore nel ’700 e nel

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’900, minore nell’800, passa in secondo piano. Un libretto è buono se sostiene bene l’edificio melodrammatico e offre al compositore delle salde fondamenta su cui poggiare le forme operistiche. Se noi leggiamo i libretti delle Nozze di Figaro o del Don Giovanni, del Trovatore o del Don Carlos, del Barbiere di Siviglia o della Bohème, e anche i testi di Wagner, avremo un’idea molto vaga e imprecisa delle singole opere, perché i libretti non hanno minimamente il peso drammatico, la qualità espressiva, la profondità che il lavoro acquista una volta che la musica trasfigura il testo, operandone la metamorfosi. D’altra parte, non possiamo comprendere le ragioni della riuscita di un’opera se non partiamo dalla conoscenza della sua impalcatura strutturale. Quindi la presenza di un buon libretto è essenziale perché possa nascere un capolavoro, e viceversa, tutte le grandi opere musicali sono tali in quanto poggiano su libretti da considerarsi dei capolavori per il solo fatto che hanno prodotto quella musica. Evitiamo, dunque, la vecchia usanza di ironizzare sulle debolezze letterarie dei testi di Piave, Cammarano, Solera, Ghislanzoni, Boito utilizzati da Verdi e da altri compositori; cerchiamo invece di capire in che cosa consiste la loro funzionalità.

La qualità letteraria del libretto, infatti, è semplicemente un valore aggiunto; se c’è, tanto meglio, ma se non c’è, questo non compromette necessariamente la sua funzionalità che dipende, innanzi tutto, dalla struttura drammatica: taglio degli atti, successione delle scene, organizzazione del soggetto, rapporto tra le varie situazioni, per affinità o per contrasto. Il libretto è lo schema di un’azione che deve svolgersi secondo determinati criteri di logica, organicità, compattezza, e può essere perfettamente funzionale anche se i versi sono brutti. Lo dice implicitamente Verdi nella lettera a Cesarino De Sanctis del 7 febbraio 1856 quando afferma: «ho la debolezza di credere, per esempio, che il Rigoletto sia uno dei più bei libretti (s a l v o i v e r s i) che vi siano».

Un’altra qualità importante del libretto è il tipo di rapporto che in esso s’instaura tra i versi sciolti e rimati. I versi regolari hanno una ritmica costante che suggerisce un determinato ritmo musicale (arie, concertati); i versi sciolti, in quanto asimmetrici, implicano, invece, un declamato aperto, in cui ci possono essere anche occasionali melodie regolari, ma nel quale il canto si svolge, in genere, liberamente, in un procedimento “senza forma” (recitativi). Ora, questo contrasto tra episodi formati e episodi liberi crea una pulsazione formale che ogni compositore regola in base alla propria estetica, ma che trova, nel libretto ben fatto, la propria ineludibile base di articolazione. Inoltre, ogni verso ha un ritmo e ogni ritmo suggerisce un’espressività musicale diversa; quindi, se il compositore deve esprimere un sentimento di nostalgia, d’abbandono, di malinconia, non chiederà al librettista un verso martellante, bensì dolce, morbido, che gli suggerisca melodie con una determinata intonazione espressiva.

Un terzo elemento determinante per la funzionalità melodrammatica del testo è la presenza d’immagini riferibili al mondo esterno ed imitabili attraverso la musica (ad esempio, il fuoco, la pioggia, il mormorio del ruscello, il volo degli insetti, la tempesta, il mare in burrasca ecc.) oppure allusive a sentimenti, stati d’animo, passioni. Il libretto può essere letterariamente scadente, semplice, addirittura rozzo, ma insieme molto raffinato nell’offri-re al compositore una sapiente alternanza d’immagini, in modo da creare un chiaroscuro di stati d’animo, una tensione drammatica di situazioni emotive in divenire. Naturalmente, queste qualità si scoprono solo se si tiene presente la partitura, che ci permette di verificare perché il testo è stato determinante per produrre quella musica. L’atteggiamento giusto è quindi quello che ci porta a concludere: «ah! ecco, certo, questo pezzo è meraviglioso perché nel testo ci sono queste o queste altre immagini, c’è quest’al-ternanza molto precisa di ritmi e di metrica, questa determinata successione di stati d’animo, di idee, di pensieri, di concetti, ecc.». Verdi era esigentissimo nei confronti dei suoi librettisti: dava indicazioni precise sulla costruzione delle scene, richiedeva determinate parole, suggeriva la lunghezza dei versi, in modo che si adattassero alle melodie e ai ritmi che aveva in mente per dare alla scena la massima efficacia.

Il compositore d’opera, dunque, ha davanti un testo che gli offre una serie di possibilità semantiche, fonetiche, metriche, ritmiche, melodiche, e quindi espressive, drammatiche. Il libretto è un campo di forze in attesa di essere sprigionate: il compositore può scegliere che cosa fare, traccia i suoi percorsi attraverso il testo, lo interpreta come vuole, con soluzioni imprevedibili e di cui ci si

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rende conto, leggendo, ad esempio, il libretto del Trovatore, testo schematico, addirittura burattinesco, eppure straordinariamente funzionale, nella potenza del suo immaginario, e predisposto a lasciarsi fecondare dalla musica che lo incarna, con meravigliosa sovrabbondanza inventiva, dandogli senso e vita.

2) Le fasi della produzione di Verdi. Verdi nasce nel 1813 e muore nel 1901. La sua arte risponde esattamente alle esigenze dei

tempi. Lo dimostra, con impressionante carica profetica, il trattatello Filosofia della musica di Giuseppe Mazzini, pubblicato a Parigi nel 1836 e dedicato ad un «nume ignoto» il cui avvento è auspicato, per la necessaria modernizzazione dell’opera italiana. La musica italiana, secondo Mazzini, identificata nel genio di Rossini, è bella, brillante, affascinante, ma un po’ superficiale: esprime con efficacia le passioni umane ma il suo è un rappresentare «l’uomo senza Dio, le potenze individuali non armonizzate da una legge suprema, non ordinate ad un intento, non consacrate da una fede eterna»2. Ad essa Mazzini contrappone la musica tedesca che, secondo lui, ha il difetto opposto. È troppo idealistica e poco umana: «l’anima vive, ma d’una vita che non è della terra»3. Mazzini auspica dunque la nascita d’una musica né italiana né tedesca, bensì «europea», che «non s’avrà se non quando le due, fuse in una, si dirigeranno ad un intento sociale – se non quando, affratellati nella coscienza dell’unità, i due elementi che formano in oggi due mondi, si riuniranno ad animarne uno solo; e la santità della fede che distingue la scuola germanica benedirà la potenza d’azione che freme nella scuola italiana; e l’espressione musicale riassumerà i due termini fondamentali: l’individualità e il pensiero dell’universo – Dio e l’uomo»4. Il melodramma di Verdi risponde a queste esigenze: nelle sue opere il compositore sa scolpire l’individuo, dargli il massimo rilievo, creare dei personaggi concreti, riconoscibili, diversi fra loro, ma sa anche conferire all’azione quella organicità, compattezza, tensione continua che nasce da un profondo intento drammatico nutrito di un nuovo senso morale.

Il primo grande successo di Verdi fu il Nabucco (1842) che appartiene al genere dell’opera corale, praticata da Gluck e da Rossini (il Mosè in Egitto, nella versione francese Moïse et Pharaon, tradotta e diffusa nei teatri italiani, è il suo antecedente immediato), in cui la collettività ha una parte importante, almeno quanto quella del protagonista. Infatti, il pezzo più celebre del Nabucco non è un’aria bensì il coro «Va’ pensiero». Verdi prosegue questo filone nei Lombardi alla prima crociata (1843); poi, in Ernani (1844), trova la sua vera strada che punta non più alla rappresentazione di conflitti generali ma alla definizione di caratteri individuali. Nella prima fase dell’arte verdiana si registrano risultati alterni: tra il Nabucco e Rigoletto ci sono opere buone e opere scadenti, scritte di fretta durante i cosiddetti «anni di galera», nell’ansia di ottemperare ad ogni commissione per la necessità di imporsi sul mercato teatrale italiano. Lavori come I due Foscari (1844) Giovanna d’Arco (1845) Alzira (1845) Attila (1846) I masnadieri (1847) Il corsaro (1848) La battaglia di Legnano (1849) denotano una formidabile volontà di rinnovamento, posseggono un ritmo drammatico incalzante e sonorità rivoluzionarie, ma anche una stesura sovente rozza, sommaria e poco meditata che impedisce loro di elevarsi al livello artistico del Macbeth, composto nel 1847, e rimaneggiato nel ’65. Diverso il caso della Luisa Miller (1849) e dell’originalissimo Stiffelio (1850), storia di un pastore protestante tradito dalla moglie, che impegna Verdi in un inusitato esercizio di analisi introspettiva.

La piena maturità è però raggiunta in quella che è stata un po’ arbitrariamente definita la trilogia «romantica» (Roncaglia) o «popolare» (Mila) formata da Rigoletto (1851), La Traviata (1853) e Il Trovatore (1853): non di opere concepite unitariamente, infatti, si tratta, ma di tre capolavori tra loro diversissimi in cui gli elementi di divisione sul piano drammaturgico sono più 2 G. MAZZINI, Filosofia della musica, Firenze, Guaraldi, 1977, p. 56. 3 Ibidem, p. 56. 4 Ibidem, p. 58.

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forti di quelli che li uniscono nell’indubbia affinità di linguaggio musicale e nella preminenza conferita alla melodia vocale che si specifica nelle tre opere in modo molto diverso, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con la parola.

Sin dall’inizio della sua produzione, Verdi aveva voltato le spalle al gusto di Bellini e Donizetti che incentravano le loro opere essenzialmente sul tema amoroso. Con Verdi gli argomenti si ampliano e toccano altri temi: il legame tra genitori e figli, l’amor di patria, la politica, il rapporto tra stato e individuo, lo scontro con il destino avverso che impedisce la felicità dell’uomo ma ne irrobustisce la forza morale, la religione come prospettiva di speranza o strumento di potere, l’ingiustizia e la sanzione, la rinuncia e il sacrificio come atto nobilitante che permette all’individuo di affrontare con interiore serenità i colpi tremendi che la vita gli riserva. Il tema amoroso diventa, così, uno dei tanti, e perde la centralità che possedeva negli operisti precedenti. Verdi era di estrazione umile, contadina, legato ad un mondo in cui dominavano i valori della schiettezza, della semplicità, della immediatezza comunicativa. Rigoletto, La Traviata e Il Trovatore rappresentano, in un certo senso, la sublimazione delle radici popolari di Verdi, della sua arte in apparenza semplice, fondata su contrasti elementari, che raggiungono, però, una straordinaria potenza di effetti, grazie alla raffinatezza della forma musicale, troppo spesso ignorata nelle esecuzioni correnti e messa in secondo piano dalla critica rispetto alla considerazione dei valori drammatici.

Nella prima fase della sua produzione, il mezzo più importante di cui Verdi si serve per tradurre in musica personaggi e situazioni è la melodia vocale capace di costruire i caratteri attraverso una ricchezza di atteggiamenti che vanno dalla melodia formata e simmetrica al recitativo quasi parlato, attraverso una gamma di soluzioni intermedie già presenti in Rigoletto, Trovatore e Traviata ma distribuite nelle tre opere in modo diversissimo, in rapporto alle esigenze drammatiche di ciascuna. Verdi teorizza un procedimento che Mozart aveva già sperimentato a suo tempo: la cosiddetta “parola scenica”, ossia l’emersione di alcune parole-chiave che si devono percepire con chiarezza per comprendere il significato di una determinata situazione drammatica. L’orche-stra, pur giocando un ruolo importante, è sostanzialmente intesa come sostegno e completamento della parte vocale: raramente acquista indipendenza e valore autonomo.

Dopo la trilogia popolare, l’arte di Verdi si apre ad una dimensione europea. Cresce in lui l’interesse per l’ambiente che circonda i personaggi con alcune figure secondarie, di grand’evi-denza teatrale, che appaiono e spariscono rapidamente come, ad esempio, il paggio Oscar e i congiurati in Un ballo in maschera. Nella Forza del Destino (1862) la presenza dell’ambiente è ancora più marcata. In questo dramma molto avventuroso, i personaggi passano da un paese all’altro attraverso guerre e vicende rocambolesche, mentre la forza del destino li separa e li unisce di nuovo, a distanza di tempo, in posti lontanissimi da quelli in cui si erano incontrati la prima volta. I soldati inneggianti all’avven-turosa ebbrezza della vita militare, i frati che pregano, il popolo che chiede l’elemosina costituiscono lo sfondo della vicenda su cui spiccano, con vivacità bozzettistica, le figure minori: Mastro Trabuco, umile venditore ambulante; Fra Melitone, che distribuisce l’elemosina tra i poveri e moraleggia, sferzando comicamente la rilassatezza dei costumi; il solenne Padre Guardiano che accoglie gli afflitti e li consola con manzoniana commozione religiosa; la vivandiera Preziosilla che segue gli eserciti e allieta i soldati con i suoi canti spensierati e scattanti, e così via. A questo arricchimento dell’ambiente corrisponde, nella seconda fase dell’arte di Verdi, un approfondimento della psicologia.

Paragonando il libretto del Trovatore a quello, poniamo, del Don Carlos, notiamo un divario incolmabile: il Trovatore è un dramma estremamente sommario , fatto di poche scene contrapposte con la volontà di creare contrasti di sentimenti e di passioni organizzati in un una drammaturgia schematica che la musica trasforma in una possente immediatezza di rappresentazione. Il Don Carlos, invece, che si basa sull’omonimo dramma di Schiller, è un lavoro di grandiosa complessità drammatica e psicologica che non rappresenta passioni elementari semplicemente accostate, ma conflitti espressi e inespressi, stati psicologici sottili, sfuggenti, ambigui, temi amorosi accostati a temi politici, grandi scene di massa insieme a scene raccolte nell’intimità della dimensione domestica. Così, mentre le figure della trilogia popolare erano tratteggiate in modo molto potente

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ma sommario, per momenti culminanti, nel periodo di mezzo Verdi lavora i personaggi con una nuova attenzione per i trapassi psicologici e sentimentali che portano all’esplosione passionale e ne registrano i riverberi, gli echi, i prolungamenti segreti. Questo implica, naturalmente, una trasformazione dei mezzi musicali. Se la trilogia popolare è essenzialmente basata sulla melodia vocale, nelle opere di mezzo quali Un ballo in maschera (1859) La forza del destino (1862) Don Carlos (1867) e Aida (1871), accanto alla voce, acquista sempre più importanza l’orchestra. Ora Verdi è attentissimo a quello che succede fuori d’Italia; ascolta, studia, legge le partiture dei grandi sinfonisti austro-tedeschi; i viaggi all’estero lo mettono in contatto con la civiltà musicale europea, con la raffinatezza strumentale dell’opera francese. L’orchestra di Verdi abbandona, così, quella semplice funzione d’accompagnamento che aveva, per lo più, nel primo periodo, e diventa protagonista insieme alle voci: dialoga con esse, le sostiene, ma, molte volte, procede per andamenti autonomi, svolgendo un discorso proprio, che può essere di sostegno, ma anche di contrasto nei confronti del canto. Nella trilogia popolare l’orchestra è trattata per lo più con colori netti e timbri isolati; in Don Carlos e Aida presenta impasti raffinati e sottili sfumature, utili come mezzo di approfondimento psicologico.

Tutti questi elementi sono accompagnati da un’altra, importantissima trasformazione: quella delle forme. Nelle prime opere si contrapponevano recitativi, arie, cori, pezzi concertati, ben definiti nella loro struttura. Un’aria, un recitativo del Trovatore, sono oggetti musicali perfettamente identificabili nelle loro caratteristiche formali. Le arie del Don Carlo (ad esempio «Ella giammai m’amò!» di Filippo II) o quelle dell’Aida («Ritorna vincitor!») sono più articolate e complesse: il recitativo iniziale passa dal quasi parlato al declamato arioso, si gonfia di melodia, sembra che diventi un’aria, ma non si organizza ancora in una forma regolare, e ritorna ad essere recitativo; poi compare un’idea melodica, ma subito si spezza; ritorna il declamato, e, solo alla fine, la melodia formata prende il sopravvento, concludendo il pezzo con una maggiore cantabilità. L’aria è dunque una concrezione di forme vocali che si trasformano, fluttuano, passando continuamente da un regime all’altro. Verdi, ora, vuole scandagliare i sentimenti dei personaggi, e l’analisi psicologica lo induce ad ampliare le forme. Questa ricerca non termina con Aida, ma prosegue sino alle due opere che costituiscono la fase finale della sua produzione, Otello (1887) e Falstaff (1893) su libretti di Arrigo Boito tratti da Shakespeare. In queste opere, la trasformazione dello stile verdiano è ormai giunta a compimento; lo stile acquista un grado di raffinatezza e di complessità impensato. Le forme sono quasi completamente rotte; Verdi punta a un declamato che si trasforma con una straordinaria duttilità, mentre l’orchestra raggiunge sovente effetti che non hanno nulla da invidiare a quelli della musica moderna. In particolare, in alcune pagine dell’Otello certe esplosioni timbriche, di spaventosa densità sonora, certi effetti puramente rumoristici (per esempio, nella tempesta iniziale), mostrano che il suono, di per sé, si fa espressione, attraverso la combinazione degli strumenti, l’interferenza dei timbri, la densità delle armonie.

In Otello e Falstaff l’antica linearità di rapporti tra recitativo e aria è ormai abbandonata, tutto si svolge in un declamato che diventa melodico, si effonde in frasi cantabilissime ma, una battuta dopo, ritorna simile al parlato, e procede, così, senza regole che non siano quelle dettate dalle esigenze espressive del testo. Certo, ci sono ancora in Otello dei pezzi individuabili come arie, cori e strutture «chiuse», per esempio nella grande scena di Desdemona del quarto atto quando, prima di esser uccisa, la sfortunata sposa di Otello prega e ripensa alla sua vita passata: qui la musica si concentra in organismi melodici ben definiti, seppur molto articolati e formalmente sfumati. Nell’ultima fase della sua produzione Verdi partecipa, dunque, a quella che è stata definita l’arte della transizione che, nel secondo Ottocento, trovava in Wagner il suo grande maestro. Nelle sue opere si rappresenta la sottigliezza dei sentimenti che trapassano gli uni negli altri, dei ricordi che si affollano alla mente dei personaggi, dei momenti psicologici che si succedono e che talvolta si sovrappongono in una densità straordinaria di avvenimenti interiori.

Nel corso della sua carriera Verdi è stato accusato di wag-nerismo da parte di alcuni critici che rimasero sconcertati dinanzi alla modernità stilistica di Aida, Otello e Falstaff. Accusa infondata. Verdi, infatti, è arrivato a quel tipo di teatro attraverso un’evoluzione personale

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assolutamente organica che, da un’ope-ra all’altra, coinvolge tutti gli aspetti della drammaturgia musicale. Inoltre, l’atteggiamento dei due compositori nei confronti del proprio pubblico è radicalmente diverso: Wagner impone allo spettatore di sintonizzarsi sulla propria lunghezza d’onda, lasciarsi prendere dal flusso lento di una drammaturgia che indugia sui particolari, scava nell’interiorità, esplora gli intimi recessi della psicologia, diffondendosi in ampi monologhi, tenuti insieme dall’intreccio dei temi conduttori che ritornano, deformati ma riconoscibili, a costellare, con prodigiosa capacità evocativa, il flusso lento e maestoso del divenire drammatico. Verdi, anche nelle ultime opere, non abbandona mai il criterio fondamentale della sua drammaturgia: concentrazione e brevità, contrasti fulminei e costante tensione teatrale. A differenza di Wagner, il punto di vista che stabilisce il ritmo dello spettacolo non è quello del compositore ma quello dello spettatore: preoccupazione massima è che il dramma venga costruito in modo da mantenere desta la sua attenzione, avvincerlo ad un ritmo sostenuto, trascinarlo con l’incalzare dei fatti. In Wagner è la vita interiore che si manifesta in forma drammatica, la psicologia che si traduce in gesto; in Verdi è il dramma che viene interiorizzato attraverso la rappresentazione dei sentimenti e delle passioni, è il gesto che si carica di contenuto sentimentale e psicologico. Il punto di partenza drammaturgico è, quindi, diametralmente opposto. In Wagner la ”melodia infinita” si organizza, talvolta, in forme strofiche, e articolate concrezioni melodiche, per scivolare nuovamente nel flusso aperto e “senza forma” del suo stato più naturale; in Verdi è l’incastro reciproco e sempre più minuto delle tradizionali forme melodrammatiche – recitativo, declamato aperto, melodia strofica, aria, coro, concertato – mai realmente negate, anzi sempre sfruttate nella loro reciproca funzione dialettica, che determina l’effetto d’apertura formale sempre più accentuato, dal Don Carlos in poi.

Sono pochi gli artisti che hanno saputo evolversi nella misura in cui lo ha fatto Verdi. Rossini, nel 1829, compose, a Parigi, Guillaume Tell, opera romantica capace di dimostrare che il compositore avrebbe saputo modernizzarsi e aggiornare la propria arte al gusto del tempo; ma, in seguito, egli preferì rinunciare all’impegno di un rinnovamento inevitabile e visse ancora trentanove anni senza scrivere una nota di musica teatrale. Verdi, invece, rimase artista d’avanguardia sino all’età di ottant’anni, mostrando una capacità di rinnovamento che lo portò a mutare completamente genere nell’ultimo capolavoro, Falstaff, commedia brillante scritta in stile modernissimo, capace di porsi come modello ai più moderni compositori europei (impensabile sarebbe, ad esempio, senza il precedente di Falstaff, la figura del Barone Ochs nel Cavaliere della rosa di Strauss).

Le diverse fasi dell’arte verdiana hanno dato luogo ad interpretazioni e giudizi contrastanti. Gabriele Baldini5, ad esempio, ritiene che Verdi abbia dato il meglio di sé in opere come Il Trovatore e Un ballo in maschera, in cui le forme musicali sono in sé concluse e fondate essenzialmente sulla rotondità della melodia. Per Massimo Mila6, invece, la parte più interessante del lavoro compositivo di Verdi consiste nella ricerca e nell’evoluzione del declamato, cioè in quell’esaltazione musicale della parola che a poco a poco sbriciola la forma per incarnare il dramma con sempre maggiore aderenza. Da una parte c’è il Verdi «tutta musica» di Baldini, dall’altra il Verdi drammaturgo, maestro della parola, esaltato da Mila. Contrapposizione che potrebbe essere superata, oggi, attraverso la considerazione del valore drammatico che anima le melodie e le forme chiuse di Verdi e di quello musicale che impregna il declamato e le forme aperte, più esplicitamente volte alla rappresentazione del dramma. Il libro di Baldini, studioso di letteratura inglese, e, in particolare, di Shakespeare, non è completo: a causa della scomparsa dell’autore, s’interrompe all’inizio del capitolo sulla Forza del destino e lascia prevedere una possibile svalutazione d’opere come Don Carlos, Aida e Otello. Per Mila, invece, l’opera più grande della trilogia popolare è Rigoletto, dove la ricerca sul declamato, destinata ad approfondirsi in seguito, raggiunge i primi risultati assoluti

La preferenza per l’una o l’altra delle fasi stilistiche verdiane è assolutamente legittima. Pericoloso è invece accostarsi al complesso sistema del teatro musicale di Verdi con una mentalità evoluzionistica, che tende inevitabilmente a presentarci le singole opere come tappe successive di 5 Cfr. G. BALDINI, Abitare la battaglia. La storia di Giuseppe Verdi, Milano, Garzanti, 2001 [1970]. 6 Cfr. M. MILA, Verdi, Milano, Rizzoli, 2000.

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una teleferica che porta progressivamente alle mete più alte di Otello e Falstaff. A cavallo tra Otto e Novecento, sull’onda dell’infatuazione wagneriana, si consideravano povere, rozze e irrimediabilmente invecchiate le partiture di Rigoletto, La Traviata, Il Trovatore, svalutate, nel giudizio della critica e del pubblico, rispetto ad Otello e Falstaff, che, aggiornate al gusto moderno, parevano, invece, incomparabilmente più perfette, complesse e qualitativamente superiori. Era diffusa la tendenza a giudicare l’arte di Verdi come un fenomeno che, dalla semplicità, modestia di mezzi ed ingenuità popolare dei primi anni si fosse progressivamente elevato alle vette della produzione ultima.

Negli anni ’30 c’è stata la reazione a questa assurda visione teleologica. In Germania, il movimento della Verdi-Renaissance, con contributo di critici e scrittori (ad esempio, quello del romanziere austriaco Franz Werfel, autore di Verdi, il romanzo dell’o-pera) determinò una rivalutazione globale di tutto il teatro verdiano: emblematico, a questo proposito, il contributo di Paul Bekker nel capitolo su Verdi del volume dedicato alle principali figure del teatro d’opera7. In Italia, la riscossa del primo Verdi aveva già avuto tra i suoi pionieri le esecuzioni di Toscanini alla Scala e il libro di Gino Roncaglia8. Ma fu soprattutto Massimo Mila che, nel suo studio su Il melodramma di Verdi, pubblicato da Laterza del 19339, mise in luce la grandezza delle prime opere, senza svalutare quelle successive, bensì mostrando che, anche in Rigoletto, nel Trovatore e nella Traviata, l’arte di Verdi si era già posta a livelli altissimi, seppure con strumenti stilistici e interessi drammatici profondamente diversi da quelli dei capolavori successivi. L’entusiasmo per la riscoperta del primo Verdi giunse a determinare addirittura un rovesciamento di prospettive: il critico e scrittore Bruno Barilli, nella sua celebre raccolta di articoli Il paese del melodramma, pubblicata nel 1930, opponeva Il Trovatore «dove c’è crepitio di genio: tanto genio che grandina» al Falstaff in cui il fuoco del primo Verdi gli appariva solo come «cenere calda»10.

Il dibattito generato dall’effettiva varietà stilistica dell’opera verdiana è stato sovente condizionato da un’ottica evoluzionistica che, seppure attenuatasi col tempo, ha lasciato le sue tracce anche nella gigantesca monografia di Julian Budden11 che distingue, ad esempio, le partiture “innovative”, che aprono nuove vie, da quelle “conservatrici” che consolidano risultati acquisiti.

La tendenza a incasellare le opere di Verdi in categorie alternative, distinguendo l’artista «conservatore» da quello «innovatore», rischia di impedire l’esatta comprensione della complessità del fenomeno: meglio è considerare ciascun’opera in sé e per sé, al riparo da qualsiasi interpretazione evoluzionistica, perché ogni capolavoro di Verdi ha le sue leggi e proporzioni interne e mescola diverse scelte stilistiche che non sono né “innovative” né “conservatrici”, ma solamente funzionali in rapporto alla natura del soggetto, alla costruzione del libretto, al carattere dei personaggi ed alla specificità delle situazioni. In ogni capolavoro che guarderebbe indietro ci sono scelte rivoluzionarie, e viceversa, ogni partitura orientata all’impiego di forme più libere e audaci contiene brani di struttura apparentemente tradizionale. Verdi non è mai conservatore, guarda sempre avanti: solo che per lui l’innovazione ha diverse strade. Così, l’impiego delle forme chiuse e l’esclusione del declamato dal Trovatore, che fanno per lo più considerare quest’opera come passatista, come se l’autore si fosse improvvisamente pentito e avesse rinnegato le scelte rivoluzionarie di Rigoletto, sono dettate dalla natura del dramma e dall’impostazione retorica del testo: rispondono, cioè, a criteri di intrinseca necessità espressiva e drammatica. Verdi ha fatto queste scelte perché non avrebbe potuto farne altre in base alla logica dei rapporti tra contenuto drammatico e stile. Che cosa “conserva” Il Trovatore del melodramma passato? Proprio nulla, perché il modo di impiegare la melodia e le forme chiuse è talmente nuovo da portare quei mezzi

7 P. BEKKER, Wandlungen der Oper, Zürich-Leipzig, Orell Füssli, 1934. 8 G. RONCAGLIA, Giuseppe Verdi, l’ascensione creatrice dell’arte sua, Napoli, Perella, 1914; ripubblicato con il titolo L’ascensione creatrice di Giuseppe Verdi, Firenze, Sansoni, 1940. Le citazioni contenute in questo volume si riferiscono alla seconda edizione. 9 Questo studio di Mila è confluito, con altri saggi verdiani, nel recentissimo Verdi, cit. 10 B. BARILLI, Il paese del melodramma, Torino, Einaudi, 1985 [1930]. 11 J. BUDDEN, Le opere di Verdi, 3 voll., trad. it., Torino, Edt, 1985-88.

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stilistici ad un tipo di espressione non meno elettrizzante, moderna e rivoluzionaria di quella fondata sulle forme più libere e aperte dominanti nel Rigoletto o nella Traviata; dove peraltro non mancano pagine “conservatrici” (si vedano le parti di Gilda o di Germont), perché così esigeva imperiosamente la natura di certi personaggi o di specifiche situazioni; e questo non per una rinuncia all’originalità, ma per creare una voluta, potente e originalissima frizione dialettica con le pagine “innovatrici”; il che fa sprizzare l’energia musicale e drammatica che anima il progetto operistico nel suo complesso: progetto nuovo, rivoluzionario, audace come la scelta dei tre soggetti consapevolmente adottati dal compositore per la loro dirompente originalità: «… io desidero soggetti nuovi, grandi, belli, variati, arditi […]», scriveva Verdi, il 1° gennaio 1853, a Cesare de Sanctis, «ed arditi all’estremo punto, con forme nuove ecc. ecc., e nello stesso tempo musicabili […] Quando mi si dice: ho fatto così perché così han fatto Romani, Cammarano ecc., non c’intendiamo più: appunto perché così han fatto quei grandi, io vorrei si facesse diversamente». Naturalmente, anche il Trovatore, pur se scritto da Cammarano, è radicalmente diverso da ciò che il poeta aveva fatto per gli altri compositori, cui Verdi pensa in questa professione di estetica rivoluzionaria.

Sbarazzato il campo dalla tentazione di leggere il complesso dell’opera verdiana e le singole opere alla luce della contrapposizione fasulla tra innovazione e conservazione, è opportuno oggi guardarsi da un’altra insidia estetica. Dietro la prudenza di Massimo Mila che, davanti al «più pazzo dei melodrammi», esortava ad un giudizio equilibrato, per evitare di far del Trovatore un «polemico oggetto sia di esagerato disprezzo che di esagerata ammirazione»12, perdurava la convinzione che questo fosse il melodramma «più lacerato fra altezze vertiginose di appassionata disperazione e abissi di sommaria brutalità»: ossia, in pratica, un’opera spaccata nell’opposizione di bello e brutto.

Niente da stupirsi: il criterio di leggere le opere di Verdi, distinguendo le pagine buone dai presunti errori estetici, percorre tutta la critica verdiana sin dalla prima monografia sull’argomen-to, quella di Abramo Basevi, pubblicata nel 1859 e ora disponibile per il lettore moderno in un’edizione minutamente annotata da Ugo Piovano13. Hanslick, lo storico viennese amico di Brahms, citato da Mila, osservava nel 1880 che «la musica del Trovatore è a un tempo la piena espressione della rozzezza artistica di Verdi e dell’intensità del suo talento». «E acutamente aveva osservato – commenta Mila – che questi alti e bassi non erano tanto dovuti ad un indebolimento dell’ispirazione, ‘come avviene spesso in Bellini’, ma piuttosto ad una ‘voluta, dolosa ricerca del triviale’ ch’egli era tentato di definire ingegnosamente come ‘cattiva volontà estetica’»14. Hanslick, dunque, aveva visto giusto: il dislivello qualitativo delle pagine del Trovatore è voluto; non capiva, però, che il gioco di alti e bassi, la contrapposizione di sublimi dilatazioni poetiche e pagine precipitose ha una profonda ragione strutturale e costituisce la pulsazione vitale che anima la drammaturgia dell’opera, determinandone l’identità e il valore. Ma ciò che Mila e Hanslick giudicavano triviale e brutale lo è veramente? O questi giudizi appartengono solo alla sfera del gusto personale, condizionato da una cattiva tradizione esecutiva, di cui il Trovatore è stato sovente vittima illustre?

Se Il Trovatore è l’opera più esposta a giudizi severi, anche Rigoletto, generalmente considerata come frutto di una estetica più “evoluta”, non è andato esente da critiche, volte a contrapporre pagine più moderne ad altre, giudicate più tradizionali. Gabriele Baldini, ad esempio, definisce esplicitamente Rigoletto opera di crisi «che si svolge su due piani formali ed emotivi che contrastano fra loro e non son sempre fatti per chiarirsi l’un l’altro»15. Questi due piani sarebbero da un lato quello di un «declamato aperto, fluido, libero da impacci, decisamente volto tutto soltanto all’espressione»16, dall’altro un settore dell’opera in cui «le parole non si sentono più in quanto tali, le frasi non vengono più afferrate, e parole e frasi sono più soltanto del materiale portante della voce

12 M. MILA, Verdi, cit., p. 486. 13 A. BASEVI, Studio sulle opere di Giuseppe Verdi, ed. critica a cura di U. Piovano, Milano, Rugginenti, 2001. 14 M. MILA, Verdi, cit., p. 486. 15 G. BALDINI, Abitare la battaglia cit., p. 191. 16 Ibidem, p. 193.

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che persegue la sola azione che conti, e cioè l’azione musicale»17. L’osservazione è giusta e acutissima. Baldini coglie perfettamente la differenza di trattamento musicale che oppone Rigoletto da una parte, dall’altra il Duca e Gilda, «trattati come i personaggi dell’Ernani, anche se con tanto maggiore evidenza», ma non si chiede come mai Verdi non abbia applicato lo stile del declamato sinfonico anche a questi due, né trova strano che un genio capace di raggiungere tali risultati di modernità in una parte dell’opera si sia poi abbandonato, nell’altra, a quelle che lui descrive come le consuetudini di una tradizione passata. Se l’ha fatto, un motivo ci sarà stato, ed è nostro compito trovarlo per scoprire che i due piani formali ed emotivi, contrariamente a quanto credeva Baldini, sono proprio fatti per chiarirsi l’un l’altro.

Alcune esecuzioni teatrali e discografiche degli ultimi decenni hanno rivelato, nelle opere della cosiddetta trilogia popolare, una scrittura accuratissima, sia nella dinamica, mantenuta molto sovente nel piano e nel pianissimo, e quindi lontana da quelle pesantezze che si sono incrostate, come cattive abitudini interpretative, su partiture molto eseguite, sia nella strumentazione, tanto semplice, quanto limpida, trasparente ed efficace nel fissare la tinta dei singoli brani attraverso l’uso e i contrasti dei timbri. L’orchestrazione del Rigoletto è diversa da quella del Trovatore e della Traviata: assegna al timbro orchestrale un ruolo molto importante, contrappone chiazze di suono al silenzio nella consapevolezza, modernissima, che il suono in quanto tale è espressivo di per sé, si articola in stratificazioni sottili, effetti di sfumatura dosati con sottigliezza in funzione psicologica e contrapposti a passaggi più semplici, dove l’orchestra si addensa in una scrittura compatta e vigorosa, pulsata su ritmi travolgenti. Sono altimetrie stilistiche e formali che non rispondono ad accostamenti casuali ma nascono dalla considerazione della loro efficacia sul piano teatrale.

Verdi gioca, infatti, sulla voluta contrapposizione di stile alto e stile basso, nobile e popolare, melodie che si sviluppano con imprevedibile varietà e complessità ed altre, più semplici e regolari. In particolare, in Rigoletto, un’altissima tensione dialettica si sprigiona tra i vari modi di trattare musicalmente la parola, dal grande declamato sinfonico che esalta il suono della lingua alla fraseologia regolare e ritmicamente quadrata della canzone popolare, dalla disarticolazione meccanica della parola in stile d’opera buffa alla sua dissoluzione nel gorgheggio acrobatico: il tutto giocato con perfetta coerenza in funzione della caratterizzazione drammatica. Ma la contrapposizione più vistosa, audace e decisiva è quella che avviene tra forma chiusa e forma aperta, tra brani in cui la struttura si chiude nella propria autosufficienza e altri in cui il declamato vi penetra, disarticolando la forma, interrompendola, spezzandola nella rappresentazione di situazioni in cui il tempo sembra fermarsi e che solo un genio supremo del teatro musicale può portare ad un simile grado di tensione.

In Rigoletto sgorga una vena melodica al massimo del suo splendore che permette a Verdi di raggiungere la qualità veramente discriminante rispetto alle opere (brutte) degli anni di galera: l’impressività, la memorabilità, la personalità fortissima di ogni idea melodica impiegata a scopi di rappresentazione drammatica.

È questo il criterio di giudizio che ci può utilmente guidare in una rilettura odierna del teatro verdiano: impressività tematica significa altissima individualizzazione. Per raggiungerla, Verdi lavorava sodo: gli abbozzi delle singole opere mostrano che melodie apparentemente facili sono in realtà frutto di un’accurata elaborazione, alla ricerca di quella caratterizzazione melodica in funzione drammatica che le rende indelebili nella nostra memoria, e indissolubilmente legate al personaggio ed alla situazione. Pagine come la canzone del Duca «La donna è mobile», nel Rigoletto, o l’aria di Germont «Di Provenza il mare e il suol», con relativa cabaletta18, nella Traviata, potranno piacere o non piacere: ciascuno giudicherà in base al proprio gusto, che a noi interessa fino ad un certo punto. Ma sta di fatto che la loro impressività melodica, e la loro collocazione in quel determinato punto del dramma colgono come meglio non si potrebbe da un lato

17 Ibidem, p. 195. 18 In particolare la cabaletta «No, non udrai rimproveri» è nata da un minuto lavoro di correzioni successive. Cfr. G. VERDI, La Traviata. Schizzi e abbozzi autografi, a cura di F. Della Seta, Parma, Istituto di Studi Verdiani, 2000, pp. 161-65.

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la sfacciataggine libertina del duca, dall’altra il vacuo perbenismo borghese di Germont, e la sua indifferenza di fronte al dramma di Violetta e alla nervosa disperazione di Alfredo. Inoltre, alla imprevedibile ripresa della canzone del Duca nel finale del Rigoletto, Verdi affida il colpo di teatro più travolgente dell’intera partitura, la cui efficacia è direttamente proporzionale alla sfacciata improntitudine di quella melodia.

È dunque la memorabilità tematica raggiunta nelle opere della trilogia, divenute popolari proprio per questa caratteristica, che permette a Verdi di sintetizzare una situazione drammatica non solo in una melodia in quanto tale, ma anche per il contrasto che essa instaura con altre invenzioni musicali, più semplici o più elaborate, ma ugualmente in grado, attraverso la loro personalità melodica, di determinare un gioco di opposizioni vigorosissime, cui si deve la pulsazione segreta della drammaturgia verdiana; la quale si svuoterebbe quasi del tutto se fosse affidata alle melodie generiche che caratterizzano le opere dei cosiddetti anni di galera. In Verdi, invenzioni musicali che, di per sé, non avrebbero grande valore, acquistano un’espressività straordinaria per il contesto in cui sono poste e che conferisce loro un’esaltante funzione espressiva (vedasi «Amami Alfredo!» nella Traviata): solo giudicando ogni pezzo in rapporto alla sua collocazione nel tutto, considerando l’energia musicale e drammatica sprigionata dall’acco-stamento, molto moderno, tra stile alto e stile basso, melodie chiuse e declamati aperti, forme strofiche e passi del tutto liberi, musica sublime e musica “prosaica”, si comprendono la funzione del singolo brano e le sue ragioni espressive. La genesi della Traviata. Personaggi: Violetta Valéry (S); Flora Bervoix, sua amica (Ms); Annina, cameriera di Violetta (S); Alfredo Germont (T); Giorgio Germont, suo padre (Bar); Gastone, visconte di Letorières (T); il barone Douphol, protettore di Violetta (Bar); il marchese D’Obigny, amico di Flora (B); il dottor Grenvil (B); Giuseppe, servo di Violetta (T); un domestico di Flora (B); un commissionario (B); signore e signori amici di Violetta e Flora, mattadori, piccadori, zingare, servi di Violetta e di Flora, maschere. Archiviato il lusinghiero debutto del Rigoletto , Verdi si trova eccezionalmente ad attendere a due nuove opere, una per Roma ( Il trovatore ), l’altra per Venezia. Se il completamento della prima viene ostacolato dall’improvvisa morte del librettista Cammarano, la seconda si trova arenata per mesi sulla scelta stessa del soggetto. L’idea definitiva verrà a Verdi, come vera folgorazione, dalle prime recite parigine della Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio, nel febbraio 1852, dramma che l’autore aveva tratto da un proprio romanzo fortemente autobiografico del 1848, bestseller della letteratura scandalistica. La scabrosità del soggetto - la parabola amorosa di Alphonsine Duplessis, una delle più celebri cortigiane parigine, morta ventitreenne appena un anno avanti l’uscita del romanzo - non sfuggiva certo a Verdi: «Un altro forse non l’avrebbe fatto per i costumi, pei tempi [l’epoca contemporanea] e per altri mille goffi scrupoli. Io lo faccio con tutto il piacere. Tutti gridavano quando io proposi un gobbo da mettere in scena. Ebbene: io ero felice di scrivere il Rigoletto ». Solo la censura veneziana, particolarmente tollerante con Verdi, avrebbe potuto accordare il suo assenso alla nuova provocazione, dopo aver accettato le arditezze di Ernani e Rigoletto , i cui stessi originali vittorughiani rimanevano banditi dalle scene in terra di Francia. Rifiutò tuttavia il titolo Amore e morte proposto da Verdi, appagandosi inspiegabilmente di quello ben più forte di Traviata ; ma soprattutto impose una retrodatazione della vicenda al XVIII secolo, annullando così l’effetto prorompente addotto dalla contemporaneità del fatto, quasi cronachistico, nel quale gli spettatori avrebbero dovuto riconoscere i frac, le parures , le danze, i giochi, le tresche e i mal sottili propri della società cui appartenevano: un prolungamento della realtà sull’assito della finzione scenica. Verdi riuscì a malapena a impedire l’uso di parrucche ancien régime , ma non potè evitare l’effetto di straniamento che veniva a crearsi fra una musica tutta improntata alla danza del momento - il valzer voluttuoso e peccaminoso che stava conquistando l’Europa - e la lontananza

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epocale dell’immagine scenica. Annullato o almeno attutito, l’effetto della provocazione, non perveniva al pubblico che il solito cliché melodrammatico - come diceva Shaw - del «tenore che intende portarsi a letto il soprano, ma il baritono non vuole», affidato per di più a una compagnia di canto in gran parte inadatta alle ragioni del dramma (la protagonista Fanny Salvini Donatelli) o della musica (il tenore Ludovico Graziani e il celebrato, ma ormai logoro baritono Felice Varesi): « La traviata , ieri sera, fiasco. La colpa è mia o dei cantanti? Il tempo giudicherà», commentava il compositore all’indomani del debutto. Con una precisa risposta in cuor suo, Verdi rifiutò ogni offerta di appello provenientegli da questo o quel teatro, fino a quando non ravvisò una compagnia vocale all’altezza. Nemesi della storia, la trovò proprio a Venezia, nel secondario Teatro di San Benedetto: apportate alcune modifiche per adattare la parte ai nuovi cantanti Maria Spezia, Francesco Landi e Filippo Coletti, con un gesto carico di provocazione Verdi riaffrontò il medesimo pubblico il 6 maggio 1854: «Sappiate addunque che la Traviata che si eseguisce ora al S. Benedetto è la stessa, stessissima che si eseguì l’anno passato alla Fenice, ad eccezione di alcuni trasporti di tono, e di qualche puntatura che io stesso ho fatto per adattarla meglio a questi cantanti: i quali trasporti e puntature resteranno nello spartito perché io considero l’opera fatta per l’attuale compagnia. Del resto non un pezzo è stato cambiato, non un pezzo è stato aggiunto o levato, non un’idea musicale è stata mutata. Tutto quello che esisteva per la Fenice esiste ora pel S. Benedetto. Allora fece fiasco ; ora fa furore . Concludete voi!!» I cambiamenti furono, in realtà, più consistenti di quanto Verdi avesse buon gioco di sbandierare, ma certo non tali da ribaltare il giudizio dello stesso pubblico a distanza di soli quattordici mesi. In entrambi i casi, l’azione segue il decorso e soprattutto lo spirito del dramma di Dumas (con l’omissione del secondo atto), piuttosto che l’omonimo romanzo, le cui tinte a volte sin troppo realistiche si erano stemperate sulla scena in un processo di nobilitazione dei personaggi, condotto a compimento nell’opera verdiana. La quale, dal canto suo, adotta una tecnica narrativa quanto mai insolita per il melodramma dell’epoca, massime se applicata alla sola musica, senza l’ausilio delle parole. In termini moderni parleremmo di flashback , o ancor meglio di narrazione a ritroso , condotta attraverso le note del preludio che apre l’opera: un ritratto musicale della protagonista, colta nello stadio del declino fisico (i diafani violini del primo tema, che caratterizzerà poi l’atto terzo), mentre la mente corre nostalgica ai tempi della tormentata relazione amorosa (è il passionale «Amami, Alfredo» del secondo atto) e ai giorni spensierati delle frivolezze parigine in cui la passione era divampata (ed ecco i guizzi brillanti dei violini a corteggiare il tema amoroso ripetuto con calore dagli archi gravi). L’ascoltatore viene così condotto per mano in questo viaggio a ritroso nel tempo, sino a venire catapultato nel bel mezzo della festa chiassosa che apre l’atto primo, con la consapevolezza che ciò cui assisterà è già ‘passato’: una situazione dieuforica allegria, che il tempo ha in realtà ormai travolto e soffocato. «Dell’invito trascorsa è già l’ora»: sono quasi profetiche le parole con cui esordisce la folla d’invitati nel salotto parigino di Violetta. (Dal Dizionario dell'opera 2006, Milano, Baldini Castoldi Dalai , 2005) ATTO I

N.1 Preludio L’ Adagio comincia in pianissimo (ppp), col bisbiglio di sedici violini divisi, nel registro

acuto, privi dei bassi: musica spettrale, sorta dal buio e dal silenzio, senza tempo e, quasi, senza forma. Irregolare è il profilo melodico che procede per impulsi di quattro battute, poi tre, poi quattro (entrano viole, violoncelli e tutti i violini) e ancora cinque battute (entrano un clarinetto e un corno), ansimando in una respirazione aritmica, piena di stanchezza e di abbandono. Il conoscitore sa che questa pagina, ripresa da Verdi in apertura del terzo atto, rappresenta l’immagine di Violetta

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sull’orlo dell’agonia. Ma, anche allo spettatore ignaro, quei suoni prospettano una situazione-limite che gli fa trattenere il respiro: il suono di queste battute ha fatto pensare al luccichio senza tempo che apre il Preludio di Lohengrin.

Per sedici battute l’Adagio continua a girovagare, privo di veri punti d’ appoggio: tocca Si minore, Mi minore, Do maggiore, Si maggiore, striscia in cromatismi, si ferma sulla settima di dominante di Mi su cui resta sospeso, prima che la tonica giunga, come sospirato approdo, all’inizio del secondo episodio. Evidente è la mentalità dinamica che, come sempre accade nei grandi progetti verdiani, sta dietro questa invenzione: concepire ogni elemento in funzione della tensione o del contrasto che esso determina nel suo contesto. Qui si anela a una stabilità come ad una sospirata meta: il suono “vuoto” dei violini divisi vuole riempirsi, l’armonia aspira a stabilizzarsi, l’asimmetria delle frasi e delle legature a trovare riposo, la crescita continua dell’organico strumentale a fissarsi in una cristallizzazione definitiva. Un flusso carico di tensione percorre, dunque, la prima parte del Preludio; e guai se il direttore d’orchestra non lo evidenzia.

Decisiva per lo straordinario effetto sospensivo determinato dalle prime battute è l’assenza di pulsazione, quell’espandersi del discorso a macchia, come una “fascia sonora” che s’ interrompe, qua e là, nella pausa della terza battuta, nei sospiri affannosi delle battute 13 e 14, chiaramente protesi ad affermare qualcosa. Anelito vano: la tensione , infatti, ben presto si ripiega, allargando e diminuendo, cioè ricadendo su se stessa in una pausa gravida di attesa.

Ciò che più colpisce in questo straordinario inizio è, prima di tutto, l'originalità del suono,

un suono pallido, malato, intimamente consunto. Già nel Preludio di Rigoletto Verdi aveva sfruttato la materia orchestrale nel suo potere evocatore, addensando un incubo sonoro che, dal vuoto e dal

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silenzio, cresceva sino alle più spaventose deflagrazioni. Nel suono Verdi aveva scoperto un veicolo di espressione primordiale, la radice fisica di un’emozione suscitata prima di tutto dal fenomeno acustico nella sua flagranza timbrica. Rigoletto applica questo principio in modo sistematico, alla rappresentazione di eventi catastrofici (comparsa di Monterone) e di ampie scene notturne e tenebrose (massimamente nell’ultimo atto) dove il timbro di per sé realizza l’espressione; La Traviata lo circoscrive alla rappresentazione della malattia e della morte di Violetta, con quell’idea dei violini soli senza bassi, sibilanti nel registro acuto, dotati di una presa fisica che trascorre sulla nostra pelle con la tattile presenza di un brivido. Nel Preludio di Rigoletto la materia orchestrale è plasmata dal ritmo, un semplice giambo estratto dall’esclamazione ricorrente del protagonista: «Ah! la maledizione!» e ripetuto con la fissità di un’ossessione. Qui, invece, il suono acquista forma melodica perché Violetta è – per così dire – “creatura del canto” come Rigoletto, gran maestro di declamato, è “creatura della parola”; e la melodia sorge improvvisa, nel secondo episodio del Preludio, con il tema in Mi maggiore di «Amami, Alfredo» suonato dalla voce calda di violini, viole e violoncelli, vero sgorgo di vita dopo l’esangue pallore dell’inizio.

Questa melodia sembra nascere dal nulla, in funzione di violento contrasto, anche perché il tempo, precedentemente sospeso, si mette ex abrupto a pulsare. In realtà, la comparsa del tema ultracelebre è lungamente preparata nelle sedici battute iniziali, ove il ritmo di “à-mami”, una lunga e due brevi, è presente ovunque: come se quella parola, che riassume un’intera esistenza in un disperato bisogno d’amore, affiorasse faticosamente alle labbra, stanco sussurro in un’aura di trasognato torpore. Ma, alla fine, la melodia, ricercata a tentoni, e quasi raggiunta nella linea discendente delle battute 12-13, viene chiaramente “pronunciata”. Una vicenda di gestazione collega quindi le due pagine, conferendo al discorso quella spinta in avanti che caratterizza tutte le grandi invenzioni verdiane (ascoltare l’esecuzione di Toscanini, in cui questa tensione orizzontale è portata al massimo).

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Ma c'è di più. Come si sa, il titolo della Traviata doveva essere «Amore e morte», sintesi

d’una vicenda in cui l’amore, il sacrificio, la fedeltà ai grandi valori morali riscattano la catastrofe personale in un’eroica trasfigurazione. Nel Preludio, la melodia di «Amani, Alfredo» si forma a poco a poco, partorita dalla calma musica dell’agonia: morte e amore sono quindi ricondotti ad una matrice comune. Come non ricordare Leopardi?

Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte ingenerò la sorte. Cose quaggiù sì belle altre il mondo non ha non han le stelle. Nasce dall’uno il bene, nasce il piacer maggiore che per lo mar dell’essere si trova; l’altra ogni gran dolore, ogni gran male annulla.

Dunque dolcezza e pace, affetto e riposo dal peso del vivere: amore e morte accomunati dall’essere entrambi doni della vita.

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In questo secondo episodio si accentua il gioco, tipicamente verdiano, di interne frizioni dialettiche, foriere d’energia. Qui, esso investe il rapporto tra la melodia e il suo accompagnamento: come imprigionato in essa, il canto di «Amami Alfredo» tenta, infatti, di uscirne quando, sbattendo sulla settima diminuita di Fa diesis minore, riesce ad arrestare la pulsazione con gli incisi dei violoncelli, come se volesse improvvisamente parlare. Ma è solo un momento.

La pulsazione ritmica riprende, infatti, variata, e il tema, ridotto alla voce scura di violoncelli, fagotto e clarinetto, è ora avvolto dalle note brillanti dei primi violini – piccole roulades, frammenti di scala, pungenti note ribattute, trilli che cinguettano, preceduti da acciaccature. Per due volte i violoncelli (la seconda, con fagotto e clarinetto, in un inciso assai breve) tentano ancora di fermare quel piccolo delirio scintillante, ma le semicrome diventano sempre più invadenti e, a poco a poco, rimangono sole a cinguettare, finché allargando, diminuendo, morendo, il Preludio si estingue in un silenzio gravido di attesa. Lontanissima appare, ormai, la calma intimità dell’inizio: l’espressione si è fatta esteriore, quasi sfacciata e, attendibilmente, ora può scoppiare il can-can che, ad apertura di sipario, ci introduce nel chiassoso e mondano roteare della festa in casa di Violetta.

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Anche questo terzo episodio trova riscontro nel contenuto dell’opera. Verdi non cita qui motivi precisi ma, come riconoscono i commentatori, evoca l’elemento brillante, il principio della coloratura, lo scintillio di quella vocalità acrobatica che Violetta userà per la prima volta nel duetto con Alfredo ed esploderà nei gorgheggi di «Sempre libera» che tentano di far tacere il richiamo dell’amore e annegare «di voluttà ne’ vortici» la solitudine, il vuoto di un’esistenza alienata. Il Preludio fornisce quindi una sintesi di alcuni aspetti dell’opera. Ma quale sintesi? Questo è il punto. Non basta rilevare la presenza del tema d’amore: molto più importante è la strana forma in cui Verdi ce lo presenta, con effetto del tutto imprevedibile.

In II,6 «Amami, Alfredo!» è una scossa tellurica, un disperato grido d’amore, piazzato al vertice di un crescendo fra i più trascinanti nella storia del teatro musicale, un’invocazione pronunciata senz’altro ritmo che non sia quello della parola declamata nell’incandescenza della passione. Nel Preludio, invece, quella melodia, così libera da schemi fraseologici e eccezionalmente dilatata, viene compressa da 18 a 9 battute, eseguita piano e digradante in pianissimo e, come se non bastasse, sostenuta da una pulsazione regolare che, nel suono bandistico di flauto, oboe, clarinetto e tre corni, sembra uscire dalla scatola sonora di un umile organetto popolare. Non ricordo altri casi di temi che, trasportati dall’opera nel Preludio o nell’Ouverture, abbiano subito una trasformazione così radicale: le melodie di Nabucco, Macbeth, Un ballo in maschera, La forza del destino, Aida, citate in capo all’opera, restano in pratica tali e quali e, soprattutto, non mutano il proprio ethos ; il dirompente, libero e monumentale «Amami, Alfredo» viene invece rimpicciolito e irrigidito nella dimensione di un innocente refrain popolare.

La strana metamorfosi è evidentemente voluta, e addirittura ostentata: lo sfrontato zum-zùm-pa-pa, che determina la trasformazione del grido d’amore in uno spunto ballabile, balza in primo piano, da solo, in una intera battuta, come ad evidenziare, provocatoriamente, la rigida incastellatura ritmica in cui il tema verrà imprigionato.

Perché Verdi ha fatto questo? Perché ha scartato la soluzione bell’e pronta, suggerita dal materiale stesso: piazzare, ad esempio, nel Preludio, l’ effusione originaria di «Amami Alfredo» nella sua naturale posizione conclusiva, alla fine di un grande crescendo, e citare quindi la famosa melodia come si presenta nel corpo della partitura? Se, come si dice, avesse voluto presentarci una sintesi della vicenda, non avrebbe avuto bisogno di deformare il tema al punto da spostarlo in un campo semiotico del tutto diverso da quello originario. Ma il Preludio non vuol essere un riassunto della storia di Violetta – e lo prova l’esclusione del tema più importante ed emblematico, la melodia «Di quell’amor ch’è palpito», vero e proprio Leitmotiv della redenzione d’amore che Verdi aveva pensato originariamente di introdurre nel Preludio, e che poi espunse, anche per non ripeterlo troppe volte 19– ma qualche cosa di diverso e sottilmente imprevedibile.

Certamente la piccola dimensione sonora e formale del pezzo, il suo andamento circolare che ci ricorda il tono affettuoso e leggendario di un cantastorie, potrebbe suggerire un’ interpretazione narrativa. Come osserva Parouty20, buon gioco ha avuto il regista Franco Zeffirelli nel vedere in questa introduzione un procedimento cinematografico ante litteram, quello del flash-back e mostrare, durante il Preludio, l’immagine di Violetta morente, intendendo, poi, tutta la vicenda come ricordo della vita passata. Ma, a ben vedere, il significato del Preludio va oltre questa dimensione illustrativa e scaturisce dai principi primi che caratterizzano, nella Traviata, la vita globale del sistema musicale, drammatico ed espressivo.

Generalizzando, si potrebbe infatti descrivere la parabola del Preludio come una progressiva trasformazione dell’elemento organico, che fluisce “senza forma” nelle sedici battute iniziali, in quello meccanico, che dapprima incapsula il tema d’amore nell’accompagnamento da organetto popolare, poi lo assedia con i “gorgheggi” violinistici, nascondendolo a poco a poco, sino a farlo trapelare solo per piccoli squarci, indi sparire del tutto. Ma, proprio nella contrapposizione tra organico e meccanico la drammaturgia della Traviata trova il suo nucleo più profondo e più vero. 19 cfr.G.VERDI, La Traviata. Schizzi e abbozzi autografi, a cura di F.Della Seta, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, Parma, 2000, p.110 20 M.PAROUTY, “La Traviata” de Verdi, Paris, Aubier, 1988, p.67

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La partitura è piena di melodie “meccaniche”, di rossiniana o donizettiana memoria, costruite su ritmi che si sovrappongono a quelli della parola, sorrette da accompagnamenti che scandiscono dall’esterno una fraseologia simmetrica, del tutto prevedibile: meccaniche sono le strofette melodiche in cui Verdi rappresenta lo stordimento delle feste mondane, le danze, i balli e i cori degli invitati, ma anche l’ impassibile ottusità di Germont di fronte al dramma di Violetta («Un dì quando le veneri»); meccanica la musica che incarna il travestimento e la maschera (Zingarelle e Toreri, canto carnascialesco nell’ultimo atto), il chiasso del divertimento, l’alienazione del gioco d’azzardo, nel suo ritmo frenetico, angosciosa metafora del tempo che scorre, indifferente allo straziante dolore della protagonista. Sovente svalutate da una critica che si ostina a giudicare i singoli pezzi di Verdi in sé e per sé, senza capirne la funzione, queste pagine assolvono, in realtà, proprio in quanto sfacciatamente stranianti, a un’essenziale compito di contrasto, e giungono a definire, per contrapposizione, un universo morale.

La musica meccanica, con le sue melodie secche o brillanti che trascurano, nascondono o travolgono gli accenti naturali della parola, è quella del mondo alienato cui Violetta appartiene ancora nel primo atto, con i suoi folli gorgheggi, ma da cui si libera attraverso l’amore, per venirne in seguito crudelmente ricacciata da un destino impietoso. A questa vasta regione stilistica Verdi oppone l’elemento organico, ossia il canto moderno di Violetta, naturale, fraseologicamente elastico, privo di ogni rigidezza ritmica, un canto nato, si direbbe, dalla sintesi tra il declamato di Rigoletto e la melodia pura del Trovatore. In quel melos che esalta il verbo, gli accenti della parola sono assunti come anima della melodia: il ritmo non è più un’impalcatura astratta, ma la pulsazione di un respiro interno, del tutto naturale. L’elemento meccanico nella Traviata (non in altre opere di Verdi, perché ogni partitura è giocata su rapporti formali differenti) è alienazione, falsità, esteriorità, maschera, vuotezza morale (nel Falstaff sarà esplosione di vita); quello organico esprime la verità della protagonista e della sua eccezionale trasformazione da cortigiana in donna, eroina, e infine angelo che vola al cielo; verità d’amore e pianto, sofferenza e speranza, ribellione e sacrificio, desolazione e preghiera, spossatezza fisica e travolgente energia morale.

La vicenda di Violetta sarà musicalmente intesa come un itinerario di liberazione: deposta, alla fine del primo atto, la veste di usignolo meccanico, il suo canto respirerà, libero e aperto ai più naturali processi di compenetrazione con il suono e il significato della parola. E sarà allora iniziato il processo di metamorfosi interiore, sino alla trasfigurazione finale.

Rispetto all’itinerario musicale ed esistenziale di Violetta, il Preludio è dunque caratterizzato da un percorso contrario: dall’organico al meccanico e non viceversa. Il libero respiro del primo episodio, invece di espandersi, come succederà nel Preludio all’atto III, fluendo in pura melodia, viene a poco a poco rinchiuso nel guscio meccanico-brillante che lo nasconde, come l’ispida conchiglia che imprigiona la perla. Da questo punto inizia la vicenda di Violetta: ella dovrà spaccare quel guscio attraverso una via crucis di speranza, rinuncia, sacrificio, sofferenza, morte; allora il nucleo di verità che vi è contenuto e che nel Preludio appena si intravede, potrà finalmente attuarsi.

Il brano non presenta dunque, come generalmente 21 si afferma, il «ritratto musicale della protagonista» quale appare dall’opera, bensì uno sguardo sulla dimensione esistenziale antecedente la sua straordinaria vicenda di redenzione. Ritrae la sua capacità di soffrire (tema della malattia) e quella di amare («Amami , Alfredo!») quand’erano ancora allo stato virtuale, incorniciate e represse nell’esteriorità brillante di una vita stordita. «In principio erat…»: questo il significato del Preludio, vera e propria controfigura della lirica e commossa introduzione al terz’atto. Là il medesimo tema iniziale traboccherà, sviluppandosi tra aneliti e abbandoni, slanci e ricadute, in una rappresentazione grandiosamente soggettiva della sofferenza individuale; qui esso si «raffredda» subito, cristallizzandosi in una oggettività volutamente straniata, quella d’un piccolo organetto la cui manovella si mette improvvisamente a girare.

21 J.BUDDEN, Le opere di Verdi, vol.II, trad.it., Torino, Edt/Musica, 1978, p.140

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Proiettato, dunque, in questa dimensione straniante e oggettiva come il racconto di un cantastorie, il preludio, nei suoi tre formanti nettamente distinti, non può certo definirsi un «étude psychologique»22come lo sarà, invece, l’introduzione al terzo atto. Piuttosto, la sua natura di “oggetto” suggerisce di annoverarlo tra i tanti oggetti che rappresentano, nella Traviata, veri e propri precipitati di vita vissuta, punti di snodo decisivi nell’evolversi della vicenda. L’elenco è ricco: il calice che Alfredo solleva nel brindisi, prima scintilla d’amore; il fiore con cui Violetta si dichiara, dicendo ad Alfredo di riportarglielo l’indomani; lo specchio in cui si guarda due volte, presagio di morte; il foglio, bagnato di lacrime, su cui scrive la lettera di addio; la lettera che legge nell’ultimo atto, tradivo squarcio di inutile speranza; la borsa di danari che Alfredo le getta davanti a tutti, segno di oltraggio e sofferenza; il lume da notte che arde nella camera della malata, immagine di una vita che sta per spegnersi; l’orologio che Alfredo guarda dicendo «E’ tardi» presenza tangibile del tempo che scorre; il medaglione, infine, l’oggetto più importante di tutti, che Violetta dà ad Alfredo prima di morire, consegnandogli l’immagine dei suoi «passati giorni», ricordo della vita trascorsa e viatico per quella futura.

Che cosa si vede su quel medaglione? Violetta “com’era” nella sua vita di prima. E un grande medaglione musicale è proprio il preludio, appeso in capo all’opera, a mostrarci l’antefatto interiore della straordinaria vicenda. Ci pensi un regista: sipario chiuso e, al centro, un bell’ovale ottocentesco con il ritratto della signora: abito da sera, gioielli chiassosi , labbra vermiglie, una camelia sul petto, ma lo sguardo malinconico rivolto verso l’alto, in un disperato bisogno d’amore e, sul volto, un pallore presago. Nulla di più ci dice la musica del piccolo, folgorante Preludio. Ma può bastare.

(testo pubblicato in Sentire e meditar. Omaggio a Elena Sala Di Felice, a cura di L.Sannia Nowé, F.Cotticelli, R.Puggioni, Roma, Aracne, 2005, pp.285-293)

N.2 Introduzione

1) Allegro brillantissimo e molto vivace «Dell'invito trascorsa è già l'ora», 4/4 la maggiore23.

Il primo atto della Traviata è articolato in due sezioni. La prima, comprendente le scene I-IV è di carattere corale e rappresenta Violetta nel suo ambiente, circondata dal coro. La seconda, comprendente la scena V, comprende la scena e aria di Violetta. La prima sezione è divisa in sei pezzi musicali, che non coincidono con la divisione in quattro scene, ma con il mutamento dei versi che da decasillabi («Dell'invito trascorsa è già l'ora» Allegro brillantissimo e molto vivace) diventano settenari ( nel brindisi «Libiam ne' lieti calici»- Allegretto) indi endecasillabi («Che è ciò?» «Non gradireste ora le danze?» Allegro brillante ) poi settenari («Un dì felice eterea» Andantino), endecasillabi («Si folleggiava...Ah! Ah! ...Sta ben... restate» I°tempo) , ottonari («Si ridesta in ciel l'aurora» Allegro vivo). Quando cambia il metro cambia anche l'episodio musicale. Questo per sottolineare l'importanza che, nel libretto d'opera, ha la forma dei versi e il loro mutamento: suggerendo determinati ritmi, influisce direttamente sull'invenzione musicale del compositore. Non sempre, però: talvolta Verdi non tiene conto della divisione dei versi e fa di testa sua perché così gli impone il contenuto drammatico della scena. L' Introduzione inizia con un tema A su ritmo di galop. Il suo carattere è sfrenato, ansioso, propulsivo. Verdi prescrive un «Allegro brillantissimo e molto vivace» la cui brillantezza nasce da tre fattori: melodico, per il trillo che si rigenera ad ogni inizio di frase e dà al tema un carattere eccitato, come di qualche cosa che brilla o sta per scoppiare; ritmico, per l'andamento galoppante, frenetico e molto propulsivo, dato dalla scansione dei bassi in ottavi; timbrico, per la presenza dell'ottavino che sibila e dei piatti che schioccano, segnando il ritmo. Il trillo è fondamentale per

22 M.PAROUTY, “La Traviata” cit., p.66 23- La divisione e numerazione dei testi è tratta dalla edizione critica della partitura a cura di Fabrizio della Seta , pubblicata dalla Chicago University Press.

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conferire alla danza questo andamento sovreccitato. Il tema inizia con un trillo: sembra l'avviamento di un motore, come un'energia che scoppia e che esplode subito dopo, saltando nel ritmo di danza. Da notare che gli invitati non danzano ancora: Verdi usa però questa idea del galop per caratterizzare l'ambiente del ricevimento nella società godereccia della Parigi ottocentesca. Tutto è volto alla rappresentazione di ciò che dice Violetta : affidarsi al piacere e annegare nel piacere i mali della vita. Il tema è ripetuto, sviluppato e crea effetto propulsivo, non è spezzato in quattro diversi elementi come quello delle musiche da intrattenimento che aprono Rigoletto. La strumentazione molto accesa: ottavini, piatti, ottoni che scandiscono il basso in ottavi, danno un carattere chiassoso, sfacciato, provocatoriamente allegro a questo debutto, in grande contrasto con il preludio.

L’apertura del sipario è intesa come uno scoppio di luce: nei trilli brillano i gioielli, i lampadari accesi, le toilettes delle dame, l'argenteria, i cristalli, i bicchieri; i trilli iniziali sono la luce che sfolgora nel salotto in casa di Violetta dove avviene il ricevimento. E’ evidentemente fortissima la volontà di instaurare un forte contrasto atmosferico con il preludio: come quello di Rigoletto, cupo e notturno, anche quello della Traviata cameristito, intimo e dolce, viene improvvisamente spazzato via dallo scoppio del brillantissimo preludietto orchestrale. Anche il pezzo strumentale ha evidentemente quindi un impatto visivo, luminoso, cioè figurativo in senso scenico e teatrale. Verdi pensa per immagini e queste immagini, atmosfere, colori si caratterizzano nella misura in cui la musica acquista pregnanza e personalità, prima di tutto tematica. Il meraviglioso preludio della Traviata che incapsula a poco a poco l’elemento organico in quello meccanico apre una dimensione intima individuale quasi segreta: il contrasto con lo sfacciato apparire della festa è quindi volutamente fortissimo. Qui nulla è organico, tutto è meccanico: siamo nella sfera espressiva dei superficiali borghesi che si drogano di mondanità eccitata e non conoscono la verità del sentimento. Verdi gioca molto qui e nel Rigoletto sul contrasto tra interiorità ed esteriorità, un tema che già nel Macbeth lo aveva molto affascinato e attratto.

Non c'è nulla di "spirituale" in questa musica iniziata da tutta l'orchestra ma poi proseguita solo dai una banda di fiati con i loro timbri sfacciati e squillanti: flauto, ottavino, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe, tromboni e cimbasso (nome generico per indicare lo strumento più grave della sezione degli ottoni, oggi una tuba o un trombone basso). Verdi rappresenta la confusione, l'affollamento, il moto degli invitati che giungono nella sala con un senso di frenesia eccitata, perfettamente adatto a cogliere l'ambiente e lo stato d'animo dei personaggi. Al verso «In Alfredo Germont, o signora» incomincia un altro tema musicale che chiamiamo B e che si alternerà ad A per tutto il corso del pezzo. E' un tema meno preciso di quello precedente, caratterizzato da un ritmo spondaico di lunga-breve che si ripete sempre su vari gradi: tipico tema teatrale, serve a rappresentare lo svolgersi della conversazione, mentre sotto pulsa un ritmo regolare. Per rappresentare la conversazione a bassa voce Verdi usa l'espediente di ridurre l'orchestra: in questo episodio, infatti, gli archi sono solo un ottetto formato da due violini primi, due secondi, due viole, violoncello e contrabbasso. Dal punto di vista sonoro si alternano quindi in questa scena pieni e vuoti. Abbiamo già tre contrasti timbrici: la piena orchestra, il gruppo di soli fiati, indi il gruppo di otto archi. L'arte del contrasto su cui Verdi imposta la propria drammaturgia musicale, investe anche il timbro, ma sempre in funzione drammatica. Il tema B è svolto con grande finezza. Verdi ha imparato l'arte dello sviluppo, meditando sui classici viennesi, in particolare su Mozart, e la conduce attraverso raffinate sfumature tonali: la prima volta gravita attorno alla tonalità di Fa maggiore, che, all'inizio, tocca solo di sfuggita partendo da quello che sembra essere un Do maggiore. Come è il canto? Qui non caratterizza i personaggi: è piuttosto generico. Verdi vuol rappresentare il tono banale della conversazione da salotto, in cui si dicono magari cose importanti, ma in modo superficiale. E' una rappresentazione realistica della velocità, frammentarietà, casualità della conversazione da salotto. Gastone dice confidenzialmente a Violetta che Alfredo è interessato a lei, e lo ripete due volte, ma sempre con tono distratto, dopo di che ritorna il tema A del galop,

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mentre si svolge l'azione della didascalia : «Siedono in modo che Violetta resti tra Alfredo e Gastone...ecc.». La conversazione tra Gastone e Violetta riprende subito dopo sul tema B , alle parole «Sempre Alfredo a voi pensa», stavolta gravitante attorno a Do maggiore, mentre il tema A ritorna l'ultima volta alle parole del Barone «M'è increscioso quel giovin», e si lancia liberamente nella grande espansione di un crescendo che porta al brindisi. Quindi c’è una struttura A-B-A’-B’A’’. L’alternanza di A e B definisce un rapporto tra pieni e vuoti, coro chiassoso e conversazioni a due, ritagliate entro la scena di massa. L’ultima ripresa di A’’ è davvero frenetica, perché il tema si ripete, in crescendo, su gradi diversi e ha un carattere travolgente di eccitazione, nel suo trillo e nella frantumazione degli incisi. Questa triplice apparizione del tema A suggerisce una forma di rondò, imperniato su di un tema fortemente propulsivo, che viene ripreso e conferisce al pezzo un carattere rotatorio, dinamico, di straordinaria energia. Verdi impara da Rossini questo schema e lo applica con analoga efficacia: questo blocco compatto di cinque episodi serve, infatti, ad accentuare progressivamente una tensione che si avviterà vorticosamente nel brindisi successivo «Libiamo ne’ lieti calici». L’argomento di queste prime scene è : stordirsi nel piacere mondano. Sinora abbiamo notato la disposizione dei temi strumentali: il galop compare all'inizio, poi è interrotto, poi ritorna, poi è interrotto di nuovo e finalmente può esplodere e crescere liberamente nel crescendo finale. Queste interruzioni sono fatte a ragion veduta: aumentano l'eccitazione e la forza dinamica del tema principale che si afferma progressivamente contro qualche cosa che vorrebbe fermarlo. Questo accentua l'energia insita nel ritmo galoppante. La musica quindi sceglie di rappresentare questa festa come sfrenata eccitazione, allegria travolgente, turbine godereccio, galoppata in progressiva accelerazione. Questa atmosfera però non è che preparatoria di qualcos’altro: la musica del brindisi con la prima apparizione del valzer. Il Valzer nel romanzo di Dumas24 è essenzialmente musica di società.A Margherita piace il valzer e si fa suonare da Gastone l' Invito alla danza di Weber che non riesce a suonare bene. Forse da questo particolare del romanzo (p.78) viene a Verdi in mente l'idea di collegare il valzer alla figura di Violetta. Il valzer nella Traviata acquista quindi una valenza psicologica e una sociale. Ma di che tipo è questa allegria? E' liberatoria, positiva, rigenerante? No. La musica ci dice che è una finta allegria, illusoria perché ansiosa, frenetica. Il ritmo ha infatti qualche cosa di ansimante e di meccanico, senza respiro, sia nel tema A che nel tema B: non dimentichiamo che la scena si svolge in una sala piena di gente che mangia, beve, danza, fuma. Fa caldo, l'aria è pesante: ma, soprattutto, questa caratterizzazione è mirata a definire una sensazione interiore. Vedremo in che senso. Il canto è volutamente banale, poco espressivo, talvolta meccanizzato e imprigionato nel ritmo ansioso dei temi strumentali: i personaggi si annullano nella festa, si esprimono banalmente, spezzano e meccanizzano le parole, perdono la loro identità: tutto produce un sottile senso di alienazione è quindi ulteriormente affermato. Siamo nel regno del meccanico. La visione del musicista è quindi una visione generale: il suo obiettivo inquadra tutta la scena in cui passano , trattati alla pari, Violetta , la protagonista, e gli altri personaggi minori (identità della tipologia canora). E' un quadro d'assieme che prepara la prima emersione solistica dei due protagonisti: quella del brindisi in cui Alfredo e Violetta escono da questa visione d'assieme, apparendo per la prima volta in un’ inquadratura a tutta figura. 2)Allegretto “Libiamo ne' lieti calici”, 3/8, Si bemolle maggiore. E’ la prima apparizione del valzer, ritmo fondamentale di tutta l’opera. I pezzi precedenti preparano l’esplosione del vortice in ritmo ternario. Sono concepiti da Verdi in funzione preparatoria: caricare la molla che scatta nel brindisi. Sono molto dinamici ma il brindisi lo è di più perché è scorrevole: l’intensificazione va nel senso della scorrevolezza. Risultato, una maggiore scioltezza dinamica. La musica precedente era piana di impuntature, frasi ansimanti, dal respiro 24 Le pagine del romanzo di Dumas cui si rimanda nel corso della trattazione si riferiscono all’edizione de La signora delle camelie, “Oscar Classici”, Milano, Mondadori, , 1981

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corto. Qui il tema del brindisi è invece scorrevolissimo nelle sue dieci battute. La pausa lunga, prima dell’attacco di Alfredo, accentua il senso di attesa e di sorpresa. L’aspirazione alla circolarità della forma pentapartita che ha caratterizzato il blocco precedente investe ora il ritmo stesso che assume la forma ternaria , circolare per eccellenza. Il tema del pezzo è: godiamo perché la vita sfugge e questo sfuggire è rappresentato nel ritmo di valzer e nella forma, che si avvita su se stessa in cerchi sempre più piccoli come in una spirale. Il pezzo è chiamato «Brindisi» nel vecchio spartito Ricordi. E' fatto di strofe alternante soli-tutti, secondo un modello tratto dall'opera francese, molto presente nella Traviata anche nella predilezione per arie strofiche. Il tema del brindisi viene esposto dall'orchestra , poi ripetuto quattro volte. Comincia Alfredo che canta due strofe di otto versi con due versi di conclusione. Il coro ripete gli ultimi due. Poi Violetta canta altri dieci versi, ma il coro non ripete più gli ultimi due; ricomincia invece il tema da capo per la terza volta (“Godiam... la tazza e il cantico”) che prosegue, a voci alternate tra Alfredo-Violetta (“La vita è nel tripudio”), senza la conclusione che c'era la prima volta. Infine il coro ripete ancora una volta da capo solo la prima strofa del tema, concludendo con una coda. Insomma: la prima volta l'esposizione del brindisi è di 53 battute, la seconda di 45, la terza di 37, l'ultima di 19 battute. La coda è di 16 battute. Come si vede il brindisi è “montato” con segmenti sempre più corti, come quelli di un cannocchiale, che non solo ne tengono alta la tensione musicale ma producono un senso di progressiva accelerazione, anche se il ritmo resta sempre uguale. Sembra un pezzo facile, popolare; da alcuni (Gabriele Baldini, nel suo volume Abitare la battaglia. La storia di Giuseppe Verdi, Milano, Garzanti, 2001) è stato tacciato di volgarità. Niente di più falso: è invece costruito con estrema sapienza e, come i pezzi migliori di Verdi, non potrebbe svolgere meglio il proprio compito drammatico. Se le ripetizioni fossero state tutte della stessa lunghezza il pezzo si sarebbe afflosciato perdendo l'effetto di propulsione interna: così il tema può esprimere al meglio il suo dinamismo.

Il pezzo è in ritmo di valzer, anche se tagliato in 3/8 e nella sua progressiva scorciatura coglie perfettamente il senso della «fuggevol ora», del tempo che fugge, della brevità della vita che scorre e incalza, lasciando poco tempo per i piaceri: donde l'ansia di viverla il più intensamente possibile. «La fuggevol ora s’inebri a voluttà». Tre concetti vi sono espressi: vino, amore, canto, ossia «beviamo per riempire di voluttà l’ora fuggevole perché tra i calici l’amore è più caldo, e il vino, il canto e il riso abbelliscono le notti, trasformandole in un paradiso». Vedremo quale paradiso saranno per Violetta queste notti di feste e di bagordi. Vino, donne e canto è il titolo di un famoso valzer di Strauss. Per esprimere questi concetti e l’ ideale di vita professato da gaudenti borghesi in un salotto parigino saturo di odore di fumo, di vino e di cibo, ci vuole una musica godereccia, capace di suscitare un’ eccitazione sensuale per la sua immediatezza, e la memorabilità della melodia. A tal fine l'idea del valzer è particolarmente efficace. Essa agiva con un riferimento preciso sulla sensibilità del pubblico ottocentesco che aveva assistito, da Vienna, a Parigi, a Londra, nelle città e nelle campagne, in ogni strato sociale, ad una straordinaria diffusione di questa danza dal carattere provocatoriamente sensuale. Il bel libro di Rémi Hess, Il valzer. Rivoluzione della coppia in Europa (Einaudi, 1997) ci spiega che, per l'Ottocento, questo ritmo di danza significava aspirazione verso l'infinito: in matematica esso si rappresenta con un otto rovesciato, lo stesso movimento compiuto dalla coppia allacciata nella rotazione della danza. Nella Traviata si trattava di rappresentare l'oblio che una società godereccia va ricercando nel piacere fugace e rapido della festa, senso dell'attimo fuggente, dell'ebbrezza fatta di luci, di colori, di suoni, di fiori, di danze e belle donne, una festa certo meno aristocratica di quelle imperiali di Vienna, con una musica più corposamente edonistica e “popolare”, ma animata dallo stesso spirito individuato nella descrizione del francese La Garde citata da Hess (p.126): «Non appena cominciano a riecheggiare le prime misure i visi si illuminano, gli occhi si animano, un fremito percorre tutti gli astanti. I vortici leggiadri si organizzano, si mettono in moto, si incrociano, si superano, mentre gli spettatori costretti dagli anni a restare immobili, battono il tempo, partecipando con il pensiero e con il ricordo al piacere che viene loro negato. Bisognava vederle, quelle donne magnifiche, tutte scintillanti di

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diamanti e di fiori, trasportate da quell'irresistibile armonia, chine sul braccio dei loro cavalieri, e simili a brillanti meteore. Bisognava vedere la seta luccicante e la garza leggera dei loro abiti assecondare i movimenti e creare figure ondulate piene di grazia. Bisognava vedere, infine, quella sorta di gioia estatica impressa sui loro volti, quando la stanchezza le obbligava a lasciare le sfere aeree per andare a chiedere nuove forze alla terra». «Mai», confessa il Werther di Goethe, «mi sono mosso con tanta leggerezza. Non ero più un essere umano; tenere tra le braccia la più adorabile delle creature e girare turbinando come il vento, tanto che ogni cosa intorno a noi scompariva...». La danza, commenta Curt Sachs, autore di una fondamentale Storia della danza, per la prima volta è di nuovo estasi: nell'ebbrezza, nel rapimento, il mondo circostante cessa di esistere. A questo immaginario faceva riferimento il mondo del valzer ottocentesco cui veniva attribuito un carattere evidentemente erotico, come mostra questa descrizione di Alfred de Musset contenuta ne La confession d’un enfant du siècle (1836) (cit in Della Seta, Italia e Francia nell’Ottocento, Torino, EDT, 1993, p. 31): «Appena entrato, mi lanciai nel turbine del valzer. Questo esercizio veramente delizioso mi è sempre stato caro: non ne conosco uno più nobile, uno che sia in tutto più degno di una bella donna e di un giovane; in confronto a quella, tutte le danze non sono che insipide convenzioni o pretesti per le conversazioni più insignificanti. Tenere per mezz’ora tra le braccia una donna, e trascinarla così, suo malgrado palpitante, e non senza qualche rischio , tanto da non potersi dire se la si protegge o se la si forza, è veramente in qualche modo possederla». Ecco perché Alfredo sceglie questo ritmo, così spiccatamente individualizzato, per esprimere l’invito a cercare l'oblio nella voluttà cui Violetta risponde con totale adesione. Si badi bene, però, che il valzer, qui, non è danzato. I convitati sono fermi nell'atto di alzare i bicchieri: il momento, statico dal punto di vista teatrale, è, però dinamicissimo per quanto riguarda la musica. L'effetto di questo bisticcio è singolare e tipicamente operistico. La musica , come sappiamo, ha il potere di elasticizzare il tempo e quindi di creare effetti teatrali impossibili al teatro di prosa. In questo caso abbiamo un lasso di tempo molto breve, quello in cui, in una festa, si toccano i bicchieri nel brindisi. Ma tale momento viene dilatato in un ampio episodio musicale in cui si esprime lo stato d'animo dei personaggi . Il contrasto tra staticità visiva e dinamismo sonoro determina, quindi, una fortissima tensione emotiva: attraverso la dissociazione delle due sfere sensoriali - quella della vista e quella dell'udito - lo spettatore entra in una dimensione totalmente estranea a quella della realtà; ma in questo mondo trova una seconda verità, perché non si potrebbe esprimere con maggiore esattezza lo stato d'animo di coloro che vivono l'ebbrezza del piacere in una festa di società. Alfredo, Violetta, il coro non partecipano direttamente al vortice del valzer ma ce l’hanno davanti come una visione cui aspirano, un miraggio di luci, colori, movimenti roteanti, avvolgenti, pieni di seduzione. E’ questo che permette al brindisi di esprimere una situazione interiore: i personaggi immaginano un vortice di luci, entro cui prende forma l’amore nascente, in cui si incrociano per la prima volta, consapevolmente, gli sguardi di Alfredo e Violetta. Il regista deve assolutamente rispettare la staticità scenica di questo momento: se a qualche testa calda dello spettacolo lirico venisse in mente di far muovere o danzare i personaggi nel brindisi, l'effetto del pezzo franerebbe nel grottesco. Il bello, invece, sta proprio nel fatto che i personaggi si siano mossi dapprima in ordine sparso e , improvvisamente, si radunino qui in gruppo nello statico brindisi, mentre la musica vortica con irresistibile forza dinamica. Questi casi di dinamismo statico o staticità dinamica sono molto frequenti nell'opera, e raggiungono effetti colossali in quella buffa di Rossini. Qui, però, il pezzo non possiede il carattere rossiniano di straniamento comico-grottesco: serve invece a rappresentare una visione interiore, ossia il desiderio di oblio nell’ebbrezza del movimento. Se questo pezzo nasce dalla dilatazione di un attimo breve, ci possono essere, nell'opera, momenti opposti in cui lunghe porzioni di tempo, come il discorso di diversi personaggi, vengono compresse, ad esempio, nella vorticosa successione del canto a più voci. L'effetto drammaturgico sarà allora diverso: il dialogo che, recitato, sarebbe più lento, si sovrappone in un precipitare di battute, anche simultanee. Oppure può accadere che un interludio strumentale rappresenti in poche battute un intervallo di tempo lungo.

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Ma il valzer di Verdi non esprime solo una situazione generale: è anche in relazione con lo stato d'animo, la personalità e la situazione dei due protagonisti presentati qui, per la prima volta, come figure che spiccano sullo sfondo corale. All’interno del pezzo è contenuta addirittura una dichiarazione d’amore. Alfredo guarda Violetta dicendo : « Libiam ne' dolci fremiti /Che suscita l'amore, / Poiche' quell'occhio al core(indicando Violetta)/ Onnipotente va ». Inoltre, nel breve dialogo tra Alfredo e Violetta: si dicono «La vita è nel tripudio…Quando non s’ami ancora…Nol dite a chi l’ignora…E’ il mio destin così». Notare la finezza del libretto, ove tutto è calcolato e dosato con il bilancino: l’amore annunciato nella conversazione precedente, comincia qui a rivelarsi, in attesa di dichiararsi pienamente nel duetto successivo. Il regista quindi deve saper ritagliare, entro questo canto collettivo, l’incrocio degli sguardi tra i due personaggi protagonisti, dare il senso di qualche cosa di privato che viene trasmesso entro la dimensione pubblica e collettiva, una scintilla che scocca nel roteare della danza immaginata e non realizzata. Il tema del brindisi, così “facile”, in realtà è costruito in modo molto sottile. Non rispetta, infatti, la fraseologia regolare di 4+4 battute: la prima frase è di 6 battute. Due sillabe vengono “stirate” per quattro ottavi con questo effetto : “Libiaaaaaa..mo, libiamo ne' lieti caaaaaa…lici, che la bellezza infiora”. La fraseologia irregolare di 6 battute conferisce quindi al tema un senso di partenza lenta e di accelerazione progressiva , come un risucchio che attira gli altri personaggi nel vortice, a cominciare da Violetta. Alfredo alza il bicchiere : il prolungamento della prima sillaba suggerisce questo gesto. Poi la melodia del brindisi prosegue la sua pulsazione regolare (frasi di 4+4 battute). Si noti che il brindisi è cantato dal tenore e dal soprano in pianissimo, con grazia, come indica la didascalia, e solo nell'ultima ripresa del coro arriva, attraverso il crescendo, al fortissimo finale. Anche in questo c'è un desiderio di raffinare, sfumare, alleggerire ciò che altrimenti può diventare troppo vistoso, se non volgare. Il coro ha, invece, un' orchestrazione e sonorità più pesanti, quasi a voler differenziare la leggerezza di Alfredo e Violetta, che in questo brindisi s'incontrano per la prima volta in un significativo incrocio degli sguardi, dalla pesantezza della comunità di borghesi gaudenti che vivono solo di danze, cibo, vino e sesso. Il direttore d'orchestra deve quindi stare attento a rispettare le prescrizioni di Verdi e sottolineare il diverso peso che caratterizza i vari passi del brano. Il tema va cantato da Alfredo «con grazia» «leggerissimo» «pianissimo», ed è caratterizzato dal fervido salto di sesta ascendente, che gli conferisce uno straordinario slancio iniziale su «Li-biam», dalle due roteanti quartine precedute dall’acciaccatura, vere piroette che gli danno uno scatto e un movimento inconfondibili. E’ come se avesse due anime: una più pesante e popolare, l’altra roteante e leggera, a seconda che sia cantato dal coro o dai solisti. Il tema, sempre più ravvicinato, acquista un movimento stringente, sempre più vorticoso. Il valzer del brindisi è un primo approccio all’ interiorità dei personaggi. La melodia è incentrata su Violetta. E’ lei infatti che ispira ad Alfredo il tema del brindisi: è lo sguardo di quell’occhio «che al core onnipotente va». Dietro il senso di ebbrezza, di voluttà, dietro il piacere mondano del brindisi, del ritmo e del canto, c’è qualcosa di più profondo: il valzer è la prima irradiazione su Alfredo del fascino incantatorio di Violetta che lo ha fatto innamorare. Il valzer coglie l'aura di eleganza, grazia, bellezza, giovinezza che si sprigiona da Violetta e che sarà costituzionalmente collegata a lei, anche nei momenti di maggiore serietà e pathos drammatico. Il ritmo di valzer ritornerà, come vedremo, in tutta l'opera nel presente, nel ricordo, nella speranza, nella gioia, nella sofferenza. L’elemento ispiratore del brindisi è dunque l’amore, che per Alfredo e Violetta comincia ad esprimersi come incanto, sogno, rapimento (orchestra leggera) , per il coro degli invitati è piacere da consumarsi tra vini e canti (orchestra pesante). Da notare infatti che, quando entra il coro, con il suo invito al godimento materiale, il valzer si fa più meccanico e corrivo, a causa dell'accompagnamento e dello spessore strumentale. Questo nell’ultima parte, quanto il coro si divide, e i bassi scandiscono le note puntate.

Il brano rappresenta il primo incontro musicale tra Violetta e Alfredo, che l'attira nel vortice del proprio canto: il brindisi è quindi una metafora della seduzione, luogo della prima, sottaciuta dichiarazione d’amore, affidata esclusivamente al magnetismo degli sguardi. All'oblio frenetico e

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ansioso offerto dalla vita mondana viene opposto quello dolcemente carezzevole, sottilmente incantatorio, pieno di calore melodico che si esprime dalla melodia di Alfredo. Certo, c'è un tocco popolare in questa melodia: ma popolare non vuol dire volgare. Volgare può essere, caso mai, il modo di eseguirlo, senza tener conto delle prescrizioni di Verdi: basta leggere la partitura per capire come tutto debba essere leggero e aereo.

L'elemento popolare esiste nella Traviata: ma va inteso come componente affettuosa, espressione di sentimenti nella loro freschezza sorgiva, semplicità di melodie che mantengono l'immediatezza della musica popolare con accompagnamenti semplicissimi ma, ad una attenta analisi, si rivelano costruite con sapienza e perfetta aderenza alla specificità del momento psicologico e drammatico. La grandezza della Traviata sta in questo: che fonde, come vedremo, in una sintesi prodigiosa, teatro popolare, dramma borghese e alta tragedia. 3) Allegro brillante , “Non gradireste ora le danze”, 2/4, mi bemolle maggiore

Dopo questo valzer immaginario, attacca un valzer veramente danzato: gli invitati sono attirati nell'altra sala da una banda che suona dietro le quinte. L'episodio comprende l'ultima parte della scena seconda e la scena terza. E' spezzato al centro dall'Andantino «Un dì felice, eterea». Come si è detto, la successione degli episodi musicali non corrisponde alla successione delle scene ma a quella dei versi, nella fattispecie endecasillabi («Che è ciò? Non gradireste ora le danze?») seguiti da settenari («Un dì felice eterea») e ancora da endecasillabi («Si folleggiava...» «Ah !Ah!.. Sta ben...Restate»). Il criterio della distribuzione dei pezzi è però eminentemente drammatico. Violetta offre danze ai suoi invitati che la ringraziano. Le danze risuonano dietro le quinte, come nel Rigoletto. In scena c’è una tavola imbandita, uno specchio con camino. E’ tardi («Dell’invito trascorsa è già l’ora.. giocammo da Flora»). Si è già cenato, ora si balla. «Tavola riccamente imbandita» è indicato nella didascalia. Imbandita, sì, ma dopo cena, un po’ in disordine, con i segni del banchetto consumato. Il brindisi è un brindisi di fine tavola: con lo champagne. Gli oggetti sono importantissimi nella trilogia popolare, e nella Traviata in particolare, come si è detto a proposito del Preludio. Quelli che Verdi richiede sono assolutamente essenziali. In questa scena si manifesta un'altra possibilità tipica dell'opera: quella di creare contemporaneamente e fare interreagire due spazi diversi. Nel teatro di prosa si può tutt'al più far dire qualche parola dietro le quinte: nell'opera , invece, si può far sentire della musica che proviene di lontano, aprendo così uno spazio alternativo a quello visibile sul palcoscenico, uno spazio che non si vede ma si sente, attraverso un principio molto suggestivo di incrocio sensoriale che corrisponde a quello, relativo al tempo, descritto nel brindisi. Questa prospettiva spaziale può essere sfruttata in modi differenti per un fine puramente decorativo o consapevolmente drammatico. Il valzer, qui, è ben diverso da quello del brindisi, che non era danzato ed era molto melodico e animato da un calore sentimentale proveniente dalla prima frase del canto di Alfredo. Questo valzer, invece, suonato dalla banda interna, è secco, meccanico, oggettivo. L'altro era straordinariamente scorrevole; questo ha un andamento saltellante, spezzato, ansioso. E' musica simile a quella ascoltata nell’introduzione: spinta in avanti da una sorta di affanno o , meglio, di meccanica inesorabilità. Si crea, quindi, un contrasto forte con il brindisi, che si sviluppava, così, organicamente e liberamente nella sua spirale roteante. Questo valzer , invece, assomiglia alle danze di Rigoletto, anche se è più stabile perché fondato su di un tema ripetuto più volte , inframmezzato da una idea secondaria (batt.507) e addirittura sviluppato (batt. 522). Non ha la funzione di disorientamento labirintico che aveva in Rigoletto, ma quella di creare uno spazio alternativo alla scena, sì: anche qui , oltre il primo piano, si attiva uno sfondo. Soprattutto, si crea di nuovo un clima di ansia, ancora più forte di quello dell’inizio della scena: tutto pulsa, saltella, in un grande affanno generale. Siamo nel regno del meccanico. Ma questo non è solo uno sfondo scenografico: è una dimensione esistenziale. E’ il mondo di Violetta, è la vita che lei è costretta a fare, l’ansia del

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piacere che stordisce, aliena, svuota, disorienta; è lo scorrere di una vita dissipata, che non lascia tempo per pensare, e offre, per unica ricompensa, un senso di fredda solitudine. Il tempo è il protagonista di questa vicenda esistenziale, il principio superiore cui tutto è subordinato. Nel libretto, le allusioni al tempo sono continue . «Dell’invito trascorsa è già l’ora /Voi tardaste…giocammo da Flora/ e giocando quell’ore volar». I primi versi della Traviata introducono l’immagine del tempo che scorre, rende effimero il piacere del gioco, travolgente il ritmo del divertimento. La brevissima prima scena è una sintesi di questo tema, assolutamente centrale. Violetta dice: «Flora, amici, la notte che resta/ d’altre gioie qui fate brillar», ossia, non perdete tempo, riempite il tempo che resta con il piacere, che è farmaco atto a sopire i dolori «Al piacere m'affido , ed io soglio / con tal farmaco imali sopir». Gli altri confermano: «Sì, la vita s’addoppia al gioir». Quindi, dietro questo piacere della vita sfrenata ci sono i mali, c'è il dolore. Ecco perché questa musica, così sfrenatamente allegra, non è per nulla liberatoria, ma corre ansiosa nel tentativo disperato di afferrare il tempo che fugge, la giovinezza che sfiorisce, e lascia poco tempo per godere i piaceri dell'amore. Raddoppiare la vita nel piacere: il tempo che ci è concesso è insufficiente, bisogna riempirlo, senza sprecare neppure un minuto. Il pensiero è totalizzante: le voci sono incapsulate nei disegni ritmici e melodici dell’orchestra che porta avanti il discorso. Nella festa che apriva Rigoletto, le voci erano invece completamente staccate, il che accentuava il carattere voluto di scollamento interno, disarticolazione spaziale, energia centrifuga, mentre le musiche di danza, nel primo atto della Traviata, sono fortemente accentratrici, centripete: tutto converge nel flusso galoppante della musica che rappresenta l’ansia di vivere e di riempire il tempo con lo stordimento del piacere. Le danze di Rigoletto articolano lo spazio, quelle della Traviata rendono l'idea del tempo che fugge. Questa corsa contro il tempo, che caratterizza il ritmo di queste danze, è proiettata verso il futuro, in quanto rappresenta l’ansia di tener dietro al ritmo della vita e di sfruttarne al massimo le offerte di piacere. Il procedere della musica di festa, nella Traviata, è lineare e rettilineo, nel Rigoletto è a linea spezzata, a zig-zag. Nel primo caso rappresenta una corsa, nel secondo un moto simile alle palle del biliardo che si incrociano e rimbalzano da punti diversi e lontani.

Anche qui il rapporto dello sfondo con il primo piano non è diverso da quello sperimentato in Rigoletto: c’è un conversazione che isola i personaggi al proscenio. Appare un dramma: Violetta si sente male, il coro le chiede che cosa ha, spezzando le sillabe delle parole con pause. Il canto si modella sulla parte strumentale: ne accoglie il carattere ansimante, e sembra far parte dell'ingranaggio. I personaggi ne sono quasi posseduti: di qui, l'ansia espressa dal canto di Violetta e poi di Alfredo. Mentre il coro esce , il valzer ha un secondo episodio, in Sol minore, fatto di bizzarre successione di arpeggi e scalette puntate discendenti. Poi riprende il tema iniziale. Violetta si guarda allo specchio: «Oh qual pallor!». Questo gesto è importantissimo: Violetta vede l’immagine riflessa del proprio destino. La malattia prende forma visibile e coscienza di sé. Lo stesso gesto ritroveremo nell'ultimo atto, quando Violetta sarà ormai moribonda. E' bellissimo che il dramma si svolga su quello sfondo di valzer scanzonato, che è una controfigura sfacciata del dramma. La musica è fatta di impulsi, piroette, colpi, salti, guizzi, impennate, fanfarette. Tutto il dialogo tra Alfredo e Violetta si svolge in questo modo: parole uniformate in valori ritmici, sovente uguali, su note ribattute. Violetta ha valori ritmici brevi; Alfredo canta note più lunghe: lei è come una macchina, in lui c'è il sentimento che preme e si esprime, con canto un poco più spiegato e melodico (v. ad es. «custode veglierei…», «perché nessuno al mondo v'ama...»). Poi, nell'ultima parte, anche lui si lascia prendere dall'ansia meccanica di Violetta con un andamento arido, senza melodia, senza calore di sentimenti. Il valzer, così, rende contemporaneamente sia la festa con il suo carattere materialistico, sia la solitudine di Violetta, accomunando entrambi in un senso di ansia. Da notare che il valzer scatta proprio nel momento in cui Violetta si sente male: «Usciamo.. Oh Dio!». Si noti come, alle parole «Sto meglio», il valzer si trasformi in un moto ritmico molto affannoso, due crome legate seguite da un'altra croma, sorta di sospiro ansimante più volte ripetuto, solo interrotto alle parole «Ha forse alcuno cura di me» da un nuovo disegno più

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martellato, per poi riprendere sino alla fine l'andamento ansimante di prima. Tutto è in continua trasformazione, come animato da un’ inquietudine che non ha riposo. La conversazione è molto fine e profonda: vero capolavoro del libretto di Piave. Violetta si sente male, gli ospiti s’informano, la sofferenza è visibile su sul volto, Alfredo la nota: «Voi soffrite». Chiede di esser lasciata sola, si guarda allo specchio: «Qual pallor!» Alfredo interviene: smettete questa vita. «Come faccio?» risponde Violetta, e lui : «Se mia foste custode io veglierei pe’ vostri soavi dì». La frase la colpisce come un fulmine: «Che dite? .. ha forse alcuno cura di me?» «Perché nessuno al mondo v’ama» risponde Alfredo dicendole di essere l’unico ad amarla. Violetta, incredula, ride, Alfredo le chiede se ha un cuore, lei risponde : forse sì , ma perché me lo chiedi? E alla fine gli domanda se è da molto che l’ ama. In questa conversazione, sullo sfondo delle danze sfacciate, scorrono il fantasma della malattia, l'affanno della sofferenza fisica, l' immagine di una vita alienata concretamente presente nella sfacciataggine del valzer lontano e, in primo piano, nelle parole di Violetta, il dramma della solitudine, la dichiarazione d’amore, l'atto di respingerla ridendoci su, quindi la rivelazione di un sentimento intimo: l’idea dell’amore. C'è, dunque, un alto tasso d’ informazione in pochi versi. Da notare, quindi, la capacità della musica teatrale di esprimere contemporaneamente cose diverse, creando interferenze tra elementi contrastanti: qui, il valzer ansioso, che le coppie danzano nell’altra sala, fa da sfondo al malore di Violetta che si sente soffocare, come se la corsa indiavolata di quel ritmo di danza le togliesse il respiro. L'immagine che ne deriva è quella di una vita che corre su di un ritmo indiavolato, verso la propria autodistruzione, come le dice Alfredo: «in cotal guisa v'ucciderete». Il valzer della banda fuori scena e il canto meccanizzato, ossia dominato da un principio d’ansia, colgono benissimo questo doppio significato. Il valzer acquista allora qui un valore simbolico di corsa incontro alla morte, rappresentazione del tempo che fugge verso un esito tragico. 4)Andantino «Un dì, felice, eterea», 3/8 in Fa maggiore. Il testo assegna una battuta ad Alfredo, una a Violetta, entrambe di otto settenari: dichiarazione d'amore dell'uno seguita dal rifiuto dell'altra. Verdi compie, però, un percorso autonomo attraverso il testo e, ripetendo le parole, aggiunge una fase sentimentale e psicologica ulteriore: al momento della dichiarazione e a quello del rifiuto fa seguire quello dell’ avvenuta conquista. Questo succede grazie alla musica, con le parole ripetute. Così il libretto s’invera nella musica e il dramma acquista la sua completezza: non ha senso quindi leggere e giudicare un libretto d'opera senza tener conto del risultato finale che, attraverso la musica, esso produce e che può essere molto più complesso di quello suggerito dalle parole. Nel testo di Piave la situazione restava irrisolta; Verdi la risolve, facendoci vedere che Violetta, dopo l'iniziale rifiuto, cede all'amore di Alfredo e, attraverso la musica, gli confessa il proprio. Come sempre succede nell'intonazione dei testi, il compositore individua alcune parole-chiave che determinano l'impostazione espressiva del pezzo: le parole qui sono «eterea» «ignoto amor» e «misterioso». La melodia esprime, infatti, un sentimento di fascino misterioso per una creatura eterea cioè aerea, senza peso, romanticamente incantata, che ha fatto innamorare Alfredo a prima vista. C'è qualcosa di titubante in questa melodia, che inizia per incisi isolati «Un dì....felice...eterea...» tutte parole divise da pause. Verdi avrebbe anche potuto dare alla dichiarazione di Alfredo un accento più irruente, più appassionato. Invece sceglie la titubanza dolcissima (si vedano le pause che spezzano il canto dei primi quattro versi) per un sentimento ignoto: quello del primo amore. Dunque Alfredo appare proprio «modesto e vigile», riservato e attento, come Violetta lo definirà nell'ultima scena dell'atto (Notare come certi aggettivi qualificanti siano assunti dal compositore come punti di riferimenti essenziali nella caratterizzazione dei singoli

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personaggi, attraverso una lettura molto attenta del testo, e la relativa capacità di tradurre in musica sottili sfumature espressive). Da notare la salita della melodia verso il suo culmine, costituito dalla seconda strofa «Di quell'amor ch'è palpito». La prima strofa prepara la seconda e questa si dischiude con una melodia spiegata che estrae il ritmo di valzer dall'accompagnamento precedente e lo esalta : il canto plana stupendamente dall'alto verso il basso, si inflette in minore col Re bemolle di «misterioso», traducendo con esattezza l'ombra del mistero. La melodia qui si ferma in titubanti note ribattute, il tutto cantato piano e con grazia, perché questa è la dote che caratterizza i modi di Alfredo e colpisce Violetta. La melodia di «Di quell'amor» ritornerà altre volte nel corso dell'opera come ricordo di questo momento che, facendola innamorare, cambia la vita di Violetta: è la melodia più importante di tutta la Traviata in cui si annida il concetto dell'amore universale. Essa rappresenta l'immagine sublimata non dell'amore astratto ma della persona che lo ha determinato nell'animo di Alfredo: Violetta, identificata nel ritmo di valzer. E' lei la fonte da cui sgorga questa forza che si manifesterà come potenza benefica e irresistibile nel secondo atto. Da notare che il concetto dell' «amor ch'è palpito» non è contenuto nel testo di Dumas: ed è invece il concetto fondamentale della Traviata quello che permette alla commovente vicenda di una ragazza di porsi come l’epitome dell'amore e del dolore umano, cioè di elevarsi ad un valore simbolico per tutti. Violetta risponde in un modo assolutamente imprevedibile alla dichiarazione di Alfredo: usa infatti il suo timbro acuto di soprano per dare alle parole spezzate dalle pause («fug-gitemi» , «amista-de») un carattere pungente, freddo, quasi duro. Come un riccio che si chiude in sé stesso, lei respinge le profferte di Alfredo, quasi pungendolo con i propri aculei melodici (da notare la nota acuta e accentuata su «fùg-gitemi o amista- dè io v'offro» che la voce di soprano rende particolarmente penetrante). Le parole sono addirittura deformate, spezzate, meccanizzate: così Verdi rende lo straniamento del personaggio rispetto alla condizione nuova che le si prospetta per la prima volta: quella di vivere l'amore vero. E' la prima volta che Violetta canta una melodia tutta sua: sinora si era presentata nella confusione dei ballabili o nella collettività del brindisi. Qui , balza al proscenio, nella propria individualità che è, per ora, quella di un usignolo meccanico. A queste colorature, o gorgheggi, Verdi dà un senso voluto d’ innaturalezza, di disagio, di nervosismo. La chiave per capire questo canto di Violetta è in Dumas: Margherita, nel momento in cui respinge l'amore di Gaston, si definisce «una donna nervosa, ammalata, triste, o allegra, di un'allegria più dolorosa della tristezza». Il flauto raddoppia il canto con il suo timbro freddo: Violetta ha una esistenza stravolta per la vita che fa, e il suo canto è quanto di più artificioso, innaturale, fittizio ci possa essere; brillante prescrive Verdi e leggero, con un effetto che deve essere possibilmente raggelato attraverso i gorgheggi meccanici. Violetta deve rinascere alla vita, cioè al canto spianato e melodico che nasce dal suono della parola, come avverrà sin dall'inizio della sua trasformazione, che prende il via già alla fine del duetto. La risposta di Violetta non turba Alfredo che incalza: »Oh amore,/ misterioso, altero,/ croce e delizia al cor». A questo punto lei cede: la sua resistenza comincia a vacillare in «non arduo troverete dimenticarmi ancor», e ancora di più quando ripete le parole «dimenticarmi allor» sulla melodia di «croce e delizia». Ecco un momento che documenta in modo inequivocabile la possibilità della musica teatrale di dire cose diverse dalle parole: Violetta esorta Alfredo a dimenticarla, ma con la musica gli dice che lo ama, si unisce a lui cantando la stessa melodia. Le voci, ora, sono dunque allacciate, e Verdi insiste nella rappresentazione dell'avvenuta conquista: subito dopo, infatti, affida a Violetta alcuni slanci dolcissimi verso l'acuto (arpeggi ascendenti) e abbandoni ripiegati e sospirosi verso il basso ( terzine acefale di crome discendenti per cromatismi), ondate di melodia cullante e dolce, seguite da singhiozzi. Felicità e dolore, delizia e croce. Alla fine, i gorgheggi freddi e pungenti di lei ritornano per una battuta, ma sono come relitti, frammenti di una maschera ormai deposta: Violetta ha svelato per la prima volta, incredibilmente, il volto della donna innamorata. Da questo momento la sua esistenza è sconvolta, come vedremo nell'aria finale del primo atto. La maschera del canto brillante lascia, a poco a poco, spazio al dolore: quel «dimenticarmi» è una rinuncia a priori all’amore, rinuncia malinconica,

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dolorosa, piena di speranza delusa: che cosa sarebbe per me un vero amore… pensa con nostalgia. Questo lo rivela la musica. Questo episodio costituisce il cuore melodico dell’ Introduzione. E' il momento del sentimento che, per la prima volta, emerge dalla frenesia edonistica della festa. L'effetto, anche teatrale, è sorprendente. Il valzer che risuonava nell’altra stanza, infatti, cessa: sul fondo della scena si vedono passare le figure degli invitati, ma la musica se ne disinteressa. Finito il duettino, la banda interna riprende di colpo a suonare, e Verdi appunta la sua attenzione sui sentimenti dei personaggi, isolandoli al proscenio, come se fossero soli. Già sperimentata nel Rigoletto, questa compresenza tra primo piano e sfondo è usata qui con una tecnica e prospettive drammatiche differenti. Là erano interferenze continue tra primo piano e sfondo: qui c’è una divisione assoluta. Nel Rigoletto il mondo del primo piano e quello dello sfondo erano lo stesso mondo, qui sono due mondi differenti: quello della verità sentimentale in primo piano e quello dell’ alienazione nello sfondo. Lo spazio nel Rigoletto era, dunque, solamente articolazione spaziale, qui è invece articolazione esistenziale che nasce nel momento in cui si sente per la prima volta la musica sullo sfondo. Si crea quindi il contrasto tra due mondi, l’esteriorità e l’interiorità. Le leggi che regolano la drammaturgia dell'opera, infatti, non sono mimetiche: la realtà non viene imitata ma colta nella sua essenza e riprodotta in chiave analogica. Così, la musica d'opera può attivare o disattivare uno sfondo sonoro a suo piacimento, secondo le esigenze drammatiche. Essa gioca con lo spazio: prima lo sfondo c'era, adesso nel duetto non c'è più, tutto ciò che circondava Alfredo e Violetta viene dimenticato, poi lo sfondo sonoro della banda diventa di nuovo attivo. Attraverso la musica, lo spettatore dell'opera accede a una seconda verità, libera dalle leggi dello spazio e del tempo, ma più vera perché più interiore. Nella trilogia popolare di Verdi l'ambiente e gli individui sono alternativi: si rappresentano o l'uno o gli altri. Mai insieme. Solo a partire dal Un ballo in maschera Verdi inserirà i personaggi in un ambiente, cogliendo insieme gli uni e l'altro. Si pensi all'enorme importanza che l'ambiente ha nella Forza del destino, Don Carlo, Aida. Qui no: ciò che interessa il compositore è il dramma interiore di individui proiettati in una violenta luce di palcoscenico. La musica gioca con lo spazio e lo domina totalmente, così come domina il tempo. Si noti, infatti, la differenza enorme che, improvvisamente, viene a crearsi tra il tempo incalzante, rapido della festa e quello lento della parte centrale del duetto che, recitato, passerebbe in un attimo, mentre invece viene dilatato attraverso la musica, che scava nei sentimenti dei personaggi e li definisce come individui. 5) 1° tempo «Ebben che diavol fate... » ¾ Mi bemolle maggiore Finito il duetto, riprende improvvisamente il valzer fuori scena, «Allegro brillante», ed è come un ridestarsi da un sogno, tornando bruscamente alla realtà della festa. Il contrasto è, di nuovo, nettissimo. Violetta e Alfredo ritornano a essere come due fuscelli che galleggiano sull'onda ritmica del ballo, suonato dalla banda fuori scena. Lo spazio si allarga di nuovo; l'obiettivo, che era calato sulla coppia con un efficace primo piano, qui s’ allontana e inquadra di nuovo tutta la scena. Il tempo, che aveva rallentato , qui accelera di nuovo. Il suono , che era così dolce e intimo nel canto dei due, qui si fa di nuovo chiassoso, anche se proviene di lontano. Così, la musica fa teatro: un teatro interiore, che gioca liberamente con lo spazio e il tempo. Questo primo atto offre un disvelamento progressivo della interiorità della protagonista. La tecnica è tipica della drammaturgia verdiana: svelare progressivamente i personaggi, la loro storia, le loro relazioni con gli altri. Tutto avviene sempre per accenni a fatti che incuriosiscono lo spettatore, e preparano i disvelamenti successivi. Si crea, così, un sistema di promesse e di attese che tende la drammaturgia dell’opera da capo a fondo. Qui è come in Rigoletto: la protagonista viene rivelata a poco a poco, colta prima nella confusione generale, poi nel brindisi, poi nel dialogo con Alfredo sulla ronda trascinante del valzer, indi nel duetto, infine nella sua scena e aria

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conclusiva. Violetta viene sempre più in primo piano, si apre a successive rivelazioni. Il primo atto appare, così, come una carrellata su Violetta. Tutto viene a poco a poco preparato e poi rivelato. Per esempio, il canto di Violetta, nella sua triplice natura di canto gorgheggiato, canto spianato e canto declamato, compare già qui. I gorgheggi del duettino con Alfredo ci sorprendono: chi sarà mai colei che gorgheggia in questo modo? Perché canta così, opponendo ad Alfredo quella serie di aculei musicali? Il triplice registro stilistico del canto di Violetta ha una funzione precisa in rapporto alla rappresentazione della sua esistenza: il belcanto acrobatico rappresenta l’aspetto mondano della vita alienata; il declamato è l’azione, il rapporto pratico con il mondo e le situazioni; il canto melodico e spianato è l’espressione del sentimento. Durante la ripresa del valzer, quando Violetta dà un fiore ad Alfredo e gli dice di riportarlo l'indomani, notiamo una modifica: le voci non sono più prigioniere del ritmo meccanico, che ad un certo punto viene alterato, ma si lanciano in effusioni appassionate («Io son felice» «D'amarmi dite ancora?» «Oh quanto v'amo!»), sino al saluto definitivo: «Addio». Dunque i pezzi 3) 4) 5) danno luogo ad una forma tripartita: A-B-A ossia valzer, duetto e valzer. Il cuore melodico del pezzo in cui si rappresenta, con la meravigliosa effusione canora sopradescritta, la vita del sentimento, è dunque imprigionato tra le due parti esterne, come la perla tra le valve di una conchiglia. La forma rappresenta, quindi, per analogia , la situazione drammatica della protagonista la cui anima, con la sua possibilità di amare, è prigioniera di un mondo alienato nella ricerca del piacere e di una vita bruciata. Analogamente, nel canto di Violetta, la melodia spiegata deve farsi largo tra le maglie dei vocalizzi acrobatici, simbolo della sua esistenza stravolta: conflitto musicale e psicologico che assumerà una particolare potenza nella scena finale del primo atto. Anche il brindisi era un valzer. Quindi il primo contatto tra Alfredo e Violetta avviene entro il ritmo di valzer. E’ lei che irradia il valzer dalla sua persona: il valzer è l’essenza ritmica della sua personalità incantatoria, dolce abbandono che promette oblio. Il cuore dell’atto è quindi sotto il segno del valzer. Prima e dopo, con i ritmi di galop, ci sono andamenti binari. Ma il valzer è anche quello meccanico della banda della festa, la controfigura del brindisi e del tena di «Croce e delizia». Quindi il valzer ha due volti nella Traviata : esprime la personalità di Violetta nel suo aspetto magnetico, incantatorio per gli spettatori e per Alfredo, e la mondanità esteriore degli invitati. Da chiassoso si fa intimo e viceversa, stabilendo un contatto, una continuità antifrastica tra ambiente e personaggi. Il valzer è meccanico nella banda, roteante nel brindisi, intimo e poetico nel dolce beccheggio dell’Andantino. 6) Allegro vivo “Si ridesti in ciel l'aurora”, 4/4, la bemolle maggiore Con la Scena VI gli invitati irrompono nella sala per salutare Violetta sul far del mattino: dicono di andarsi a riposare, per poter tornare a godere. Riascoltiamo, in La bemolle maggiore, il tema A) della Introduzione, con il suo trillo iniziale: poi la musica cambia, si lancia in un crescendo sfacciatamente allegro e melodicamente banale, ma perfettamente adatto a rappresentare il carattere e i gusti di queste persone. La ripresa del tema, già ascoltato a distanza, funziona come un segnale: rimandando all’inizio dell’opera, chiude in unità il blocco della festa. E’ questa un’altra possibilità dell’opera: stabilire relazioni formali tra momenti distanti attraverso la ripresa della stessa musica, dando a queste relazioni significati diversi. Tutto ciò che abbiamo ascoltato in mezzo viene, in un certo senso, travolto, o immerso in questa dimensione festiva. Gli invitati entrano con una ventata che travolge tutto ciò che si è sentito prima. La ripresa della musica d’inizio chiude l’introduzione in simmetria. Verdi cura molto questo ordine formale. E’ la quarta volta che risentiamo la musica di galop che si alterna con i valzer del brindisi, della banda, e del duetto. Tutto ruota quindi su passi di danza, ogni brano è una danza: questo conferisce alla scena un andamento roteante, frenetico nel senso del tempo che porta avanti il movimento drammatico con uno slancio continuo e progressivo. Il crescendo di «Si ridesti in ciel l’aurora» è un ulteriore slancio cinetico e dinamico. La didascalia sulla partitura dice: Tutti rientrano in tumulto riscaldati dal vino e dalle danze, ossia sono accalorati e un po’ brilli. Il crescendo è segno di questa eccitazione alcolica. La didascalia è

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illuminante per comprendere il senso di tutte queste danze: i trilli iniziali del can-can sono tappi di bottiglia che esplodono, fermenti intrattenibili di eccitazione alcolica: tumulto causato da vino e danza. Il valzer del brindisi è a metà strada tra l’esperienza esteriore e quella interiore. E’ l’interiorizzazione della festa collettiva, è l’impressione di roteante ebbrezza che la serata lascia negli animi, e che lo champagne, spumeggiante nei bicchieri, lascia immaginare come allettante promessa. Quindi questa introduzione è concepita come un’ alternanza tra esteriorità e interiorità, un andare dentro gli animi dei personaggi e rimbalzare di nuovo all’esterno. Gli affondi nell’interiorità sono sempre più profondi : dal brindisi, al duetto, all’aria di Violetta, e riguardano essenzialmente lei. Il guscio che imprigiona l'animo di Violetta si rompe davanti a noi che veniamo a conoscere in successione: il suo fascino incantatorio, la presenza incombente di una malattia, la brillantezza mondana espressa dai gorgheggi, il cuore che batte sotto la maschera della donna perduta (ultima parte del duetto), l’entusiasmo per il nuovo amore che è già nella musica, ma ancora nascosto e come protetto dalla domanda di Alfredo che chiede conferma («D’amarmi dite ancora?»). Il tutto, spinto sull'onda di una musica che vuole rappresentare l'eccesso, lo stordimento, l'allegria sfrenata dell'ambiente che circonda Violetta. «Molto si rise e bevve e mangiò a quella cena – scrive Dumas (p. 81) – Presto l'allegria toccò gli estremi limiti, e quei motti che certa società trova spiritosi, e macchiano sempre la bocca che li pronunzia, balzavano fuori tratto tratto, fra gli evviva di Nannina, di Prudenza, di Margherita». Di che qualità sia questa società che fa certi discorsi, è chiaramente indicato in queste frasi. Noi scopriamo che in Violetta ci sono tre principi: quello del piacere, la consapevolezza della solitudine e della malattia, quindi del fatto che un termine è posto alla sua vita, infine l’amore, che ha per lei un valore doppio rispetto a quello di una persona normale. L'amore le procura «croce e delizia», come succede a tutti; ma, in più, l'amore per lei è garanzia di ritrovata umanità: attraverso l'amore, cessa di essere una creatura alienata e diventa una vera donna. Sotto la vita brillante della mondana, che s' inebria di luci, canti, suoni, vino, cibo, feste e stordimenti vari per dimenticare la solitudine, c’è un dramma della solitudine segnato dalla malattia e da un destino crudele: quello di non aver mai trovato colui che le avrebbe permesso di esprimere la sua capacità di amare. La dinamica del primo quadro s’impernia esattamente su questo principio: alternanza di maschera e molto: Verdi comincia a gettare un paio di sguardi sull’interiorità di un personaggio ancora tutto risolto nell’ esteriorità della brillantezza mondana. Violetta appare sin dall’inizio, e resta in scena con continuità, venendo sempre più in primo piano, sino alla grande aria finale, in cui è inquadrata con folgorante evidenza: ma non per questo si rivela appieno. La sua non è un' aria di sortita in cui c’è un riassunto del personaggio e della sua situazione interiore: è un punto di partenza che ha la funzione di farci conoscere qualcosa di più sulla sua vita e sulla sua storia. Violetta rivela un conflitto interiore, pone i termini di una vicenda drammatica nel contrasto tra il richiamo dell’amore e il desiderio di soffocarlo, farlo tacere, negarlo attraverso l’autoconvinzione che l’amore è, per lei, un' esperienza preclusa, e che l’unica cosa da fare è soffocare la sua voce attraverso l’ebbrezza dei gorgheggi, il tuffo nel divertimento mondano. N.3 Aria di Violetta. E' una grande scena formata dalla solita forma di quattro pezzi, corrispondenti al mutare dei versi: Scena: versi sciolti «E' strano» , recitativo Cantabile: settenari «Ah forse è lui», Andantino Tempo di mezzo: versi sciolti «Follie! Follie!», recitativo Cabaletta : ottonari «Sempre libera» , Allegro brillante. La forma tradizionale, però, è profondamente rinnovata da una tensione interna che la drammatizza: ogni momento è concepito come scontro di elementi contrastanti, pensieri in evoluzione, stati d'animo che si susseguono con sbalzi di umore, sino al grande conflitto drammatico della cabaletta.

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In questa drammatizzazione dell'elemento lirico-contemplativo sta la peculiarità della drammaturgia musicale di Verdi. 1) Scena. Recitativo.. Nel recitativo è espresso il dramma di Violetta: incertezza se accettare o no l'amore di Alfredo di cui non riesce a togliersi di testa le parole, scolpite nel suo cuore. Il recitativo esprime meravigliosamente il dubbio, l'alternanza di domande ed esclamazioni. Non è un recitativo convenzionale: le note sono scelte in modo da dare alle parole una grande impressività musicale: le varie frasi si ricordano come se fossero melodie formate, tanto sono appropriate e belle nella loro esattezza espressiva. E' il primo esempio di un lavoro sul declamato che Verdi conduce in profondità nella parte di Violetta. Esattezza nella declamazione: Verdi ha alle spalle Rigoletto e, anche se nella Traviata il declamato non assume la stessa importanza, questo recitativo esce dalla convenzione e si adatta perfettamente alle parole. Il centro irradiante del recitativo è la frase «in core scolpiti ho quegli accenti»: veramente scolpita è la frase musicale, con il suo ritmo puntato di breve-lunga. Anche le altre frasi , però, sono molto esatte nella declamazione. Violetta non riesce a togliersi dalla testa le parole di Alfredo. E considera il suo dilemma: deve accettare un vero amore, questa gioia che non ha ancora conosciuto, ossia «essere amata anmando», oppure sdegnarla, rifiutarla per continuare la sua vita di «aride follie», parola su cui indugia, allungando il La bemolle acuto. Il recitativo finisce con un lento vocalizzo: è una cadenza convenzionale , ma utilizzata da Verdi per dare alla frase un senso di languore. Violetta si sta abbandonando all’ evocazione dell'amore. Comincia qui il suo dramma esistenziale. Aride follie: questa frase spiega il significato del valzer della banda precedente, espressione di divertimenti sfrenati e vuoti, ritmi indiavolati che stordiscono e lasciano il cuore freddo, gelato, arido, sovrapponendosi alla sofferenza con indifferente, sfacciata allegria nel suono secco della banda. Ci sono, nel libretto, alcune frasi che illuminano il senso della musica di passi magari lontani: questo significa che il compositore ha sempre in mente tutto il libretto, non lo intona scena per scena ma, quando compone, pensa al libretto nella sua totalità, e intende ogni brano come risultante di forze drammatiche e tensioni espressive che s' incrociano, proveniendo da punti lontani. C'è dunque un sistema di coerenze che stiamo verificando, e che costituisce una rete di significati da cui nasce la potenza espressiva dell'opera. 2) Andantino «Ah forse è lui», 3/4, Fa minore. Con questo pezzo prosegue, dopo il duettino, il viaggio nell'interiorità della protagonista che sarà esplorata sempre più a fondo, nel corso dei due atti seguenti. Quest’aria infatti è decisiva per precisare il ritratto della protagonista, raccontandocene le storia. Il testo è tratto dal dialogo tra Marguerite e Armand, alla fine del secondo atto della commedia di Dumas, ma è molto più informativo. In particolare il monologo di Piave porta in primo piano le considerazioni sull’infanzia di Margherita e , soprattutto, l'idea dell' amore come palpito dell'universo intero, principio di vita universale. Senza contare l'effetto drammatico e psicologico introdotto da Verdi con la ripresa, nella cabaletta, del canto di Alfredo, che esplicita il conflitto dell'animo di Violetta in una maniera straordinariamente pregnante. In due strofe veniamo a sapere che Violetta ha sempre vagheggiato la possibilità di un vero amore e che, sin da bambina, ardeva in lei il desiderio di amare e che a quella fantasticheria si abbandonava con tutto il suo essere. Leopardiano sentimento di speranze giovanili: «O speranze, speranze: ameni inganni | della mia prima età! sempre, parlando, | ritorno a voi ». (Le rocordanze): questo è lo stato d’animo di Violetta. Ora, forse, Alfredo è proprio colui che l'anima aveva immaginato, nella sua giovinezza.Violetta si stupisce, quindi, moltissimo di averlo trovato, quando ormai non lo sperava più. La meravigliosa melodia in Fa minore di «Ah forse è lui» rende questo

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stupore con un senso di titubanza, incertezza, incredulità, attraverso le pause che dividono le sillabe, quasi che Violetta non osasse pronunciarle. L' abbandono dolcissimo (prescrizione di Verdi) al vagheggiamento amoroso, segue nel secondo inciso, legato, «lui che l’anima»; poi un'accelerazione ansiosa nella terzina «solinga» riporta all'abbandono di «tumulti» con il fremito della doppia appoggiatura. Gli intervalli sono piuttosto ampi: ottava ascendente su «lui che»; sesta minore ascendente su «tumulti»: questo denota agitazione, emozione interiore, ribadita anche dal contrasto tra fraseggio staccato e legato, mentre l'orchestra accompagna con il classico andamento a chitarra del 3/8 affidato agli archi in pianissimo. Cè quasi un ricordo dell'aria di Susanna «Deh vieni, non tardar» nel quarto atto delle Nozze di Figaro. Questo per dire con quale finezza Verdi lavora la melodia e la sviluppa, attraverso contrasti interni che sono divenuti ormai assolutamente naturali nel loro raccordo. Le sue sono sempre melodie dinamiche. E anche questa tende verso un culmine che si raggiunge nelle battute seguenti. Su «Lui che modesto e vigile» Violetta rinuncia momentaneamente alla melodia: una progressione di note ribattute, che crea tensione, va in crescendo sino al forte , si ritrae , quasi per lo spavento di parole impronunciabili, sul pianissimo (ppp) di «destandomi all'amor» e prepara l'effusione melodica di «Ah quell'amor ch'è palpito», come il gesto di un tuffatore che, prima di tuffarsi saltella sul trampolino per prendere lo slancio. La forma dell'aria à couplets con refrain , ossia strofica con ritornello, è tipicamente francese. Questa progressione parte dal pianissimo su «lui che modesto e vigile» cresce su «all'egre soglie accese» arriva al forte su «e nuova febbre accese» per ridiscendere nel pianissimo di «destandomi all'amor», scelta significativa perchè l'amore, per Violetta, è un fatto assolutamente intimo, privato, un evento che esplode nella segretezza del cuore. Viene in mente il verso di Montale: «...il cannone di mezzodì più fioco del tuo cuore...». Da notare che il canto presuppone un ritmo di valzer che non viene raccolto dall'accompagnamento. Questo valzer mascherato rende molto bene lo stato d'animo di Violetta, perduta nel vagheggiamento amoroso. Il passaggio alla melodia dell'«amor ch'è palpito» è segnato dalla transizione dal Fa minore al Fa maggiore, con effetto luminosissimo. Verdi ama accostare bruscamente il modo maggiore e il modo minore , sfruttandone tutto l'effetto di passaggio dal buio alla luce e viceversa. Da notare che la melodia verdiana, pur essendo memorabile e "facile", è lavorata con sottilissima cesellatura, attraverso contrasti interni, tensioni e distensioni, varietà di fraseggio (staccato, legato, semistaccato) e di dinamica (piano forte crescendo ecc: in questo pezzo ci sono tre tipi di piano indicati con p pp ppp). Il lavoro degli interpreti, cantanti e direttore d'orchestra, deve essere, quindi , molto minuto e attento.

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Questo stupore, quasi infantile, si collega dal punto di vista espressivo, allo stupore delicato e tenero con cui Alfredo aveva iniziato la sua dichiarazione, manifestando l'emozione per il primo amore. I due personaggi s’ incontrano quindi nell'affinità dell'ethos melodico. Anche la melodia di Alfredo iniziava in modo trepidante, nell'alternanza di staccato-legato e, attraverso una progressione ascendente, conduceva all’ effusione della melodia principale che Violetta ripete in uno scambio di materiale significativo per indicare l’avvenuta unione delle due anime. Ma, se per Alfredo l'amore ha un certo significato, per Violetta ne ha uno enormemente maggiore. Attraverso l'amore, la donna perduta recupera l'innocenza: tutto il passato – e quale passato! – viene cancellato. Questo ci dice la melodia purissima che Verdi le affida, facendola sfociare nella prima ripresa di «A quell'amor ch'è palpito», già ascoltata nel duetto. Splendido è il passaggio da Fa minore a Fa maggiore, con un effetto di luminosità improvvisa. Sono questi gli accenti che Violetta ha scolpiti nel cuore, e a cui si abbandona, mentre la sua voce è alonata dal clarinetto che, con il suo soffio color pastello, le crea intorno una dolce risonanza timbrica: il ricordo si trasforma in fatto vitale che agisce in lei e la riscalda nella sua solitudine.

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Riprendere a distanza musica già ascoltata non ha quindi solo una funzione segnaletica che permette, alla coscienza dell'ascoltatore, di chiudere certe forme, serrando in unità interi blocchi scenico-musicali, come s'è visto per la stretta dell'introduzione; ha anche un’ enorme funzione drammatica e psicologica. Il teatro di prosa non può far questo; solo l'opera o il cinema, attraverso la riproposta di musica già nota o di immagini già viste, possono rendere presente il passato, facendolo rivivere con una forza impressiva sconosciuta alla parola. Il motivo di reminiscenza, come è stato definito, ha una grandissima funzione nel melodramma dell'Ottocento: Wagner, sistematizzando questo procedimento nell'impiego dei motivi conduttori, affiderà proprio alla possibilità della musica di richiamare il passato la struttura portante delle sue costruzioni musicali. La ripresa di «quell’amor ch’è palpito» spiega il passo del recitativo precedente: «in core scolpiti ho quegli accenti». Il cuore di Violetta è stato trafitto dalle parole e dalla melodia di Alfredo in modo imprevedibile, improvviso, lacerante: una spaccatura ha aperto la dura scorza del suo animo, che la vita di follie aveva reso insensibile, attraverso la repressione del desiderio d’amore coltivato sin da bambina. Dunque in quest’aria viene fuori il represso: la melodia «di quell’amor ch’è palpito» assume una funzione psicanalitica. L’intuizione di Verdi e Piave è quindi modernissima: la scoperta del represso avviene rievocando l’infanzia. E infatti, nella seconda strofa c’è proprio questo: «A me fanciulla un candido e trepido desire/ quest’effigiò dolcissimo signor dell’avvenire». E’ la strofa che spiega la natura stessa della melodia: dolce, raccolta, tenera, titubante, quasi infantile. Violetta ritrova la purezza perduta attraverso questa regressione all’ innocenza dell'infanzia: comincia qui il suo processo di rinascita. La castità della melodia di Violetta determina un contrasto enorme con tutta la sfacciata musica da ballo, che abbiamo sentito prima, e rimanda alla purezza melodica del duettino, al centro dell'atto. Ho detto castità, e sto parlando di una prostituta: ma la melodia che Violetta canta è indubbiamente, gloriosamente casta, pudica, riservata, pura. Che c'è allora nell'animo di Violetta? C’è un nocciolo segreto, una fiammella che arde e che la vita dissipata non è riuscita a spegnere: la più profonda capacità di amare. L'aria è la scoperta di questo principio segreto che si esprime nel canto piano, ossia liscio, melodico, semplice nella sua purezza e intensità. Molto bella anche la scelta del ritmo di siciliana, in tre ottavi, scanditi con pulsazioni a chitarra: anche questo è un ritmo di danza, soavemente popolare. Il clarinetto, con i suoi festoni, accompagna la melodia, avvolgendola con il suo timbro malinconico. Una delicatezza quasi infantile, una titubanza significativa per lo stato d’animo di chi scopre l’amore, accomunano l'espressione dell'amore nascente, in Violetta e in Alfredo. E' esattamente quanto dice Dumas: «Come potesse una vita così ardente non cancellare dal viso di Margherita quell'espressione virginea, infantile quasi, che le era propria, è per l'appunto ciò che noi siamo costretti a riconoscere senza comprenderlo» (p. 23). Dunque, nonostante la sua vita dissoluta, Margherita è capace di un'espressione verginale. Verdi coglie in tutta l'opera questo candore di Violetta, che l'amore di Alfredo mette a nudo: freschezza infantile di sentimenti che vengono in primo poino nel momento in cui si rimuove la cappa che li soffocava. Continua Dumas a p. 78: « C'era in quella donna come una specie di candore : si intuiva in lei ancora una verginità nel viso. L'incedere sicuro, la persona flessuosa, le narici rosee e aperte, i grandi occhi, leggermente cerchiati di azzurro, rivelavano una di quelle nature ardenti che diffondono intorno un profumo di voluttà , come certe ampolle d'Oriente che, per quanto ben sigillate, l'aroma della chiusa essenza ne sfugge» (R. p.78) «Insomma, in quella fanciulla subito riconoscevi la vergine mutata da un nulla in cortigiana , e la cortigiana che un nulla avrebbe rifatto vergine la più amorosa la più pura. Duravano in lei ancora fierezza e indipendenza : due sentimenti che, offesi, hanno forza di operare quanto il pudore». E' molto importante, per capire il personaggio di Violetta, considerare questo affiorare della fanciullezza sepolta nella profondità della memoria, ed ora riportata in primo piano dall'effetto catalizzatore dell’amore di Alfredo. Il candore delle melodie che Violetta canta («Ah forse è lui» «Dite alla giovine» «Alfredo, Alfredo di questo core») deriva dalla sua aspirazione alla fanciullezza: «Questa vita di Parigi che in apparenza mi dà piacere – dice Margerita Gautier– , invece, quando non mi brucia, m'annoia; e così mi

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pigliano certe improvvise aspirazioni a un'esistenza più calma che mi ricordi la mia fanciullezza. Si ha ben avuta una fanciullezza, qualunque cosa poi siamo diventati» (p. 117). Lo stesso «Addio del passato» è interpretabile in questo modo. Addio bei sogni ridenti: erano i sogni che Violetta diceva di aver coltivato da fanciulla, quando si inebriava all'idea dell'amore, candido e puro. L'amore di Alfredo è quindi per lei il mezzo per ritrovare l'umanità perduta, ritornare donna: ma che tipo di donna? Non una donna adulta, bensì una fanciulla. Attraverso l'amore Violetta può recuperare la purezza della fanciullezza, cancellare tutto il passato, come dirà a Germont, ossia ritornare fanciulla, riscoprire la propria verginità , non fisica ma spirituale. E' quindi un rinnovamento radicale. Il dramma di Violetta è dramma della solitudine : in Dumas Margherita dice di aver amato solo un cagnolino: «Quando morì, piansi più che per la morte di mia madre. E' vero che essa mi aveva picchiata per dodici lunghi anni» (Dumas p. 132). E ancora: «Allora incontrai te, giovane, ardente, felice, e ho tentato di fare di te l'uomo invocato nella mia chiassosa solitudine» (Dumas p. 133). La storia di Violetta è complessa, come quella di Rigoletto. Entrambi affondano la loro complessità in elementi psicanalitici, nella rimozione dell’inconscio, che affiora attraverso le due esperienze choc: la maledizione per Rigoletto, la dichiarazione d’amore per Violetta, due fatti che, sulla loro personalità, fanno l’effetto di un’ analisi freudiana. Entrambi sono prigionieri della loro condizione: Rigoletto, buffone di corte, è ossessionato dall’obbligo di ridere e di far ridere gli altri, l’unica funzione cui l'ha destinato la sua deformità fisica; Violetta è schiacciata dalla condizione di prostituta votata all'eros senza amore. In entrambi, c’è un interno desiderio represso di amore. Entrambi hanno, però, una valvola di sfogo: Rigoletto ha l’amore per Gilda , Violetta quello per Alfredo. Per entrambi queste possibilità di amare sono l’unica garanzia di umanità. La differenza tra i due personaggi sta in questo: l’amore trasforma l’esistenza di Violetta che, da prostituta, diviene donna quindi donna, eroina ed angelo, mentre l’amore per Gilda non trasforma Rigoletto. Il suo comportamento rimane fisso nel perseguire la vendetta. Rigoletto è sempre spaccato tra amore da una parte e desiderio di vendetta dall’altra. Alla fine, la vendetta si ritorce su di lui, e sua figlia viene uccisa. Questo l’effetto della maledizione. Il personaggio ne esce distrutto.

Bellissimo il passaggio dei tre arpeggi dei legni, flauto, oboe e clarinetto, tra la prima e la seconda strofa «A me fanciulla un candido» , che viene quasi sempre tagliata: ed è un peccato , perché le parole sono significative per comprendere la storia passata di Violetta. Ci vuole un grandissimo soprano per mantenere la tensione, magari cantando la seconda strofa più piano della prima. Quando Violetta dice «Lui che modesto e vigile / all'egre soglie ascese/ e nuova febbre accese/ destandomi all'amor» la melodia sillabica fa sentire bene le parole che sono importantissime: Violetta sta dicendo di essere posseduta per la prima volta dall'amore.

Nella parte di Violetta Verdi mette a punto la tecnica di creare la melodia partendo dal suono della parola. Qui le parole si capiscono bene, se la cantante ha cura della dizione. In altri casi, invece, come vedremo nella prossima cabaletta, le parole sono totalmente sacrificate alla linea musicale. La ripresa di «Di quell’amor ch’è palpito» avviene anche qui, una seconda volta. Anche Violetta, come Rigoletto e come Azucena, ha un pensiero fisso: non la maledizione, non il fuoco da vendicare, ma l’amore. La sua esistenza si confronta con questo pensiero. Il tema dell’amore viene ripreso quattro volte. Questa idea fissa diventa il centro della coscienza del personaggio.

3) Allegro «Follie!...Follie!...» Siamo al tempo di mezzo. Questo sentimento è così nuovo per Violetta che la spaventa: si riscuote, infatti, nel recitativo seguente «Follie!... Follie!...». Il suo pensiero d’amore è dunque un delirio. Sola, abbandonata nel deserto di Parigi. Ricordare Balzac, Victor Hugo, Beaudelaire: Parigi come metropoli, verminaio di vizi, intrighi, costumi corrotti, dove cova la solitudine. Questo è il dramma di Violetta: un dramma della solitudine. L'orchestra ripete nei bassi un quintuplice rintocco

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di tre note ascendenti. A lei non resta che annegarsi, e perire nei vortici della voluttà espressi con vocalizzi acrobatici che interrompono l'andamento sillabico e declamatorio del recitativo. L'idea del vero amore è, per lei, una semplice chimera: solo in un modo Violetta può vincere la sua solitudine: stordirsi nel piacere, sino a morirne. Tanto sa di essere malata. E si lancia nel nuovo “ballabile” della cabaletta «Sempre libera», che ci riporta allo stile della musica ascoltata durante la festa. 4) Allegro brillante, «Sempre libera», 3/8, La bemolle maggiore. Il canto deve rendere l'immagine del folleggiare, del trasvolare da un piacere all'altro: Violetta decide di respingere l'idea dell'amore, e continuare la sua vita di donna alienata, rituffandosi nella vita di piacere. No, l’amora non fa per lei, il solo pensiero le desta un riso amaro. Da notare: c'è , anche qui, l'idea del tempo che scorre: «Nasca il giorno, il giorno muoia...»: il tempo passa e lei vuole assecondare il tempo che scorre ruotando continuamente nel vortice di «diletti sempre nuovi». E' ribadito un principio di scorrimento implacabile del tempo che genera un senso di corsa, di ansia, di rettilinea vettorialità nell'andamento della musica. La musica della Traviata, specie in questo primo atto è musica che corre inesorabilmente verso un fine. Violetta è malata e lo sa prima di tutti gli altri: dovrà morire. Lo dice esplicitamente in Dumas : «dovendo vivere meno degli altri io mi sono ripromessa di vivere più in fretta». (p.91). Il suo non è un canto allegro. La risata che, secondo la tradizione, i soprani inseriscono prima della cabaletta è un tocco verista, del tutto fuori posto. Non c'è niente da ridere . Questo pezzo, infatti, non è allegro: deve trasmettere un senso di disagio, di gioia ansiosa, se non rabbiosa , come mostrano, ad esempio, le impuntature ritmiche sui trilli e, in genere , la frantumazione ritmica della linea vocale nonché le discese cromatiche su «dee volar» alle batt. 162 e segg. Dumas fornisce a Verdi la falsariga per definire questa ansia febbrile : « ...la malattia, assopita ma non vinta, continuava a eccitarla con quei desideri febbrili che quasi sempre conseguono ai mali di petto». Sono le «insonni ebbrezze» di cui parla lo scrittore (p.86) che Verdi traduce qui. Che mezzi usa Verdi per rappresentare musicalmente l'alienazione del personaggio? Il belcanto acrobatico, con i gorgheggi, le colorature, espressione di artificio, innaturalezza, posa, travestimento, illusione, sfrenatezza mondana. In questo pezzo Violetta canta come un usignolo: non è più una voce umana, è uno strumento che guizza, salta, s’ impenna, corre da un capo all'altro della tessitura. I vocalizzi sono anche espressione del suo aspetto esteriore: scintillano come le sete, i pizzi, i gioielli di cui Violetta è adorna. Ma c'è un'ansia in questo canto, come una frenesia nevrotica, confermata, ad esempio, dalle sincopi su «dee volar il mio pensier» che danno quasi un effetto di singhiozzo, e sono seguite da dolorosi cromatismi discendenti : nell'ebbrezza si annida una punta di dolore. Tutto deve essere molto leggero: si veda l’accompagnamento strumentale, fatto di pizzicati degli archi e lievi trilli. Il trillo è segno di eccitazione, risata, frivolezza mondana. La cabaletta, pur non essendo un valzer, ha un andamento ternario e ricorda ritmi di danza. La musica esaurisce tutto il testo, che sarebbe già sufficiente per definire lo stato d'animo in cui Violetta conclude il primo atto. Verdi vi interpola un pezzo sorprendente e teatralmente efficacissimo: Alfredo fuori scena, sotto al balcone, canta la melodia di «Amore è palpito» con il suo caratteristico ritmo di valzer. Il carattere della cabaletta contrasta moltissimo con quello dell’aria precedente, è di nuovo un effetto di rovesciamento tipicamente verdiano e molto drammatico. Da notare un particolare formale che fa capire la libertà con cui Verdi tratta le forme. Di solito l'inserszione di un altro personaggio che interloquisce con quello principale avviene nel tempo di mezzo: dopo di che, il personaggio principale sfoga, nella cabaletta, la tensione sentimentale accumulata durante ciò che è successo nel tempo di mezzo. Qui , invece, il pertichino (così si chiama in termine tecnico l'inserzione di una parte minore all'interno di un pezzo chiuso) , nella fattispecie il canto di Alfredo, è inserito nella cabaletta che diventa un pezzo drammatico, non dialogico vero e proprio, ma certamente teso in un contrasto evidente. La funzione della cabaletta è quindi completamente rinnovata: non si presenta più come un pezzo solistico ma come un confronto

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tra due voci in conflitto, una sorta di implicito duetto. Riconoscere qui la presenza della solita forma non va oltre una constatazione esteriore; quello che conta è invece vedere come la solita forma è trasformata e perchè. La critica con deve fermarsi a descrivere il "come"; deve spiegare il "perché". La ripresa del tema già ascoltato della dichiarazione d'amore non è solo segnale o ricordo. Può essere un elemento che scatena una serie di effetti incrociati, destinati ad accumularsi con una carica dirompente. L'orchestra tace, e si sente questa voce lontana, sostenuta solo dall'arpa: Violetta e gli spettatori tendono l'orecchio, il movimento di danza della cabaletta si arresta, in una stupefatta sospensione. Analizziamo i vari effetti di questo passaggio.

• Effetto semiotico: la melodia che serviva ad Alfredo per parlare a Violetta in discorso diretto è ora data come oggetto musicale a sé stante, cioè come melodia di una serenata cantata sotto il balcone. Nessuno se ne rende conto ma , a ben pensarci, questo fatto raddoppia l'effetto dell’ improvvisa sortita di Alfredo, oggettivando il suo canto in una sorta di straniamento inatteso che colpisce Violetta. La melodia ha già iniziato il suo processo di interiorizzazione: potrebbe anche essere intesa come un ricordo che nasce dalla coscienza di Violetta, la proiezione esterna di un suo pensiero, come sarà, effettivamente durante la lettura della lettera nel terzo atto. E' quindi un momento di passaggio dall’ esistenza realistica, dialogica di questa melodia (nel duettino della dichiarazione d'amore) alla esistenza immaginaria e memoriale (nell'ultimo atto, quando sarà ripresa altre due volte in circostanze tragiche).

• Effetto spaziale: la scena si apre nuovamente in una prospettiva più vasta, com’ era nel valzer, e si prolunga addirittura all'esterno.

• Effetto di ricordo: a Violetta e a noi spettatori torna in mente la dolcissima scena della dichiarazione d'amore.

• Effetto psicologico: la decisione di Violetta, di rituffarsi nella sua vita di piacere, è improvvisamente messa in crisi dalla ricomparsa di una voce che le prospetta la possibilità di un’ esistenza completamente diversa.

Come reagisce Violetta? Prima rimane stupita : «Oh amore!», parola straordinaria sulle sue labbra. Poi si impenna nel rifiuto, gridando «Follie, follie», gorgheggiando con vocalizzi amplissimi e rituffandosi, per la seconda volta, nel vortice di «Sempre libera», con i suoi trilli, note tenute, sincopi e gorgheggi da usignolo meccanico. Ma , alla fine, si sente di nuovo la voce di Alfredo, che non spezza più l'andamento della cabaletta ma s' infila tra i vocalizzi di Violetta, sempre più ravvicinati, come le scale puntate ascendenti, le sincopi e le duine di semicrome su «Ah!». «Eppure tanta allegria – scrive Dumas a p. 81 – tanta sfrenatezza nel parlare e nel bere, che negli altri convitati giudicavo frutto dell'abituale gozzoviglia o anche di una certa abbondanza di vita, mi sembravano in Margherita un bisogno di dimenticare, e come una febbre e un'irritazione nervosa»: questa è esattamente l'espressione che Verdi dà ai vocalizzi dell'aria. Violetta cerca di stordirsi per respingere la tentazione proveniente dalla voce di Alfredo, e l'effetto è, evidentemente, molto drammatico: la cabaletta cessa di essere un pezzo solistico, diventa un duetto pieno di tensione tra un personaggio in scena e un altro fuori scena che ne mette in crisi le decisioni appena prese. Violetta ha il terrore di cadere in preda ad un’illusione.Quella che poteva essere la semplice chiusura belcantistica di un atto si arricchisce di una componente prettamente drammatica: questo è tipicamente verdiano e viene messo in evidenza nella misura in cui il soprano capisce la complessità della situazione. I vocalizzi pungono, saettano, trafiggono, infilzano quasi la voce di Alfredo facendola ammutolire. Immaginiamo la scena: Violetta sola tra i resti del ricevimento, con la tavola da sparecchiare, i candelieri che stanno consumandosi, un clima di smobilitazione e stanchezza, considera che il suo pensiero deve «volare a diletti sempre nuovi»: i vocalizzi sono la figura del pensiero che tende verso questa immagine .Ma , quando sente la voce di Alfredo dice: «Oh amore!». Per la prima volta esce dal cuore di Violetta questa parola, e non le sembra vero. La Callas lo faceva con penetrazione inarrivabile: in quanto soprano drammatico di agilità possedeva

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una forza sconosciuta ai soprani leggeri, e insieme la bravura tecnica per rendere le acrobazie con precisione e leggerezza, possibilità preclusa in genere ai soprani drammatici. Così si conclude il primo atto la cui struttura musicale e drammatica risponde ad un progressivo restringimento dell’inquadratura. Da una visione d'assieme Verdi passa ad isolare i due protagonisti: prima Alfredo e Violetta in mezzo al coro nel brindisi, poi soli, nel duetto , poi Violetta sola nella scena finale. L'effetto, quasi cinematografico, è quello di una carrellata, o inquadratura progressivamente ravvicinata, che termina sul primo piano della protagonista, la quale giganteggia alla fine dell'atto. La concezione formale è molto unitaria e compatta. Tutto si svolge con estrema coerenza e il fine è, appunto, la carrellata sulla protagonista. In Rigoletto il fine era invece la rappresentazione dell’ambiente, dello spazio labirintico e alienante in cui si svolge la vita di Rigoletto che compare pochissimo per brevi stralci; il fine era la rappresentazione del mondo del buffone: vertigine, riso, sarcasmo, beffa, delitto, maledizione. Sono le premesse di un destino che si compirà nel corso dell’opera.

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ATTO II. N.4 Scena ed aria di Alfredo 1)Scena Siamo in campagna, dove Violetta e Alfredo si sono ritirati da tre mesi. L'ambiente è diverso rispetto a quello del primo atto: il giardino sullo sfondo significa aria, luce, sole, anche se siamo in gennaio.Tutto allude ad una situazione tranquilla, serena. Sopra il camino, nella parete di sfondo, ci sono due oggetti significativi: uno specchio, già trovato nella prima scena e che ritroveremo nell’ultimo quadro, e un orologio, segno tangibile del tempo che scorre. Come prescrive la didascalia, Alfredo siede, prende a caso un libro, legge alquanto, quindi si alza guarda l'ora sull'orologio sovrapposto al camino e dice «E' tardi, ed oggi forse più non verrà mio padre». Alfredo parla di «questi ameni luoghi», che vedono fiorire l'amore della coppia e dice: «Volaro già tre lune», con una nuova allusione al tempo che scorre. Da tre mesiVioletta ha lasciato i luoghi soffocanti delle feste: e lui, dal «soffio d’amor rigenerato», scorda tutto il passato. C'è quindi, nella scenografia e nelle allusioni letterarie, un senso di rigenerazione, di freschezza, e di contrasto con l’atmosfera della festa precedente. Luce naturale opposta alla luce artificiale dei saloni in cui, nel primo atto e nel finale del secondo, si svolgono le feste. L’aria di Alfredo è nella solita forma di scena (recitativo), cantabile, tempo di mezzo e cabaletta, e comprende le scene I-III. Il recitativo iniziale è importante, perché ci fa sapere che Violetta ha cambiato vita, rinunciando agli agi, alle ricchezze e agli amori, per consegnarsi interamente all’amore vero, che rigenera anche lui. Il tema del recitativo è alacre e scattante, giovanile, fresco, molto estroverso. Alfredo è vitale ma un po’ superficiale. E’ così che deve essere. Il recitativo è piuttosto convenzionale. A Verdi non interessa caratterizzare il personaggio più di tanto. Alfredo è un istintivo: ha una freschezza di slancio giovanile, è un ragazzo impetuoso, irriflessivo. E’ capace di inventare la melodia più suadente, affascinante, incantevole, e di cantare a Violetta il proprio amore con irresistibile magnetismo melodico. Ma è tutto istinto, non riflette. In fondo, è il corrispettivo positivo del Duca di Mantova: più perbenista, e meno libertino, più autentico nell’amore, ma meno forte di personalità. Ha una parte molto limitata rispetto al Duca. Serve come catalizzatore. La melodia dell'«amor ch'è palpito» è la melodia dell’ innocenza, dell’amore nella sua fase giovanile. Alfredo colpisce Violetta con questa innocenza. Alfredo è un canale di trasmissione di un flusso, quello dell’amore, che in quella melodia appare nella sua natura di raggio benefico, immagine di innocenza e purezza, e in «Amami Alfredo» apparirà nella sua natura di «palpito dell’universo». Per Violetta, questo amore di Alfredo è quindi una regressione all'innocenza della fanciullezza. Su di lei l’amore agisce come una trasformazione: La traviata racconta la storia di questa trasformazione, redenzione, trasfigurazione della protagonista in cui la potenza dell’amore si estende dal particolare all'universale, come mostrerà , nella scena VI, lo slancio cosmico di «Amami Alfredo!». Tutta l'opera è incentrata sulla protagonista: è lei che ci interessa nella sua vicenda di trasformazione, determinata dalle due forze che convergono su di lei: la potenza dell'amore come forza gigantesca che trasforma una prostituta in donna, eroina, angelo; e la forza del destino che, attraverso l'altro canale , ossia Germont, si abbatte su di lei, distruggendo la sua felicità ma permettendone, attraverso il proprio sacrificio, la trasformazione definitiva. Alfredo è tutto istinto, inconsapevolezza, freschezza. Egli offre a Violetta un’ esistenza nuova, ossia la regressione rigenerante nell’ innocenza della fanciullezza, il recupero di una verginità di sentimenti ormai perduta. La voce di Alfredo e il suo tema d’amore hanno quindi una funzione psicanalitica: fanno ritornare a galla il represso, ridestano il desiderio giovanile di un amore incontaminato e primigenio. La melodia dell' «amor ch'è palpito» viene dunque sentita da

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Violetta come un sogno di bellezza e di felicità: ecco la possibilità di interpretarla come voce interiore, quando la si sente cantare «sotto il balcone» durante la cabaletta «Sempre libera». E’ molto importante, quindi, cogliere questo carattere di visione che il tema principale dell’opera possiede e che viene rivelato nelle varie riprese: durante l’aria del primo atto , durante la lettura della lettera nel terzo, indi, ancora una volta, prima della morte. Bellissimo questo vagare della mente di Violetta nella contemplazione di un sogno. Quando il tema ritorna, nel momento della malattia e della morte, durante l’attesa solitaria di chi non giunge e nell’atto di lasciare questo mondo, acquisterà altri significati: memoria perduta, viatico d’amore. Questo tema ha la stessa funzione del tema della fiamma che si annida nella mente di Azucena, e del tema della maledizione che occupa quella di Rigoletto. I «soggetti arditi all’estremo punto» di cui Verdi andava in cerca mettono in scena tre vicende eccezionali di personaggi eccezionali, i più strani in tutta l’opera di Verdi. Tre esistenze fuori del comune, tre soggetti abitati da idee fisse, la cui presenza orienta tutta la loro esistenza. Il fuoco per Azucena, la maledizione per Rigoletto, la voce dell’amore per Violetta sono fantasmi che ritornano attraverso motivi di reminiscenza, scandiscono e determinano la drammaturgia e il comportamento pratico dei protagonisti. 2) Andante «Dei miei bollenti spiriti», 3/4, mi bemolle maggiore L'andante «De' miei bollenti spiriti», se ben cantato, è gradevole,fresco, agile, slanciato: la voce tenorile fa bella figura, le frasi sono ben tornite, lo slancio è fervido, soprattutto sul verso «dal dì che disse: "Vivere io voglio a te fedel"», con modulazione in Do minore. Il verso centrale è «dell’universo immemore io vivo quasi in ciel», sottolineato da uno slancio melodico così fervido che allarga la frase a cinque battute. Alfredo è dunque inebriato da questa nuova esistenza appartata, in compagnia di Violetta. Dopo l’inizio, con frasi di quattro battute, la frase di cinque battute dà uno slancio particolare al canto, esce dal quasi declamato di «vivere», con una fluidità particolare e molto sciolta. Sia Alfredo che Germont sono importanti non come caratteri ma , per così dire, come funzioni: contano per quello che fanno, non per quello che sono. Verdi riserva, quindi, a loro una caratterizzazione generica, anche perché il libretto non gli dà modo di approfondirli, essendo evidentemente confezionato secondo i desideri del compositore che ha in mente un tipo d'opera incentrata sul personaggio principale. Verdi riesce sempre a far capire il grado di convinzione, di coinvolgimento personale con cui viene vissuto l’amore: quello di Alfredo è relativo. Il «vivo quasi in ciel» non ha entroterra di vera sofferenza, passione, dolore, anelito; è un atteggiamento lirico, garbato , melodicamente fluido, avvolgente, ma abbastanza superficiale. Alfredo non è un personaggio profondo, l’amore di Violetta è per lui gradevole, carezzevole, ma la musica ci dice che non è un' esperienza totalizzante e sconvolgente, anche se le parole alludono ad una esistenza paradisiaca. In questa rappresentazione del personaggio come un giovanotto un po' leggero, Verdi identifica la funzione drammatica di Alfredo e finisce per dare al rapporto tra lui e Violetta un significato speciale: Violetta non è tanto innamorata di Alfredo in quanto individuo ma in quanto portatore della forza rigenerante dell'amore che ha per lei un significato esistenziale diverso da quello che può avere per qualsiasi altra donna. Mettendo Alfredo nell'ombra come individuo psicologicamente poco definito, privo di storia e sostanzialmente ignoto, Verdi dà molto rilievo alla forza che da lui si esprime e che viene intesa come principio universale di elevazione, nobilitazione, fortezza. Ben altro impulso e, soprattutto ben altri spunti di caratterizzazione personale avranno le espressioni d’amore di Riccardo, Don Carlo, Radamès, o anche quelle di Manrico. La personalità di Violetta giganteggia, proprio perché quella di Alfredo rimane volutamente in secondo piano. 3) Tempo di mezzo «Annina, donde vieni?»

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Il tempo di mezzo, con arrivo di Annina che annuncia che Violetta è andata a Parigi a vendere tutto quello che possiede, non è particolarmente bello, ma ha grande forza propulsiva: trasmette una fretta ansiosa che crea un clima di precipitosa velocità temporale, costante nella Traviata. La cabaletta in cui Alfredo si pente di aver sfruttato Violetta, nella sua stereotipata evasività, è adatta a lui che, più di tanto, non è toccato nell’onore: in realtà è un mantenuto. Il suo pentimento non convince perché non deve convincere: volutamente, Verdi lo ha defilato rispetto alla centralità della protagonista. 4) Cabaletta «Oh mio rimorso! Oh infamia», Allegro, 4/4, Do maggiore La cabaletta di tipo marziale, guerriero, ci rimanda allo stile del primo Verdi: la musica serve più che altro al tenore per esibire la sua voce, ma è in sostanziale accordo con quelle parole, del tutto banali. Non importa: sarà piaciuta al pubblico perché il tenore può brillare in note acute, brevi vocalizzi, tensione dinamica (sostenere la sonorità forte, specie nel registro acuto). Nel melodramma dell'Ottocento bisogna sempre considerare la componente spettacolare, rappresentata essenzialmente dalla pretesa dei cantanti di avere pezzi che ne facciano brillare le qualità vocali. Anche Verdi, che pure tende a funzionalizzare tutto in chiave drammatica, deve tener conto di queste esigenze. Come sempre succede, anche nelle pagine meno felici, rimane il ritmo vivo e scattante che impedisce alla tensione di cadere o di languire. Sovente la cabaletta è tagliata nelle esecuzioni correnti: sbagliato, perché costituisce una fuga nell' evasività probabilmente voluta. Alfredo deve essere così: Verdi poteva dare espressione ben diversa a questo sentimento di vergogna, invece lo risolve in grande evasività. Le ripetizioni «o mio rossor, o infamia» sono musicalmente oziose, non aggiungono nulla: è un rimorso ben superficiale, privo di dolore, appena velato di nervosismo e immerso nell’ espressione convenzionale. Violetta ha una miriade di melodie meravigliose; Alfredo ha solo quella della dichiarazione d'amore e quella di «Parigi, o cara» nel terzo atto. Due intense melodie d’amore, sentimento che sgorga spontaneo dalla instintiva freschezza giovanile di Alfredo e che Verdi intona in quel modo irresistibile per far sì che l’espressione d’amore penetri nell’animo di Violetta con una forza tale da sconvolgere la sua esistenza, come un sogno impossibile che improvvisamente si realizza. N.5 Scena e duetto. Violetta e Germont Scena Le scene IV, V e VI sono da considerarsi un blocco unico, l'una il prolungamento dell'altra. Se rileggiamo il libretto, dopo aver ascoltato la musica, comprendiamo come Piave, evidentemente sotto la guida di Verdi, abbia saputo dosare perfettamente il crescendo emozionale in un unico arco, che va dalla comparsa di Germont all'«Amami Alfredo!». Questa grande scena, con una campata così vasta, rappresenta una novità nel teatro di Verdi. Germont è baritono, voce antagonistica, insieme a quella di mezzosoprano o contralto, della coppia tenore-soprano, secondo il classico schema del melodramma ottocentesco. Il baritono in Verdi è quello che muove l’azione. Germont entra a chiedere il sacrificio di Violetta per la tranquillità della sua famiglia: abbiamo, in successione, i seguenti episodi: richiesta di Germont (“Ho una figlia da sposare, e tu devi lasciare Alfredo perché altrimenti il matrimonio può andare a monte”), rifiuto di Violetta con relativa motivazione (“sono sola al mondo, Alfredo è tutto per me, sono malata e vicina a morire, non posso separarmi da lui”), insistenza crudele di Germont (“l'uomo è volubile, col tempo diventerai brutta...”), disperazione e amara considerazione di Violetta (“l'uomo, a differenza di Dio, non perdona chi ha peccato”), accettazione del sacrificio ("dite a vostra figlia che mi sacrifico per lei"), richiesta di un compenso (“ possa lui conoscere il mio

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sacrificio e non maledire la mia memoria”); seguono, immediatamente, nella scena VI, la scrittura della lettera, l'ultimo incontro con Alfredo, la perentoria richiesta di amore del conclusivo “Amami Alfredo!”. La forma del duetto è molto articolata e complessa. Verdi non aveva mai scritto duetti così lunghi. L'idea che occupa la mente del compositore non è più quella costruire un pezzo musicale tradizionale , nella solita forma pentapartita (scena, tempo di attacco, cantabile, tempo di mezzo, cabaletta) in cui incanalare l'azione drammatica, ma quella di fare una scena di teatro in cui la musica venga a creare personaggi, situazioni ed emozioni e la forma si modelli sulla necessità del dramma. L'unità di misura è dunque cambiata rispetto al melodramma precedente: non è più il numero musicale che conta, ma la scena in musica. L'unità del duetto va quindi ricercata sul piano drammaturgico prima che su quello musicale. Infatti, non c'è più uno stacco netto tra recitativo e duetto, come avveniva ancora nelle opere di Rossini, Bellini, Donizetti, quando, ad un certo punto, si sentiva benissimo che il recitativo finiva e il pezzo chiuso iniziava subito dopo. Qui , invece, il recitativo perde la sua convenzionalità, si imbeve di musica, diventa un vero e proprio declamato melodicamente memorabile, si impenna in frasi melodiche, lascia spazio a piccoli pezzi chiusi, ma poi li interrompe di nuovo, si asciuga inaspettatamente sino a scendere a livello del parlato, per risalire, subito dopo, ad un regime musicale regolare e strofico, e così via, in un continuo slittamento tra stati musicali diversi che corrispondono ad altrettanti stati d'animo o gradi di emozione drammatica. Non dimentichiamo che il teatro d'opera è essenzialmente un teatro di emozione, di passione, mentre quello di prosa è un teatro della parola, del ragionamento. Il canto è emozione, la parola è pensiero. Ciò non toglie che entrambi possano e debbano naturalmente slittare nel campo altrui: la parola, nel teatro di prosa, farsi poesia, emozione, passione e il canto, nel teatro d'opera, trasmettere un pensiero. Così, in questo duetto, abbiamo momenti in cui ciò che conta di più è il pensiero, il significato delle parole, trasmesse da Verdi in un declamato che le rende ben comprensibili; e altri momenti in cui ciò che conta di più è l'emozione trasmessa dalla melodia. Verdi abbandona la forma tradizionale del duetto; quindi vuol dire che segue più da vicino i contenuti; sono i contenuti che dettano la forma che, spiegata dai contenuti, diventa chiarissima. Il recitativo non ha più nulla di quello tradizionale. Dopo poche battute di dialogo con Annina entra Germont, preceduto da un inciso strisciante e un po' sinistro: «Madamigella Valéry?». Notare l'impennata di orgoglio di Violetta: «Donna son io signore». Finissimo il tratto psicologico: la mantenuta di lusso è qui irriconoscibile. Ritrova la sua dignità e tiene testa a un gentiluomo con una energia e una sicurezza che lo sorprendono: «(Quai modi!)». Il recitativo continua in modo molto “secco”, quasi sempre senza accompagnamento orchestrale e diventa declamato melodico nella frase di Germont «Ah, il passato perché, perché v'accusa» seguita dalla impressionante risposta di Violetta «Più non esiste. Or amo Alfredo...», sorretto da tremolo in orchestra, con vocalizzo finale, tratto energico, pieno di slancio generoso e di passione. “Ho chiuso con il passato” dice Violetta a Germont , rivelando inaspettatamente il temperamento di una leonessa. Nella commedia di Dumas (III,4) dice a M.Duval : «Oui, j'ai été folle; oui, j'ai un triste passé; mais, pour l'effacer, depuis que j'aime, je donnerais jusqu'à la dernière goutte de mon sang» “Sì ho fatto follie; sì ho un triste passato, ma per cancellarlo , da quando ho conosciuto l’amore, darei fino all’ultima goccia del mio sangue”. Dio ha cancellato il mio passato attraverso il mio pentimento: spunto religioso, molto importante per capire il significato della conversione di Violetta. Quando lui risponde «Nobili sensi invero...», Violetta si sente tutta rinfrancata: «Oh come dolce mi suona il vostro accento», e il declamato assume la piega di una melodia dolcissima, di nuovo sostenuta dal tremolo: nessuno le aveva mai detto che lei fosse di animo nobile, e la sua trasformazione è ora riconosciuta. Poi il recitativo, con tratti di declamato più o meno melodico, si oscura nei tremoli orchestrali che lasciano presagire il dramma prossimo venturo. Da questo recitativo si comprende come l'opera possa lasciar capire bene le parole, intonandole in modo semplice ma , nello stesso tempo, nutrirle di significato emotivo, seguendo con estrema precisione la curva del testo

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drammatico. L'opera nel corso dell'Ottocento tenderà sempre più a dar spazio a questo tipo di declamato duttile e vario: Verdi stesso ne farà il principale mezzo di espressione nell'Otello e nel Falstaff, Wagner lo utilizzerà come la base drammaturgico- musicale delle sue opere. Questi slanci melodici accadono quando si aprono spiragli sulla interiorità di Violetta. Il nucleo portante del ritratto musicale di Violetta, il suo cuore segreto è la melodia; quello di Rigoletto è invece la parola declamata. Melodia da una parte declamazione dall’altra. 1) Allegro moderato «Pura Siccome un angelo», 4/4, la bemolle maggiore .

Attacca Germont, che ha voce di baritono, cui Verdi affida solitamente il compito di antagonista e motore dell'azione. Il padre di Alfredo, come lui, è fatto oggetto nella Traviata di una caratterizzazione sommaria. Questo non è un difetto. E' frutto di consapevole scelta drammatica: Germont e Alfredo contano solo in quanto producono, nella vita di Violetta, determinati effetti. Sono strumenti del destino, del fato, del caso, della Provvidenza, chiamatelo come volete: insomma, di una forza superiore (la forza del destino, per dirla con il titolo di un'opera di Verdi) che interferisce nella vita degli uomini e, attraverso la sofferenza, li porta a riconquistare l'umanità perduta. Germont è rappresentante dell'ordine borghese, e Verdi non cade nel tranello di farne l'antagonista cattivo: lo presenta come il portatore di una morale in cui egli crede profondamente e in cui ha le sue buone ragioni per credere. Non è una cattiva persona, crede veramente nella morale borghese che assicura la solidità della famiglia, ma non capisce chi ha davanti, né la profondità del dramma umano di Violetta. Gli ideali che ispirano questa morale sono l'ordine, la tranquillità familiare e sociale, la rispettabilità borghese: norme che allora avevano una forte presa ideologica e sociale, tant'è vero che Violetta le riconosce per valide, e accetta di sacrificarsi in loro onore. Inoltre, Germont è un signore: sa come si tratta con una donna, usa bei modi, ma proprio questa educazione irreprensibile diventa, ad un certo punto, inconsapevolmente crudele. Germont è infatti sostanzialmente impermeabile alla vicenda umana di una donna la cui vita esce totalmente dagli schemi della normalità borghese: solo alla fine del duetto si lascerà un poco coinvolgere, ma in modo sempre molto prudente, nel dramma di lei. Come sono rappresentati musicalmente questi tratti distintivi? In modo assolutamente geniale. Germont è l’antagonista, colui che viene a rompere la felicità di Violetta, il “cattivo” in un certo senso del melodramma: ma non è rappresentato come cattivo. Il conservatore Germont intona i suoi settenari con eleganza, discrezione, («dolcissimo cantabile» scrive Verdi) in uno stile passatista di tipo belliniano-donizettiano: frasi quadrate, simmetrie ben bilanciate, ritmi regolari, melodie che cambiano leggermente nel loro corso ma non hanno mai delle svolte imprevedibili, come in quelle di Violetta. Ogni frase è fatta di 4+4 battute: tutto regolarissimo. Le parole di Germont sono asservite alla linea del canto, ingabbiate nella sua periodicità. La parola è trascurata , riassorbita nella melodia: questo accentua l’indifferenza, l’inumanità di Germont, la sua impassibilità. Chiuso nella sua morale conservatrice si esprime in uno stile ostentatamente tradizionale. Il ritmo di ogni verso tende a uniformarsi nell'incipit. L'impressione è che Germont faccia un discorso preparato prima, in cui s'infiltra persino un tocco di galanteria mondana, nei piccoli vocalizzi "leggeri", come prescrive Verdi, su «giovine» e «dovea». Una sfumatura di passionalità si può vedere nella conclusione: ma tutto è musicalmente ordinato. Il canto, impregnato di accenti verbali, modellato sul suono della parola, pronto a scivolare dalla melodia al declamato più incisivo è espressione di vita vissuta, sofferta, combattuta tra dovere e amore, sacrificio e promessa di felicità. Il canto, che irrigidisce la parola nella uniformità ritmica come, massimamente, quello di Germont, è espressione di superficialità, indifferenza, freddezza, o meglio, egoismo degli affetti: Germont pensa solo a sua figlia, non vede nell’animo di Violetta, non capisce che cosa sta provocando per salvare un matrimonio e le convenienze borghesi: lo capirà solo alla fine, quando proverà rimorso: «Ah! tutto il mal ch’io feci ora sol vedo».

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Il canto di «Pura siccome un angelo» è dolce, ma la sua funzione è quella di creare angoscia, stupore, presentimento nel cuore di Violetta. La posizione drammatica lo rende ambiguo: il suo significato non è tanto in sé ma è piuttosto rivelato dall’intervento di Violetta, subito dopo. Isolato sembra un pezzo cullante e rassicurante; dentro il suo contesto, invece, acquista una funzione tragica: è la forza del destino che comincia ad affacciarsi, inconsapevolmente, nella nuova vita di Violetta. Germont non se ne rende conto, e qui sta la geniale trovata di Verdi: ma Violetta sì, e ne resta subito sconvolta. Nel suo canto le sillabe barcollano. Sbrigato l'intervento di Germont in forma chiusa (tre strofe di quattro versi) il duetto si spezza una prima volta, lasciando spazio al ritorno degli endecasillabi sciolti («Ah comprendo…»), fatto unico all’interno di un duetto, e quindi del declamato che scivola, come si è detto, dal recitativo quasi parlato all'arioso, e viceversa. Il declamato ritorna periodicamente nel corso del duetto, alternandosi alle strofe in versi sciolti che inducono Verdi ad adottare forme chiuse che però , tranne in un caso («Così alla misera che un di' è caduta»), non sono mai puramente contemplative, ma inserite nella conversazione: attraverso l'alternanza di versi sciolti e versi rimati il dialogo, in pratica, non si interrompe mai. Portatrice del declamato e di una melodia pronta sempre a scivolare nel declamato, mettendo in rilievo la parola scenica, è essenzialmente Violetta che, con questo mezzo stilistico progressivo, nuovo, moderno, esprime l'antitesi all'ordine borghese rappresentato da Germont e dalle sue rigide melodie che imprigionano i versi in una ritmica regolare. Nella forma musicale si realizza quindi il carattere stesso dei personaggi che incarnano un virtuale scontro ideologico tra libertà e convenzione. Non dimentichiamo che Verdi, che conviveva in quegli anni con Giuseppina Strepponi, aveva avuto modo di lamentarsi più volte delle mormorazioni che l'ambiente perbenista del tempo sollevava sul conto di questa unione irregolare. C'è quindi, nelle implicazioni ideologiche del duetto, anche una componente personale. Qui è come se il canto di Germont, in forma regolare e chiusa, gettasse improvvisamente su Violetta una gabbia in cui lei si dibatte con un declamato espressivo, prima con ansia («Ah comprendo») , poi con paura, «accelerando a poco a poco», come prescrive Verdi, sino al grido «No giammai!», che conclude il passo con una terribile impennata di disperazione sostenuta dall'orchestra in fortissimo. Violetta si inganna: devo separarmi da Alfredo per poco tempo? Poi capisce che la rinuncia deve essere completa e questo fa impennare la sua voce in un grido tremendo: «Giammai!, no mai!»: scoppio dell’orchestra dopo una accelerazione frenetica su un disegno di quartine di semicrome acefale in fa minore. Segue una lunga pausa, un silenzio in cui questo grido deve risuonare. Gia qui, viene fuori il temperamento della leonessa: la difesa strenua della propria felicità. Dietro quel grido c’è la minaccia di un intero mondo che sta per crollare: un mondo edificato, inaspettatamente, con una nuova esistenza creata dall’amore. E’ significativo che tanto turbamento venga scatenato da una melodia così impassibile: come se Violetta osservasse: «Ma che cosa dice questo qui! Ma la sua proposta è sconvolgente! Ma si rende conto? No. Mai e poi mai!». Verità del rifiuto e del dolore. L’effetto drammatico e teatrale è lo stesso della scena del Miserere nel Trovatore: l’impassibilità del canto di Germont scatena lo sconvolgimento di Violetta, come la compostezza liturgica del coro dei condannati scatenava il terrore di Leonora, in forme musicali diverse: chiusa per Leonora, aperta per Violetta. Ogni passo nella drammaturgia musicale di Verdi va giudicato in rapporto al successivo e al precedente: la melodia di Germont («Pura siccome un angelo») affettuosa, cullante, popolare, di per sé non è nulla di speciale, ma scatena un pandemonio nella vita di Violetta. Visti gli effetti, possiamo dire che in quel canto impassibile c’è una forza tremenda di sconvolgimento; e i due personaggi appaiono nel loro contrasto. 2) Vivacissimo «Non sapete quale affetto», 6/8, do minore . Ecco dunque Violetta iniziare un canto «Agitato», nel nuovo metro ottonario, in due strofe di sei versi. Questo pezzo è importantissimo: dà molte informazioni su Violetta, la sua esistenza il suo amore. Rivela che cosa è per Violetta l’amore di Alfredo: affetto divorante, rimedio alla

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solitudine, totalizzante espressione d' amore: «Alfredo mi ha giurato che in lui troverò tutto». Giurato: un patto, con Dio come testimonio. Qualcosa di sacro. La certezza di trovare , finalmente, nella vita, un punto di riferimento affettivo, rimedio alla tremenda solitudine di chi si sente abbandonata nel «popoloso deserto» di Parigi. Comincia a precisarsi qui la natura religiosa della nuova esistenza di Violetta, che ora dice a Germont che è condannata a morte a causa della malattia e che sente la sua fine non lontana: preferirebbe morire subito che separarsi da lui. La Traviata è un opera profondamente religiosa. «Amore e morte» doveva essere il titolo primitivo: da intendersi , però, amore come viatico per la morte. Germont viene a sconvolgere un patto fatto al cospetto di Dio: sacro, anche se Violetta e Alfredo non si sono sposati in chiesa. Ma quel giuramento riguarda non solo l'amore bensì la salvezza dalla solitudine della donna perduta. Ciò che conta è la natura dell’affetto che, «vivo e immenso», arde nel petto di Violetta. Da notare varie cose: la melodia , in do minore, affannosissima, con le diminuzioni ritmiche (due semicrome) sul tempo forte (figura caratteristica dell'ansia, già in Mozart) cambia radicalmente dopo i primi quattro versi: dall'affanno sussurrato in pianissimo, si passa al desolato accasciamento di («E che Alfredo m'ha giurato», in mi bemolle maggiore) seguito da un intervento a raffica dell'orchestra. Questa frase è declamata «a piacere», ossia senza rigore ritmico, evidentemente per dare alle parole il massimo rilievo. Ogni tanto nel duetto compaiono queste frasi «a piacere», nei momenti in cui il declamato deve trasmettere agli ascoltatori parole decisive per intendere la natura della situazione: sono le cosiddette «parole sceniche». Ma questo emergere della parola dalla melodia non distrugge l'arco melodico: lo completa perchè sempre, nelle melodie di Violetta viene fuori l'importanza dell'accentus: esse nascono dal suono della parola, incorporano frammenti di declamato, quando meno ce lo aspettiamo, scolpiscono con forza le sillabe e legano, quindi, sempre l'espressione musicale del personaggio alla concretezza del discorso, vale a dire alla realtà dei fatti. Verdi non è come Bellini che ama volare alto nei cieli di un puro , astratto lirismo: in Verdi, anche nei momenti più lirici, sublimati, c'è un riferimento al cogente magnetismo della situazione drammatica di cui la parola si fa tramite. Tutto è insomma giustificato drammaticamente, in ogni momento e in ogni particolare. Si potrebbe dire che le melodie di Violetta non si sottraggono mai alla forza di gravità esercitata dalla parola, intesa come unione di significante e significato, fonema e semantema: sempre vi ricadono con inesorabile forza di attrazione. La presenza dell’accentus , nella melodia, fa sentire la presenza della componente esistenziale, del dramma vissuto dai personaggi protagonisti, Violetta e Rigoletto. I personaggi del Trovatore, invece, sono strappati alla contingenza e proiettati in una dimensione assoluta di immaginazione visionaria. Il declamato, in loro, non avrebbe ragion d’essere. L'evoluzione dello stile verdiano consisterà appunto in un' estensione sempre maggiore di questo procedimento. Non bisogna però cadere nel tranello critico di ritenere imperfetta la fase stilistica rappresentata dalla Traviata rispetto a quella dell'Otello o del Falstaff: in ogni opera Verdi trova, infatti, un punto di equilibrio tra stile avanzato e stile più tradizionale (qui rappresentato da Germont): perché in ogni opera le oscillazioni dello stile saranno assunte consapevolmente per definire la varietà dei caratteri e delle situazioni. Dunque il canto di Violetta è scavato nel suono della parola, nell'articolazione della frase, perché ogni parola, ogni frase del libretto di Piave ha un peso determinante nel far capire la trasformazione subita dal personaggio: le sue melodie sono mobili, piene di svolte imprevedibili, composte di elementi irregolari che seguono il flusso dei sentimenti. Sono il contrario delle melodie quadrate, regolari e prevedibili di Germont.

Quello di Violetta è un dramma della solitudine. Ma Violetta è anche isolata musicalmente: il suo modo di cantare non appartiene a nessun altro personaggio. Alfredo e Germont sono molto più legati alla regolarità di una fraseologia che non conosce le aperture dell’arioso, il declamato aperto e libero che Violetta usa sovente, né la mobilità del suo canto. Per esempio, dopo la frase citata, riprende la melodia di Violetta («Non sapete che colpita / d'atro morbo è la mia vita») ma gli ultimi due versi («Ah! il supplizio è sì spietato») sono differenti dalla conclusione della prima strofa («E che Alfredo m'ha giurato»). Qui c'è una straordinaria amplificazione tragica: martellando le sillabe con forza, Verdi genera un episodio «ancora più vivo» che si dilata in crescendo, mentre il tempo accelera, la voce si lancia in acuti martellati, le note si allungano, scivolano per semitoni, il si

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bemolle, trattenuto per due battute e un quarto su «ah», è un grido lacerato di dolore; l'orchestra sussulta più volte in fortissimo con impulsi che danno all' espisodio eccezionale forza tragica. L'intervento di Violetta si conclude quindi con una spaventosa amplificazione che rivela nel personaggio una travolgente energia morale.

E' la terza volta che Violetta esplode in grida di passione dopo «Or amo Alfredo» e «No giammai!». Sono tratti dosati magistralmente da Verdi. Non rappresentano solo un temperamento accesissimo: sono segni esteriori di una situazione ben più complessa. Violetta è cambiata. Non è più il gorgheggiante usignolo del primo atto, o la donna sola, perduta, abbandonata che poteva dimenticare il proprio dolore, tuffandosi nei vortici della voluttà. Ora ha riacquistato dignità, orgoglio, forza morale e canta come un soprano drammatico. Non è più quella di prima, l'usignolo meccanico, posseduto dai ritmi frenetici di una vita alienata. Ora è una donna piena di dignità e di fermezza. Le grida di passione di Violetta nascono infatti dalla consapevolezza che l'amore di Alfredo ha per lei un valore superiore a quello che può avere per un'altra donna: nell'amore di Alfredo lei ha trovato la possibilità di chiudere definitivamente un'esistenza alienata, fatta di dolore, stordimento, solitudine, abbandono, illusoria libertà e allegria. Le sue sono espressioni non retoriche, non enfatiche, ma fulminee, perentorie, energiche, cariche di passione e di forza interiore. Non c'è nulla di retorico o di «melodrammatico», in senso negativo, in questo duetto: solo la verità dei sentimenti, espressa con incandescente realismo. C'è il melo-dramma nella sua accezione più nobile, come dramma incarnato dalla musica.

In questo canto di Violetta c’è sconvolgimento («Non sapete...»), ansia , pianto («Alfredo m’ha giurato»), ribellione («Ah il supplizio è sì spietato»). Qui, inoltre, abbiamo la rivelazione che è malata e c'è la spiegazione del mancamento avvenuto durante la festa. Il personaggio si costruisce a poco a poco, per tocchi successivi. Notare il divenire dello stile musicale: le prime frasi («Non sapete...») sono spezzate in brevi incisi; alla fine, invece, il canto si fa continuo e il grido sorge come una vampata irrefrenabile, dall’impulso dell’accentus. Sia in Violetta che in Rigoletto c’è questa continua generazione reciproca di melodia e declamato. La risposta di Germont è impassibile, non cattiva, ma inconsapevolmente indifferente, gelida: «E' grave il sacrifizio/ Ma pur tranquilla udite» detto in forma declamatoria «a piacere». I versi qui diventano settenari e durano sino a «Tai detti un genitor», per un totale di 24. Da notare una cosa importante. Questo passo è una libera scelta di Verdi che avrebbe potuto inglobare l'intervento di Germont in un pezzo chiuso suggerito dai versi settenari. Invece, sceglie di musicare i primi otto settenari rimati, eccezionalmente, in un recitativo. La scelta della forma aperta è quindi voluta e rende magnificamente il contenuto del dialogo. L'alternanza di forma aperta e forma chiusa, nel duetto, ha un profondo valore musicale e drammatico: segue l'altimetria dei sentimenti, crea quel senso di pulsazione, tra accelerazione e rallentamento, tempo simmetrico e regolare della musica e tempo libero, irregolare della parola, rarefazione e densità musicale che determina un continuo mutamento di prospettiva: dalla flagranza dei fatti alla rappresentazione dell' emozione che li accompagna. La melodia «chiusa» arriverà solo su «Un dì quando le veneri»: prima Verdi sceglie, contro il suggerimento del testo in versi rimati, di intonarlo in un declamato libero. Quindi, la volontà di far «pulsare» il duetto in contrazioni (passi in recitativo-declamato) ed espansioni (passi chiusi) musicali, azione ed emozione, è di Verdi, che sfrutta questa differenza di regime musicale per conferire alla «scena» musicale il suo dinamismo drammatico. 3) Andantino piuttosto mosso «Bella voi siete»- «Un dì quando le veneri» - «Così alla misera», 2/4, Fa minore. Dopo il momento «cantato», che esprime l'emozione, sentiamo, dunque, un passo «parlato» (sopra le parole di Germont «Bella voi siete e giovane» Verdi scrive parlante) che, in un clima di suspense, mentre l'orchestra quasi tace, ci fa percepire il progressivo mutamento della situazione: le parole sono qui sussurrate. Come avviene soventissimo nel duetto, ma, in generale, in tutta l'opera ,

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Verdi prescrive sonorità sommesse, tra il piano e il pianissimo: indice della volontà di evitare ogni esagerazione retorica e imporre ai cantanti una recitazione misurata, semplice, controllata e intimamente partecipe. Questo declamato è raggelante. Dopo quello che ha sentito Germont non si mostra minimamente turbato. Con impassibile calma insinua in Violetta l'idea che potrà trovare un altro amore con il tempo, visto che è bella e giovane… Germont non capisce nulla: continua nella sua totale insensibilità, espressa con musica pacata, tranquilla, terribilmente compassata. Violetta è colpitissima da questo discorso : lei può solo amare Alfredo. Il declamato è molto melodico. Allora Germont insinua qualcosa di terribile: l’uomo è volubile e…Germont dosa con crudele implacabilità i suoi argomenti. Violetta, quando canta «Ah più non dite, lui solo amar vogl’io», usa un declamato che tende irresistibilmente a farsi melodia. Il suo cuore è melodico. Tutti i declamati di Violetta sono melodici cioè fortemente espressivi, come tutte le melodie di Rigoletto hanno un forte carattere declamato. Nella misura in cui si scava nell’interiorità del personaggio vengono fuori le due differenti anime musicali: melodica per Violetta declamatoria per Rigoletto. Violetta è terrorizzata da questa idea di poter essere abbandonata quando la sua bellezza sfiorirà: i tremoli degli archi, in crescendo, come sommesse scosse elettriche, sotto le parole di Germont, l'hanno turbata: «Gran Dio!» dice tra sé, «colpita». Questa indicazione di «Andantino piuttosto mosso» compare alle parole «Bella voi siete e giovane», cioè in pieno recitativo, metrizzato su di una pulsazione regolare, prima dai pizzicati degli archi, poi dai tremoli. Il compositore, quindi, agisce con la massima libertà nei confronti della struttura metrica del testo: intonando, in recitativo, otto settenari rimati. Si crea quindi una continua altimetria tra declamato e melodia, recitativo e pezzo chiuso, importantissima sul piano drammatico perché alterna la cronachistica rappresentazione dei fatti, colti nella flagranza di una conversazione in tempo reale, con la rappresentazione musicale dei sentimenti, espressa dai passi melodici. La libertà del compositore nei confronti del testo si manifesta nuovamente subito dopo: il brano «Un dì quando le veneri» comprende, infatti, anche l'intervento a parte di Violetta «Così alla misera ch'è un dì è caduta» in quinari doppi: questo pezzo non va considerato a se stante, ma parte integrante del pezzo precedente cui è collegato dalla ripetizione delle parole di Germont («Siate di mia famiglia...»). Quindi Verdi ingloba in un unico pezzo i settenari rimati di «Un dì quando le veneri» e i quinari doppi di «Così alla misera», come prima aveva eccezionalmente trattato i settenari in forma di recitativo. Le sue decisioni nei confronti del testo sono dettate da criteri molto liberi e rigorosamente drammatici. La melodia di Germont è ingenua, un po’ leggera (le parole spezzate da pause), quasi galante (riccioli melodici dei vocalizzi su «veneri» «fugate» «sorgere»), regolare, ordinata: non nasce dal suono della parola, ma procede in base a un disegno musicale autonomo. Germont dice a Violetta cose crudeli per una donna, prospettandole la sfioritura della sua bellezza, e il probabile tedio di Alfredo nei suoi confronti. E le dice che i soavi affetti non la consoleranno perché non furono benedetti dal cielo. Germont si permette di fare considerazioni che riguardano problemi di coscienza altrui e si arroga il diritto di giudicare. Lo fa però con un tono di compunzione mondana: e per questo la sua melodia ha un effetto raggelante. Una melodia di questo genere, staccata dal contesto, farebbe un effetto del tutto diverso. Qui suona crudele: è il contesto drammatico e musicale in cui è immessa che la qualifica e le dà senso. Germont continua impassibile nelle sue argomentazioni perbeniste, e neppure lontanamente lo sfiora il sospetto che possano devastare l'animo di Violetta, che ne capisce le motivazioni, e acconsente alle sue richieste. Ma lui non è un mostro: nella seconda parte, «Siate di mia famiglia l’angiol consolator», la melodia di Germont si svolge con maggiore continuità e naturalezza. Verso Violetta Germont non prova nulla, si commuove, invece, pensando alla figlia e alla famiglia. Non è quindi un personaggio del tutto rigido e scostante, ma capace di sentimento, seppure un po’ ottuso, imprigionato nella morale borghese che lo acceca, non gli fa capire la particolare natura del caso umano davanti a cui si trova in questo momento. La melodia di Germont diventa convincente per Violetta che dice: «E’ vero, E’ vero». Lo slancio melodico di Germont, qui, è notevolmente sincero, si scioglie in espressione più affettuosa. Violetta è toccata da questa sincerità : «Violetta deh pensateci» è molto caloroso. Anche Germont,

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quindi, ha una espressione musicale in divenire, come in divenire è il suo itinerario sentimentale: c’è dinamismo in questo canto. Germont non è fermo né statico. Passa dalla cortesia mondana che, in quel contesto, suona come crudele indifferenza, alla commozione moderata per il pensiero della famiglia. Del suo carattere, della sua individualità, però, non trapela nulla. Di Germont e di Alfredo non conosciamo la storia, come la conosciamo, invece, di Violetta. Tutto si svolge in pianissimo. Il dolore di Violetta è espresso nella stupenda melodia in re bemolle minore, «Così alla misera ch’è un dì caduta»: intima disperazione della donna che si sente perdonata da Dio, ma non dagli uomini. Anche questa melodia, dal respiro lungo, molto aerea, quasi senza peso, che sembra volare sopra le miserie umane in un gesto straordinario di elevazione, ad un certo punto slitta nel declamato a piacere con forza («l'uomo implacabile...»), diventa plastica nella messa in rilievo del testo, nel momento in cui scende dal pensiero di Dio a quello dell'uomo che non perdona. Germont rispetta sempre il rigore ritmico quando canta le sue melodie regolari: segno del suo impassibile controllo. La ritmica di Violetta, invece, è molto più mossa, segno della sua interiorità agitata e palpitante. L'elemento umano, il dolore della vita sono sempre presenti nel canto di Violetta, anche quando ormai è "decollata" nel suo itinerario di elevazione. Germont la contrappunta con interventi generici: egli non sente le parole di Violetta che canta a parte, tra sé «con estremo dolore» mentre l'orchestra, nel suo fruscio, accompagna in pianissimo (ppp). Le parole per Violetta sono importanti: ognuna è vissuta per il suo significato preciso, che le rende pesanti come pietre. Per Germont le parole sono espressioni di sentimenti e pensieri generici, per Violetta sono espressione di vita vissuta e sofferta. L'opera sfrutta molto bene questa possibilità di rappresentare il gioco teatrale degli «a parte», scavando nell'animo dei personaggi. A dire il vero, però, questo «a parte» potrebbe anche essere inteso come discorso diretto, considerazione morale rivolta da Violetta a Germont. La ripetizione delle parole di Germont «siate l'angiol consolator» , scandite con grande rilievo (ogni nota è accentuata con i cunei) collega strettamente questo brano al precedente, facendone un blocco unico, anche se musicalmente si stacca da quello precedente per l'eccezionale diversità del tema di Violetta da quello di Germont. Dio ispira, dunque, queste parole a Germont: è questo tono che convince Violetta, un tono indubbiamente sincero. Chiede a Violetta di essere un angelo consolatore: questa immagine si insinua nell'animo di Violetta che sa di dover morire e vede inconsapevolmente aprirsi per lei, attraverso il sacrificio, una prospettiva di trasfigurazione angelica. «Pura siccome un angelo» è la sorella di Alfredo; «Angiol consolator» può diventare Violetta. L'immagine dell'angelo è quindi decisiva nell'immaginario tragico del duetto. Così si prepara l'identificazione di Violetta con la figura della «giovine sì bella e pura» che avverrà nel brano seguente: come si vede, tutto, si collega logicamente, attraverso fili trasversali di significati che si rispondono da un capo all’altro della partitura, con assoluta coerenza. Questo fa la grandezza del capolavoro e il suo spessore tragico. E' forse questa la lezione che Verdi ha imparato da Shakespeare: collegare tutto attraverso un tessuto di motivi che si rispondono e formano la "trama" espressiva, psicologica, drammatica della vicenda. In questa coerenza che struttura l'opera su vari piani sta il segreto di Verdi. A ben vedere, la melodia di «Così alla misera» non è altro che una deformazione in minore di «Di quell’amor ch’è palpito», che diventa tristissimo e lamentoso, e si collega con l’idea della redenzione impossibile. L'amore ha dunque avuto per Violetta il valore di una completa palingenesi, anche , e soprattutto, musicale. Il pensiero di Violetta si eleva, qui, a considerazioni morali: è una constatazione della impietosa durezza degli uomini, contrapposta alla misericordia di Dio. Non solo l’amore di Alfredo determina la rinascita di Violetta ad una nuova vita, ma anche la sua risurrezione morale. «Molto ti sarà perdonato perché hai molto amato», disse Gesù alla Maddalena con una frase che Alessandro Dumas figlio aveva posto a conclusione della commedia che fu modello al libretto di Piave. Si conferma la religiosità profonda di questa vicenda. Violetta dirà, nell’ultimo atto, che ha ricevuto i sacramenti la sera prima e, dopo il ritorno di Alfredo, vuole andare in chiesa, a ringraziare Dio per il suo ritorno. Il tema religioso è fondamentale nella Traviata: Violetta pensa sempre a Dio. Anche in «Alfredo Alfredo, di questo core» dirà «Dio dai rimorsi ti salvi allora / Io

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spenta ancora pur t’amerò». Il rapporto con Dio, dopo la «conversione» prodotta dal fatto di aver trovato l’amore e aver cambiato vita, è una costante in Violetta. In «Addio del passato» : «Ah della Traviata sorridi al desio / a lei deh perdona, tu accoglila, o Dio». Si veda anche «Gran Dio! Morir sì giovane» e «Se una pudica vergine». In tutte le più belle melodie di Violetta c’entra il pensiero di Dio. L’amore di Alfredo ha prodotto la riconciliazione con Dio, una vera e propria conversione, paragonabile alle grandi conversioni dei personaggi ottocenteschi, a cominciare da quella dell’Innominato. La conversione di Margherita è esplicita anche in Dumas e lo rivela quando, parlando del discorso che le ha fatto il padre di Armando dice : « suscitava in me uno spirito di nobiltà da innalzarmi ai miei propri occhi , e muoveva nel mio cuore sante aspirazioni, fino a quell'ora sconosciuta . Quando pensavo che un giorno questo vecchio , che m'implorava per l'avvenire di suo figlio, avrebbe detto alla sua figliola di unire il mio nome alle sue preghiere, come il nome di una misteriosa amica, mi sentivo trasformata e fiera di me». Tipico processo psicologico della conversione religiosa. (p. 211) 4)Andantino «Dite alla giovine», 6/8, Mi bemolle maggiore. Arriviamo finalmente, con questo brano, al cantabile centrale della solita forma. Ma che cosa è successo prima? Il tempo di attacco si è moltiplicato in varie sezioni , alternate di pezzi chiusi, brani in recitativo e “a parte” , e non è più chiaramente individuabile. In pratica il duetto si è trsformato in una nuova scena di conversazione che oscilla tra dolore presente e aspirazione alla trasfigurazione attraverso il sacrificio. Viene fuori, qui, esplicitamente, il carattere religioso della Traviata. Violetta ha scoperto Dio e, attraverso l’amore per Alfredo, sa di ottenerne il perdono. Questo amore ha dunque per lei un valore straordinario, non solo etico, ma esistenziale. Attraverso questo amore, lei è ritornata donna, ha ritrovato l'umanità perduta nella vita alienata di prima, quando era preda di desolazione e solitudine. Ora non canta più come un usignolo meccanico, in uno stile che esprimeva la sua alienazione; ora canta melodie naturali, fondate sull'accento della parola, che scivolano nel declamato, ma un declamato impregnato di melodia, sempre espressivo, caldo, che denota appassionata partecipazione emotiva al significato di ogni parola. Si noti come è dosata la trasformazione dello stile di canto di Violetta: nel duetto con Alfredo, «Un dì felice, eterea», gorgheggiava in modo astratto, ma, verso la fine, cominciava ad abbandonarsi alla melodia "naturale". In «Ah forse è lui» cantava una melodia non ancora spiegata ma titubante, frantumata dalle pause, una melodia che non aveva, per così dire, un valore autonomo, ma serviva da piedistallo alla espansione melodica di «Quell' amor ch'è palpito», canto trascinante, naturale e fluido, che non appartiene a Violetta ma ad Alfredo e inonda il suo animo, trasformando la sua vita e il suo modo di esprimere musicalmente se stessa. E’ lui che, attraverso la forza dell’amore, trasforma lei e la fa nascere a nuova vita. Poi, nella cabaletta «Sempre libera», di nuovo si lanciava nei più folli gorgheggi. Il «Dite alla giovine», invece , è la prima melodia pura inventata da Violetta, la prima espressione musicale della sua trasformazione esistenziale: per questo fa l'effetto di una rivelazione abilmente ritardata, come era ritardata la melodia di Rigoletto «Deh non parlare al misero / del suo perduto bene» che, nel duetto con Gilda, rivelava per la prima volta l'interiorità del personaggio e la sua capacità di amare. La melodia di «Dite alla giovane» non ha più alcun elemento che la disturba: né colorature, né declamati in cui la melodia si possa rompere: è chiusa, levigata nella sua perfezione. Un equilibrio è stato raggiunto: il momento più doloroso, lacerante, tragico, si trasforma in dolcissima donazione di sé, tranquilla accettazione, superamento del male attraverso il bene, vittoria dell'amore sul dolore. Significativo è il fatto che, sotto questa melodia, pulsi un ritmo di valzer lento. Il valzer è il seme dell'amore che in Violetta ha fruttificato e che le è stato donato da Alfredo, sin dal momento del brindisi, quando si erano accorti per la prima volta l'uno dell'altro in un significativo incrocio degli sguardi, poi, soprattutto, attraverso il tema «dell'amor ch'è palpito».

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Per questo il valzer rimane in lei come pulsazione segreta, immagine della sua trasformazione, roteante e armoniosa espressione di bontà e di amore. Le melodie che Violetta canta nel secondo e terzo atto hanno una purezza religiosa. Che sovente, in queste melodie, pulsi il ritmo di valzer è significativo: rende il fascino sensuale, del personaggio, il carattere seduttivo e attrattivo della sua straordinaria bellezza. Inoltre, nella sua calma circolarità di ritmo ternario che gira su se stesso, il valzer allude qui ad una avvolgente dolcezza e ad una calma interiore che, nel momento del sacrificio supremo, appare come frutto di un eroico dominio di sé. In Violetta la seduzione proviene dalla sua bellezza, dalla sua sensualità che a poco a poco si spiritualizza, diventa seduzione della bontà, dell'amore disinteressato, luce interiore: la bontà, l'amore che da profano è diventato sacro, profondamente seducono. L'amore si trasforma e, da fisico che era nel valzer ebbro del brindisi, diventa immateriale. Il valzer ci sarà sempre , ancora in «Se una pudica vergine», ma sempre più scorporato, sino a ridursi in filigrana senza più la sua pulsazione ritmica quando la bellezza fisica di Violetta sarà sfiorita. La trasformazione di Violetta è resa attraverso la trasformazione del valzer. Persino la melodia più pura, casta e moralmente impegnata, perchè esprime l'accettazione del sacrificio, ossia «Dite alla giovine sì bella e pura», è ritmata su di un movimento di valzer lento. Il valzer, da danza mondana e sensuale, diventa espressione delle più alte istanze etiche, costituendo un elemento di permanenza nella trasformazione di Violetta che cambia ma è sempre se stessa, nella forza attrattiva del suo fascino, che dapprima è solo fisico poi diventa anche morale, ossia espressione della sua straordinaria capacità di amare. Il «Così alla misera», come si è detto, esprime la constatazione amara che Dio perdona ma l’uomo no. Rivela, quindi, la grandezza dell’eventuale sacrificio: Violetta può ormai solo sperare in Dio e affidarsi a Lui, perché Lui solo l'ha perdonata, mentre dagli uomini non può che aspettarsi un' eterna condanna. Lei tornerà ad essere sola, rinunciando ad Alfredo: solo Dio le sarà di unico conforto nella malattia, nella solitudine che di nuovo l'attende. La condanna di Violetta è condanna alla solitudine. «Sola perduta abbandonata» diceva nel primo atto; e sola ritornerà, se abbandonerà Alfredo. Il dramma di Violetta è un dramma della solitudine e , come tale, è tipicamente moderno. Eppure, nonostante questa prospettiva terribile, accetta di sacrificarsi per amore di una giovane, «bella e pura», che lei neppure conosce. Si possono dunque amare anche persone che non si conoscono direttamente, sino a sacrificare la propria vita per loro. Verdi poteva conferire alla melodia di «Dite alla giovine» un tono diverso: più disperato, più drammatico, più passionale. Invece, fa sbocciare questa melodia intimissima come un raggio di luce che nasce dal pianto. «A Germont piangendo» è l'esplicita indicazione di Verdi: ma il soprano non deve incrostare la melodia di singhiozzi; questo effetto verista è estraneo all'estetica verdiana: il pianto è già espresso nella melodia, basta eseguirla con l'intensità necessaria per renderlo percepibile. L'effetto è del tutto inatteso e teatralmente, psicologicamente molto ben evidenziato. Il «Dite alla giovane» è, infatti, il momento decisivo, l'atto con cui Violetta cambia definitivamente pelle, abbandonando come una spoglia le parvenze della donna scintillante di gioielli e di colori quale l'avevamo conosciuta nella festa del primo atto: la vocalità del soprano leggero, che gorgheggiava nel vorticoso girotondo di «Sempre libera», caparbiamente decisa ad ubriacarsi di piacere, è solo un ricordo. Nel secondo atto Violetta, da soprano di coloratura, diventa soprano lirico e drammatico insieme: per interpretarla in modo completo ci vorrebbero tre voci in una. La Callas le possedeva, e per questo la sua interpretazione è rimasta storica. Violetta «piange», secondo la didascalia verdiana. A lei il pianto non è precluso come a Rigoletto. A lei, per un destino crudele, un marchio d’infamia, una "lettera scarlatta" impressa sul petto, è precluso il fatto che gli altri uomini l’accolgano tra sé come persona normale. Accetta, quindi, il sacrificio per non rovinare la felicità della giovane «sì bella e pura»; chiede solo che ella sappia il suo sacrificio, conosca l’esistenza di una vittima che per lei sacrifica l'unico raggio di bene che le rimane, e che per lei morrà. Questa melodia che parla della giovine «sì bella e pura» è il ritratto della freschezza, della giovinezza e della purezza, ma non è la descrizione di una terza persona: è il ritratto stesso della

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Traviata che, attraverso il sacrificio, sta subendo una completa palingenesi. C'è un vero e proprio transfert di chi parla nella persona di cui si parla: ecco perché l'accettazione del sacrificio non è gridata, e non lascia quasi trasparire la sofferenza. Il pianto di Violetta è pudico, intimo, riservato: solo qualche stilizzato singhiozzo passa nello scatto di alcuni ritmi puntati che ritroveremo con effetto analogo in «Parigi o cara». Troviamo temi analoghi nei grandi romanzi ottocenteschi, Dostoievskij ad esempio. Questo pezzo, ripetuto due volte è il cuore del duetto. La castità della melodia consiste nel suo essere sillabica: poche volte passano due note per sillaba, non c'è nulla di sontuoso o di passionale. La parola è sempre rilevata all'interno del canto: le sillabe sono sempre ben marcate, perché il significato delle parole è importante, in particolare nell'ultima frase «che a lei sacrifica e che morrà», dove il soprano deve scolpire le sillabe, rendendole chiaramente percepibili. Tutto, però, va eseguito rigorosamente in tempo, senza passi «a piacere»: la melodia deve essere inattaccabile nella sua perfetta autonomia. Questa melodia nasce quindi dal suono e dal significato della parola: ogni semifrase è infatti diversa dalle altre, e questo conferisce al canto qualche cosa di trepidante, un sentimento mobile ma raccolto nell' intimità del suono piano. La voce è sorretta dai soli archi. Violetta fa pulsare gli accenti delle parole nell’interno della melodia. Si veda «un unico raggio di bene», con il doloroso salto di settima discendente do3-re2 e «che a lei sacrifica». Violetta sussume la parola nella melodia; Rigoletto tende piuttosto a sbriciolare la melodia nella parola. La risposta di Germont «Piangi!» è patetica, perché modula in mi bemolle minore, poi in do bemolle minore, ma il suo gesto di consolazione non va oltre quello di una carezza di convenienza sul capo di una persona sofferente e fondamentalmente estranea. Il dolore di Violetta non lo tocca da vicino: d'altronde, lui non la conosce, è la prima volta che la vede, e non ha le possibilità umane, culturali, né la sensibilità per coglierne al volo la grandezza d'animo. Verdi non lo giudica, lo rappresenta per quello che è. Il «Dite alla giovane» viene ripetuto con una pulsazione in orchestra di violoncelli pizzicati che suona quasi come un rintocco funebre. Si conclude con la voce di Violetta che vola alta, e si smorza nell'acuto : «e che morrà». In Verdi, la visione della morte ha due aspetti: quello di evento catastrofico, di paurosa flagranza, e quello di dolce, luminosa trasfigurazione. Violetta getta qui un seme che fruttificherà nell'ultimo atto, quando la vedremo morire e quasi volare al cielo. Ascoltare la Messa da requiem per capire bene questa doppia visione verdiana della morte. Tutto si spegne in un pianissimo, segnato da Verdi con pppp. Questo pezzo costituisce la parte centrale del duetto che è una progressiva discesa nella intimità profonda del dramma di Violetta. Il peso dell’Andantino, nella stabilità del suo Mi bemolle maggiore e nell’estensione del canto polifonico, altrove solo occasionale, è dunque così schiacciante, la peripezia che incarna così sconvolgente, che ha bisogno di essere preparata. È questa, evidentemente, la funzione dello strano episodio lirico che lo precede, «Così alla misera – ch’è un dì caduta», unico brano a parte che solo artificiosamente si può considerare come ultima sezione di un improbabile tempo d’attacco. Per l’effusione della melodia “lunga” e scarsamente declamatoria, il suono raccolto, le sonorità velate, lo stesso metro (quinari doppi che seguono i settenari precedenti), il meraviglioso a parte, cantato con estremo dolore, fa corpo con l’Andantino, lo prepara, lo protegge come un velario che sta per dischiudersi sull’intimità di Violetta e sulla rivelazione che, attraverso il sacrificio, l’animo della donna perduta si eleva in una sfera religiosa. Si comprende quindi come l’Andantino acquisti una funzione che va ben oltre quella statico-esclamativa del cantabile tradizionale. Lo schema della “solita forma” è presente come un’evanescente filigrana, ormai completamente riassorbito nella nuova struttura che, come sempre in Verdi, è dettata dal contenuto drammatico. 5)Sostenuto «Imponete» 4/4 Mi bemolle minore – Allegro «Tra breve ei vi fia reso», Mi minore-

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Un lungo silenzio (pausa con corona) segna la fine di questo brano , isolandolo dal contesto con una forte evidenza. Il momento è solenne e il silenzio - si potrebbe dire paradossalmente- gli si addice più che la musica. Il recitativo «Imponete» riprende, più discreto e «silenzioso» che mai. Le voci cantano senza sostegno orchestrale. L'orchestra interviene solo tra una battuta e l'altra. E' questo il terzo passaggio di transizione in recitativo con l'indicazione di Sostenuto in 4/4: più breve degli altri due, ma ancora più spoglio come suono: l'orchestra si limita a brevi punteggiature. Violetta è distrutta: dice a Germont di imporle quello che vuole, poi interrompe il discorso e gli chiede di abbracciarla come una figlia: l'effusione melodica del declamato è impressionante. Violetta ha bisogno dell'amore degli altri perché l'amore è l'unica forza che le permette di affrontare il sacrificio. In lei l'amore si trasforma in forza, è il sostegno indispensabile all’ azione eroica: ma non è solo l'amore di Alfredo che lei cerca; è anche l'amor paterno; c'è in lei il bisogno di sentirsi amata come una figlia da una famiglia che non ha mai avuto e che le permetterebbe di vincere la solitudine. Violetta, come ha detto lei stessa, nell'amore di Alfredo aveva trovato tutto: l'anima gemella, gli amici, i parenti: che almeno , perdendo lui, possa non perdere gli altri! Questo sarebbe l'unico compenso al sacrificio compiuto per amore di una sconosciuta. Ecco il significato della richiesta fatta a Germont: rinuncio ad Alfredo, ma non lasciatemi sola, anzi tu, Germont, amami come una figlia. Il suo è un dramma della solitudine. La solidarietà degli altri, invece, le dà forza: per questo lei la chiede. La sua debolezza, nel cedere alla vita dissipata, dipendeva dalla solitudine. «Qual figlia m’abbracciate, forte così sarò» è un declamato-arioso: ci sono tanti passi di declamato arioso in questo duetto. Preparano a poco a poco l’esplosione di «Amami Alfredo». Il declamato trapassa in un Allegro in 4/4 alle parole «Tra breve ei vi fia reso», che si avvita in un effetto di concitazione dato dal crescendo che porta al grido di Germont «Generosa!»: questo passo di transizione dà eccezionale slancio al brano conclusivo, drammaticissimo. «Generosa» è l'unico apprezzamento che Germont fa nei confronti di Violetta di cui non capisce l'enormità dell'amore. Dumas nel romanzo (p. 169) fa dire al padre di Armando parole da cui si capisce che considera l'amore dei due come un capriccio passeggero, come una «febbre», cioè un’ infatuazione momentanea che può passare con una breve separazione e che Margherita può risolvere, prendendo un altro amante. Assoluta incapacità da parte del padre di immedesimarsi nel dramma di lei. 6) Allegro moderato «Morrò! La mia memoria», 4/4 Sol minore, Si bemolle maggiore. Con «Morrò, la mia memoria / non fia ch'ei maledica» si conclude formalmente il duetto. Violetta vi consuma il proprio sacrificio per la sconosciuta sorella di Alfredo. La disperazione di non essere perdonata dagli uomini («Così alla misera») si rovescia nel recupero della innocenza perduta. Più Violetta sprofonda nel dolore, e più la sua interiorità si trasfigura nell'intimità della conversione, che vuol poi dire recupero della capacità di amare. Violetta non era mai stata amata da nessuno e non aveva mai amato nessuno. Ora, prima Alfredo, poi Germont, le danno la possibilità di soddisfare il suo bisogno di amore nella forma più alta della donazione di sé agli altri. Dunque il nucleo centrale del duetto sta nei brani 3) e 4) in cui si rappresenta la consumazione del sacrificio. Il brano 1) serve da introduzione, i pezzi 2) e 5) fanno da simmetrico contorno, esprimendo entrambi il tema di amore e morte. Prima Violetta diceva : «Non sapete quale affetto/ vivo, immenso, m'arda in petto?»; «Non sapete che colpita /d'atro morbo è la mia vita)»; ora torna sullo stesso argomento. Morrò – dice – ma possa Alfredo conoscere il mio sacrificio e il mio amore. Di nuovo, dopo l’inizio del duetto, compare l’immagine della morte. La melodia, nuovamente declamata, di Violetta, ha le sillabe scolpite energicamente, e ogni semifrase diversa dalle altre; descrive, inoltre, un arco che s’ impenna con energia ma poi ridiscende, accasciandosi, nel dolore. L'orchestra ha accordi strappati, duri. Da notare l'accompagnamento pizzicato dell'orchestra che, come trasformata in una gigantesca chitarra, «strappa» gli accordi nella tonalità di do minore. L'effetto è lugubre, quasi sinistro. Il pensiero della morte genera, in Violetta, un atteggiamento fiero, quasi di sfida. Se l’amore la redime attraverso il perdono di Dio e la

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trasforma in angelo, la morte la trasforma in una coraggiosa eroina, capace di sfidarla a viso aperto. Violetta non usa il declamato, come Rigoletto: il suo cuore musicale è melodico. I suoi recitativi sfociano sovente nell’arioso; le sue melodie non si sbriciolano nella successione di frammenti declamati, ma assumono la parola come nerbo ritmico, intima pulsazione di accenti. L’effetto è diverso. Violetta canta di più, Rigoletto declama di più; la melodia è un’ eccezione per Rigoletto; il declamato è una eccezione per Violetta; la melodia in Rigoletto si sbriciola nel declamato; in Violetta assume la parola come base della pulsazione ritmica ma non si frantuma. Il cuore lirico del duetto, «Dite alla giovine», è l’unico a dilatarsi in una forma melodrammatica tradizionale con ripetizione delle parole e sovrapposizione delle voci. Rispetto al duetto Rigoletto-Gilda del primo e terzo atto, questo è molto più scorrevole, non indugia in dilatazioni temporali. Il tempo della Traviata è dunque incalzante: c’è sempre una situazione che preme, un futuro che incalza, c’è sempre qualcosa da fare, senza indugio, decisioni da prendere, necessità di agire perché il tempo passa, la giovinezza sfiorisce, la malattia avanza, la morte si avvicina. La figura del tempo che incalza è continuamente presente, mentre in Rigoletto il tempo si sospende continuamente in attesa di qualcosa. Questo determina una drammaturgia diversa. I riferimenti al tempo sono espliciti, sin dall’inizio del primo atto. Gli invitati arrivano da Violetta tardi perché durante il ricevimento a cui sono andati prima, il tempo è volato: e Violetta li invita a godere per la notte che resta. «La vita s’addoppia al gioir» risponde il coro, ossia, la vita è corta, e nel piacere si allunga del doppio. Nel brindisi si ritorna sul concetto della «fuggevol ora»: il tempo è il soggetto principale del brindisi. Tempo passato nel piacere, piacere che riempie la notte, e trasforma la vita in un illusorio paradiso che verrà interrotto solo dalla luce del giorno. Un termine, domani , è fissato da Violetta ad Alfredo, quando gli dice di riportare il fiore appassito. Un soffio d’amore è passato tra i petali di quel fiore e investe Violetta come una ventata sconvolgente. Tutto è sempre proiettato verso il futuro: tempo che passa, sfugge, travolge la vita degli uomini. Il coro si congeda con una promessa: «nel riposo ancor la lena si ritempri per goder». Proiezione verso la prossima notte di festa. Tutto questo genera movimento, ansia, scorrimento veloce del tempo psicologico e drammatico. Il roteare della cabaletta di Violetta è dominata da questa idea del tempo attraverso l’immagine del giorno che nasce e che muore: eterna ruota che gira e che Violetta si propone di seguire nel suo moto, inebriandosi di folleggianti piaceri. Nel secondo atto l’idea del tempo ritorna. «Volaron già tre lune» dice Alfredo nella prima scena. Nella felicità, nel piacere, il tempo scorre veloce, incalzando. Persino nelle parti minori c’è l’idea della scadenza temporale come limite: «Pria che tramonti il giorno». Alfredo, a Parigi, deve sbrigarsi. Sarà un particolare insignificante, ma conferma il senso del tempo che scorre. Ma la scadenza temporale appare nel duetto in tutta la sua tragicità: «Che già presso il fin ne vedo…» della vita! E poi è Germont che tocca questo tasto tragico: «Un dì quando le veneri il tempo avrà fugate». Terribile: non solo la morte, anche la vecchiaia si profila dinanzi a Violetta. L’idea della morte incombente ritorna nel «Dite alla giovine» e poi di nuovo «Morrò! La mia memoria non fia ch’ei maledica…». Prima che Violetta abbia finito di cantare il suo testo interviene Germont che mostra, finalmente, di commuoversi un poco: riprende, infatti, la stessa melodia di Violetta su «No, generosa, vivere». Ma le parole sono atrocemente di circostanza: sa che è malata, eppure le dice che dovrà e potrà vivere lieta. Violetta sembra che non lo ascolti neppure: infatti , subito dopo, «animando con molta passione», scatta la melodia bellissima di «Conosca il sacrifizio». Violetta si dibatte nei rimi puntati (ta-tà, ta-tà) e sale sino all' effusione del pronome «suo», prolungato dalla corona: come un tendere le mani nel disperato tentativo di trattenere un amore divenuto impossibile: ma tutto è cantato piano, il che conferisce all'espressione un tono fortemente interiorizzato. Verdi è attentissimo a non cadere nel «melodrammatico»: concetto negativo, falsamente attribuito alle sue opere, a causa del logorio esecutivo cui sono andate incontro nel corso dei decenni. C'è, in questa melodia, un misto di dolore e di amore, dopo l'evocazione della morte: non dimentichiamo che il titolo originale dell'opera doveva essere Amore e morte. Il duetto si conclude con le due voci unite: Germont sostiene quella di Violetta, facendo il basso, ma non canta mai il suo tema; Violetta singhiozza in sincopi e, alla fine, si effonde in un vocalizzo appassionato.

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Verso la conclusione, il duetto presenta un colpo di scena: si arena in un recitativo «adagio a piacere» «Non ci vedrem più forse» che taglia le gambe alla cabaletta ed alla sua tradizionale funzione conclusiva. Una «pausa lunga» sospende la nostra attesa, prima che Violetta riprenda , piangendo, nel silenzio orchestrale, in pianissimo, la sua richiesta «Conosca il sacrifizio ch'io consumai d'amore», melodia accennata , con allungamento con punto coronato della parola «suo» e interruzione dopo «l'ultimo», perchè, come scrive Verdi, «il pianto le tronca la parola». Tutto è silenzio in orchestra. Il momento è di altissima sospensione in questo effetto bellissimo di reminiscenza, e ritorno alla flagranza della situazione drammatica, dopo che il duetto aveva mescolato le voci, confondendo la comprensione delle parole. La sospensione improvvisa, prima della conclusione drastica, interiorizza tutto quello che è successo con la sottolineatura del concetto più importante: il sacrificio d'amore. E' un effetto non musicale ma teatrale: gioca sulla reminiscenza, sul rapporto tra canto e parola, qui isolata nella sua nudità, resa ben comprensibile, incisiva nel suo peso semantico. Inoltre, sul piano teatrale questa inserzione toglie alla cabaletta la sua perentorietà conclusiva: la apre ad una prosecuzione che avviene nella scena seguente. Concludendo, dal punto di vista drammatico, la forma del duetto con la scena seguente , strettamente unita, si può raffigurare così, seguendo la successione degli argomenti trattati nei singoli pezzi: 1) Preambolo. Scena V. Posizione del problema («Pura siccome un angelo») 2) Amore e morte («Non sapete quale effetto») 3) Sacrificio («E’ grave il sagrifizio»- «Un dì quando le veneri»- «Così alla misera») 4) Sacrificio («Dite alla giovine») 5) Sacrificio («Imponete») 6) Amore e morte («Morrò! La mia memoria») 7) Conclusione. Scena VI («Amami, Alfredo!») E' un'articolazione drammaturgica, più che musicale: la legge che domina il duetto comincia ad uscire dall'ambito dell'architettura musicale per affondare le proprie radici in quelle extramusicali dell'equilibrio narrativo, emozionale, drammatico. E' difficile riconoscere in questo duetto la successione di Scena, tempo di attacco, cantabile, tempo di mezzo e cabaletta. Il cantabile-andantino è «Dite alla giovine» ; la cabaletta «Morrò, la mia memoria», anche se non ha una grande funzione conclusiva, in quanto alla fine si frantuma, si spezza in declamato, e non presenta la ripetizione da capo, quindi è molto meno imponente delle solite cabalette. Ma dov'è il tempo di attacco? In realtà sembrano essercene due : «Pura Siccome un angelo» e «Non sapete quale affetto». Dunque è vano esercizio cercare di inquadrare questo duetto nella forma tradizionale. Molto più interessante è vedere come Verdi ha risolto l'equilibrio formale interno e quali caratteristiche ha conferito al duetto per renderlo coerente e compatto, pur nella sua fitta articolazione interna. L'architettura del duetto e la sua logica interna appaiono con chiarezza solo se si considera come parte integrante del grandioso blocco drammatico anche la scena VI. Ogni brano in forma chiusa è preceduto da un brano in forma aperta che gli fa da piedestallo, introduzione, crescendo emozionale . Queste pause isolano i vari brani e danno al duetto un carattere di suspence. Il duetto è una progressiva discesa nell'animo di Violetta e le pause sono i gradini su cui ci si ferma, con titubanza, stupore e attesa, prima di compiere un passo ulteriore, sempre più giù, nel profondo dell'animo di Violetta. Per il momento possiamo dire che, musicalmente, questo duetto trae la propria energia dal contrasto tra l’elemento organico e quello meccanico, regolarità e irregolarità, melodie di Germont da organetto popolare e melodie libere, fondate sul suono della parola di Violetta. Basta confrontare «Un dì quando le veneri» con «Così alla misera» per avere la misura dello scarto stilistico tra i due personaggi. Da una parte c’è una melodia donizettiana, dall’altra una verdiana legata al suono della parola in cui la parola affiora o da cui prorompe in tutta la sua realtà fonetica e semantica.

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Da notare anche il rapporto, molto ben regolato, tra le due figure: Germont occupa all'inizio tutto lo spazio della scena; poi la figura di Violetta, mossa, articolata, plastica viene sempre più in primo piano, sino a dominare in modo assoluto la scena seguente. Si pensi anche alla differenza di gestualità suggerita dalla musica: Germont piuttosto fermo; Violetta in continuo movimento tra sussulti, sussurri, impennate emotive, accasciamenti, scoppi di passione e di pianto, improvvisi momenti di concentrazione. Se si prova ad ascoltare la musica da questo punto di vista si può facilmente constatare che ogni melodia , ogni inflessione vocale suggerisce il gesto relativo. N. 6 Scena di Violetta ed Aria di Germont.

La Scena di Violetta fa blocco con il duetto e termina con un effetto fortemente conclusivo, mentre l'aria di Germont appartiene ad un momento drammatico del tutto diverso. L’arco che va dal duetto con Germont ad «Amami Alfredo» collega il N.5 e N.6 della partitura. Prima Verdi aveva fatto grandi pezzi molto estesi, come la Scena Terzetto e Tempesta del Rigoletto : ma erano numeri in sé conchiusi. Qui, invece, si crea una continuità evidente tra un pezzo e l’altro. Tutto l’atto assume, quindi, una forma simmetrica: le scene IV-VI, con il duetto e la scena di Violetta, sono incorniciate, da una parte dall'aria e cabaletta di Alfredo, dall'altra dall'aria e cabaletta di Germont, entrambe in solita forma. Tra il duetto e la scena VI c’è una continuità assoluta, anche e soprattutto di stile. Il recitativo-declamato tende all’arioso in più punti e si afferma sempre di più, sino a trionfare nella scena VI. Ripercorriamo un momento la vicenda di questo declamato e consideriamo la forma attraverso i suoi drammi interni.

Nella scena introduttiva il declamato erompe in passi quali «Donna son io, signore, ed in mia casa», «Ah, il passato perché, perché v’accusa?», «Più non esiste… or amo Alfredo, e Dio | lo cancellò col pentimento mio» (dove l’emozione gonfia la parola in uno sbocco lirico, sino a farla esplodere nel vocalizzo), «Oh, come dolce | mi suona il vostro accento!». In seguito, il declamato intriso di melodia, privo di cadenze convenzionali, cantabile anche negli intervalli di due sole note, investe il duetto e separa i pezzi chiusi in tre punti. All’inizio («Ah, comprendo… dovrò per alcun tempo | da Alfredo allontanarmi…»), dove gli endecasillabi sciolti si incanalano entro un flusso transitorio di musica formata; a metà, con un asciutto “parlato” («È grave il sagrifizio»), e una terza volta, prima della cabaletta, in un recitativo quasi secco («Imponete») che vira imprevedibilmente verso un arioso di eccezionale intensità espressiva («Qual figlia m’abbracciate…»). Ma non basta. Il declamato non si limita ai passi in forma aperta. Esso s’insinua dentro le melodie di Violetta. Le frasi spezzate dall’affanno in «Non sapete quale affetto»; i passaggi melodici come «E che Alfredo m’ha giurato | che in lui tutto io troverò?», «Ah, il supplizio è sì spietato, | che morir preferirò», «l’uomo implacabile – per lei sarà», «cui resta un unico – raggio di bene… | che a lei il sagrifica – e che morrà», «Conosca il sagrifizio» hanno la stessa natura declamatoria delle frasi in cui s’impenna l’espressione dei recitativi, esempi di «parola scenica», quella che «scolpisce e rende netta ed evidente la situazione».26 Inoltre, in Violetta declamato e melodia possono rovesciarsi l’uno nell’altra, in quanto nascono dalla stessa radice: la fedeltà all’accento e alla resa naturale della quantità che le sillabe assumono nella declamazione.

Le ondate di questi “parlanti” si dipartono dunque dalla scena, attraversano il duetto, lo plasmano nell’alternanza tra fluidificazione e messa in forma, spezzano la cabaletta che si sbriciola tra singhiozzi, silenzi, frammenti di recitativo e una ripresa abortita della melodia principale («Conosca il sagrifizio»). Ma la vicenda di questo declamato nuovo, espressivo, straordinariamente “cantabile”, non si esaurisce qui. Dopo aver percorso, nelle sue grandiose intermittenze, la “solita forma” manipolata, esso ne supera i confini e dilaga ancora nei versi sciolti della scena seguente dove, attraverso cinque mutamenti di tempo (Adagio, Allegro, Adagio, Allegro, Allegro assai

26 Così Verdi nella lettera a Ghislanzoni, S. Agata, 17 agosto 1870 (I copialettere di Giuseppe Verdi, a cura di G.

Cesari e A. Luzio, Milano, Stucchi Ceretti, 1913, p. 641).

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mosso) monta sino allo sfogo definitivo di «Amami, Alfredo», travolgente eruzione di declamato melodico o di melodia declamata che suona come la vera “cabaletta” conclusiva del dramma iniziato con l’arrivo di Germont nella casa di campagna di Violetta Valéry. Solo qui l’arcata drammatico-musicale giunge al suo compimento. Il canto moderno di Violetta, fondato sulla naturalezza ritmica e quantitativa della parola, si contrappone così allo stile automatizzato di Germont e delle sue melodie donizettiane o belliniane, in cui la parola è irrigidita entro il ritmo pendolare della musica, talvolta spezzata dalle pause, contorta nei melismi, meccanizzata. Un fattore fisso è quindi assediato da un fattore mobile che alla fine trionfa: arcaismo e modernità si oppongono, come le convenzioni borghesi e la libertà di coscienza. La struttura dell’atto è quindi simmetrica. Nel testo troviamo solo una serie di versi sciolti che suggerirebbero la presenza di un recitativo: Verdi fa un feclamato libero, straordinariamente espressivo. Si tratta, infatti, di uno dei pezzi più moderni dell'opera: più Violetta viene in primo piano e più lo stile verdiano si stacca dalla tradizione. La scena inizia con un’ invocazione religiosa «Dammi tu forza o cielo». Violetta chiede forza a Dio. Il declamato è molto espressivo; quando Violetta scrive la lettera, in orchestra nasce un Adagio strumentale in sol minore, condotto da un clarinetto che canta una melodia di lancinante intensità: nel teatro buio, silenzioso, la voce di quel clarinetto fornisce la radiografia dell'animo di Violetta che piange. Lo strumento solista, che si stacca solitario dall’orchestra, dà un senso di desolata solitudine che abbiamo già incontrato in alcune parti di Trovatore (canzone di Azucena) e troveremo ancora nel terzo atto della Traviata («Addio del passato»); in Rigoletto c'è un effetto simile in «Tutte le feste al tempio». E’ un modo per concentrare l’inquadratura sul primo piano. A seconda delle sonorità, le inquadrature mutano, si trasformano in continuazione. Nel primo atto della Traviata abbiamo:

• inquadratura totale: la festa • avvicinamento: il brindisi • primo piano: duetto Violetta-Alfredo • inquadratura totale: Coro “Si ridesti in ciel l'aurora” • primo piano: aria di Violetta.

Nel secondo atto:

• primo piano su Alfredo, su Germont e Violetta, su Violetta sola, su Germont. • inquadratura totale: Finale. Quadro della festa con vari primi piani

C'è, quindi, un' alternanza tra effetti di massa e primi piani; per esempio, tutto l’ultimo atto è un primo piano su Violetta. L'inquadratura della drammaturgia verdiana a poco a poco porta in primo piano Violetta, sino a farla ingigantire. Nei due primi atti, quadri di massa si alternano a momenti di intimità. Verdi gioca molto su questa pulsazione che determina l’energia teatrale del tutto. Notare la componente cinematografica della invenzione verdiana e la sua altissima impressività figurativa: sappiamo che la sua invenzione nasceva da un' immaginazione visiva. Davanti a quella melodia del clarinetto solista tutti tendiamo l'orecchio, ci chiniamo su Violetta : ma è solo un momento. Subito entra Alfredo, scatta un Allegro agitato nei tremoli degli archi in crescendo, che però non porta a nulla; stessi disegni già ascoltati sotto le parole «volubile sovente è l’uom» di Germont nel duetto precedente. Sono tremiti di paura, di apprensione. Segue un breve recitativo secco («Lo vedesti?») e tutto torna silenzioso. Ma la tensione si sta caricando con forza implacabile. La melodia regolare, chiusa, è espressione della interiorità di Violetta. La melodia aperta la rappresenta nel flusso dell’azione , durante il pratico svolgersi del dramma. L'effetto del crescendo interrotto è particolarmente forte: c'è una tensione che non si sfoga, infatti riprende a salire subito dopo, quando Violetta canta «Ai piedi suoi mi getterò». Qui, il canto diventa concitatissimo, il passaggio dalla disperazione («Alfredo tu m'ami non è vero?»), resa in modo estremamente realistico, alla finzione (« Or son tranquilla, lo vedi? ti sorrido»), avviene attraverso

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le modulazioni Sol minore- Re minore- Si bemolle maggiore. Importantissime sono le ripetizioni delle parole: non in senso melodrammatico, per far quadrare la forma, ma in senso realistico, per rendere in musica la recitazione libera e spontanea del teatro di prosa. Il declamato, ora, su «Lo vedi, or son tranquilla, ti sorrido» si fissa su poche note ripetute, che denotano la fissità della maschera, calzata da Violetta nell'atto di mentire, mentre in orchestra una serie di trilli suggeriscono una sorta di sorriso meccanico, forzato, finto. Al «Sarò là» l'armonia resta sospesa sulla dominante di Fa maggiore, la tensione sale spasmodicamente, il canto si stira in note lunghe («presso a te sempre») finché scoppia come un tuono l'«Amami Alfredo!», con cui si conclude la scena. Il crescere dell'eccitazione psicologica assume connotati quasi fisiologici: si noti come la pulsazione del tempo musicale (4/4 a cappella), che era continuata imperterrita dall'entrata di Alfredo, accumulando energia, ad un certo punto si interrompa («Giunse mio padre») , poi riprenda («Ai piedi suoi mi getterò») senza più fermarsi, sinché il travolgente «Amami Alfredo!» rallenta in una pulsazione per battuta. L'effetto è quasi di uscita dal tempo di prima , rappresentazione del gesto nella sua libertà: Violetta allarga le braccia davanti ad Alfredo e al pubblico, mentre la sua voce apre le cataratte dell'emozione. Notare, in tutto il passo, la successione delle combinazioni canto- orchestra: recitativo nel silenzio («Dammi tu forza, o cielo»); tema del clarinetto; tremoli orchestrali; recitativo nel silenzio («Giunse mio padre»); arioso («ai piedi tuoi») che si spezza in recitativo («Tu m’ami, Alfredo»); declamato, arioso finale («Amami Alfredo»). Questa frantumazione, molto realistica, rende il senso drammatico della situazione agitatissima in cui Violetta è sbattuta tra sentimenti contrastanti, in una sorta di drammaticissimo dibattersi, senza direzione. Su questo finale,«Amami Alfredo, amami quanto io t'amo» ci sono da dire alcune cose.27 Innanzi tutto, il grido d'amore non esiste in Dumas: è introdotto da Piave e Verdi. Poi va sottolineato il carattere di melodia aperta: non è un recitativo, né un' aria, né un declamato, ma piuttosto un frammento di arioso, nato dal ritmo delle parole. E' un grido musicale che esce direttamente dal cuore di Violetta, con una forza di scuotimento unica, data, certo, dall'idea musicale in sé, ma, ancor più, dalla sua posizione, al culmine del crescendo, alla fine della scena con Germont. Violetta chiede ad Alfredo lo stesso amore che lei gli dà. Ma lo fa in una situazione particolare: per lei questo è l'ultimo addio, lo strappo più lancinante, l'infrangersi della felicità. Quindi, il grido sale dal profondo , come lo sfogo di una pressione emotiva irresistibile, ignota ad Alfredo, ma nota a noi spettatori che , in questo momento, siamo molto più vicini a Violetta di quanto lo sia lui.

Eppure «Amami Alfredo!» non è un grido di angoscia: ha un evidente funzione catartica. E' un canto impastato di pianto ma ha una funzione liberatoria, purificatrice. Come mai? Perché va molto oltre la dimensione individuale del personaggio, il suo dramma e il suo personale sacrificio. E' l'amore che trionfa, qui , non il dolore. Violetta, in questo momento, supera se stessa, diventa l'espressione di un grido d'amore che raggiunge una portata universale. E' la logica conseguenza, la dimostrazione di quanto ascoltato più volte: «l'amore è palpito dell'universo intero» forza cosmica che manda avanti il mondo e tutto travolge, nella sua inesorabile energia. Il suono dell'orchestra, sotto la voce di Violetta, acquista, infatti, una potenza impressionante: timpani e grancassa sostengono, con un tuono che s’ impenna in una doppia ondata (attacco fortissimo e immediato decrescendo per due volte) , il suono di corni, tromba e di tutti gli altri strumenti. Il grido di Violetta viene, così, accompagnato da una specie di scotimento tellurico, davvero cosmico, un fiotto trvolgente di melodia che erompe ad illuminarci con il suo calore, con la sua luce. Se nel duetto con Germont avevamo conosciuto Violetta come una donna appassionata, non potevamo però immaginare che arrivasse ad espressioni simili, anche se c'erano già uscite trascinanti. Qui giganteggia come un’ eroina dell'amore universale. L'amore che lei chiede ed offre ad Alfredo è un amore disinteressato che investe tutte le creature, un principio che fa andare avanti il mondo, con la 27 Formalmente è una tipica barform di forma 2+2+4 battute, struttura di tipo ‘anapestico’: due semifrasi identiche o simili seguite da una continuazione libera ovvero da uno sviluppo (2+2+4). (cfr. Giorgio Pagannone, Aspetti della melodia verdiana: ‘periodo’ e ‘barform’ a confronto, Studi Verdiani, XII, 1997, pp. 48-66))

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sua potenza irresistibile e trascinatrice. E’ la donazione cristiana dell’amore disinteressato. Senza perdere la propria individualità, il personaggio giunge dunque ad incarnare un principio superiore: in questo Violetta trova un sussulto di vita prima del crollo, e del suo definitivo riscatto28.

Arrivati alla fine della scena VI, si possono trarre conclusioni sul blocco musicale e drammatico che comprende anche il duetto. Che la scena VI di Violetta sia da considerarsi strettamente unita al duetto, è dimostrato dal fatto che: 1) conclude la vicenda del declamato descritta sopra, portando questa forma musicale all’espansione piena. 2) dal punto di vista tematico, la musica dell’Adagio che accompagna la scrittura della lettera è un chiaro sviluppo, in tempo rallentato, del motivo «Conosca il sacrifizio». 3) «Amami Alfredo» è la vera cabaletta che conclude l'enorme blocco scenico-musicale. «Morrò, la mia memoria» che è la cabaletta del duetto, infatti, non ha un carattere fortemente conclusivo , tipico delle cabalette, perchè alla fine si spezza in recitativo e si apre così verso la scena seguente. Solo inquadrando il duetto in un arco che va dalla comparsa di Germont ad «Amami Alfredo» si capisce che l’Andantino «Dite alla giovine» ha una funzione diversa dai soliti andantini in quanto si dilata enormemente nella sua essenza melodrammatica e, invece di acquistare una funzione di passaggio, acquista la funzione di baricentro dell’intera scena. Esso occupa infatti una posizione esattamente centrale: 211 battute dall’entrata di Germont all’inizio di «Dite alla giovine» ; 214 dalla fine dell’andantino alla fine di «Amami Alfredo». Esattamente al centro del grande complesso scenico. Ed è il baricentro del pezzo in quanto momento di approfondimento interiore attraverso la tecnica melodrammatica della ripetizione delle parole, della forma in se conchiusa, del canto polifonico a due voci, della durata musicale, della convergenza delle voci in un pezzo musicale che le comprenda entrambi. Inoltre, l’Andantino ha di solito il carattere di un momento di pausa, di tranquillità dopo l’agitazione del tempo di attacco; è come una seconda partenza. Qui no. Il piedestallo su cui poggia, l’episodio che lo precede «Così alla misera» toglie al «Dite alla giovine» il carattere di pausa e rilassatezza; esso segna, contrariamente a quanto succede negli 28 Considerando con quale varietà si muove il declamato verdiano, possiamo notare che, nell'opera, il rapporto tra parole e musica subisce oscillazioni continue. Ci sono gradi differenti di interconnessione tra testo e musica. Nei grandi operisti, come Mozart e Verdi, queste oscillazioni sono sfruttate teatralmente con estrema efficacia. Ecco i vari casi: A)-La musica può semplicemente rivestire la parola, come avviene in recitativi secchi poco espressivi: ciò che conta è allora il significato delle parole reso percepibile dalla discrezione, o dalla convenzionalità dell'invenzione musicale. B)-Passando ad uno stadio superiore di coinvolgimento musicale, abbiamo casi in cui la musica riveste la parola in modo originale per disposizione degli intervalli (rapporto tra le note) e curve armoniche. E' il caso del declamato, in cui il significante è sempre ben comprensibile ma il significato della parola è arricchito, potenziato, talvolta reso ambiguo, o addirittura contraddetto: quando Violetta, ad esempio, dice ad Alfredo nella scena VI «lo vedi, ti sorrido, or son tranquilla» l'intonazione di Verdi ci fa capire che non è tranquilla affatto: le note contraddicono il significato delle parole. La musica scopre in tal modo la possibilità di creare dei doppi sensi, dando indicazioni espressive del tutto diverse da quelle del significato verbale. L'effetto naturalmente è potenziato se ci si mette di mezzo anche l'orchestra come vediamo, appunto, nel caso sopra citato. Ad uno stadio ulteriore di coinvolgimento musicale il rapporto tra musica e parola cambia ulteriormente: la musica può organizzare il testo in melodie formate. Per questo ha bisogno in genere di strofe regolari e rimate. Ma ci possono essere diversi tipi di melodia che lasciano alla parola maggiore o minore visibilità: C)-ci sono melodie che nascono dal suono della parola, ne rispettano i ritmi interni, e permettono quindi al significante di rimanere comprensibile, sempre che il cantante abbia una buona pronuncia; D)-ma ci sono melodie che dilatano la parola, oppure la stirano in note lunghe, oppure la meccanizzano in sillabazioni innaturali, la sminuzzano in gorgheggi acrobatici, rendendola sostanzialmente incomprensibile. In questo caso, il significante e il significato verbali non contano più, conta solo la musica e la sua capacità di esprimere stati d'animo, emotivamente, psicologicamente o teatralmente qualificati. I compositori giocano sul contrasto tra questi quattro modi di intendere il rapporto tra parola e musica: e , come si vede nella Traviata, Verdi ottiene risultati espressivi straordinariamente pregnanti. Basti paragonare il canto di Violetta, alla fine del primo atto (modalità D) con quello del secondo atto (modalità B e C) per comprendere la forza dialettica insita nell'accostamento di questi stili diversi.

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andantini tradizionali, un' intensificazione della emozione. Tutto, così, diventa energetico. Dopo di che la cabaletta vedrà di nuovo rompersi la convergenza melodrammatica dei due perché il tempo incalza e non lascia tregua alla contemplazione. La situazione, infatti, non sarà ancora risolta. Per capire la struttura del duetto non serve quindi, come è stato fatto, ad esempio da Harold Powers in un saggio famoso (“La solita forma” e “l’uso delle convenzioni” in Estetica e drammaturgia della “Traviata” a cura di E. Ferrari, Milano, Cuem, 2001, pp.11-66), rifarsi allo schema della «solita forma» del duetto, cercando di far rientrare i singoli pezzi nella successione di Scena, tempo di attacco, andantino, tempo di mezzo, cabaletta. Quello che si percepisce invece è uno schema binario di sollecitazione-reazione. Germont agisce e Violetta Reagisce tre volte, l’ultima su sollecitazione di Alfredo: Azione Reazione I : «Pura siccome un angelo» / « Non sapete quale affetto»: idea della morte Azione Reazione II : «Un dì quando le veneri» / «Così alla misera»: morte della speranza Accettazione del sacrificio: «Dite alla giovine» Azione Reazione III: «Che gli dirò- Non amarlo ditegli» / «Morrò la mia memoria»: idea della morte come richiesta di memoria Azione Reazione IV: scrittura lettera / arrivo di Alfredo e «Amami Alfredo»: amore ecumenico A proposito di Traviata Verdi scrive a Cesare de Sanctis, da Parigi, il 17 febbraio 1855: «Vorrei soltanto poter mettere in scena io , con due artisti convenienti, il duetto del 2° atto che vi sembra lungo, e forse lo trovereste di un grande effetto, ed eguale di merito a qualunque altro mio duetto per pensiero e superiore in quanto a forma e sentimento!» Carteggi Verdiani, I, 30. Superiore per la forma, dunque, cioè un pezzo imparagonabile a qualsiasi altro.. Scena VII-VIII La scena VII, con quella seguente, chiude l'atto in simmetria con le scene I-III. Protagonisti sono i personaggi di contorno: all'inizio dell'atto Alfredo, qui Alfredo e Germont. Rientriamo nell'ambito della medietà espressiva: sentimenti non troppo accesi, caratterizzazione generica. Figuriamoci se Verdi non avrebbe saputo, se avesse voluto, caratterizzare anche Alfredo e Germont con la stessa ricchezza di Violetta. Il fatto è che la cosa non gli interessava, né il libretto si prestava a tanto. I due sono solo dei catalizzatori nei confronti di quegli avvenimenti che cambiano l'esistenza della traviata: amore e sacrificio. Chi siano veramente non interessa a Verdi. Così come avviene in quei quadri in cui il centro è messo perfettamente a fuoco e le zone di contorno sono volutamente trattate con una stesura sommaria, la colossale scena del duetto con Germont viene incorniciata da due episodi più “tranquilli”: prima l'aria «Dei miei bollenti spiriti» con cabaletta convenzionale, ora la cavatina di Germont seguita dalla cabaletta, ancora più convenzionale. Si direbbe che in queste due cabalette l'intento di Verdi fosse solo quello di rispettare le regole e assecondare i cantanti. Le due arie, invece , assumono una funzione architettonica all'interno del secondo atto: incorniciano il duetto, vale a dire il dramma di Violetta come due cuscinetti che "proteggono" , circoscrivono e quindi danno rilievo all'incandescenza eruttiva del dramma cui abbiamo assistito. La loro posizione ha quindi una funzionalità precisa. Avevamo notato, nel recitativo che precedeva la cabaletta di Alfredo, alcune frasi che significano fretta, ansia; ritornano qui, assai simili, nella frase Allegro cantata da Giuseppe: «La signora è partita» e sfociano nel passo che rappresenta il batticuore di Alfredo e il suo doloroso stupore alla lettura dello scritto di Violetta. Sempre, come si vede, nella Traviata compare questo senso degli avvenimenti che scorrono inesorabili, del tempo che incalza. «E' tardi, ed oggi forse più non verrà mio padre» dice Alfredo. E' la presenza d' uno stato d'animo che perdura sullo sfondo, e che ha diverse intonazioni espressive. Lo avevamo individuato già nel vorticoso brindisi del primo atto, in cui Verdi, attraverso la progressiva scorciatura della ripresa, rappresentava la smania di trasformare in piacere la «fuggevol ora» concessa alla vita dell'uomo. Ma questo senso del carpe diem ha, anche e soprattutto, un risvolto tragico perché sembra amplificare a livello generale di

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ritmo drammatico, lo stato d'animo della protagonista: vale a dire la sensazione che la sua vita è segnata, che la malattia procede , e che la morte l'attende tra breve: fare in fretta perché è tardi, e sempre più tardi. Chi invece si sottrae totalmente a questo senso di fretta è Germont: sempre sicuro, posato, tranquillo nelle sue certezze borghesi, mai sfiorate dal dubbio. Qui vede suo figlio disperato, e lo consola con la più ovvia delle argomentazioni: come hai potuto scordare il mare e il suolo di Provenza? Torna alla casa natia dove troverai la pace, consola tuo padre che ha sofferto tanto, ecc. Sentimenti espressi dalla celebre aria in due sezioni A-A', l'Andante piuttosto mosso «Di Provenza il mar, il suol» : melodia tra le più note di Verdi, assume un calore e una gradevolezza proporzionate alla bravura del baritono che la canta. Conferma l'immagine musicale di Germont: regolarità di frasi ben bilanciate, ritmo regolare, nessuna varietà emotiva, patetismo raccolto in una tranquilla mediocritas. Lo stile è molto meno moderno di quello di Violetta: si adagia in stereotipi belliniani o donizettiani, a cominciare dall'accompagnamento cullante. Ha però una sua ragion d'essere nell'economia musicale e drammatica dell'atto: è come un soffice cuscino melodico su cui l'ascoltatore si riposa dopo gli sconvolgimenti emotivi delle scene V-VI. Fa sentire il divario enorme tra il dramma di Violetta, la sua eccezionalità e la «tranquillità» che caratterizza il mondo di Germont: divario di ideali e di mondo morale. Verdi, e in genere gli operisti italiani, insieme a Mozart, tengono sempre presenti le esigenze dello spettatore e sono attentissimi a non stancarlo, insistendo troppo su determinati registri espressivi: un pezzo gradevole, riposante, era a questo punto opportuno. I recitativi di raccordo, nella Traviata, servono a sferzare il tempo e sottolineare il senso di ansia dato dall’incalzare degli eventi: grande affanno e eccitazione. L’aria di Germont «Di Provenza» va spiegata nel contesto. Di per sé è un bellissimo motivo di organetto, straordinariamente impressivo, lento e preceduto dal tema esposto in orchestra su accompagnamento cullante: siamo nell'ambito della lentezza e della regolarità melodica impiegate dai musicisti precedenti, in particolare Bellini. Ancora una volta, lo stile sorpassato nella Traviata è impiegato per il personaggio negativo. I tentativi fatti successivamente da Verdi per pervenire a questa melodia significano, appunto, ricerca di una impressività che le opere degli anni di galera non avevano. Ma questa impressività si inserisce in un contesto che le dà un senso del tutto diverso. Verdi scrisse a Cesare De Sanis : «Vorrei potervi far sentire da uno che sapesse cantare, l'andante "Di provenza" per farvi capire che è il miglior cantabile che io m'abbia scritto per baritono!» Dopo il tumulto di prima, del duetto e della scena della lettera, l’aria scende come una doccia fredda: impassibile, calma, appena malinconica, dondolante nel suo accompagnamento tradizionale; fraseologia di 4 più 4 battute; tutto regolare e statico, ben bilanciato nell’andamento cullante. Germont non è stato toccato da quello che è successo, e questo è quasi mostruoso. Viene qui a compiacersi perché Alfredo ritorna alla famiglia: ma a che prezzo, non se ne rende conto. Germont ha distrutto non solo la vita ma la redenzione di Violetta, l’ha ricacciata nella vita di prima, le ha dimostrato che per lei al mondo non c’è possibilità di redenzione né salvezza. E non se ne rende conto. L’aria, nel contesto, diventa un gelido atto di impassibilità, di indifferenza, di egoismo: è chiusa nella sua fraseologia regolare, compiaciuta della sua linea vocale dolce e suadente, scostante nella sua calma impassibile, senza ombra di emozione, anche se il cantante può dargliela: ma è il contesto che la qualifica. Ascoltarla isolata dal contesto ha un valore, inserita in esso un valore del tutto diverso. Non c’è nulla, infatti, che rompa quella mostruosa regolarità che si qualifica come la principale antagonista formale della irregolarità dello stile di Violetta che si apre al declamato, nutre il declamato di melodia, si slancia verso l’arioso, si frantuma in improvvise eruzioni di declamato melodico, si spezza e si articola in base al suono della parola. E' come una parete liscia contro cui si infrangono le ondate emotive del duetto precedente. Violetta tratta la parola con una varietà di accenti straordinari. Germont appartiene anche lui al regno del meccanico, e quest’aria lo dimostra. E' dominato da un ritmo esterno che si impone sul suo canto e nei confronti del quale le parole vengono adattate. Germont canta sempre con melodie infantili, innocenti («Pura siccome un angelo» «Un dì quando le veneri»): è il loro tono innocente che contrasta con la crudeltà della missione che

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Germont viene a compiere, e gli dà, per antifrasi, un carattere di indifferenza. Solo alla fine Germont si renderà conto del male che ha fatto. Notare, prima della sua romanza, i due incisi striscianti nei violoncelli e nei contrabbassi: immagini sinistre, tocchi oscuri che hanno già segnato l'ingresso di Germont. Ritroveremo queste frasi, incisi, in altre parti dell’opera, in corrispondenza con la sua figura: sono ombre che saltano fuori ogni tanto, piccoli tocchi sinistri che anticipano la frase di Germont nel terzo atto, «Il mal ch’io feci», molto impressionante, su analogo strisciare dei bassi. L’aria è una specie di ninna nanna. E’ geniale e drammatica questa rappresentazione di innocenza in bocca ad un personaggio che fa tanto male. E’ una discesa nel popolare quella che ci presenta Germont, con valenze simili a quelle del Duca di Mantova: discesa nel popolare vuol dire fuga dalla complessità della protagonista, semplificazione, espressione schematica, superficiale, indifferente agli altri, sia in Germont che nel Duca. Nel Trovatore, invece, la canzone popolare e il suo stile sono il momento della verità, l’espressione più intima dell’anima dei due protagonisti, Manrico e Leonora, che nello stile popolare esprimono le loro visioni di passione e di morte, di vita e di amore. Come la passione qui è spenta rispetto a quella di Violetta: l’aria vuole rappresentare non la passione ma il suo fantasma, la passione svuotata e imprigionata nella impassibilità borghese. Ogni elemento, ogni scelta stilistica cambia significato e funzione, nelle opere di Verdi, a seconda del contesto entro cui si trova immersa. Segue un altro recitativo agitato in cui Alfredo esprime la sua ira: terzine di crome staccate corrono a perdifiato, piano, secondo lo stile di altri recitativi già visti in precedenza (entrate di Annina, scena II e Giuseppe, scena VI). Poi c'è la cabaletta «No, non udrai rimproveri», decisamente convenzionale e piatta : Germont sembra quasi imitare lo stile dell'opera buffa e, come se Alfredo se ne accorgesse, gli tronca per due volte la parola di bocca e, alla fine, con un rapidissimo intervento, conclude la scena con impazienza: «Vòlisi l'offesa a vendicar!», mandando il padre a quel paese. La ripetizione delle parole «un padre ed una suora t'affretta a consolare» , quasi da opera buffa, è volutamente oziosa, a rappresentare la pedanteria perbenista del personaggio e giustificare la reazione violenta di Alfredo che scappa via con evidente irritazione e insopprimibile rabbia. Un tocco ironico che il cantante potrebbe attribuire a questa cabaletta, ne lascerebbe comprendere maggiormente il significato. Finale II. Il finale del secondo atto della Traviata comprende ben sette scene, contro le otto della prima parte dell'atto. Ha quindi una durata notevole, tanto che sovente lo si considera un atto a sé, e lo si rappresenta dopo un intervallo. Errore grave, perché l'effetto drammatico ne viene diminuito, e il contrasto, dato dal brusco accostamento con il quadro precedente, è neutralizzato. Verdi, infatti, dopo aver rappresentato il dramma di Violetta, ha voluto immergere improvvisamente l'ascoltatore in una festa, chiassosa e sfacciatamente allegra: l'ambiente è simile a quello del primo atto, con un salone affollato, un tavolo da gioco, luci artificiali, odore di cibo, di vino e di fumo. In mezzo al lusso della galleria di Flora «riccamente addobbata e illuminata», con tavolo da gioco, tavolo con fiori e rinfreschi, si aggirano personaggi vestiti da sera che entrano e conversano tra loro. Flora annuncia la presenza di maschere. L’effetto è quello di un crudele straniamento: dopo il viaggio nella interiorità di Violetta siamo nuovamente immersi nella esteriorità più sfacciatamente frivola. Anche l’aria di Germont «Di Provenza» fa un effetto straniante nei confronti del dramma che è successo prima con il duetto di Violetta e la scrittura della lettera. Si comprende bene a qual punto di esasperazione Verdi portava le legge del contrasto su cui è basata la sua drammaturgia musicale. Il dramma di Violetta acquista potenza impressiva anche nella misura in cui viene incorniciato da questi pezzi che rappresentano il mondo che la circonda e che è a lei estraneo, un mondo arroccato nella sua autosufficienza musicale di forme chiuse, ritmi regolari, andamenti meccanici. Dopo che Violetta attraverso l'amore è uscita dal suo abisso di solitudine e di

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alienazione e ha ritrovato la propria umanità perduta, viene improvvisamente ricacciata nella dimensione esistenziale di prima. La situazione in cui si apre la festa in casa di Flora è quindi profondamente tragica. L'ambiente soffocante è reso perfettamente nei dieci pezzi di cui è composto il finale. Da notare che il quadro precedente è l'unico, nella Traviata, illuminato da luce naturale: eravamo di giorno, in una sala aperta su un giardino. Le due feste, invece, sono ambientate di notte con luce artificiale. L'ultima, nella camera da letto, nel passaggio dalla notte al primo mattino, ma un mattino di febbraio, poco luminoso. Anche questo conta per fissare il clima espressivo dell'opera. La notte caratterizza l'esistenza infelice di Violetta; il giorno la sua breve felicità. La notte è il luogo dell'alienazione, dello stordimento nel vortice del piacere, e dell'angoscia sottile che Violetta prova nel primo atto e che si trasforma in un peso schiacciante durante la festa in casa di Flora. Scena IX 1)Allegro brillante,«Avrem lieta di maschere la notte» 4/4, Do maggiore. Apre il Finale lo scoppio di musica indiavolata, allegrissima. Le sonorità sono squillanti, sfacciate, con i colpi dei timpani sul tempo forte dell'inizio, il guizzare dei legni con l'ottavino che sibila, le acciaccature, le quartine di semicrome su tempo forte che danno un senso un poco spagnolesco a questa musica iniziale, molto energetica e piena di movimento fisico. Di nuovo compare la musica chiassosa di danza che aveva aperto il primo atto: l'effetto su di noi, che abbiamo assistito alla scena del duetto, è quello di una doccia fredda; uno straniamento pauroso e crudele. Come sempre, in Verdi la posizione è decisiva. Presa in sé questa musica sembra allegra: dopo quello cui abbiamo assistito, invece, ci fa ridere, non ci solleva ma ci assale con il suo andamento ansimante, meccanico, simile a quello che aveva caratterizzato le danze del primo atto. E' un’ allegria oppressiva, e così deve essere resa da un regista consapevole. Dal dialogo si capisce che la rottura con Alfredo è recentissima: risale al giorno prima. Scena X 2)Allegro moderato, «Noi siamo Zingarelle», 4/4, Mi minore. Per differenziare la festa del secondo atto da quelle che aveva aperto il primo, Verdi non fa più una musica di danza ma propone due pezzi di "teatro nel teatro": lo show delle dame travestite da zingarelle e quello dei cavalieri vestiti da toreri. Il primo, coro ad un certo punto, si spacca, come un frutto, e partorisce un discorso diretto tra il coro diviso in due sezioni, Flora e il Marchese. Il coro dei mattadori, invece, è un lungo racconto, e solo negli ultimi sei versi i personaggi ritornano alla realtà della festa, esortandosi al gioco. Le Zingare si presentano scherzosamente come scrutatrici del futuro, chiromanti improvvisate, che leggono la mano di Flora e del marchese, e scherzano sulla sua infedeltà. Scherzano sul passato e invitano a godere del futuro: si stenda un velo sul passato, badiamo all’avvenire. Sempre, nella Traviata, c' è questa allusione al futuro, al tempo che corre inesorabile con un valore del tutto diverso da quello che aveva nell'opera buffa di Rossini, dove il tempo era colto nel suo allegro potere di rinnovamento, rinascita, rigenerazione; qui, invece ha qualcosa di ansioso: porta verso lo sfiorire della giovinezza, la vecchiaia, la malattia e la morte. Le maschere, l'allegria, le feste, sono solo un mezzo per dimenticare. La mano che leggono le Zingare per scherzo e che fa loro vedere il futuro è la controfigura parodistica dello specchio in cui Violetta vede riflessa la sua immagine che sta cambiando e che le preannuncia il futuro destino, sia nel primo che nell'ultimo atto.

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Queste zingarelle sono ben diverse dagli zingari del Trovatore: quelli erano vitali, e si esprimevano in una musica piena di salute e di fuoco ritmico; queste sono pittoresche dame della Parigi ottocentesca che agiscono in un travestimento. E’ una gitaneria falsa, ironicamente posticcia, fatta di carta e di maschere, racchiusa in un salotto, come divertimento per una festa mondana. La differenza è enorme. Mentre noi ascoltiamo queste dame mascherate da zingare, siamo presi dalla pittoresca, ostentata, provocatoria facilità della musica. Ma attenzione: questa musica , apparentemente facile, in realtà è costruita con grande sottigliezza, in modo da creare , attraverso sorprese continue, un senso propulsivo. Il dramma non si ferma, neppure nello spettacolino offerto da questi gruppi di invitati: il tempo continua a scorrere con quell'andamenteo precipitoso che è caratteristico della Traviata. Così, quello che, secondo l'usanza dell'opera francese, avrebbe dovuto essere un divertissement cantato, parte dal coro, parte da alcuni personaggi solisti, e insieme danzato, non ferma l'azione, ma carica di elettricità la scena, determinando un senso di inquietudine, impazienza, tensione e attesa per quello che sta per succedere nelle scene seguenti. Notare la finezza dell' orchestrazione, leggerissima, con i tamburelli, il triangolo, il guizzante trattamento degli archi. Scandito dai colpi dei tamburelli, il canto delle Zingarelle deforma tutte le parole, spezzandole attraverso le pause, per seguire il ritmo musicale, scattante e meccanico. La forma del pezzo è, evidentemente tripartita: A («Noi siamo zingarelle») B(«Vediamo? - Voi Signora») A («Su via si stenda un velo») con ripresa variata del primo episodio. In realtà la struttura non è così semplice e denota da parte di Verdi una grande finezza costruttiva. Il coretto è costruito, infatti, attraverso la successione di piccoli segmenti, tematicamente ben caratterizzati, che si alternano in un montaggio imprevedibile. La forma del testo è strofica : sei quartine di settenari. Verdi aveva dunque a disposizione 24 versi settenari che poteva raggruppare in tre strofe di otto versi. Invece Verdi fa una cosa del tutto diversa, evitando ogni ripetizione schematica. Attraverso la libera ripetizione dei versi, dilata il testo in modo da introdurre una grande varietà tematica , e toglie l'impressione della rigida simmetria e dell'andamento strofico. L'effetto è di una straordinaria velocità e naturalezza di sviluppo. Questa costruzione, per piccoli frammenti motivici, messi gli uni dopo gli altri, dà un senso di instabilità, di barbagliante varietà a tutto il coro. Non c'è nulla di fisso: tutto è capriccioso, volubile, pittoresco, imprevedibile nella sua molteplicità. La forma strofica è completamente mascherata: indossa anche lei abiti finti, come le dame vestite da zingarelle, e non si fa più riconoscere: come se l'idea del carnevale, del gioco, del travestimento della maschera investisse anche la lyric form. Non solo le dame sono travestite, anche la lyric form lo è. Sembra di riconoscerla ma poi sparisce sotto la maschera di queste svolte, cambiamenti, alternanza di frammenti diversi, liberamente accoppiati e alternati tra loro. E' capriccio, improvvisazione, disordine: non una recita preparata ma improvvisata lì per lì dalle dame che giocano a fare le zingare. Il gioco non è più, come in Rossini, condizione naturale della rappresentazione, ma oggetto di rappresentazione: è teatro nel teatro. E' questa , senz'altro, una delle pagine migliori scritte da Verdi per questo genere di situazioni. Tutto deve essere pianissimo e leggerissimo: prescrizione fondamentale per non cadere nella volgarità. Scena XI 3)Allegro assai mosso, «Di Madridde noi siam mattadori» , 4/4 Do maggiore. Preludio al pezzo seguente. Alla fine del coro dei toreri abbiamo un senso di ansia e di elettricità accumulatosi nell’aria del salone dove si svolge la festa. 4)Allegro assai vivo «E' Piquillo un bel gagliardo», 3/8 sol minore. L'episodio dei toreri con otto strofe di quattro versi ottonari a rime alternate a b a b. presenta tre parti

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I Parte 12 versi II Parte 8 versi III Parte 12 versi Anche su questo pezzo , molto pittoresco, si può fare lo stesso discorso di prima. Verdi comincia intonando i primi dodici versi secondo la forma tipica dell'aria strofica: una lyric form A A' B A'' con coda costituita dal crescendo C C'. Ricordo che ogni frase musicale comprende due versi.

GASTONE E MATTADORI E' Piquillo un bel gagliardo A sol- Biscaglino mattador: Forte il braccio, fiero il guardo, A' Delle giostre egli e' signor. D'andalusa giovinetta B sib+ Follemente innamoro'; B’ Ma la bella ritrosetta A'' sol- Cosi' al giovane parlo': Cinque tori in un sol giorno C sol+ Vo' vederti ad atterrar; E, se vinci, al tuo ritorno C' Mano e cor ti vo' donar.

Poi, però, prosegue in modo diverso. La seconda strofa è più corta e comprende solo otto versi invece di dodici, anche se la ripetizione di un distico la dilata come se avesse dieci versi. Si', gli disse, e il mattadore, A sol- Alle giostre mosse il pie'; Cinque tori, vincitore D Sull'arena egli stende'. Cinque tori, vincitore D' Sull'arena egli stende' GLI ALTRI Bravo, bravo il mattadore, C sol+ Ben gagliardo si mostro' Se alla giovane l'amore C' In tal guisa egli provo'. La terza strofa comprende gli ultimi dodici versi. Riprende da capo tutta la prima parte, ma poi si amplifica con ripetizione dei versi nel modo seguente:

GASTONE E MATTADORI Poi, tra plausi, ritornato A sol- Alla bella del suo cor, Colse il premio desiato A' Tra le braccia dell'amor. GLI ALTRI Con tai prove i mattadori B si b+

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San le belle conquistar! GASTONE E MATTADORI Ma qui son piu' miti i cori; A'' sol- A noi basta folleggiar TUTTI Si', si', allegri Or pria tentiamo C sol+ Della sorte il vario umor; La palestra dischiudiamo C' Agli audaci giuocator. La palestra dischiudiamo C'' Agli audaci giuocator. Si', si', allegri Or pria tentiamo D Della sorte il vario umor; La palestra dischiudiamo D' Agli audaci giuocator

Dal punto di vista armonico, il particolare più piccante è la frase D che, esposta in minore, conclude il pezzo in sol maggiore. Sono piccoli cangiamenti che danno il senso del pittoresco, del colore, del travestimento arguto, della maschera spiritosa. Qui la forma strofica è manipolata in modo da farla risultare asimmetrica. Le tre strofe iniziano tutte con A e finiscono con C ma, all'interno, sono differenti: la prima non ha l'episodio D, che compare nella seconda e ritorna nella coda della terza; La terza è uguale alla prima , ma nella coda è molto amplificata; la seconda non ha l'episodio B. Insomma, anche qui , Verdi fa un gioco di bussolotti: immette frasi nuove e le toglie quando uno si aspetterebbe di riascoltarle. C'è dunque , qui come nelle Zingarelle, un senso di varietà labirintica, di spiazzamento continuo, di disordine, ma anche di eccesso per come i frammenti si accoppiano di volta in volta in modo imprevedibile. «Sì , sì allegri ...or pria tentiamo / della sorte il vario umor»: più si invitano all'allegria, più i Mattadori appaiono ansiosi di inseguirla, sul ritmo del crescendo, non liberatorio come quelli di Rossini, ma ansimante, nervoso, pieno di impazienza: un crescendo che non fa da sfogo alla tensione accumulata, ma che la lascia , in un certo senso , insoddisfatta. Alla fine del pezzo, «gli uomini si tolgono la maschera e chi passeggia, chi si accinge a giocare». Piombiamo in una cupezza che l'opera non ci aveva ancora riservato. Zingarelle e Mattadori sono in sé divertentissimi: ma è dal punto di vista di Violetta che dobbiamo giudicarli. Lei entrerà poco dopo, appena è finito questo inno al piacere della festa. Dopo il duetto con Germont e prima della partita a carte, i due pezzi fanno l'effetto di una doccia fredda, spostando lo spettatore, improvvisamente, in una dimensione di frivolezza ostentata che suona sottilmente agghiacciante, anche per il continuo zig-zag tra un segmento e l'altro che caratterizza i due cori, in un vorticoso e incessante mutare di direzione. I Mattadori alludono al Carnevale: «Testé giunti a godere del chiasso| che a Parigi si fa pel bue grasso»: è sempre carnevale nella Traviata. Nel primo atto, dove si dice «La città di feste è piena, volge il tempo del piacer» anche se siamo in agosto; nell'ultimo dove Annina nota «Tutta Parigi impazza è carnevale». C’è un massimo di contrasto tra la festa collettiva e il dramma di Violetta culminante nei tre momenti: la presa d'atto dell'amore di Alfredo, la ricacciata nella vita alienata di prima, la morte e la fine di tutto. La festa è una morsa che attanaglia Violetta nel ritmo vorticoso di una musica meccanica, antitetica a quel canto organico, flessibile, modellato sulla parola che caratterizza tutta la sua parte. Qui, nei cori delle Zingari e dei Toreri, la musica meccanica, esaltata dalla messa in cornice del teatro nel teatro, acquista una spaventosa forza drammatica: non è altro che la controfigura brillante di un altro meccanismo che si metterà in azione subito dopo, quello della partita a carte in cui Violetta sarà immersa. Zingarelle e Toreri confermano, quindi, che la musica meccanica nella Traviata identifica il mondo antagonista : le danze del primo atto, espressione di una società alienata e ubriaca di cui Violetta ha nausea ("le aride follie del viver mio"), le mascherate, il teatro

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nel teatro, in cui la musica procede attraverso una pulsazione costante che deforma e spezza le parole, rendendole incomprensibili, imprigionano l'esistenza di Violetta nella rete della finzione. La mascherata è una finzione al quadrato, espressione posticcia di una società di per sè alienata. In rapporto al dramma di Violetta l'effetto di contrasto non poteva essere più genialmente sfacciato. ' E’sempre periodo di festa nella Traviata: nel primo atto si allude alle feste che percorrono la città, nel secondo al tempo delle maschere, nel terzo al carnevale. Qui la festa si esprime non più in canti e balli, come nel primo atto, ma in tre momenti ludici: Zingarelle, Toreri e partita a carte. Il teatro nel teatro nelle due mascherate accentua al massimo l'effetto straniante, la rappresentaione di una crudeltà che agisce su Violetta con implacabile incisività. I tre momenti sono tre punte che trafiggono lo spettatore immerso nella tragedia: come sempre in Verdi tutto, anche ciò che pare evasivo, e che nella tradizione dell'opera, specialmente quella francese, aveva carattere decorativo, viene usato in funzione drammatica. Scena XII 5) Allegro «Alfredo!...Voi!...», 4/4 Sol maggiore. Entrano Alfredo e Violetta, e d'ora in poi la festa assume un'intonazione tragica. Questo passo è brevissimo ma significativo: presenta già in orchestra una figurazione ostinata, cioè più volte ripetuta che, da un lato prosegue l'aspetto meccanico della musica precedente, dall'altro ne rovescia il significato espressivo in un qualche cosa di segretamente minaccioso. 6)Allegro agitato «Qui desiata giungi», 6/8, Fa minore. E' il pezzo più bello del finale, per potenza di raffigurazione drammatica. Vi si svolge una partita a carte che assume il carattere di una sfida tra Alfredo e il Barone. Il pezzo dimostra molto bene la possibilità del compositore d'opera di mutare il punto di vista, dando a certe scene un carattere espressivo molto definito e sostanzialmente imprevedibile. Qui si trattava di raffigurare una partita a carte: niente di particolarmente drammatico. Verdi poteva proseguire il tono scanzonato delle conversazioni svolte nel primo atto. Invece, dà al pezzo un’ intonazione tragica perché si immedesima in Violetta e guarda la scena dal suo punto di vista. Prima la scena era vista dalla parte degli invitati in cui ci immedesimavamo noi, spettatori; adesso viene vista dalla parte di Violetta che entra in questo ambiente chiassoso, con un senso di angoscia e di disgusto. Violetta arriva alla festa con il barone Duphol, suo vecchio amante con cui è tornata a vivere e l'ambiente degli amici scanzonati e goderecci ormai le provoca un senso di repulsione: già si sentiva «sola perduta e abbandonata» nel deserto della vita parigina; ora, dopo che ha avuto tre mesi di felicità, dopo che ha cambiato vita e ha trovato l'amore ritenuto impossibile, si vede respinta nuovamente nel vecchio mondo che la opprime come una prigione. Violetta-Margherita aveva il terrore di ripiombare nella vita di prima. «Pensa che ora – diceva in Dumas – , dopo aver gustato una nuova esistenza, io morrei se dovessi riprendere l'antica. Dimmi dunque che non mi lascerai mai» (p. 153) e : «in nome di Dio, Armando, non ricacciarmi nella vita che fui costretta a condurre un giorno» (p.163). Inoltre, in questa festa trova Alfredo che lancia parole di sfida al Barone, alludendo a lei: presa in mezzo, desidererebbe fuggire, ma ogni via di fuga le è preclusa. Per rappresentare questo stato d'animo, Verdi utilizza una figurazione ostinata, continuamente ripetuta in orchestra con diversi colori strumentali e in diverse tonalità: l'effetto è quello di un meccanismo che procede implacabile, simbolo del tempo che scorre e che fa precipitare gli eventi. Le voci sono trascinate in un dialogo incalzante, fatto di battute brevi, estremamente realistico, in questo andamento meccanico che accumula tensione emotiva nella sua ostinata

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iterazione: si noti il tipo di canto, uniformato in valori ritmici simili, sovente fissato sopra una nota ribattuta, come prigioniero anche lui di quella isocronia ritmica che scorre in orchestra, dove si annida tutta l'espressività della scena. E' questo un antico espediente del teatro d'opera: utilizzare procedimenti iterativi per creare il senso del tempo che passa, come se fosse scandito dai battiti dell'orologio e, scorrendo, facesse precipitare gli eventi. Si pensi a certi film gialli in cui , quando si aspetta che succeda qualche cosa di catastrofico, viene inquadrato l'orologio che segna il fatale scorrere dei minuti. Mozart aveva usato questa tecnica combinando insieme tre danze nel finale primo del Don Giovanni; Verdi lo userà di nuovo nel Finale del terzo atto di Un ballo in maschera, facendo pulsare i ritmi di danza per creare un senso di angoscia, sfociante nell'assassinio di Riccardo. Il tema inventato da Verdi per questa scena ha qualche cosa di sinistro. Non ha valore melodico, è una semplice pulsazione: l'effetto è di un brusio quasi rumoristico, una ragnatela che, implacabilmente, viene tessuta intorno alle voci che si inseguono in battute frantumate, brevi, incalzanti. E si noti il timbro. Le acciaccature che pullulano ovunque, il frusciare delle sestine di semicrome staccate, la combinazione di archi e clarinetto nel registro basso danno all'orchestra un colore sporco, molto oscuro e volutamente sgradevole: a Violetta il gioco che si sta svolgendo dà un senso di ripugnanza.

Il libretto di Piave, come si vede, è un modello di funzionalità melodrammaturgica e rende appieno la concitazione e la suspence del gioco d'azzardo, dominato dal caso. Il canto è estremamente spoglio in un declamato non melodico, fatto sovente di note ribattute su ritmo regolare. Il tempo incalza, pulsa, precipita. In questo quadro si ha una netta accelerazione del tempo rispetto a quello precedente: Verdi vuol dare il senso degli avvenimenti che stanno correndo verso un esito tragico. Le due feste, nel primo e terzo quadro, sono dominate da questo senso vertiginoso del tempo che scorre, dall’ansia e dall’affanno di una corsa precipitosa da cui gli avvenimenti sono travolti: solo che la prima ha un esito chiassoso e festoso, la seconda, dapprima tragico, poi stranamente catartico. Il secondo e quarto quadro sono più calmi, perché entrano nell’ interiorità della protagonista e scavano nel suo dramma. Il primo e terzo quadro sono la cornice, il mondo da cui Violetta si stacca per ricadervi per il suo tragico destino. Sono l’esteriorità, il chiasso, il meccanico, la fretta, l'angoscia che qui viene allo scoperto, facendoci capire che serpeggiava anche nelle musiche "festose", come i balli del primo atto, i cori delle zingarelle e dei mattadori.

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In questa ragnatela ritmica Violetta è imprigionata ma, vero colpo di genio, per tre volte tenta di uscire dal micidiale pullulare di brusii strumentali: le sue frasi «Ah perché venni, incauta!/ Pietà di me gran Dio» e «Che fia morir mi sento / Pietà gran Dio di me», che risuonano tre volte, in Fa minore, con lieve sfumatura interna in Si bemolle minore, si effondono in pura melodia che interrompe il meccanismo dell'accompagnamento, con l'effetto di un raggio di luce che taglia il buio. Solo la prima delle tre frasi è indicata per esteso nel libretto. La seconda è indicata solo come «Che fia? morir mi sento», la terza manca. E' quindi una decisione di Verdi quella di averle messe, per far spiccare la tristezza angosciosa del personaggio e contrapporlo all'ambiente in cui si trova. Una contrapposizione che è , innanzitutto, musicale: tanto il ritmo della partita a carte è rigido, tanto la triplice frase di Violetta è libera nel suo meraviglioso arco melodico. Alla bruttezza del ritmo puro, rivestito di timbri "sporchi" e dal fremito rumoristico delle acciaccature, si contrappone la bellezza della melodia pura, fatta di note lunge e quasi sottratta alla pulsazione del ritmo che si ritira nel leggerissimo accompagnamento in tempo ternario dell'orchestra, come un ritmo di valzer visto attraverso uno schermo d'acqua.

E' confermata la natura religiosa del sacrificio di Violetta in cui è avvenuta una trasformazione esistenziale: ora ha scoperto Dio e il pensiero di Dio, che sa perdonare, a differenza degli uomini, la accompagna ovunque. Violetta è di nuovo sola, anche se si è riunita con il marchese Duphol: ma, nella sua tragica solitudine di mantenuta, sa, ora, che esiste qualcuno con cui dialogare e in cui confidare. Ha acquistato una tranquillità interiore, pur nel dolore che sta vivendo, e questo mostrano le sue melodie che, d'ora in poi , dopo gli sconvolgimenti del duetto e della scena della lettera, sono levigate, composte, anche nell'espressione della malinconia e del dolore: Violetta rivela in questo la sua forza interiore. La fortezza è la virtù di cui Violetta sentiva tremendo bisogno per sopportare il suo sacrificio. A Germont aveva detto di abbracciarla : «Forte così sarò»; «Dammi tu forza o cielo» aveva invocato prima di scrivere la lettera. E in Dumas : «Una cosa, forse da non credere, Armando, è ch'io pregai Dio di darmi forza; l'avermi dato questa forza che imploravo mi prova che accettò il mio sacrificio».

Questo passo della partitura rivela che la grazia le è stata concessa. Verdi avrebbe potuto scrivere per Violetta una frase angosciata, spezzata dalle pause e dai sospiri, impregnata di umanità dolente e oppressa, invece sceglie una soluzione diversa, del tutto inattesa, e nata dall'idea di esasperare il contrasto tra l'andamento affannoso della partita a carte e chi vi si contrappone, guardando a quel mondo ormai disprezzato e aborrito, dall'alto di una diversa statura morale. La triplice frase melodica è nobile, struggente, ferma e pacata, semplicissima eppure intensissima nel suo arco che sale e ricade spossato: ha qualcosa di intimamente composto, pur nella infinita malinconia. Allo staccato di prima si contrappone il legato del canto di Violetta: il suono cambia improvvisamente, diventa morbido, avvolgente, dopo la secchezza rumoristica dei fruscii, degli zampettii, dei ticchettii sinistri di prima, che riprendono subito dopo:

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L'elemento meccanico e quello organico, qui, si intrecciano: la partita a carte, sotto questo

profilo, è il pezzo più drammatico dell'opera perché vi si affrontano direttamente i due principi ultimi su cui è costruita la drammaturgia musicale della Traviata.

Dopo la prima frase di Violetta («Ah perché venni incauta»), tutto ripiomba nell'angoscioso fermento di prima. Il pezzo modula in Re bemolle maggiore ma la strumentazione cambia: ora tacciono i violini e, quando riprendono a suonare, lo fanno nel registro acuto, mentre ai clarinetti si aggiungono i flauti, e i bassi smettono di suonare le acciaccature, limitandosi a punteggiare il ritmo. Tutto diviene più leggero e trasparente: l'effetto di densità rumoristica della prima parte sparisce, rimane un fruscio lampeggiante di suoni più chiari. Alfredo allude crudelmente a Violetta quando dice che, se vince al gioco, tornerà tra i campi a vivere con una che era con lui, e che poi se ne è andata. «Pietà di lei», gli dice sottovoce Gastone, additando Violetta. Dunque questa musica è anche musica della crudeltà, espressa nella sua implacabile regolarità ritmica. Il Barone «ironico» dice ad Alfredo di esser tentato al gioco anche lui; Alfredo accetta la sfida. Violetta trasalisce, ed è il suo secondo intervento: si ritorna al Fa minore, la partita incalza , con un nuovo cambiamento di strumentazione. Ora Verdi rinforza la sestina di semicrome suonata ininterrottamente dai violoncelli con un effetto di rombo sotterraneo, estremamente inquieto e sinistro. Siamo al culmine del gioco, nella rappresentazione pura dell'azzardo: «Cento luigi a destra!...Ed alla manca cento!./Un asso...un fante ... hai vinto! / Il doppio ... il doppio sia». La legge del caso domina la partita a carte; ma qui , attraverso la musica, assume un significato universale, diventa metafora del tempo che scorre implacabile e travolge la vita e il destino degli uomini. Per questo la partita a carte assume nel Finale II una straordinaria forza di rappresentazione tragica.

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Dopo il terzo intervento di Violetta, il pezzo finisce in pianissimo, con la vittoria al gioco

di Alfredo, che pela il Barone. Un passaggio in La bemolle maggiore («Il doppio sia...») interrompe la stabilità del Fa minore che si riafferma quasi subito e porta il pezzo alla conclusione, come evaporando, mentre gli invitati escono dalla scena, che resta un istante vuota. Anche questa fissità del Fa minore determina un senso di implacabile fatalità. La tragicità di questo pezzo, infatti, nasce dal collegamento tra il gioco d'azzardo e la fatalità della vita che, come il gioco, è esposta ai colpi casuali del destino. Un destino che, per Violetta, è prima di alienazione, poi di amore, indi di malattia, di morte. E ai colpi del destino, che ferisce alla cieca, Violetta contrappone la propria forza morale, ossia la forza dell'amore universale che le permette di sopportare la rinuncia e, attraverso il dolore, affrontare il proprio destino diventando donna, eroina e infine angelo. Scena XIII 7) Allegro agitato assai vivo, «Invitato a qui seguirmi»., 4/4 a cappella, re bemolle maggiore. Da questo momento in poi il finale precipita con una serie di episodi concitati il cui ritmo rallenta, curiosamente, nell'ultima sezione, per permettere alla musica di assumere un andamento consolatorio, catartico. Il senso delle scene XII- XV è l'umiliazione di Violetta da parte di Alfredo e della sua irata villania. Lo stato d'animo di Violetta è riassumibile in una domanda: perché sono venuta qui? Mi sento morire, Signore, aiutami tu! E' uno stato d'animo di creatura braccata in una situazione che sta precipitando e lei se lo aspetta. Violetta ha fatto chiamare Alfredo perché vuol

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parlargli e lui verrà certamente perchè, dice Violetta, «l'odio atroce puote in lui più di mia voce»: ossia verrà per dirmi quanto mi odia. Nella concitazione, espressa dalla corsa di semicrome, e dal Re bemolle ribattuto in orchestra, la frase declamata suona come l'ultima espressione di vera disperazione strappata a Violetta e ottenuta con un semplice seguito di La ribattuti, con salto di ottava su «voce», un grido prolungato per due battute su un’ esplosione orchestrale. Violetta appare di nuovo sconvolta , perché Alfredo sta per assalirla, e infatti il dialogo è concitatissimo: «Mi chiamaste? Che bramate?». Violetta l'ha chiamato perché desidera avvisarlo: un pericolo lo sovrasta, il barone vuole sfidarlo a duello. A Verdi interessa ora rendere la concitazione della situazione, più che scavare nella psicologia dei singoli. A parte l'uscita di Violetta: di grande forza drammatica con una declamazione solenne, il seguito dell’episodio, che trascorre attraverso varie tonalità, in un senso di inquieto cangiantismo, è un dialogo concitato, anche questo basato su di un ritmo ostinato e varie figurazioni che ritornano, sferzando l'andamento dell' affannosa conversazione. In orchestra si susseguono quartine di semicrome e duine: come se le sestine della partita a carte si fossero spezzate, senza perdere il loro impulso meccanico. Tutto è affannosissimo e concitatissimo: pulsa anche qui un ritmo inesorabile. Incisive le espressioni sarcastiche e crudeli di Alfredo; concitatissime quelle di lei: l'effetto generale è di febbrile eccitazione, molto coinvolgente dal punto di vista teatrale. Vediamo sul palcoscenico due figure sconvolte dall'affanno e dall'ira, e in questa agitazione si risolve la caratterizzazione. Ma le parole dicono cose significative: il sarcasmo di Alfredo che dice a Violetta che, se il barone verrà ucciso, lei perderà l'amante e insieme il protettore, il terrore di Violetta per l'eventuale morte di Alfredo, l'invito a partire, a patto che tu mi segua , dice Alfredo. Mai!, lasciami – risponde lei, «scorda un nome che è infamato». Notare le note in contrattempo dei corni, veri squilli fatali, sotto le parole di Alfredo «La mia morte che ten cale!». E poi la parola definitiva «di fuggirti un giuramento/ sacro io feci». Ecco, di nuovo, il sacrificio di Violetta manifestamente legato alla sfera del sacro e del divino: ed è questa consapevolezza che le dà la forza di dare la risposta definitiva «con supremo sforzo» ad Alfredo che le domanda se ama Duphol: «Ebben ...l'amo» detto in un intervallo di terza maggiore discendente, Sol diesis-Mi, come spossato. Così la rivelazione menzognera dell'amore per Duphol, che avrebbe potuto esser risolta con un grande effetto musicale , passa invece quasi inosservata, come travolta dallo scorrere degli avvenimenti: Violetta è schiacciata, la frase le è sfuggita per dovere da un animo riluttante ad affermare il contrario della verità che serba nel cuore, e che vorrebbe di nuovo gridare: «Amami, Alfredo, amami quant'io t'amo!». Le due parole riferite a Duphol sono la controfigura tragica e menzognera, di quel travolgente grido d'amore: ecco perchè si risolvono in due note appena bisbigliate. Comunque, ciò che più conta in questa scena è il ritmo drammatico, l'ansia di una corsa verso la scenata di Alfredo che «corre furente a spalancare la porta» e chiama tutti a raccolta. Gli invitati corrono e si stringono attorno alla coppia. Che cosa c'è, che volete? L’effetto è sempre quello della concitazione veloce e precipitosa: il tempo accelera e precipita in una morsa di angoscia. Anche qui, in orchestra, continuano a pulsare disegni oscuri, agitati e ostinati, nella loro implacabile isocronia ritmica. Scena XIV. Entra il coro. Alfredo comincia il suo discorso pubblico. Cambia il tono retorico: diventa tribunizio, fortemente gestuale, mentre Violetta, abbattuta, si appoggia al tavolino. In queste scene, Violetta subisce anche un crollo fisico: schiacciata dagli insulti di Alfredo, spossata dallo sforzo di mentire per rispettare un giuramento sacro, barcolla e deve appoggiarsi per non cadere. Le forze le mancano, e si prepara lo svenimento che seguirà.

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8)Allegro sostenuto «Ogni suo aver tal femmina», Allegro sostenuto, 4/4, Do maggiore. Alfredo offende pubblicamente Violetta e le getta ai piedi una borsa di denari, quelli che ha appena vinto al gioco: Violetta sviene tra le braccia di Flora e del Dottore. Anche qui conta il gesto, molto ben espresso da una musica che ritrae l'eccitazione di Alfredo con tensione crescente, ma con disegni melodici piuttosto convenzionali. Il gesto è volgare, e conta in quanto tale, più come movimento scenico che come dramma psicologico. Verdi lo tratta a grandi linee, e lo fa immediatamente seguire dal coro, concitatissimo, su ritmo martellante a raffica. La scena è ferma, ma la concitazione è vivissima. Ancora una volta, Alfredo è trattato, sistematicamente, non come un personaggio di cui ci interessi capire la psicologia ma come un canale attraverso cui la forza del destino arriva a investire la vita di Violetta, nel bene, con la scoperta dell'«amor ch'è palpito» e nel male, con questa offesa crudele e ingiusta. Tutta l'attenzione del musicista drammaturgo è incentrata su di lei, è Violetta la sola di cui ci interessa conoscere la vita interiore, il dramma personale. 9) Velocissimo «Oh infamia orribile», 2/4, do minore. Sèguito di dattili martellanti, come staffilate, che si abbattono su Alfredo, mentre Violetta è caduta priva di sensi. Il pezzo non è «bello»: ma rientra nell'intento di rendere un ritmo teatrale fatto di accelerazioni, rallentamenti, nuove accelerazioni e ancora rallentamenti. E' un’ esplosione elementare di sdegno e di condanna, da parte del coro, del gesto di Alfredo, ma, ancora di più, un momento di accelerazione per far spiccare la solennità e la stasi del Largo che segue. L'azione, in tal modo, pulsa attraverso situazioni brevi, incalzanti, che si alternano ad effetti di suspense seguiti da scatenamento energetico: il risultato è di grande presa teatrale, anche se l'invenzione musicale non ha la stessa qualità che abbiamo visto nel concertato della partita a carte. 10) Largo «Di sprezzo degno», 4/4, Mi bemolle maggiore. E' il pezzo conclusivo del Finale. Entra Germont, «con dignitoso fuoco», apostrofando il figlio con la solita pacatezza affettuosa, ma come raggelata nella sua scorza di formalismo. Lo stile è il medesimo di quello usato nel duetto con Violetta: attraverso la coerenza stilistica il personaggio acquista il proprio profilo individuale che rivela ben poco della sua interiorità. Si può rilevare, dunque, che Germont è caratterizzato da andamenti tematici regolarmente scanditi, melodie pacate, di stile vecchiotto, che ricordano Donizetti o Bellini; Alfredo da melodie espanse, avvolgenti ( I atto e III atto, come vedremo) occasionalmente accompagnate da uscite energiche dotate di incisività ritmica, come nell'aria e cabaletta del secondo atto o in questa sortita solistica della scena da Flora. Violetta è caratterizzata, invece, da uno stile enormemente più vario e sfaccettato che va dalla coloratura acrobatica, alla melodia espansa, al declamato ricco di sfumature espressive, al quasi parlato: ma in ogni atteggiamento vocale di Violetta c'è sempre il riferimento all'accentus, al suono della parola attorno a cui si coagula l'idea melodica come espressione del significato. Per questo la sua parte è enormemente più ricca e varia di quella degli altri due, e porta avanti lo stile verdiano verso la conquista di nuovi risultati stilistici ed espressivi. Importantissimo è notare la forma di questo finale. Verdi qui rinnega la solita forma del finale che comprenderebbe scena- tempo di attacco- largo concertato- tempo di mezzo e stretta. Il largo concertato, cioè il pezzo che stiamo analizzando, è di solito un pezzo statico che crea un momento di stasi nell'azione drammatica, prima che la stretta concluda l'atto in moto vivace e precipitoso, con grande strepito di solisti, coro e orchestra. Invece qui il Largo, che comincia con l'intervento di Germont, a poco a poco, si trasforma e assume il ruolo conclusivo della stretta che viene abolita: l'effetto è di meravigliosa continuità e il finale d'atto assume quel carattere di cullante

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e un poco ipnotica rotazione che si adatta benissimo alla natura della situazione e le conferisce una evidenza del tutto particolare. L'intervento di Alfredo, a parte, «Ah sì che feci!», esprime sgomento, seppure anch'esso inquadrato in una simmetria un po' rigida: si conferma quindi la volontà di Verdi di caratterizzare sommariamente i due protagonisti maschili. Il coro canta il suo breve passo indirizzato a Violetta «Ah quanto peni...ma pur fa core», ultima strofa del testo di Piave che prepara l'atmosfera del canto seguente, il celebre «Alfredo, Alfredo di questo core», alla dominante, Si bemolle maggiore, con effetto di improvvisa apertura. Da notare, quindi, il trattamento del testo: Verdi anticipa tutto il testo, anche la strofa conclusiva del coro e lascia per ultimo l'intervento di Violetta «Alfredo, Alfredo, di questo core», staccandolo dal resto e facendone l'avvio per una sorta di stretta, in cui la sua melodia si estende a tutti gli altri. Una stretta non agogica, ossia di movimento, ma di progressiva intensità ritmica e melodica. Dopo che tutti hanno cantato la loro parte, Violetta, quindi, rinviene e, con «voce debolissima e con passione», come scrive Verdi, unendo due indicazioni che potrebbero sembrare antitetiche, canta il suo amore per Alfredo. Nella Traviata la passione non è quasi mai gridata: dominano in questa partitura sfumature, sottigliezze, effetti cameristici di canto sottovoce. Basti pensare alla quantità di indicazioni di piano e pianissimo con p, pp, ppp, pppp, ppppp che troviamo nella partitura: solo cattive esecuzioni possono ignorarle. L'idea del «melodrammatico» in senso negativo come ostentazione retorica è dunque completamente estraneo al progetto verdiano e nasce essenzialmente da una distorsione della tradizione esecutiva. Per questo oggi si stanno pubblicando le edizioni critiche delle opere di Verdi che correggono in molti punti errori di dinamica o arbitrarie interpolazioni introdotte nelle edizioni correnti al punto da sfigurare, talvolta, il carattere di molti passaggi. Il canto di Violetta, qui, è puro, dolce, intimo, preceduto da due battute di accompagnamento orchestrale che ne preparano l'improvviso dischiudersi, con una brusca frattura con ciò che precede. Si noti come questa melodia si sviluppi organicamente: il procedimento compositivo è antitetico a quello adottato nelle pagine precedenti: se negli episodi delle zingarelle e dei toreri, della partita a carte e del dialogo Alfredo-Violetta, dominava l'iterazione di segmenti melodici lineari, rigidi, qui invece il canto di Violetta si sviluppa con la naturalezza di un organismo vivente. Inizia in modo frantumato, poi , a poco a poco, acquista continuità, le terzine si affermano sempre più, determinando un movimento scorrevole che acquista esplicitamente un andamento di valzer lento:

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Da questo punto in poi , le voci di Alfredo e Germont anticipano il tema di Violetta che continua a svilupparsi. C'è quindi una complementarità tra la protagonista e i suoi avversari che la musica rende, oltre il significato del testo:

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Nulla si ripete, come si vede, in questa straordinaria melodia, che diventa sempre più fluida e scorrevole: tutto si evolve e si trasforma in questo tema meraviglioso. Sono quindi due i mondi contrapposti nella Traviata : quello esteriore, dominato da una concezione meccanica della musica e quello interiore in cui la musica si svolge in un organico divenire. Sembra ovvio sottolineare che nel teatro d'opera non è naturalmente sempre così: la contrapposizione nasce qui da un complesso di scelte stilistiche che, in rapporto al libretto, le danno, appunto, quel significato. La meravigliosa melodia di «Alfredo, Alfredo», dopo tutto quel tumulto, sembra fiorire come un’ apparizione. La melodia è pura, nobile, ed esprime una tenerezza, una nostalgia, un rimpianto dolcemente interiorizzati, ma anche espressi con un’ imprevedibile tranquillità interiore. Violetta compie qui un atto che la innalza sopra le offese subite: perdona Alfredo. Lei, che il mondo non perdona, sa, invece, perdonare chi l'ha offesa. Il disprezzo, gli dice, è stato per lei il prezzo del suo amore; ma verrà il giorno in cui tu saprai quanto ti ho amato, e Dio possa, allora, salvarti dai rimorsi. Io sarò morta, ma continuerò ad amarti. Verrà un giorno: il tempo futuro si prospetta, ancora una volta, all'orizzonte di questo dramma, tutto proiettato verso l'avvenire tragico che attende la protagonista. Dio ti salvi dai rimorsi: Violetta guarda ormai alla vita dall'altezza del sacro. In tal modo si pone più in alto del destino che la colpisce: relativizza gli accadimenti terreni guardandoli da un punto di vista superiore. Lei sa che deve morire: e la consapevolezza della morte l’accompagna per tutta l’opera, sin dal duetto con Germont, in cui dice che la sua vita è colpita dalla malattia e sta per giungere alla fine. La presenza della malattia è annunciata nel primo atto con il malore e il riferimento alle «egre soglie» cui Alfredo sarebbe asceso. Così, il suo canto tocca quasi sfere angeliche, anche per il suono pianissimo della voce. Ma questo è tanto più impressionante se consideriamo in che condizione si trova chi la pronuncia: schiacciata a terra dagli insulti di Alfredo, sprofondata nel punto più basso dell'abbattimento morale, Violetta trova ancora più chiaramente in sé la sorgente dell'amore. Più il dolore la tortura, più la sua umanità si esprime con calore. Questa impressione è confermata dal destino riservato alla melodia. Essa non è proprietà esclusiva di Violetta: partendo dalla sua voce debolissima coinvolge dapprima Alfredo, che continua a ripetere «Volea fuggirla», indi Germont, e gli altri personaggi, con un effetto di progressiva rotazione danzante: la pulsazione acquista infatti la circolarità del valzer lento. L'atto finisce dunque con questa figura consolatoria, affettuosa: l'amore di Violetta la sua bontà, la sua infinita capacità di amare elevano tutti in un abbraccio universale, cullato da un movimento ondulatorio, rassicurante e dolce. L'effetto di amplificazione e di superamento della situazione specifica in uno stato d'animo generale è simile a quello che succede con «Amami Alfredo», anche se i mezzi usati e la natura del pezzo sono diversissimi: ma, ancora una volta, l'amore di Violetta diventa il principio animatore di uno stato d'animo che travalica i confini della situazione in cui si trovano i singoli personaggi. E questo puramente per virtù della musica che ha la possibilità di riempire i momenti teatrali, dilatandone il significato, a livelli del tutto imprevisti dal poeta. Dunque Violetta in questo quadro viene progressivamente alla ribalta, con lo stesso effetto di carrellata cui abbiamo assistito nel primo atto, dove il personaggio veniva inquadrato in una visione generale, poi sempre più da vicino sino al primo piano dell'aria conclusiva. Qui è lo stesso. Nelle pagine iniziali del quadro, Violetta appare a strappi, in mezzo agli altri. La sua presenza, anche se poco visibile, è avvertita in modo fortissimo: bastano le frasi melodiche della scena delle carte a produrre questa sensazione, mentre Verdi fa vedere la scena nella sua totalità. Poi Violetta viene inquadrata, per così dire, in un «campo medio» durante il drammatico duetto con Alfredo; infine, con «Alfredo Alfredo», la «macchina da presa» della musica verdiana si avvicina a lei e il suo volto ingigantisce sullo schermo ideale della rappresentazione musicale. Finché, nel lungo, ampio, roteante movimento del concertato finale è lei sola che guida lo svolgersi del pezzo, ponendosi al centro del movimento a spirale che si estende in cerchi dapprima ristretti, poi sempre più ampi, coinvolgendo tutti, e anche l'orchestra, nel ritmo del valzer portato sempre più in primo piano. Il pezzo è da intendersi come un’ emanazione: dalla voce di Violetta, il ritmo di valzer e la melodia meravigliosa si allargano a comprendere tutti gli altri in una rotazione incantatoria di

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grande efficacia. E’ Violetta che redime gli altri: invece di pensare al divertimento infatti esprimono amore per Violetta. «Qui soffre ognuno del tuo dolore | fra cari amici qui sei soltanto»: solidarietà, calore umano dal canto di Violetta a quello del coro. Questo è un tipico concertato statico: non succede più nulla e la musica approfondisce i sentimenti di coloro che si trovano in certe situazioni. Anzi, giunge a cambiare il significato delle parole, perché Alfredo continua a cantare «Or che lo sdegno ho disfogato», cioè parole che esprimono rimorso, sulla melodia cullante e dolcissima di Violetta: attraverso la musica, quindi, Verdi mostra Alfredo investito e come trasformato nella sua ira dal perdono e dall'amore di Violetta. Da notare che il ritmo di valzer, nella Traviata, s’ identifica con alcuni valori centrali: la dolcezza dell'amore («Di quell'amor ch'è palpito») la sacralità del dolore («Dite alla giovine»), il perdono(«Alfredo, Alfredo, di questo core») l'idea di Dio, come vedremo ancora in «Addio del passato». Il valzer è, dunque, l'immagine della personalità di Violetta e, nelle melodie seduttive che contiene, ne rappresenta anche la bellezza fisica, l'attrattiva sensuale, che non è vista come antitetica all'elemento sacro del dolore e della preghiera, ma, nel sacro, si sublima e si trasfigura. Il valzer è dunque il segno ritmico della totalità umanistica che caratterizza la figura di Violetta nel suo itinerario esistenziale. Violetta va incontro a dolori, umiliazioni, malattia, ma non perde la sua bellezza che, nello sfiorire della salute e della giovinezza («Ah come son mutata» dirà guardandosi allo specchio prima di morire), si interiorizza sempre di più, diventando bellezza spirituale. C'è dunque questa dissolvenza-assolvenza nel ritratto di Violetta: la bellezza prorompente della cortigiana che appariva nel primo atto, a poco a poco sbiadisce ma , al suo posto, affiora, sempre più radiosa, la bellezza interiore che, alla fine, splenderà di luce angelica («Se una pudica vergine...», anche questo un tempo di valzer molto mascherato in orchestra) nell'esangue spossatezza dell'agonia. Verdi, però, non perde mai il contatto con la realtà fisica del personaggio, la cui trasformazione ha un filo di continuità che la rende logica e organica. Il valzer alla fine rappresenterà l’armonia interiore di Violetta, raggiunta attraverso il sacrificio per amore. Dunque questo finale conferisce un ulteriore spessore al personaggio di Violetta ed alla portata tragica dell'opera nel suo insieme. Rispetto alla commedia di Dumas Piave e Verdi aggiungono l'episodio delle Zingarelle e dei Toreri, il Largo concertato di Germont e il finale corale con «Alfredo , Alfredo»: pagine funzionali al dramma, nel senso dello straniamento e della immedesimazione ma atte ad irrobustirne lo spessore. Powers considera il finale II della Traviata come un concertato lento : se non si capisce, attraverso la considerazione del materiale, che non è un concertato lento di tipo statico-contemplativo ma una spirale che si avvita su se stessa nella forma dinamica di un raptus emozionale, sfugge completamente l'originalità della sua funzione conclusiva. La considerazione del modello, insomma, diventa insignificante sul piano ermeneutico, se non viene messa in relazione con quella del materiale. Tutto il quadro mostra molto bene come la musica nell'opera possa giocare sulle escursioni del ritmo drammatico per variare gli effetti teatrali: qui andiamo da un massimo di coincidenza tra tempo della rappresentazione e tempo rappresentato, come avviene ad esempio nel dialogo (non lo chiamo neppure duetto) concitato tra Alfredo e Violetta, ad un massimo di divaricazione nel pezzo finale: il tempo rappresentato si ferma, e quello della rappresentazione musicale si dilata, rivelando come si evolvano sentimenti che nella realtà vivono una esistenza fulminea, mostrando in quale terreno psicologico e sentimentale si radichino pensieri brevissimi, balenanti anche solo per pochi attimi nell'animo dei personaggi. Si ha quindi una dilatazione del momento temporale in funzione del suo approfondimento emotivo: nell' apparente assurdità del canto simultaneo il compositore attinge e ci mostra una seconda verità. Il teatro di prosa non può far questo: al teatro musicale è aperta dunque una dimensione spazio-temporale molto diversa e più ricca di possibilità espressive. Questo finale in un solo movimento che si allarga a perorazione conclusiva era già stato usato da Donizetti nel Finale I di Linda di Chamounix.

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ATTO III N.8 Scena di Violetta. L'atto III della Traviata è simmetrico al primo quadro del secondo atto: entrambi analizzano da vicino i sentimenti della protagonista, il punto di vista è quello di un primo piano estremamente ravvicinato. Ecco la didascalia : Camera da letto di Violetta. Nel fondo c’è un letto con cortine mezze tirate; una finestra chiusa da imposte interne; presso il letto uno sgabello su cui una bottiglia di acqua, una tazza di cristallo, diverse medicine. A meta' della scena una toilette, vicino un canape'; piu' distante un altro mobile, sui cui arde un lume da notte; varie sedie ed altri mobili. La porta è a sinistra; di fronte v'è un caminetto con fuoco acceso. Violetta dorme sul letto. Annina, seduta presso il caminetto è pure addormentata. In Dumas, atto V, mancavano l'acqua, la tazza di cristallo, e le medicine. Questa descrizione è essenziale per comprendere come, in Verdi, gli oggetti menzionati non costituiscano un semplice arredo illustrativo, ma siano essenziali al dramma e alla sua ambientazione. La camera da letto allude alla intimità di Violetta: è un condensato di memorie, è il luogo d'incontro, non solo simbolico, di amore e morte. Non si può dunque eliminarla. Invece , in alcuni teatri mi è capitato di vedere Violetta morire in un letto di ospedale, o addirittura in un cortile. La scena buia sottolinea il senso di segretezza e di lontananza dal mondo, di silenzio, di solitudine, di torpore. Le ante interne delle finestre sono chiuse, brillano nella stanza solo due punti-luce: un lume da notte acceso, e il camino in cui arde un poco di legna, piccoli fuochi che quasi rendono visibile la consunzione di Violetta, lo spegnersi della sua vita ridotta al lumicino. La bottiglia d'acqua , la tazza e le medicine alludono alla sofferenza della malata e giustificheranno i gesti che compirà tra poco; il sofà, pure, è essenziale all'azione seguente. Nella stanza ci sono varie sedie e altri mobili oltre a quelli descritti: è dunque una stanza riccamente arredata, un po’ soffocante nella sua abbondanza di oggetti. Denota un tenore di vita lussuoso, anche se Violetta non ha più soldi, perché non guadagna più. Il letto è il giaciglio della malata, ma è anche il campo di battaglia della sua vita passata. Il destino crudele che ha colpito Violetta l’ha strappata a quella ridente casa di campagna, lontana da Parigi, in cui aveva vissuto tre mesi di felicità, e l’ha ricacciata nel luogo emblematico della sua sofferenza: il letto, su cui si consumava la sua vita alienata, nel mercimonio di quel corpo bellissimo, ridotto, ora, all’esangue pallore della consunzione. Ecco che fine ha fatto Violetta: sta morendo, schiacciata in quel buco soffocante da cui non esistono più vie di fuga. Passato e presente si saldano, dunque, in questo ambiente saturo di memorie e di dolore. Rappresentare una donna ammalata nella sua camera da letto era una scelta provocatoria, per il suo realismo, nei confronti della tradizione melodrammatica ottocentesca: era un trasportare in seno al melodramma quel gusto per le situazioni della vita quotidiana che il teatro di prosa francese coltivava come una novità e opponeva alla paludata retorica del teatro classico. L'atto terzo si apre con un preludio, bellissimo, attaccato da otto violini primi e otto violini secondi divisi. E’ l’immagine della sofferenza, del pianto, del dolore, data da due elementi: il suono e la profilatura del discorso. Il suono è cameristico, spettrale, rappresenta la vita giunta all'ultima consunzione. Nel suo colorito algido è stato paragonato a quello inventato da Wgner per il preludio di Lohengrin in cui si evoca la sfolgorante apparizione del cavaliere del cigno con la sua luminosità argentea. Le prime due frasi, estremamente piano, non pulsano: sono statiche e colpiscono per il timbro dei violini nel registro acuto, che rende in modo quasi tattile la debolezza della malattia, il pallore, i brividi che sembrano trascorrere sulla nostra pelle con una presenza quasi fisica. Questi effetti tattili che rendono, attraverso la musica, le sensazioni del corpo immerso in un determinato ambiente, sono molto frequenti in Rigoletto dove noi vediamo e tocchiamo, per mezzo del suono, lo spessore delle tenebre, il respiro dell’aria aperta, la luce del lampo, il soffio del vento, il rumore del

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tuono, lo scroscio della pioggia. Nella Traviata un altro effetto tattile è attribuibile al suono soffocato, oscuro, rumoristico che accompagna la partita a carte, e rende l’impressione di soffocamento che Violetta prova, a contatto con quella situazione, in quel determinato ambient chiuso, affollato e pieno di fumo. Forte, all’inizio del terzo atto, è il contrasto con il chiasso, il suono sfacciato della festa nel quadro precedente, e con la grande perorazione sonora della sua conclusione. C'è un voluto effetto di rottura. Qui tutto è ovattato, chiuso, silenzioso. Tagliato in do minore, il preludio è da intendersi come un arco che s' impenna e muore: comincia con frasi che stentano a mettersi in moto; poi compare una melodia molto malinconica, una melodia di pianto, il cui senso sta nel vano tentativo di sollevarsi verso l'alto, per ricadere spossata: immagine dell'attaccamento di Violetta alla vita, ma insieme della sua invincibile debolezza. Il tentativo di innalzarsi verso l'alto e il suo successivo ricadere verso il basso, si ripete tre volte. Ecco la prima:

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Notare, qui sopra, i tre Do nei violini primi, ripetuti forte e scanditi con i cunei, in progressione discendente, diminuendo. Sembra un vero e proprio declamato dall’intonazione interrogativa, come se l'orchestra tentasse di dire alcune parole, tipo «per-ché mo-ri-re?» o «io vo-glio vi-ver!». La tonalità passa dal Do minore dell'inizio a Sol maggiore, Fa minore, Do minore, La bemolle maggiore, Fa maggiore: modulazioni che , nel loro girovagare, indicano inquietudine. Una seconda melodia, in re bemolle maggiore, si slancia pure verso l'altro, ma poi ricade , frantumandosi anch'essa:

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Finché una terza salita, fremente di trilli, giunge al punto più alto da cui precipita in una serie di contorsioni, singhiozzi e sospiri, sono allo sbriciolamento finale. Nel corso di questo atto vedremo ripetersi più volte, in Violetta, il contrasto tra volontà di ripresa, ritorno vitale e inevitabile crollo. Un' intima malinconia caratterizza questo brano, in cui la malattia ha una rappresentazione non «malata», compiaciuta o morbosa, come sarà poi nel decadentismo, ma semplice, sobria, asciutta, eppur efficacissima nella sua chiarezza. La sonorità decresce per due volte dal forte al pp al pppp conclusivo. E’ difficile distinguere, in questo preludio, la successione dei motivi. In realtà Verdi svolge un discorso in divenire che ricorda quello della wagneriana “melodia infinita”: da una battuta all’altra il discorso si sviluppa con la massima naturalezza, senza simmetrie, ritorni o snodi chiaramente identificabili. La melodia , dapprima frammentaria, si snoda in frasi sempre più lunghe e dal respiro più vasto. E’ una sorta di grande arioso senza parole: la sua natura è eminentemente vocalistica, come quella del preludio al primo atto era di tipo strumentale. Qui c’èuna voce che canta; là un organetto che suona. Questa orchestra piange, canta, parla, s’ innalza in un empito di vita, sorride nel seguito dei trilli, si accascia nei singhiozzi finali. E’ l’anima di Violetta che si

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esprime , con lancinante intensità. Ed è l’apoteosi del principio organico che, contrapposto a quello meccanico ha identificato nel corso dell’opera l’esistenza musicale di Violetta, con la sua libertà di comportamento vocale, l’impiego di melodie sempre pronte a scivolare nel declamato, ad esaltare la parola, a trasformarsi con straordinaria elasticità, passando attraverso atteggiamenti vocali diversissimi, dal canto spianato al più scultoreo recitativo. Se la vita del sentimento, nel preludio del primo atto, ossia il tema dell’ «Amor che è palpito», era incapsulata in un ritmo meccanico, qui la vita del sentimento è uscita dal bozzolo che la imprigionava, e si libera con assoluta naturalezza. Attraverso il sacrificio, la sofferenza, il dolore, Violetta ha acquistato una piena libertà interiore . E’ stata ricacciata nella vita di prima, buttata nella braccia del Barone, ma in quel mondo non si è più identificata, come si capiva già dal finale del secondo atto: il suo «Alfredo, Alfredo, di questo core» era l’espressione di una tensione affettiva che la sua melodia, svolgendosi liberamente come una melodia sciolta, libera, a sviluppo continuo, rappresentava in tutta la sua sovrabbondanza, come qualche cosa che trabocchi da un vaso troppo pieno, sul ritmo rotatorio di un valzer, che non ha più nulla di meccanico, come quello che faceva ballare gli invitati nel primo atto, ma possiede un carattere incantatorio, dolcemente avvolgente, affettuosamente umano. Sulle ultime battute si leva il sipario: l'esecuzione a sipario chiuso è efficace perché accentua il senso di attesa del pubblico. Nella prima scena notare due cose: l'espressività del declamato che ritrae Violetta morente, e insieme la tranquillità del clima espressivo. Il recitativo, tra Violetta, Annina e il Dottore è estremamente spoglio, antiretorico, e riguarda gesti, azioni, discorsi della vita di tutti i giorni. Una malata si sveglia, chiede da bere, fa aprire le tende; arriva il medico, le domanda come ha passato la notte, le dice che guarirà, lei non ci crede, perché ha la netta percezione della morte imminente. Violetta, quindi, non si fa illusioni: sa benissimo che sta per morire. E’ intelligente e coraggiosa: non trema di fronte alla morte, l’accetta, anche se, come abbiamo visto, e come vedremo ancora, l’idea di morire la induce a momentanei moti di ribellione. In questo contrasto tra ribellione e accettazione sta la sua umanità di personaggio vero, non astratto o ideale. Il testo di Piave è impressionante per densità d'informazione: fissa l'ora (le sette del mattino) della scena, momenti del torpido risveglio della malata che ha passato la notte. La scena aggiunge inoltre elementi decisivi al ritratto di Violetta ed alla messa a fuoco della sua situazione attuale. Una è la componente religiosa. Lo dice lei stessa: «Soffre il mio corpo ma tranquilla ho l'alma» su di una improvvisa effusione melodica, un arioso sotto cui si accende un trillo dei violini, luminoso come un raggio di luce, espressivo come un sorriso. Tranquillità interiore data dalla fiducia in Dio che l'ha perdonata: «Mi confortò ier sera un pio ministro./ Religione è sollievo ai sofferenti». Queste frasi spiegano bene il comportamento musicale di Violetta a partire dal secondo atto: le sue frasi sono melodicamente intense , appassionate, ma volte ad esprimere un distacco dal dolore presente e una tranquillità interiore. Ricordiamo le sue esclamazioni durante la partita a carte e il canto di «Alfredo, Alfredo, di questo core»: la scelta di Verdi non è per l'accentuazione del dramma ma per una sorta di tranquilla pacatezza interiore, una specie di distacco malinconico ma interiormente saldo, dalla crudeltà della vita. Non c'è più sconvolgimento nell'animo di Violetta. C'è dolore, sì, ma affrontato in una sorta di fermezza interiore. E' lei che ha accettato il sacrificio del proprio amore: e questa imposizione volontaria a se stessa l'ha fortificata. In questo modo Violetta si pone al di sopra del destino avverso. Questa tranquillità interiore, anche nel pianto, un pianto riservato, intimo, mai gridato, iniziava , in verità, ad affermarsi nel momento dell' accettazione del sacrifico, cioè in «Dite alla giovine sì bella e pura». Sono il sacrificio, la rinuncia, che conferiscono a Violetta una tranquillità interiore in quanto vittoria su se stessa, accettazione del proprio destino per amore, altruismo assoluto, donazione di sé. In questo senso La traviata è l’opera più cristiana di Verdi e rappresenta l’amore come dedizione assoluta agli altri. Si noti un particolare genetico assai importante: Verdi , evidentemente, ha presente tutto il libretto quando intona le singole parti: l'opera è percorsa, quindi, da linee-guida, archi di collegamento tra punti remoti che ne determinano la compattezza, la logica interna, il funzionamento drammatico, la profondità espressiva. In questa coerenza che collega musica, testo, dramma, psicologia,

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sentimento, azione, riflessione attraverso ricorrenze ritmiche (il valzer), melodiche, timbriche , dinamiche, sta forse il segreto di Verdi, ossia la capacità di ottenere tanta potenza teatrale sotto l'apparenza dell' immediatezza e della semplicità. Il tema religioso, ad esempio, attraversa tutto l’itinerario spirituale di Violetta, la sua discesa agli inferi del dolore e la risalita alla luce di una dimensione umana, eroica, angelica. Già nella scena che precedeva il duetto con Germont diceva a proposito del proprio passato: «Più non esiste e Dio lo cancellò col pentimento mio». Poi riprendeva l’idea del perdono divino quando, parlando di se stessa come misera peccatrice, diceva: «Se pur benefico le indulga Iddio | l’uomo implacabile per lei sarà». Ancora l’idea di Dio come colui che consola, salva dai rimorsi, ritorna nel finale del secondo atto quando dice ad Alfredo «Dio dai rimorsi ti salvi allora | io spenta ancora pur t’amerò». Un secondo elemento con cui Piave sottolinea la condizione attuale di Violetta è la solitudine. Violetta è sola. Del medico che sta arrivando dice: «Oh il vero amico», perchè tutti gli altri, evidentemente, non lo sono; dopo averla rassicurata nel finale del secondo atto («Fra cari amici qui sei soltanto»), gli amici che si erano raccolti intorno a lei durante la festa in casa di Flora, in realtà l'hanno lasciata sola. «Non mi scordate» dirà al medico poco dopo: ha evidentemente bisogno di qualcuno che le stia vicino. A Germont, nel duetto del secondo atto, aveva detto di abbracciarla come figlia in modo che potesse essere forte. E’ l’amore che dà la forza di affrontare le prove più dure della vita. In poche battute è messo a fuoco un dramma individuale, fisico e morale: il dramma della solitudine. E questa è musica della solitudine, vorrei dire, del silenzio. C’è un senso di vuoto, di assoluta intimità, di tesissima sospensione. Sovente le frasi avvengono nel silenzio dell'orchestra, il che accentua il senso di solitudine e di abbandono: anche musicalmente Violetta è sola , l'orchestra non la accompagna più. Il silenzio regna attorno a lei. È evidente l’influsso del mélodrame, forma di spettacolo teatrale che furoreggiava a Parigi e che era costituita dall’alternanza di parlato e interventi orchestrali. Il canto di Violetta non conosce le formule consuete del recitativo: gli intervalli , impregnati di melodia, sono molto espressivi ed originali.. Eppure è tranquilla. Verdi attinge qui una purezza monteverdiana nella resa del “recitar cantando”. L’orchestra interviene quando non si canta, tranne che nel punto, già notato, in cui Violetta accenna ai conforti religiosi. Altrimenti l’orchestra lascia cadere nel recitativo alcuni frammenti tratti dal preludio, come detriti che determinano un senso di sbriciolamento. Sono tratti dall’inizio, con gli accordi spettrali dei violini con il loro colorito diafano, esangue; e dalla fine, con i disegni sospirosi con cui il preludio si avviava a dissolversi. Come la vita di Violetta che è ormai giunta all'estrema consunzione della malattia e come la candela che , dopo tutta la notte, si sta consumando in un angolo della scena anche il discorso musicale di questa scena è rotto, frantumato, ammalato. L’orchestra non ha più forze. Ha già pianto troppo nel preludio, ora i suoi lamenti sono solo momentanei sbocchi di lacrime e di singhiozzi. Ancora una volta, la vicenda drammatica trova quindi il suo corrispettivo nella vicenda formale. E' questa la legge segreta del grande teatro musicale: riprodurre il soggetto e i suoi conflitti nel gioco delle forme. Da notare che i frammenti del preludio hanno anche una precisa funzione narrativa: compaiono, infatti, in corrispondenza con certi movimenti che avvengono sulla scena: Annina che dà l’acqua a Violetta, apre le finestre e fa entrare la luce dell'alba; Violetta che fa per alzarsi sostenuta da Annina; il Dottore che arriva in tempo per sorreggerla, sono gesti che spiegano il significato dei sospiri affannosi che, con le note legate a due, chiudevano del preludio. Per tre volte compare il tema che apriva il preludio, con il sibilo dei violini nel registro acuto: l’ultima dopo che il Dottore è uscito dicendo ad Annina che Violetta è sul punto di morire. E’ dunque il tema più importante, quello che indica, senza equivoci, la consunzione della malattia. Da notare che il declamato di Violetta rende molto bene il senso di sospensione che caratterizza tutta la scena: la sofferenza non è resa come sforzo, peso, ricaduta, stanchezza, ma come stato di esangue consunzione. Violetta è pallida, magra, spettrale nella sua camicia da notte bianca che la copre fino ai piedi, facendola assomigliare un fantasma nella mezza luce della stanza da letto: quanto mutata da quella dama scintillante di gioielli e di colori con cui era comparsa nel primo atto! Immaginiamo i costumi di Violetta: ampio, lussuoso, sgargiante quello della festa, che

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potrebbe essere bianco, o rosso; più sobrio, di colore tranquillo quello del secondo atto; di nuovo sfarzoso quello della festa di Flora, ma scuro, nero, blu o marrone, per dare un senso di oppressione e di lutto interiore. Lo suggerisce Dumas : « Era vesita di nero e velata: il viso vagamente riconoscibile, tra i ricami del merletto» (p. 201). Bianca, infine, la camicia da notte dell'ultimo atto su cui scende la capigliatura, non ancora pettinata dopo la notte appena trascorsa. Ogni quadro vede dunque Violetta vestita, e soprattutto atteggiata in modo diverso: i gesti sono scritti nella musica, e non si possono cambiare. Questi gesti restano scolpiti nella nostra memoria di ascoltatori, anche se non abbiamo mai visto l'opera: Violetta folleggiante e danzante nel primo atto, appena minacciata dall'improvviso malore; disperata, concentrata nella grave decisione, appassionata nel secondo; angosciata, distrutta, umiliata, calpestata nel Finale II; esangue, senza forze, con gesti lenti, da malata che non può disperdere le ultime forze, nelle prime scene del terzo atto. E’ la storia di una decadenza fisica, di una vita schiacciata dalla sofferenza e dal sacrificio ma, parallelamente, spiritualizzata sino a divenire angelica. Violetta è un principio purificatore per tutti, a cominciare dagli invitati alla festa di Flora che, alla fine del quadro precedente, fanno coro al suo canto roteante e malinconico, che li eleva sul piano dell’amore e della comprensione, della solidarietà e del riposante abbandono. Violetta promette riposo ad un mondo che ne è l’esatta antitesi: il riposo di chi ha acquistato la tranquillità interiore. Il regista d'opera, se capisce e penetra criticamente la partitura, ha quindi un raggio d'azione molto più limitato del regista di prosa, perché la musica offre suggerimenti vincolanti per quanto riguarda la disposizione scenica, l'organizzazione dei movimenti, l’articolazione dello spazio, persino la luce e l'ora. Il tempo, qui, sembra fermarsi. Qui l’arresto del tempo è, evidentemente, perseguito per contrasto con tutto l’affanno e la corsa frenetica del quadro precedente. La morte incombe: «la tisi non le accorda che poche ore» dice il medico. «Addio, a più tardi» dice il medico ad Annina alludendo al fatto che ben presto dovrà ritornare. Ecco il termine temporale esplicitato per la prima volta. Dopo di che, Violetta consegna ad Annina dieci luigi da distribuire ai poveri, cosa che manca in Dumas: anche questo è un tocco che approfondisce la bontà di Violetta, il suo spirito cristiano di carità. Siamo in tempo di carnevale, nel libretto di Piave, mentre in Dumas siamo al primo dell'anno. Giorni di festa durante i quali, mentre alcuni godono, tanti altri soffrono nell'indigenza. Violetta fa la carità ai poveri: il suo amore si esprime qui in un'altra forma. Violetta ha tanto sofferto e condivide, quindi , la sofferenza degli altri. I dieci luigi che le rimangono saranno sufficienti per le sue necessità. Altra allusione al fatto che le resta poco da vivere. Lei è consapevole di questo, e il Dottore se ne accorge: perciò, quando Violetta obietta ai suoi auguri: «Oh la bugia pietosa ai medici è concessa», il dottore non risponde e se ne va : «Addio… a più tardi». Come «A più tardi» ? Se è appena venuto e le ha detto che «la convalescenza non è lontana». E’ perché sa che, tra poche ore, dovrà ritornare. Rimasta sola, Violetta trae dal seno una lettera che legge parlando, secondo un'usanza del melodramma italiano. Anche nel Macbeth c'è la lettura di una lettera: ma, qui, Verdi ha un colpo di genio. Fa ascoltare, sotto la voce di Violetta, la melodia «Di quell'amor ch'è palpito». Essa compare in pianissimo, suonata da sette archi: due violini primi, un secondo, due viole, due violoncelli. I due violini primi fanno il tema, tutti gli altri un tremolo di accompagnamento.

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L'effetto è straordinario: il tema d'amore appare nel suono spettrale, diafano, esangue di due soli violini primi, come ricordo lontano, idea fissa della donna innamorata che ha già letto e riletto quella lettera chissà quante volte, assaporando la notizia che Alfredo deve tornare da lei. Ma Alfredo non arriva. La musica traduce i pensieri che stanno dietro le parole, attiva i ricordi, rendendoli vivi e presenti. L’elemento psicologico che affiora qui, dando alla scena il suo spessore, è quello della memoria: la profondità dei ricordi che si agiunge al tema religioso, a quello della solitudine e a quello della carità. Tutto un mondo, una somma di esperienze è rievocata da quel tema che è già risuonato quattro volte, una nel duettino del primo atto e tre volte nell'aria del primo atto e rappresenta l'amore dichiarato da Alfredo, vagheggiato da Violetta, indi da lei respinto, poi accolto come principio salvifico, rigenerante, nobilitante, eppure sottrattole dal destino crudele. Il ricordo è ormai lontano, nell'attesa senza speranza: la lettura della lettera è, infatti, conclusa da un accordo dissonante che interrompe la melodia d'amore: «è tardi». Questa è un’ espressione fondamentale per capire la Traviata : si spiega così il senso di ansia precipitosa che caratterizza la partitura, quel bisogno di fare in fretta perché c'è la sensazione di un termine invalicabile verso cui ci si avvicina. Qui la consapevolezza della scadenza incombente viene esplicitata: questo «E' tardi!», detto con voce sepolcrale, spiega l'impostazione espressiva di quasi tutte le scene dell'opera e del senso di ansia che le percorre, nelle danze, nei recitativi precipitosi, nel martellamento degli ostinati, eccetera. Ma, ora, Violetta ha perduto le speranze che qualcosa possa ancora succedere, prima della sua morte. Non ha più fretta: il suo «E' tardi» viene pronunciato con un senso di assoluta immobilità, data dall'effetto di depressione dell'accordo dissonante (settima diminuita di mi minore) che sostituisce, come un pugno nello stomaco, la risoluzione sulla tonica di sol bemolle e sulla quale la voce sembra incagliarsi con un brivido di paura: morirà sola con i suoi ricordi e sarà gettata in una fossa comune senza nome, senza croce e senza fiori, come dirà nell'aria seguente. L'improvviso ritorno alla dura realtà del presente dopo l'evocazione amorosa della lettera è ribadita dall'atto di guardarsi allo specchio: «Oh, come son mutata!». Gesto che rimanda all'altro, del primo atto, quando si era specchiata durante la festa, constatando il proprio pallore. Qui, il gesto è sorretto da una strisciata cromatica ascendente dei bassi: figura del presagio, molto sinistra. Violetta si scopre fisicamente irriconoscibile: la sua bellezza è sfiorita, ma più consuma il proprio sacrificio più diventa bella interiormente, come mostra il pezzo che segue.

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Andante mosso: «Addio del passato» 6/8 , la minore. Preceduta da una frase molto malinconica ed errabonda dell'oboe, «dolente e pianissimo», Violetta attacca il celeberrimo «Addio del passato», aria in due strofe di senari doppi , ripetute testualmente. Il contenuto del testo, assente nella commedia di Dumas, detta la forma di «Addio del Passato» che è, in pratica articolato in tre parti : 1) «Addio del passato» e senso della desolazione presente 2) evocazione dell'«Amore di Alfredo», e 3) «Ah della Traviata»: invocazione a Dio, con ripiegamento finale. Anche questo costituisce un altro intervento di Piave in funzione dell'approfondimento della protagonista. E anche qui la densità di informazione è massima. Ecco che cosa passa per la testa di Violetta: il ricordo dei bei sogni ridenti, la constatazione della bellezza sfiorita, la nostalgia per l’amore di Alfredo, la stanchezza dell’anima, la preghiera affinché la morte sia serena nell’abbraccio del Signore, l’idea della morte come riposo dalle gioie e dai dolori della vita, il senso della finitudine dell’esistenza umana, l’immagine di una tomba illacrimata, abbandonata da tutti, senza croce e senza fiori. Il tutto in pochi versi. Anche qui, la forma è imprevedibile. I sei senari doppi sono intonati in modo libero. Dopo le prime tre frasi, la lyric form (con i motivi a-a'-b-c) si rompe. Verdi ripete b, inserisce una codetta C dopo b', indi conclude ancora con tre frasi diverse, d e f: a «Addio del passato…» La minore a' «Le rose del volto…» b «L'amore d'Alfredo…» Do maggiore b' «Conforto , sostegno… » c coda con le parole ripetute «conforto...sostegno...» La minore d «Ah della Traviata…» La maggiore e «A lei deh perdona…» f coda «Ah! tutto tutto finì …» La minore Come si vede, ognuna delle tre sezioni è articolata diversamente. La seconda e la terza posseggono una codetta in cui vengono ripetute alcune parole: «conforto...sostegno» e «Ah tutto, tutto finì, or tutto, tutto finì», parole isolate che rompono la regolarità del metro e del ritmo. La seconda strofa «Le gioie , i dolori tra poco avran fine» ripete testualmente la musica della prima. La melodia è talmente bella che riascoltarla due volte, se l'esecuzione è buona, può dilatare ulteriormente l'effetto di sospensione che caratterizza questa parte del terzo atto, tutto incentrato sulla meditazione solitaria di Violetta, anche se il tempo, andante mosso, non deve essere lentissimo. Notare, quindi, come la melodia cambi, ogni due versi, passando da uno stato d'animo all'altro: tristezza estrema nel dare addio al proprio passato; evocazione dolcissima dell'amore di Alfredo; fervore della preghiera con ripiegamento finale. Dapprima la melodia è caratterizzata dal ripercuotersi di una quartina di semicrome che fa perno sulla nota di partenza ed è continuamente ripetuta, per tutta l'aria, come il suo motivo dominante: allude al rovello del ricordo, al passato da cui la mente non può staccarsi, e a cui continua a pensare, al pensiero fisso che non si può scacciare in questo momento di estrema fragilità psicologica.

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Nel ritmo del canto c'è, implicito, un ritmo di valzer che l'orchestra, però , non raccoglie: anzi l'accompagnamento si impunta e, ad ogni battuta, si arena in due pause di ottavi. Il valzer, in orchestra, è come dolorosamente inceppato, non riesce a decollare. L' immagine dell'aspetto fisico di Violetta, del suo fascino incantatore, qui, è appannata. Violetta è «mutata» fisicamente: il valzer, che era il suo ritratto, l'espressione della sua bellezza, appare solo più in filigrana, anch'essa come lontano ricordo del passato cui Violetta sta dando addio. Il suo dolore è contenuto, ma ben visibile. Notare, nel canto, le sincopi accentuate sul tempo debole: «addi-òoo» «passatòoo» «sognìii». Sono singhiozzi contenuti: non devono essere accentuati nell'esecuzione «dolente e pianissimo», con le note «legate e dolci», ma contribuiscono a dare un senso di palpitazione interiore, piccole scosse dell'anima che accompagnano il dolore del ricordo. L’ccento delle parole è spostato per mettere in evidenza non tanto il loro contenuto semantico quanto il sentimento di chi le pronuncia, e il suo stato fisico: prostrazione, lieve affanno. Il valzer viene invece allo scoperto, per un momento, nella frase seguente che ricorda l' «amore di Alfredo», «conforto e sostegno dell'anima stanca», frase straordinariamente bella e avvolgente, che introduce un raggio di luce attraverso la modulazione in Do maggiore, evita le sincopi, acquista per un momento la fluidità dei canti di Violetta che abbiamo ascoltato negli atti precedenti , ma si infrange sulla sincope di «stanca». Il valzer è movimento, è vita: qui riaffiora nel ricordo dell'amore; il presente è staticità, presagio di morte. Infatti , in «Addio del passato», il valzer si inceppava. Qui, inoltre, la quartina e le sincopi scompaiono: tutto scorre liscio e piano nella dolcissima legatura della melodia. Solo sulle ultime parole, «anima stanca», due accenti, entrambi su tempo debole, incrinano la levigatezza del profili canoro e rendono l' immagine di una felicità illusoria. Le semicrome, infatti, riprendono subito dopo, a mulinare nella codetta «conforto...sostegno...», in un gioco di echi tra canto e oboe straordinariamente malinconico e suggestivo. E' stanca Violetta: stanca di vivere e di soffrire. Il suo canto finisce su «tutto finì» «con un filo di voce», «allargando e morendo», in un seguito di echi tra la voce e l'oboe che ne raccoglie il lamento: unico personaggio, ormai, l'oboe, a esserle vicino in questa ora di solitudine,

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come il clarinetto piangeva con lei durante la scrittura della lettera. «Quando non si può più servire alla vanità o al piacere dei nostri amanti, eccoci nell'abbandono, e le eterne sere succedono alle lunghe giornate. Lo so per prova, credete; due mesi che io restai a letto e, alla fine della terza settimana, nessuno veniva più a trovarmi» (Dumas, p. 84) L'orchestra della Traviata ha, per lo più, una funzione di sostegno della voce, ma , ogni tanto, afferma alcune presenze strumentali molto significative: frasi che si staccano dal tutti, oppure colori studiati ad hoc: si pensi ai timbri terrei della partita a carte o a quelli sfacciati e squillanti delle danze nel primo e terzo quadro. Il timbro è importantissimo per dare all'opera il suo colorito.

Tutta questa musica della Scena che apre il terzo atto è musica di stanchezza e di dolore, di attesa e di abbandono: le forze non ci sono più, c'è solo il ricordo lontano del tempo felice, dell'amore perduto che fluttua nell'immaginazione sul ritmo ternario del valzer e acquista il tono consolatorio della tonalità di Do maggiore. Ma il La minore ritorna subito e così la quartina di semicrome che continua a ripercuotersi nella invocazione finale «Ah della Traviata sorridi al

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desio», molto ansiosa e tesa, in crescendo sino a «desio» in varie trascolorazioni armoniche; finché questo fervore della invocazione si spegne nella frase dell'oboe che, come una carezza, discende verso il basso.

Alla fine, spossata, Violetta ripete: «Ah tutto finì!», e la quartina risuona ancora, nella sua ipnotica circolarità, per cinque volte. L'invocazione a Dio perchè accolga nelle sue braccia la donna perduta è di eccezionale potenza emotiva: in un crescendo «con forza», quasi smanioso, Violetta insiste nella sua richiesta di perdono, spingendosi sino al Fa diesis4 («accoglila») e al La4 («Dio»): momento di energia quasi disperato, prima del ripiegamento finale che avviene nella coda, con le cinque ripercussioni della quartina del ricordo, «allargando e morendo con un filo di voce», come se lo sguardo interiore di Violetta si perdesse, desolatamente, nel vuoto: e l’oboe, che riprende il La, è come il prolungamento di uno sguardo che si perde fisso, negli abissi del proprio dolore, nel

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vagheggiamento di un infinito misterioso e ignoto, cui Violetta si sente ormai vicina. Lei ha la piena consapevolezza di stare per morire. Eppure non è né disperata, né funebre nel suo canto: è malinconica, nostalgica, fervida nella preghiera, ma sostanzialmente calma, ormai distaccata dal mondo e dalle passioni umane. Il sacrificio fatto per amore, il conforto della religione le hanno dato una tranquillità interiore che «Addio del passato» rivela in tutta la sua intensità. E in questo distacco sta la potenza espressiva di questa straordinaria melodia. Verdi ha centrato con estrema precisione uno stato d’animo specifico del personaggio in questo momento della sua storia, schivando il rischio di cadere nel generico. Anche la melodia di «Dite alla giovane» e quella di «Alfredo, Alfredo di questo core» possedevano un carattere simile, ossia un senso di pacatezza interiore, di tranquillità, di calma quasi trasfigurata, pur nell’espressione di un estremo dolore. Eppure non c’erano in lei disperazione, rabbia, pianto, aggressività, risentimento, ma calma, dominio di sé, segni di straordinaria fortezza. Violetta, però, non è sempre così, perché altrimenti perderebbe la sua umanità, diventerebbe un personaggio astratto , programmato per rappresentare un’idea esemplare. Invece Violetta non è l’incarnazione di un’idea come, poniamo l’Alceste di Gluck, simbolo dell’amor coniugale, ma una donna in carne e ossa che prova sentimenti diversi: sgomento quando per due volte, nel primo e nell’ultimo atto, contempla allo specchio il proprio volto di malata; titubanza quando, nell’aria finale del primo atto, tentenna stupita se accettare o no l’amore di questo Alfredo che sembra incarnare il sogno impossibile di un amore vero; ribellione all’idea della morte prossima quando ne parla per due volte a Germont e, prima di morire, si abbandona a considerare la crudeltà del destino che l’ha colpita. L’ultima sezione di «Addio del passato» è importantissima: contiene, infatti, il titolo dell'opera e mostra la «traviata» al cospetto di Dio, da cui invoca il perdono. Quel perdono che lei ha concesso ad Alfredo, alla fine del secondo atto, e che gli uomini non hanno concesso a lei. Dopo la seconda strofa , identica, Violetta deve terminare l'aria «con un filo di voce», ricadendo a sedere sulla poltrona. La fissità è dunque il carattere principale della prima sezione del terzo atto che, con un magistrale effetto drammatico, interrompe il senso di ansia e di fretta che caratterizza tutta l'opera, per riprendere subito dopo. Questo preparare la catastrofe con una scena sospesa è comune anche a Rigoletto (scena della tempesta) e Trovatore (scena del carcere). N.9 Baccanale, Allegro vivacissimo , 2/4, re maggiore. Oltre la finestra chiusa, si sentono le voci di un coro che festeggia il carnevale, accompagnato da fiati, nacchere e tamburelli. In Dumas siamo nel primo giorno dell'anno. Piave e Verdi trasportano l'azione nel periodo di carnevale, e possono così stabilire un contrasto tra l'interno della camera di Violetta e la festa chiassosa che si svolge nelle strade. Ecco un altro caso di sfondamento spaziale e temporale della scena: improvvisamente, si apre la dimensione del fuori scena, come se vedessimo la strada in cui passa il corteo del carnevale. La musica è saltellante, sfacciatamente allegra. E' un ricordo del mondo stordito da una febbricitante allegria cui apparteneva Violetta. Il chiasso, in strada, avviene alle sette del mattino: la gente che canta e suona, evidentemente, ha passato la notte in quei festini che costituivano una parte importante nell’ antica esistenza di Violetta. Il resto era sesso senza amore e senso atroce di solitudine, provato dall’«anima solinga nei tumulti». Questo Baccanale è, dunque, un frammento del passato, che Violetta aveva vissuto. Il passo è caratterizzato nuovamente da ritmi e andamenti rigidi e meccanici, come quelli delle Zingarelle e dei Toreri, qui nettamente contrapposti all'organicità, meravigliosamente naturale, con cui si sviluppa la melodia di «Addio del passato». Il breve baccanale passa da 2/4 a 6/8 in «Parigini date il passo», con un chiaro effetto di accelerazione. I due stati dell'esistenza di Violetta, quello interiore e quello esteriore, ormai sorpassato, ridotto a frammento, vengono dunque qui drasticamente contrapposti, rendendo icastica, davanti ai nostri occhi, la sua vicenda di trasformazione che subirà un' ulteriore impennata, con passaggi imprevedibili, nelle prossime scene del terzo atto. Inoltre , la strada da cui proviene il coro carnevalesco è la stessa da cui proveniva

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sotto il balcone il canto di Alfredo durante «Sempre libera». Nella casa di Violetta giunge quindi dall’esterno una musica antitetica al tema d’amore che l’aveva colpita, trasformandone l’esistenza. Anche questa coincidenza sottolinea la tragicità della situazione di Violetta: da quella strada proveniva un giorno un canto d’amore, ora proviene il chiasso del mondo in cui Violetta è stata ricacciata. N.10 Duetto. Violetta e Alfredo. 1)Allegro assai vivo, «Signora...», 4/4, sol maggiore. Questo duetto comprende le scene V, VI, VII e i quattro movimenti della solita forma: tempo di attacco, cantabile, tempo di mezzo e cabaletta. La scena che , di solito, precede il duetto è quella lunghissima che apre l’atto e che comprende anche «Addio del passato». Come si vede, Verdi tratta le forme con molta elasticità. Eccone un nuovo esempio. La scena V, con il dialogo tra Violetta e Annina, è in versi sciolti. Il librettista l’ha dunque pensata come scena introduttiva al duetto, da intonarsi in recitativo. Verdi, invece, la assimila al tempo di attacco del duetto e la risucchia in un Allegro assai vivo che prosegue nella scena seguente in quinari doppi, con modulazione da Sol maggiore a Mi minore. C'è quindi la volontà di proseguire la spinta dinamica iniziata con il baccanale, e volta a definire un crescendo di energia che investe il vero e proprio tempo di attacco «Colpevol sono!...so tutto, o cara». La prima parte del terzo atto è all'insegna della staticità. L'effetto, calcolatissimo, mira a rendere più forte l'esplosione di energia e di movimento che si verifica con l'arrivo di Alfredo, e che viene preparata dal Baccanale: è come un improvviso risveglio in un empito di gioia, dopo il momento della sofferenza, della meditazione, del rimpianto, della preghiera, della solitudine. La molla, caricatasi durante il baccanale, scatta qui con un disegno di giambi ripetuti e sempre più accelerati. In una vera e propria frenesia ritmica, Annina annuncia l'arrivo di Alfredo che entra e si getta nelle braccia di Violetta in un crescendo di sonorità. Il tempo ricomincia a scorrere con ansia e palpitazioni. Questo rappresenta l'eccitazione, più che la gioia, del ritrovarsi, con frasi ansiose, rapide, in cui i due personaggi quasi si tolgono la parola di bocca. Verdi non li caratterizza individualmente: sceglie una caratterizzazione comune che inquadra la scena di lontano, mettendo a fuoco il sentimento generale della situazione. Sono due persone che non si vedono da tanto tempo, e finalmente possono lanciarsi l'uno nelle braccia dell'altra e le parole, le frasi si susseguono in una sorta di frenesia affannosa, di ansia di dire tutto, nel più breve tempo possibile. E, come sempre, il testo è pregnante. Violetta ha certo la frase più intensa: «Ah, s'anco in vita m'hai ritrovata/ credi che uccidere non può il dolor». Il tempo precipitoso della Traviata ha, in questo inizio del duetto, preceduto dal baccanale, una delle espressioni più inequivocabili. E' evidentissimo il senso di corsa verso una meta che sembra inafferrabile e lontana: quella della comune felicità. 2) Andante mosso «Parigi, o cara», 3/8 la bemolle maggiore. Ed ecco l'immagine della felicità prospettarsi, infatti, non ora, ma in un futuro non meglio precisato, in cui si cullano le illusioni della coppia riunita. Dolcissimo a mezza voce, Alfredo attacca il suo canto: «Parigi , o cara, noi lasceremo/ la vita uniti trascorreremo». C'è in questa melodia, che costituisce l'Andantino, cioè il momento statico, della solita forma, lo stesso carattere palpitante, fresco, aggraziato, del duetto del primo atto. E' una tipica situazione verdiana: immaginare, sull'orlo della catastrofe, uno stato di felicità futura sulla terra (Il trovatore, La traviata) o in cielo (Don Carlo, Aida), in ogni caso in un luogo diverso e lontano da quello presente. Lasciare Parigi vuol dire tagliare definitivamente i legami con la vita dissoluta di prima, con la malattia, con le convenienze sociali che hanno sinora soffocato l'amore. E' un'aspirazione ad un altro stato dell'esistenza in un ambiente lontano, dove trascorrere la vita insieme, dove la salute di Violetta rifiorirà e i due innamorati saranno reciprocamente «sospiro e luce» , ossia affetto e

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sostegno l’uno per l’altra. La musica esprime meravigliosamente, ma anche nostalgicamente, questo stato d’animo, con un senso di abbandono lirico, non disgiunto da una sfumatura di malinconica nostalgia dato da un rintocco, come di campana, un ritmo puntato intimamente singhiozzante, che compare subito e innerva, ritmicamente, tutta la melodia, perché si ripete quasi ad ogni battuta nella parte di lui e nella ripresa testuale di lei. Il rintocco conferisce al canto un carattere lievemente ipnotico, incantatorio ma anche nostalgico: il suono della campana arriva-di-lontano nel nostro immaginario, è qualche cosa di remoto che ci dà l'idea di spazi vasti e non visibili. Da notare che questo rintocco interno alla melodia, che esprime palpitazione e affetto, era già presente in «Di quell’amor ch’è palpito». E’ dunque il tratto seducente e affettuoso che caratterizza le melodie di Alfredo; è la presenza ricorrente di un tipo ritmico che congiunge due punti diversi dell’opera, all’inizio e alla fine, e incornicia il dramma di Violetta con l’espressione di questa irresistibile tenerezza amorosa, che da Alfredo s’ irradia come una emanazione naturale, e investe lei che, per la seconda volta, ne è così attratta, da ripetere immediatamente la melodia, cosa in Verdi assai rara . Questa impuntatura forma un piccolo ma non insignificante contrasto con l'andamento estremamente liscio, cullante, morbido dell'orchestra, che scandisce i sei ottavi, attraverso gli archi pizzicati, con un andamento di valzer lento, un accento forte e due deboli. Il valzer, luogo di felicità o di riconciliazione qui ritorna in primo piano. Dal punto di vista dinamico il brano è tutto un susseguirsi di piccoli crescendo-decrescendo che impongono al cantante una raffinata varietà di sfumature, e conferiscono al canto una palpitante mobilità:

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L'impiego di questi ritmi non è nuovo nella Traviata. Ricordo che lo abbiamo incontrato varie volte. Anche se il valzer non compare mai nella sua forma canonica di 3/4, sovente i 3/8 e talvolta anche i 6/8 suggeriscono questo andamento che costella varie pagine dell'opera. Collegandole in una visione d'assieme, ne scopriamo la coerenza: Verdi ha usato questo ritmo in un modo che non può essere casuale. Lo troviamo per la prima volta nel brindisi del primo atto: un 3/8 roteante, in cui, per la prima volta, Alfredo compare in primo piano dinanzi agli occhi di Violetta che ne rimane colpita. Già s'è detto che cosa significava il valzer per la sensibilità espressiva dell'Ottocento: ebbrezza, oblio, aspirazione all'infinito.. Ma questa ebbrezza può avere diverse intonazioni espressive: può essere sfrenata, sfacciata, volgare, oppure presentarsi come un dolce oblio, seducente abbandono lirico, raffinato incanto. Nella Traviata ci sono entrambi gli aspetti. Subito dopo il brindisi, il valzer, suonato fuori scena dalla banda, ha un andamento meccanico e sfacciatamente esteriore. Ma un'idea di valzer ritorna nell'Andantino «Un dì, felice, eterea»: Alfredo seduce Violetta, dichiarandole il suo amore sulla circolarità incantatoria di un valzer lento che caratterizza anche «Di quell'amor ch'è palpito», ossia l'idea melodica centrale di tutta l'opera, quella che esprime l'amore come principio universale che agisce nella vita degli

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uomini come gioia e sofferenza insieme. E qui il valzer significa abbandono alla tenerezza del sentimento amoroso, calma rotazione di uno stato di armonia e di pacatezza interiore. Dunque il ritmo di lunga-breve-breve assume un'importanza capitale. Esso ritorna, infatti, in altri momenti significativi. Eccolo annidato, come nascosto, nella melodia di Violetta che esprime l'accettazione del sacrificio: «Dite alla giovine»: se si prova a suonarla un po' più veloce con il suo accompagnamento, salta fuori un valzer. Il collegamento è significativo: il ritmo circolare indica l'amore che anima l'universo e dà a Violetta la forza per accettare il sacrificio con calma, commozione e fermezza. Di nuovo il ritmo di Valzer ritorna nell'altro momento di suprema espressione amorosa: i 12/8 di «Alfredo, Alfredo di questo core» che conclude il secondo atto, suggeriscono una rotazione che trascina tutti i presenti nelle spirali progressive del suo sviluppo melodico. Espressione d'amore come fatto incantatorio: questo il taglio espressivo che Verdi ha voluto conferire alla Traviata e che viene confermato nell'atto III. I 6/8 di «Addio del passato» nel passo «l'amore di Alfredo pur esso mi manca» suggeriscono infatti, chiaramente, l'andamento di un valzer che dà all'aria uno slancio rotatorio, estraneo alle impuntature ritmiche della prima parte. E di nuovo un valzer lento è , come si è detto, «Parigi o cara». Questo ritorno periodico del movimento in tre tempi, breve-lunga-breve, agisce inconsciamente nella nostra memoria di ascoltatori, e contribuisce a fondare anche il fascino del personaggio di Violetta che, trasformandosi, non perde la sua eleganza, la sua grazia, la sua bellezza, bensì la interiorizza, trasformandola da sfacciata apparenza in un fatto intimo. Il ritmo di danza in tre tempi, che affiora in momenti cruciali, serve dunque a collegare varie zone dell'opera, a dare unità al personaggio ed alla sua vicenda di trasformazione interiore dovuta alla potenza rigeneratrice dell'amore. E l'immagine dell'amore che non perde il suo incanto sensuale, neppure nei momenti di massima spiritualizzazione: di qui deriva il fascino del personaggio di Violetta che sublima, nella sofferenza, il suo trasporto sensuale, abbandonandosi anche nei momenti più inaspettati, alla dolce rotazione del valzer. Non dobbiamo pensare l'eros come qualcosa di antitetico alla spiritualità: una forte componente erotica può accompagnarsi all'esperienza mistica, come dimostrano alcune parti della Sacra Scrittura (ad esempio il Cantico dei Cantici) e le vite di alcuni santi (ad esempio Santa Teresa la cui estasi è stata interpretata, come sappiamo, dal Bernini in chiave esplicitamente erotica.). In Violetta avviene la saldatura dell'amore come passione e dell'amore come charitas, dell'amore sensuale e di quello immateriale, dell'amor profano e dell'amor sacro: il che determina l’ unità, l' individualità specifica del suo carattere e la valenza universale della sua vicenda. E' superfluo osservare che questa coerenza e profondità di elementi nasce dalla musica e non dal testo: così la musica può, percorrendo il testo, dare spessore e significato al contenuto drammatico e psicologico della vicenda.

Riprendiamo la lettura del duetto. Il testo viene ripetuto da capo, con importanti variazioni che determinano un senso di accelerazione. Nella seconda parte, infatti, l'unità ritmica non è più la croma, ma diventa la semicroma. Alfredo canta di nuovo «Parigi o cara noi lasceremo», con una frase discendente molto appassionata («con anima» scrive Verdi) cui Violetta risponde, ripetendo «De' corsi affanni», e qui l'espressione si divarica: tanto lui è vitale e appassionato, perché pieno di speranza, tanto lei è incerta nella sua melodia cromatica, che si muove strisciando per semitoni, considera gli affanni passati, cantando le note «leggero e stentate» oppure «dolcissimo e stentate», come prescrive la didascalia: il che significa articolare bene le sillabe, quasi con un senso di titubanza e di instabilità che prelude al collasso immediatamente seguente. La musica , quindi, dà senso diverso alle parole: se nella prima parte di «Parigi o cara» domina il concetto di «compenso» ai dolori passati, nella seconda parte viene in primo piano l'idea degli «affanni» che si sono vissuti. Anche in questo passo, come nel duetto del primo atto, Verdi caratterizza diversamente i due personaggi che, alla fine, assumono entrambi il tema degli «affanni», concludendo il pezzo in un clima di titubanza ansiosa. Non c'è tranquillità, dunque, in questo duetto che non è un duetto d'amore ma esprime la tensione verso un altrove, una speranza di fuga dalle strettoie della situazione presente: speranza che parte con fiduciosa dolcezza, prosegue con slancio ma finisce

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nell'incertezza. Come sempre Verdi drammatizza, crea contrasti, divarica, determinando frizioni dialettiche che creano energia drammatica e profonda tensione teatrale. 3) Allegro «Ah non più al tempio», 4/4, la bemolle maggiore. Infatti, subito dopo, Violetta ha il primo crollo di una serie cui assisteremo nei passi successivi. Questo è il tempo di mezzo della solita forma, un passo di raccordo, fondato sul declamato. Dopo il momento di vitalità vissuto con il ritorno di Alfredo, Violetta tenta di alzarsi perché vuole andare in chiesa a rendere grazie per il suo ritorno, ma non ce la fa, «si abbandona come sfinita sopra una sedia, col capo cadente all'indietro». Da notare, ancora una volta, la minuzia e il realismo delle didascalie. Verdi e Piave intendono qui riprodurre sul teatro d’opera la recitazione realistica che si era affermata nel teatro di prosa francese. Ritorna qui il tema religioso della conversione di Violetta, conseguente al suo sacrificio: conversione che per lei significa ottenere un perdono che gli uomini non le hanno accordato. Dietro la prostituta c'è la persona , con la sua dignità di creatura umana che Dio ama e perdona, e che gli uomini continuano a disprezzare per cecità, incomprensione, ossequio alle convenzioni sociali. Da notare: i disegni forte dell'orchestra che , con una duplice scivolata nei bassi, descrivono il gesto del vacillare; i trilli in Sol bemolle maggiore su «Ora son forte, vedi? sorrido», che ricordano quelli del finto sorriso prima di «Amami Alfredo» e hanno qui qualcosa di allucinato nella loro fissità. L'ansia ribolle di nuovo: tutto è spinto in avanti da un ritmo affannoso di tremoli, note ribattute che accelerano nel «più mosso» di «Fu nulla!...Annina, dammi a vestire», con modulazione in Fa diesis minore. Da notare la potenza della scala cromatica prima di «Gran Dio non posso!», espressione di estremo sforzo che accompagna la decisione di Violetta di uscire di casa, indi il suo ricadere sulla sedia descritto da disegni in tremolo. A questo segue la frase appassionata e affannata in Si minore con cui Violetta manda a dire al dottore «che Alfredo è ritornato all'amor mio»: declamato melodico di impressionante potenza, seguita dall'altra frase, ancora più forte, «digli che vivere ancor , che vivere ancor vogl'io» sulla settima di dominante di Si, che si arena in un Sol all'unisono di tutta l'orchestra, vero urto tragico seguito dall'ultima frase, tremendamente solenne e quasi oracolare: «Ma se tornando , non m'hai salvato,/ a niuno in terra salvarmi è dato». Scolpite con estremo vigore le parole di Violetta assumono un tono di fatalità ineluttabile: notare il salto discendente di ottava su «terra», e la conclusione nel registro basso, mentre dall'orchestra sale una fiammata che porta al grido «Ah!», su di un sol acuto e prolungato dalla corona che Violetta canta «sorgendo impetuosa». Questo gesto musicale, con la frase oracolare e il pezzo seguente, aggiungono un tocco nuovo, o meglio, ricordano la natura del carattere di Violetta che si conferma chiaramente nel pezzo seguente. 4)Allegro «Gran Dio! morir sì giovine», 4/4, do maggiore. La cabaletta rovescia completamente l’atteggiamento sinora tenuto da Violetta. Prima era in preda ad abbandono, malinconia, rinuncia: un lasciarsi morire con desolata stanchezza. Ora, il ritorno di Alfredo e la consapevolezza di non essere più sola le ha dato per un momento l’illusione della felicità: ma la consapevolezza che la vita in comune non si realizzerà le strappa accenti di umanissima ribellione. Il senso del pezzo è il crollo di ogni speranza: morire proprio adesso in piena gioventù, quando la vita promette di asciugare le lacrime a chi ha penato tanto! Il destino è crudele, dice Violetta ad Alfredo. E sorge impetuosa dalla sedia su cui era crollata prima con disperazione esclamando «Gran Dio, morir sì giovane». Il carattere eroico di questo pezzo mi sembra indubbio. Violetta non aveva più assunto espressioni così energiche dopo il duetto con Germont. La presente cabaletta si riallaccia al «Morrò, la mia memoria non fia ch'ei maledica» che

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costituiva la cabaletta del duetto con Germont: analogo il tema della morte e l'accompagnamento con gli accordi degli archi pizzicati dotati di un effetto asciutto, ritmicamente implacabile, di gigantesca chitarra. Il «Morrò, la mia memoria» del duetto era attaccato in pianissimo e aveva una declamazione cesellata, con valori ritmici variati, che indicava un sentimento palpitante, fatto di dolore e accasciamento; questo «Gran Dio morir sì giovine» , invece, è attaccato forte, scolpito in valori ritmici tutti uguali, con una declamazione martellata, dal carattere del tutto diverso, di una semplicità epica. Siamo nella sfera dell'alta tragedia. Violetta pallida, consunta, bianca come un fantasma nella sua camicia da notte, si erge in un ultimo sussulto di energia, e la sua figura giganteggia sulla scena, come quella di una Medea o di un' Alceste (se la cantante, naturalmente, intende tutto questo): il sacrificio le ha dato la forza di accettare la morte con fermezza ma questo gesto di ribellione nei confronti del proprio destino è profondamente umano. Gran Dio, perché? – domanda Violetta che non è l’incarnazione di un’idea ma una donna vera con i suoi dubbi, le sue incertezze,gli interrogativi senza risposta, i rimpianti, le speranze, le delusioni, gli entusiasmi, i crolli di una persona che ci è vicina nella sua umanissima verità. . C'è qualcosa di fatalistico, in questo canto, spinto avanti da una forza martellante di valori ritmici tutti uguali: Violetta prende atto della fatalità che la colpisce, della ineluttabilità del destino che la attende, della vanità della speranza e della costanza con cui ha creduto di potercela fare. E' musica fatalistica che dice: l'ora è suonata, per tutti e due. Anche Alfredo, infatti, riprende la stessa musica di Violetta, perchè il destino colpisce anche lui, che esorta Violetta a perseverare nella speranza: in realtà , la musica ci dice che Alfredo non crede a quello che dice, ed è consapevole che, ormai, non c'è più nulla da fare. Entrambi cantano la stessa musica, cosa rarissima in Verdi, perché entrambi sono travolti dallo stesso destino: e questa è la musica dell'implacabilità del destino ed esprime una forza superiore che domina entrambi. Oltre il dramma dei personaggi, Verdi li guarda da un'angolatura universale. Violetta ne è perfettamente consapevole perchè, in conclusione della cabaletta, canta: «Oh! Alfredo, il crudo termine serbato al nostro amor», e Alfredo risponde: «Violetta mia, deh calmati, m'uccide il tuo dolor». Il verso di Violetta spiega il carattere espressivo della cabaletta: consapevolezza di essere giunti al termine, allo sbarramento che il destino ha posto alla felicità, proprio nel momento in cui essa pareva realizzabile. Il tempo , protagonista occulto della Traviata, ha portato gli eventi alla loro scadenza fatale, dopo la corsa che ha attraversato tutti gli atti precedenti. Il destino come tempo che scorre ineluttabile è il soggetto vero della cabaletta: la sua isocronia sembra alludere a quella di un immenso orologio. La musica, nella parte conclusiva della cabaletta, è piuttosto convenzionale: Verdi ha già detto tutto nelle meravigliose pagine precedenti, e qui conclude in fretta, ripetendo un' altra volta il «Gran Dio!». Nelle esecuzioni correnti, sovente questo passo viene tagliato. Ma anche questo momento, un po' stereotipo, è utile, perché mostra quanto siano originali le altre pagine. Dopo questa impennata eroica, Violetta si abbandona sfinita sul divano, mentre l'orchestra riprende una corsa leggera, tipica dei passi di raccordo, stavolta avvitandosi in un saliscendi cromatico. N.11 Finale Ultimo. Comprende la scena ultima e tre pezzi. 1) Allegro assai vivo «Ah Violetta!», 4/4, la maggiore. «Attacca subito il Finale», c'è scritto in partitura alla fine del duetto precedente. Entrano Annina, Germont e il dottore, mentre l'orchestra si fa sempre più affannosa in un Allegro vivo percorso da un saliscendi di scale. Ormai gli eventi stanno precipitando. Germont canta qui con più partecipazione di quanto non facesse nel duetto del secondo atto. Viene ad abbracciare Violetta come una figlia: la richiesta di Violetta , fatta nel duetto del secondo atto, viene dunque soddisfatta da parte del vecchio Germont che si pente di quello che ha fatto ed esprime il suo rimorso. «Non mi scordaste?», gli domanda lei, lasciando sorgere dall’inconscio quel desiderio di amore, di

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attaccamento, di memoria nei suoi confronti che la rende forte e la cui assenza la sprofonda nel baratro della più desolata solitudine (Non croce, non fiori , non lacrime avrà la mia tomba – aveva detto in «Addio del passato») Ma è tardi. «Ohimè, tardi giungeste» gli dice Violetta, mentre l'orchestra si riduce ad una pulsazione leggera, di puro effetto cinetico: è sempre tardi nella Traviata. Poi lo abbraccia e si rivolge al medico: «Grenvil, vedete?/ Tra le braccia spiro di quanti cari ho al mondo»: non ha dunque rancore per Germont, lo considera un padre, e non è più sola. «Che mai dite?» risponde Germont, e poi tra sé «(Oh cielo!...è ver!»): di nuovo Germont mostra di essere tardo nell’accorgersi di ciò che ha davanti. L'amore ha riscattato Violetta dalla degradazione e dalla solitudine: col sacrificio ha conquistato le persone che la amano. Germont è lacerato dai rimorsi, come mostra la stupenda frase finale del pezzo: «Oh malcauto vegliardo», con la strisciata cromatica di viole, violoncelli e contrabbassi, come un serpente che svolga le sue spire nelle profondità buie della coscienza: tratto stilisticamente anticipatore (simili interventi orchestrali ritroveremo in Don Carlo e Aida). E' uno dei rari momenti nella Traviata in cui l'orchestra esprime più del canto, nella fattispecie un senso di cupa oppressione. Questa frase spiega tutto il comportamento, anche musicale, di Germont: malcauto vegliardo, cioè un vecchio che non ha capito la situazione, è stato cieco davanti al dramma di Violetta, come ben hanno mostrato le sue melodie nel secondo atto. La grandezza della trilogia popolare sta in questa coerenza di rimandi interni: tutto trova la sua spiegazione logica dall’interno perché tutto si lega in un sistema di segni perfettamente organico. 2)Andante sostenuto «Prendi... quest'è l'immagine», 3/4, re bemolle minore. Verdi non finisce di riservarci delle sorprese. Ora Violetta consegna ad Alfredo il proprio ritratto, testimone della sua passata bellezza. Vuole che sempre Alfredo possa ricordare il suo infinito amore. Un declamato «cupo», come esplicitamente descritto, con un La bemolle ribattuto e un salto di quarta ascendente su «giorni», è l'immagine del volto terreo, del pallore mortuario che caratterizza la donna morente. Le pause dividono parole e anche sillabe, nella rappresentazione musicale di chi parla senza più forza, con la voce rotta dall'agonia: il salto ascendente di quarta su «giorni» basta a conferire a questa frase, di per sé inesistente , perché tutta fondata su di una nota ribattuta, una straordinaria forza impressiva: nessuno più se la dimentica. La melodia verdiana, anche ridotta a note ribattute, è straordinariamente impressiva. Ugualmente impressionante è l'orchestra. Tutti gli strumenti , vale a dire due flauti, oboe, clarinetto, fagotto, due corni, trombe, tromboni, timpani, gran cassa e archi suonano un rintocco in pianissimo ( Verdi segna ppppp): il colorito di questa massa sonora che sussulta è funebre, sommesso, l'effetto eccezionalmente severo, come quello di una processione verso il patibolo. Il rintocco, con il suo suono sinistro, tellurico, sotterraneo, infatti, perdura ossessivo, per tutta la durata dell'episodio in cui Alfredo, sostenuto da Germont, canta la sua frase più bella, «No, non morrai», appassionata e straziata come mai gli era riuscito di fare. Da notare che Verdi tratta liberamente il testo, interpolando battute tra loro distanziate e posticipando la seconda quartina di Violetta. Questo pezzo è l'immagine della morte nel suo aspetto macabro, pauroso: è la discesa di Violetta nella tomba. Ma Violetta sta compiendo un ultimo atto d'amore: e questo la fa volare in cielo. Se Alfredo troverà una «pudica vergine», giovane e bella, la sposi pure, dice Violetta, io lo voglio, e le consegni questo ritratto, dicendole che è quello di colei che «nel ciel tra gli angeli prega per lei, per te». Con un'improvvisa modulazione a Mi maggiore, vero colpo di scena del sommo musicista-drammaturgo, fiorisce infatti dalla sua bocca un canto paradisiaco: «Se una pudica vergine», melodia stupenda , riposata, calma , luminosa, liscia, tanto quella precedente era aspramente declamata, e come rotta dall'angoscia. Violetta si identifica nella «pudica vergine» come si era identificata nella «giovine sì bella e pura» del duetto con Germont: c'è in lei la nostalgia dell'innocenza, della purezza, della verginità, il che significa, per una prostituta, cancellare un passato di alienazione e di solitudine, riappropriarsi di se stessa e, attraverso l'espiazione di un sacrificio volontario, sorretto da un amore divorante per tutte le creature, trasformarsi in un angelo

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che, dal cielo, veglia su chi lo invoca. C'è nella musica come un cambio di atmosfera, dall'oscurità alla luce: i due aspetti della morte, nella visione verdiana - catastrofe e trasfigurazione -, sono qui direttamente accostati: prima la terra, che si apre nell'oscurità della tomba attraverso gli accordi timbricamente "sporchi" di tutta l'orchestra in pianissimo; ora il paradiso, che si dischiude, attraverso il volo melodico di Violetta, sul dolce e sommesso beccheggiare degli archi. In questo momento Violetta è già oltre la morte, ormai non soffre più. La seconda parte della melodia «Le porgi quest'effigie» presenta un'altra cosa sorprendente: sembra molleggiare sul posto (fa bemolle cinque volte ribattuto «crescendo accentato con passione», parole sempre ben scolpite) prima di spiccare il volo verso l'alto («di chi nel ciel tra gli angeli») con un fervore grande quanto il raccoglimento da cui si esprime. Salendo in alto, la voce del soprano deve assottigliarsi in pianissimo, come un raggio di luce che scende dalla regione degli angeli su questa scena di morte. Dopo gli interventi degli altri, la frase «Le porgi questa effigie» è ripetuta con una variante che fa salire la voce ancora più in alto , al si bemolle, con effetto di ulteriore elevazione. Più che mai il contesto scenico è qui significativo, ossia la presenza come scrive Dumas, di «quella camera da letto , che un tempo aveva risonato di tante strane parole e che ormai non era più se non che un tabernacolo sacro» (p.224). Da notare un particolare importante: l'inciso «le porgi questa effigie», con il Fa bemolle ribattuto seguito dal Mi bemolle e dal salto discendente di quinta al La bemolle, ha le stesse note della melodia di Alfredo alla parola «misterioso», laddove cantava fuori scena «Amor , amor è palpito» nella cabaletta «Sempre libera». Questo legame stabilisce un collegamento tra i due momenti fondamentali dell'opera: amore e morte. E' l'amore, presente nel ricordo di quella inflessione melodica, che permette a Violetta di affrontare la morte, donando se stessa in sacrificio e consegnando a chi resta l'eredità della propria preghiera, di angelo in cielo. In questa melodia è contenuto chiaramente un ritmo di valzer, che l’orchestra nasconde nel suo dondolante accompagnamento legato. Il ritmo di valzer, così nascosto, appannato, velato, appare qui come l’immagine di Violetta che sta per abbandonare la vita. Il ritmo di valzer diventa ora segno della vita che sfugge, durante un’ agonia che vede Violetta agonízesthai, come dice la parola greca, ossia lottare con la vita nel disperato tentativo di trattenerla. E’ questo aspetto dell’agonia di Violetta, questo rappresentare la vita non distrutta dalla morte ma trasfigurata in una calma paradisiaca che impedisce a Verdi di abbandonarsi a una spossata rappresentazione della malattia e gli permette di vedere l’agonia e la morte con lo stesso , sublime ed epico distacco con cui Tolstoj avrebe trattato la morte del suo eroe in quell’inarrivabile rappresentazione non malata della malattia che è la novella La morte di Ivan Il’jc. Si conclude dunque così l'itinerario della Traviata, questa «Passione secondo Verdi» svolta attraverso tre tappe. Nel primo atto Violetta conosce l'amore e ritrova la propria umanità perduta; nel secondo si offre come vittima sacrificale; nel terzo trova la forza di affrontare la morte con un ultimo atto d'amore, offrendo la protezione della sua preghiera nei confronti del futuro matrimonio di Alfredo. Così la cortigiana, attraverso il dolore, ritrova l'umanità perduta diventando prima donna, poi eroina, poi angelo. Tutta questa scena, anzi, tutto l’atto ha una continuità nuova rispetto a Rigoletto e Trovatore: non c’è quasi stacco nei pezzi. L’alternanza di pezzi chiusi e declamati investe sia il duetto che il Finale, fondendoli in un unico flusso drammatico: entrambi iniziano con un Allegro assai vivo che sospinge il tempo in un andamento alacre e fa correre il dramma verso la sua soluzione finale. 3) Andantino «E' strano», 3/8, la maggiore. Siamo alle ultime battute, ma c'è ancora una sorpresa. Violetta, alzandosi rianimata scandisce parlando un declamato sulla nota Mi, che sale poi per gradi cromatici in un crescendo di sonorità che, trasalendo e agitatissima, la porta al grido finale:: «E' strano! Cessarono gli spasimi del dolore. In me rinasce, m'agita insolito vigore. Ah! ma io , ah! ma io ritorno a vivere...». E' l'ultimo momento di illusoria vitalità prima della morte: Verdi accompagna questo allucinato

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declamato con il tema «Di quell'amor che è palpito» che ritorna qui, del tutto inatteso . La stessa espressione «E' strano» riprende quella del primo atto in cui Violetta avvertiva dentro di sé, per la prima volta, la voce dell'amore. Qui è lo stesso: si sente diversa, trasformata, accesa da sensazioni nuove. La veste sonora del passo è diafana, spettrale nel suono degli otto violini più due viole, senza bassi: immagine del ricordo allucinato del moribondo. Ogni volta che torna, questo tema assume un significato differente. La prima volta era cantato da Violetta tra sé, poi , la seconda, fuori scena da Alfredo. Funzionava come elemento di rottura e di stimolo dal punto di vista psicologico e sentimentale: Violetta decideva di rituffarsi nella propria vita brillante, ma ne veniva trattenuta da quella voce che lei tentava di tacitare con il profluvio dei suoi gorgheggi. Durante la lettura della lettera, il tema funzionava come ricordo: nella desolazione presente era la voce di una felicità perduta, ricordo lontano che suscitava nostalgia e rimpianto per il passato. Qui, la nuova citazione del tema ha un altro significato: non è più ricordo, ma una specie di viatico, di estrema unzione, è il principio vitale dell'amore che l’ accompagna nel momento del trapasso e le dà una tale forza da farla gridare di gioia. Sul fortissimo di «Oh gioia!» Violetta ricade esanime sul canapè. Il dottore le tocca il polso, verificandone la morte, nuovo tocco realistico prescritto dalla didascalia, e l'opera si conclude in pochissime battute, secondo il tipico stile verdiano, con brutale fragore: la scure del destino assesta la sua definitiva mazzata, mentre la tela cala rapidamente. Ancora una volta trasfigurazione e catastrofe si intrecciano strettamente nella rappresentazione verdiana della morte. Da tutto questo viene fuori la visione del mondo di Verdi, per il quale gli eventi umani sono dominati dalla «forza del destino», vale a dire dalle combinazioni imperscrutabili di eventi che uniscono o dividono gli uomini attraverso i casi della vita e la presenza della morte. La visione di Verdi è eminentemente pessimistica: la vita, per lui, è sostanzialmente tragica, dominata dal dolore. Ma, senza ricorrere ad una visione religiosa, mai direttamente esplicitata nelle sue opere , seppure presente in molte sue scene, e specialmente nella Traviata, l'artista addita all'uomo i mezzi per dare un senso a questa tragedia della vita: e cioè la fede nei valori fondamentali dell'uomo. Sono i valori dell'amore, (tra uomo e donna e tra padri e figli, tra la persona e il suo prossimo), della fedeltà, dell'amicizia, della lealtà, del sacrificio, del dovere, della rinuncia, della solidarietà, della dedizione, della patria come identificazione collettiva, sono questi valori che, secondo Verdi, danno all'uomo la forza per affrontare il proprio destino e guardare in faccia alla morte con la tranquillità interiore che mostra Violetta nelle ultime scene della Traviata. Tutto è sempre chiaro e netto nelle opere di Verdi che, sotto questo aspetto, appartiene al primo romanticismo e non conosce la crisi dei valori propria del decadentismo ma presagita nel Don Carlos e nell'Otello: di qui il bene, di là il male, senza confusione di parti, senza incertezza né tentennamenti nel giudicare e rappresentare le vicende dei vari personaggi

S’è detto che la trasformazione di Violetta è segnata da un mutato rapporto con il tempo. Da quando si innamora di Alfredo il tempo non è più per lei il tempo del piacere, ma quello della felicità cui la malattia ha posto un termine. Violetta sa che è ammalata e che morire, e chiede al destino di godere il suo amore fino al termine che è stato fissato alla sua esistenza dalla malattia. Il tempo quindi non è più per lei una cascata travolgente di ebbrezza mondana ma una discesa inesorabile verso lo sfiorire della sua bellezza, come dice Germont, e poi verso la morte. Sono continui nel libretto i riferimenti al tempo passato e futuro. Per i gaudenti della festa in casa di Violetta, il tempo è insufficiente per godere la vita: bisogna affrettarsi per riempire la vita di feste, danze, giochi, amori, piaceri, il tempo che ci resta è poco. Le prime battute dell’opera pongono subito l’azione in bilico tra passato e futuro, fissandone in modo emblematico la dimensione psicologica.

Il tempo passato è continuamente evocato: «A me fanciulla un candido e trepido desire…» (Violetta); il passato «più non esiste , e Dio lo cancellò col pentimento mio…»(Violetta) , «Volaron già tre lune/ dacchè la mia Violetta…», «Scordo nei gaudii suoi tutto il passato…» «E’ tardi» (Alfredo), «Non non udrai rimproveri/ copriam d’oblio il passato» (Germont) «Si stenda un velo sui fatti del passato» (Zingarelle), «Addio del passato», «E’ tardi…» «Prendi quest’è l’immagine dei miei passati giorni…»(Violetta).

Ma il tempo è non solo quello passato; è anche quello futuro che incombe come fatto ignoto, come attesa della morte e come speranza di felicità: «E tornerà…Pria che tramonti il giorno…» «Ah

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comprendo…dovrò per alcun tempo/ da Alfredo separarmi» «Non sapete che colpita d’atro morbo è la mia vita? Che già presso il fin ne vedo?» «Morrò!… la mia memoria non fia ch’ei maledica», «Sarò lì tra quei fior, preso a te sempre…», «Ma verrà giorno in che il saprai…», «Parigi o cara noi lasceremo», «Tutto il futuro ne arriderà», «Alfredo! Ah il crudo termine serbato al nostro amor», se incontrerai «una pudica vergine […] sposa ti sia, lo vo’».

Alla fine, passato e futuro si conciliano tra loro nel pensiero e nell’anima di Violetta. «Addio del passato » è essenzialmente un’elegia a doppia valenza: chiusura con la vita passata e apertura al futuro abbraccio con Dio. Nella consegna del ritratto da parte di Violetta c’è la suprema sintesi di passato-presente-futuro: «Se una pudica vergine ti sposerà, dalle l’immagine dei miei giorni passati e ricordale il mio amore, dicendole che è un dono di chi un giorno tra gli angeli pregerà per voi».

Il senso di catarsi che ispira la fine di Violetta sta in questa conciliazione di presente passato e futuro ossia nella conquistata certezza che il futuro porterà la verità. Lei muore , infatti, avendo chiarito agli altri l’entità del suo sacrificio e avendo infranto la sua solitudine, perché spira «tra le braccia» di quanti ha «cari al mondo». La sua tomba non sarà quindi senza croce, senza lacrime né senza fiori. Era questo che premeva a Violetta. Non tanto recuperare l’amore di Alfredo, perché sapeva benissimo che non avrebbe potuto goderne; ma vederlo ancora una volta per confermargli il suo amore, parlare della verità che lui è venuto a sapere, come dice la lettera di Germont, e quindi concludere la vicenda con la definitiva rappacificazione. L’estrema malinconia di «Addio del passato» derivava da questo sentimento di frustrazione: la paura morire senza aver la conferma che lui ha saputo la verità.

La Traviata è quindi un discorso sul tempo che scorre, passa, trasforma; un discorso sulla dimensione temporale che caratterizza la nostra vita nella successione di passato presente e futuro che diventano contemporanei nell’interiorità della coscienza. Violetta in ogni momento della sua esistenza vive in questa dimensione: per lei il passato è sempre presente, prima come rifiuto di una dimensione negativa, poi come rimpianto di un bene perduto, e il futuro pure, prima come tempo che scorre inesorabile e va carpito nell’ebbrezza del piacere, poi come termine fissato alla propria esistenza attraverso l’appuntamento con la malattia e la morte, poi come luce di trasfigurazione e speranza in una vita ultraterrena. In questa compresenza delle tre dimensioni temporali sta la grandezza gigantesca del personaggio, la sua capacità di elevarsi alla dimensione di un’eroina tragica. Violetta è una creatura del tempo, come Rigoletto è una creatura della lingua. E’ l’idea del tempo nelle sue tre dimensioni di passato, presente e futuro che la forma e la costruisce come personaggio tragico. L'esistenza di Violetta è come un passaggio convulso, una specie di rapida di acque tumultuose, in cui il passato precipita, schiumando e rombando, per incanalarsi nel futuro.