L’ergonomia e il fattore umano in...

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1 L’ergonomia e il fattore umano in sanità Sara Albolino e Tommaso Bellandi pubblicato su “Il rischio clinico: metodologie e strumenti”, a cura di A. Panà e S. Amato (2007) L’ergonomia in ospedale L’ergonomo è un professionista che contribuisce a progettare e valutare i compiti, le procedure, i prodotti, gli ambienti ed i sistemi, con lo scopo di renderli compatibili con i bisogni, le capacità e le limitazioni degli uomini e delle donne (Salvendy, 1997). Più in generale l’ergonomia è quella disciplina che studia le interazioni degli esseri umani con le macchine, i processi e l’ambiente al fine di migliorare il benessere psico-fisico degli operatori e la performance del sistema (Karwowski, 2001). Ancora oggi il termine “Ergonomia”, dal greco ergo e nomos, è spesso riferito, nella conoscenza comune, a quella che viene definita l’ergonomia fisica, ovvero il rapporto dal punto di vista posturale e antropometrico ma anche di forza fisica con gli strumenti di lavoro e le postazioni di lavoro. La maggior parte delle persone tende infatti ad associare questa parola alle caratteristiche fisiche del posto di guida dell’autovettura, del sedile di lavoro, o dell’elettrodomestico. In realtà l’ergonomia, fin dalle sue origini, si è contraddistinta per la molteplicità degli aspetti osservati nello studio delle interazioni tra le persone, le tecnologie e l’organizzazione negli ambienti di lavoro e di vita quotidiana. Tra i precursori dell’ergonomia vanno sicuramente annoverati Frank e Lillian Gilbreth, che nei primi anni del Novecento, a partire da studi condotti sul campo per valutare l’efficienza di un ampio ventaglio di attività lavorative, svilupparono delle soluzioni ergonomiche per migliorare la qualità e la sicurezza dei processi produttivi, intervenendo sia sulla formazione dei lavoratori, che sulle caratteristiche degli strumenti e sull’organizzazione del lavoro. Da uno studio (1910) sui tempi e metodi di lavoro del personale di sala operatoria, emersero gravi inefficienze che andavano a danno di operatori e pazienti: osservando una serie d’interventi chirurgici, i Gilbreth si resero conto che il medico perdeva molto tempo nel prendere e posare gli strumenti durante l’operazione, con continue interruzioni che interrompevano la procedura e lo stesso ragionamento del chirurgo. Da questi studi ebbe origine la figura del ferrrista, che consente da allora ai chirurghi di concentrarsi sul campo operatorio facendo gestire la consegna ed il recupero degli strumenti dal ferrista. Per consentire una comunicazione fluida e chiara tra ferrista e chirurgo, vennero anche assegnati dei nomi univoci e condivisi agli strumenti. Chiaramente, tale divisione dei compiti, venne accompagnata da un’apposita formazione dedicata ai medici ed ai neonati ferristi sulle nuove modalità di lavoro. Ad ogni modo, secondo la International Ergonomics Association (Karwowski, 2001), l’ergonomia può essere suddivisa in ergonomia fisica, ergonomia cognitiva ed ergonomia organizzativa, a seconda dell’ambito d’intervento. L’ergonomia fisica L’ergonomia fisica si occupa dell’interazione dal punto di vista fisico tra la persona e gli strumenti impiegati negli ambienti di vita e di lavoro. Il contributo principale dell’ergonomia fisica riguarda la prevenzione dei disturbi muscolo-scheletrici derivanti dall’attività fisica di tipo statico e dinamico. Per attività di tipo statico s’intendono tutte quelle situazioni in cui la persona opera mantenendo per un periodo di tempo prolungato una postura fissa, come ad esempio la postura seduta nel lavoro d’ufficio o nella conduzione di un’automobile. In queste situazioni, le postazioni di lavoro possono costringere l’operatore ad assumere posture incongrue per un tempo prolungato con il conseguente rischio di disturbi al rachide o agli arti. Anche in ospedale tali situazioni possono verificarsi: il radiolgo che passa ore ed ore seduto a refertare gli esami di fronte ad un computer è esposto a questo tipo di rischi, così come il chirurgo che rimane per molte ore in posizione eretta con il busto flesso in avanti per eseguire gli interventi. Nell’ergonomia fisica sono stati messi a punto sia strumenti per valutare i rischi connessi con l’assunzione di posture incongrue, che soluzioni

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L’ergonomia e il fattore umano in sanità Sara Albolino e Tommaso Bellandi pubblicato su “Il rischio clinico: metodologie e strumenti”, a cura di A. Panà e S. Amato (2007) L’ergonomia in ospedale L’ergonomo è un professionista che contribuisce a progettare e valutare i compiti, le procedure, i prodotti, gli ambienti ed i sistemi, con lo scopo di renderli compatibili con i bisogni, le capacità e le limitazioni degli uomini e delle donne (Salvendy, 1997). Più in generale l’ergonomia è quella disciplina che studia le interazioni degli esseri umani con le macchine, i processi e l’ambiente al fine di migliorare il benessere psico-fisico degli operatori e la performance del sistema (Karwowski, 2001). Ancora oggi il termine “Ergonomia”, dal greco ergo e nomos, è spesso riferito, nella conoscenza comune, a quella che viene definita l’ergonomia fisica, ovvero il rapporto dal punto di vista posturale e antropometrico ma anche di forza fisica con gli strumenti di lavoro e le postazioni di lavoro. La maggior parte delle persone tende infatti ad associare questa parola alle caratteristiche fisiche del posto di guida dell’autovettura, del sedile di lavoro, o dell’elettrodomestico. In realtà l’ergonomia, fin dalle sue origini, si è contraddistinta per la molteplicità degli aspetti osservati nello studio delle interazioni tra le persone, le tecnologie e l’organizzazione negli ambienti di lavoro e di vita quotidiana. Tra i precursori dell’ergonomia vanno sicuramente annoverati Frank e Lillian Gilbreth, che nei primi anni del Novecento, a partire da studi condotti sul campo per valutare l’efficienza di un ampio ventaglio di attività lavorative, svilupparono delle soluzioni ergonomiche per migliorare la qualità e la sicurezza dei processi produttivi, intervenendo sia sulla formazione dei lavoratori, che sulle caratteristiche degli strumenti e sull’organizzazione del lavoro. Da uno studio (1910) sui tempi e metodi di lavoro del personale di sala operatoria, emersero gravi inefficienze che andavano a danno di operatori e pazienti: osservando una serie d’interventi chirurgici, i Gilbreth si resero conto che il medico perdeva molto tempo nel prendere e posare gli strumenti durante l’operazione, con continue interruzioni che interrompevano la procedura e lo stesso ragionamento del chirurgo. Da questi studi ebbe origine la figura del ferrrista, che consente da allora ai chirurghi di concentrarsi sul campo operatorio facendo gestire la consegna ed il recupero degli strumenti dal ferrista. Per consentire una comunicazione fluida e chiara tra ferrista e chirurgo, vennero anche assegnati dei nomi univoci e condivisi agli strumenti. Chiaramente, tale divisione dei compiti, venne accompagnata da un’apposita formazione dedicata ai medici ed ai neonati ferristi sulle nuove modalità di lavoro. Ad ogni modo, secondo la International Ergonomics Association (Karwowski, 2001), l’ergonomia può essere suddivisa in ergonomia fisica, ergonomia cognitiva ed ergonomia organizzativa, a seconda dell’ambito d’intervento. L’ergonomia fisica L’ergonomia fisica si occupa dell’interazione dal punto di vista fisico tra la persona e gli strumenti impiegati negli ambienti di vita e di lavoro. Il contributo principale dell’ergonomia fisica riguarda la prevenzione dei disturbi muscolo-scheletrici derivanti dall’attività fisica di tipo statico e dinamico. Per attività di tipo statico s’intendono tutte quelle situazioni in cui la persona opera mantenendo per un periodo di tempo prolungato una postura fissa, come ad esempio la postura seduta nel lavoro d’ufficio o nella conduzione di un’automobile. In queste situazioni, le postazioni di lavoro possono costringere l’operatore ad assumere posture incongrue per un tempo prolungato con il conseguente rischio di disturbi al rachide o agli arti. Anche in ospedale tali situazioni possono verificarsi: il radiolgo che passa ore ed ore seduto a refertare gli esami di fronte ad un computer è esposto a questo tipo di rischi, così come il chirurgo che rimane per molte ore in posizione eretta con il busto flesso in avanti per eseguire gli interventi. Nell’ergonomia fisica sono stati messi a punto sia strumenti per valutare i rischi connessi con l’assunzione di posture incongrue, che soluzioni

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tecniche per prevenire l’insorgere di disturbi muscoloscheletrici. L’uso di sedie regolabili in altezza, con lo schienale alto che garantisce l’appoggio anche durante i movimenti; la scelta di scrivanie con il ripiano concavo per facilitare l’accesso a tutto lo spazio di lavoro; la dotazione di sgabelli “siedi-in-piedi” per consentire un appoggio a chi conduce attività prolungata in posizione eretta, sono solo alcuni esempi di soluzioni ergonomiche che aiutano a prevenire i disturbi muscolo-scheletrici. Nella figura 1 è riportato il disegno di una postazione di lavoro ergonomica per la radiologia.

Figura 1: Postazione ergonomica in radiolgia Le attività di tipo dinamico interessano l’ergonomia per quanto riguarda la prevenzione dei rischi connessi con la movimentazione manuale dei carichi oppure i movimenti ripetuti degli arti superiori. In ospedale è particolarmente senita la problematica della movimentazione manuale dei pazienti, che richiede uno sforzo notevole e ripetuto soprattutto al personale infermieristico ed ausiliario. Per questo sono state sviluppate alcune tecniche di valutazione dell’esposizione a questo tipo di rischi e ancor di più si è fato per la prevenzione, agendo sia al livello della formazione degli operatori sulle corrette tecniche per la movimentazione che dotando i reparti di ausili meccanici per la movimentazione assistita dei pazienti non deambulanti. L’ergonomia cognitiva ed il design L’ergonomia cognitiva sposta l’attenzione dall’interazione fisica con gli strumenti e gli ambienti, all’interazione di tipo cognitivo, cioè al modo in cui le persone percepiscono ed interpretano le informazioni che si trovano di fronte quando impiegano uno strumento in un determinato contesto, alle modalità di elaborazione di tali informazioni che che portano ad intraprendere decisioni e azioni per raggiungere i propri scopi modificando lo stato del mondo mediante l’uso di strumenti. La teoria dell’azione proposta da Norman (1988, 1992, 1993, 1999) ben sintetizza il significato dell’ergonomia cognitiva. Lo svolgimento di qualsiasi tipo di attività comporta un passaggio da uno “stato del mondo A” ad uno “stato del mondo B”. Una persona che si trova in uno stato del mondo A e che ha l’obbiettivo di raggiungere uno stato del mondo B deve formulare un piano di azioni a partire dalle informazioni che gli si presentano di fronte, impiegando al meglio gli strumenti di cui dispone. Una volta formulato il piano di azioni, dovrà eseguire uno o più compiti e valutare il risultato del lavoro svolto, per verificare se l’obbiettivo inteso è stato raggiunto. Secondo Norman, tra l’intenzione e l’azione c’è una distanza cognitiva che viene denominata il golfo dell’esecuzione. Tale distanza e tanto maggiore quanto è più difficile tradurre l’intenzione in azione. Tra l’azione ed i risultati che si ottengono c’è un’altra distanza cognitiva denominata golfo della valutazione. Anche in questo caso, il golfo della valutazione ha un’ampiezza variabile in funzione della difficoltà di valutare i risultati di un’azione.

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Ad esempio, se desidero ottenere due fogli in formato A5 (stato del mondo B) avendo a disposizione un foglio di carta A4 ed un paio di forbici (stato del mondo A), per raggiungere il mio obbiettivo dovrò colmare il golfo dell’esecuzione impugnando le forbici e tagliando il foglio A4 in due parti uguali. In questo caso il compito è piuttosto semplice e lo strumento (le forbici) sono ben progettate per adempiere a questa funzione. Anche la valutazione è piuttosto semplice, perché è sufficiente sovrappore le due parti di foglio ottenute a seguito del taglio per verificare se si è effettivamente ottenuti due fogli A5. Ma in altre situazioni tutto questo può risultare molto più difficile. Un paziente deve ricevere un trattamento radioterapeutico a bassa potenza alla spalla in un centro ad alta attività. La macchina impiegata è la THERAC-25, che ha due modalità di funzionamento:

• alta potenza (bottone “X”) (massima potenza, schermato) • bassa potenza (bottone “E”) (bassa potenza, non schermata)

Il tecnico preme, per errore, il bottone “X”, si accorge dell’errore, preme “up” per cambiare selezione e preme “E”. Il monitor indica “bassa potenza” e il tecnico preme il tasto di attivazione. Purtroppo la sequenza a causa di un “bug” nel software genera un errore per cui la radiazione viene erogata ad alta potenza ma non schermata. Il paziente riceve una irradiazione di 25,000 rads, prova un forte bruciore e preme il pulsante di colloquio con il tecnico. Ma sia la comunicazione vocale che il controllo video sono staccati. Il monitor indica “errore 54”. Il tecnico non controlla il significato, pensa che la macchina non abbia irradiato e preme ancora il tasto di attivazione. Il paziente riceve una seconda scarica di 25,000 rads. Ricompare il segnale “errore 54”. Il tecnico entra nella stanza e si accorge che il paziente ha ricevuto gravissime ustioni. (riadattato da Bogner, 2003) Se analizziamo questo tragico evento secondo la prospettiva della teoria del’azione di Norman, concentradoci sulle interazioni uomo-macchina, possiamo cogliere bene le distanze cognitive che intercorrono tra intenzione, esecuzione e valutazione. Il golfo dell’esecuzione probabilmente era piuttosto ampio, visto che in prima istanza il tecnico desiderava azionare il bottone “E”, mentre per errore ha premuto il bottone “X”. Possiamo ipotizzare che i due bottoni fossero collocati l’uno vicino all’altro, che avessero la stessa forma e colore, per cui era abbastanza facile commettere un errore d’esecuzione. Il golfo della valutazione era ancora più ampio, in quanto il tecnico non è stato in grado di valutare l’esito dell’azione a causa dello scarso contenuto informativo del feedback ricevuto “errore 54”, che il tecnico ha interpretato come indicazione della mancata irradiazione in quanto la macchina aveva dato in passato “falsi allarmi”. Questo caso ci aiuta a comprendere il contributo delle’rgonomia cognitiva, sia nell’analisi che nella prevenzione dei rischi. L’obbiettivo principale dell’ergonomia cognitiva consiste infatti nella riduzione del golfo dell’esecuzione e del golfo della valutazione, per rendere più immediata e sicura l’interazione uomo-macchina. A questo proposito sono stati elaborati una serie di criteri per guidare sia la valutazione che la progettazione di “artefatti congnitivi” (Norman, 1993), come ad esempio le interfacce dei software di gestione delle apparecchiature bio-medicali:

• visibilità: dare visibilità alle informazioni rilevanti per lo svolgimento del compito; • feedback: dare feedback rispetto ai risultati della azioni compiute sull’interfaccia; • mapping: far corrispondere la forma dei comandi all’azione che s’intende eseguire; • vincoli e affordance: impiegare vincoli per evitare decisioni e azioni scorrette ed inviti

all’uso per favorire le decisioni e le azioni giuste; • modelli concettuali: fornire all’utente un modello concettuale chiaro e trasparente sul

funzionamento del sistema. Tali criteri sono alla base dell’approccio alla progettazione ergonomica, denominata User Centered Design, che pone l’esperienza dell’utente al centro delle attività di progettazione. Per realizzare strumenti che siano realmente in grado di supportare le attività umane è necessario partire dalla

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cosiderazione delle carattersitiche congitive oltre che fisiche delle persone, dall’analisi dei contesti operativi e delle carattersitiche dei compiti. Bisogna, in altre parole, produrre strumenti dotati di elevata usabilità, intesa come la proprietà di un prodotto che lo rende semplice ed intuitivo da usare per supportare le attività per cui è stati realizzato, all’interno dei contesti d’uso reali in cui operano le persone destinatarie di quello strumento. Un prodotto usabile può garantire un minore numero di errori, una maggiore facilità di apprendimento, più velocità e qualità nell’esecuzione di compiti, una focalizzazione sugli obbiettivi dell’attività piuttosto che sul funzionamento degli strumenti necessari a svolgerla (Norman e Draper, 1986). L’ergonomia congitiva e lo studio dell’errore umano “Gli operatori non sono tanto i principali responsabili di un incidente, quanto gli eredi dei difetti del sistema che sono stati generati da un progetto carente, da un’installazione sbagliata, da assistenze difettose e da pessime decisioni manageriali.” (Reason, 1990) L’errore umano è comunemente riconosciuto come la causa principale degli infortuni all’interno dei luoghi di lavoro. Il problema sta nel fatto che, nel senso comune, al significato di errore umano si associa in maniera sottile e perversa la dimensione della responsabilità individuale. Si ritiene cioè che chi commette un errore è colpevole perché la causa dell’infortunio va ricercata nelle azioni compiute dal lavoratore nel luogo e nel momento in cui è avvenuto il sinistro. Secondo alcune stime tra il 70 e l’80% delle analisi degli incidenti si conclude con l’individuazione della causa nell’errore umano commesso dall’operatore della prima linea (Wiegmann e Shappell, 1999). Soltanto nel caso in cui gli incidenti hanno dimensioni catastrofiche e giungono all’attenzione dell’opinione pubblica, le inchieste interne ed esterne prendono in esame anche le condizioni che hanno favorito l’evento avverso. Si reagisce, cioè, in termini di analisi e miglioramento della sicurezza solo a seguito di eventi catastrofici. Secondo la teoria sull’errore umano più accreditata a livello internazionale, di cui è autore il prof James Reason, i meccanismi alla base degli errori sono gli stessi che regolano i comportamenti corretti delle persone. L’errore non è quindi un’eccezione o l’espressione della negligenza di chi lo commette, ma è connaturato nei processi cognitivi che solitamente danno dei buoni risultati (Reason, 1990). Per questo il vecchio detto “errare è umano” sintetizza la teoria nello stile immediato della saggezza popolare. Comunemente, come si è detto, gli errori vengono identificati con gli sbagli commessi dalle persone nel corso dello svolgimento di un’attività. Questi sono gli errori attivi, connessi con l’esecuzione o la pianificazione di un’azione. C’è però un’altra categoria di errori più difficile da rintracciare, il cui esito non è immediatamente evidente, ma che possono avere delle conseguenze molto più devastanti degli sbagli. Questa seconda categoria è quella degli errori organizzativi, detti anche errori latenti, perché possono sopravvivere a lungo all’interno dell’organizzazione prima di manifestarsi. Gli errori attivi sono situati all’interno delle pratiche di lavoro quotidiane. Gli errori latenti possono invece avere diverse collocazioni: in parte sono riconducibili al contesto vicino, costituito dalle decisioni operative, dalle condizioni dell’ambiente di lavoro e dalle tecnologie impiegate, per il resto sono da attribuire alle decisioni manageriali che costituiscono le precondizioni alle attività produttive. A loro volta, le decisioni manageriali dipendono dalla cultura dell’organizzazione, in cui risiedono i principi ed i valori che guidano il modo di pensare e di agire dei lavoratori a tutti i livelli. Il contributo di Reason (1990, 1997) ha significato una svolta radicale nella concezione dell’errore e più in generale nella descrizione del funzionamento dei processi cognitivi umani. Pur appoggiandosi su teorie precedenti, reinterpreta la concezione dell’errore in una nuova prospettiva ed insiste sulla necessità di studiare i comportamenti umani in relazione ai contesti organizzativi, materiali e culturali, in cui si riscontrano effettivamente. Reason ha elaborato questa teoria a partire da una serie di studi condotti sul campo all’interno di organizzazioni complesse, come le industrie chimiche di trasformazione, l’industria nucleare o il

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settore aereonautico, affrontando l’analisi di numerosi disastri con un approccio ergonomico. Da queste analisi hanno avuto origine metodi e programmi di risk management, che hanno contribuito ad innalzare notevolmente i livelli di sicurezza nelle organizzazioni che li hanno accolti e sviluppati. Nel corso degli ultimi anni, Reason (2000, 2001, 2002, 2004) si è interessato esclusivamente al mondo della sanità, nel tentativo di promuovere questa nuova visione sull’errore umano per l’analisi e la prevenzione degli incidenti alla sicurezza dei pazienti. Il così detto “New look on safety, human error and accidents” è stato sviluppato in maniera approfondita anche grazie ai contributi di Cook e Woods (1994, 1998, 2002, 2003, 2005), che hanno fatto riferimento ai lavori di Hollnagel (1998, 2005) e Rasmussen (1997) sulla natura dell’errore e sulla sicurezza dei sistemi. Gli errori attivi Lo studio dell’errore da un punto di vista cognitivo è interessante perché consente di cogliere le modalità ricorrenti di occorrenza dei diversi tipi di errore e di individuare le azioni di miglioramento da intraprendere conseguenti alle criticità rilevate nelle prestazioni degli operatori. Come si è detto, i processi cognitivi alla base dell’errore sono gli stessi che nelle stragrande maggioranza dei casi fanno sì che le nostre azioni siano corrette e sicure. La definizione più semplice ed operativa di errore è “il fallimento nella pianificazione o nell’esecuzione di una o più azioni pianificate per il raggiungimento di uno scopo desiderato” (1997). Gli errori possono essere classificati secondo diverse prospettive. Un errore può essere descritto nei termini dei comportamenti coinvolti, dei processi cognitivi che sottendono le decisioni e le azioni o secondo i fattori che hanno contribuito all’incidente. Seguendo Reason, possiamo raggruppare le modalità di sviluppo dell’azione in tre livelli fondamentali, distinti lungo un continuum a seconda dell’attenzione impiegata per svolgere il compito (fig. 2):

ElevatoMedio Basso Controllo attenzionale

Continuum dell’azione

Knowledge-based

Rules-basedSkills-basedLivello di prestazione

ElevatoMedio Basso Controllo attenzionale

Continuum dell’azione

Knowledge-based

Rules-basedSkills-basedLivello di prestazione

Figura 2: i livelli di prestazione Skills-based. Skill è l'abilità nell'eseguire un compito. Le azioni skills-based si riferiscono a compiti svolti in modo automatico e semplice per chi abbia acquisito una particolare abilità. L’elaborazione al livello skills-based avviene con un basso impiego di risorse attentive, quasi in modo inconscio. Rules-based. A questo livello agisce un controllo attenzionale sulla situazione corrente per selezionare gli aspetti rilevanti riconducibili ad una regola archiviata nella base di conoscenza. Lo regola attiva uno schema che corrisponde ad una precedente esperienza o ad un’istruzione specifica. I processi rules-based entrano in azione quando fallisce lo skills-based e c’è bisogno di fare riferimento ad un insieme di istruzioni esplicite o regole a disposizione per la risoluzione del problema. Il controllo è forte all’inizio del processo, quando si esamina la situazione, mentre diminuisce drasticamente nel momento in cui viene applicato lo schema. Knowledge-based. Si tratta di elaborazioni basate sul ragionamento, inferenza, giudizio e valutazione. Se il processo rules-based non risolve il problema allora il sistema passa al livello knowledge-based, chiamato in causa solo in ultima istanza perché è quello che richiede il maggior sforzo cognitivo. Questo avviene quando si presentano situazioni nuove o poco conosciute, oppure quando le regole di cui si dispone non sono sufficienti ed adeguate. L’attenzione è massima in ogni fase del processo knowledge-based: ad ogni passo si effettua un controllo sull’esito delle nostre azioni e sulle risposte dell’ambiente. Si procede lentamente, per prove ed errori, di modo da poter esercitare il controllo sull’eventuale fallimento o successo nella conduzione dell’attività corrente.

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Ad ogni livello di prestazione sono associati diversi tipi di errore, correlati alle caratteristiche dei meccanismi cognitivi sul livello di riferimento. La quantità e la qualità delle risorse cognitive adoperate per portare a termine un compito, ad ogni livello, dipendono sia dalle caratteristiche dell’individuo che dalla natura del compito: le prime sono collegate all’esperienza ed alle condizioni di salute del soggetto, mentre la seconda è definita dall’organizzazione del lavoro. Gli errori sono suddivisi in due macrocategorie, errori di esecuzione ed errori di pianificazione, successivamente articolate in uno schema tassonomico, cioè in una struttura ad albero che rappresenta la classificazione dei diversi tipi di errore. Della prima categoria fanno parte gli errori di esecuzione, ovvero il fallimento nel portare a termine, come nelle intenzioni, un’azione precedentemente pianificata; questa categoria di errori è situata sui livelli di prestazione skills e rules-based, in quanto si tratta di svolgere compiti abituali per cui non c’è bisogno di controllo cosciente. In questo caso la nostra mente delega l’elaborazione ai meccanismi di processamento automatico, che risiedono nell’apparato senso-motorio. Gli errori che cadono all’interno di questa categoria dipendono così da “azioni non secondo le intenzioni”. Della seconda categoria fanno invece parte gli errori di pianificazione, che consistono nell’uso di una strategia sbagliata per raggiungere un obbiettivo chiaro, oppure nella mancata percezione della presenza di un problema. In quest’ambito gli errori sono provocati da una sbagliata o mancata formulazione delle intenzioni, perciò fanno capo ad “azioni secondo le intenzioni”. I differenti tipi di errore attivo Slip (di cattura duplice) E' un azione non in accordo con le intenzioni. La pianificazione è valida ma l'esecuzione è carente. Sono errori di azione commessi nello svolgimento di attività routinarie. L'automatismo dell'azione fallisce quando qualcosa d’imprevisto interferisce con l'azione. Tipicamente questo avviene quando due pratiche molto frequenti s’intercettano l’una con l’altra, come quando ci troviamo in situazioni apparentemente simili. Sono infatti chiamati anche intrusioni di abitudini consolidate. Lapsus. E' un errore conseguente ad un fallimento della memoria, che non si manifesta necessariamente nel comportamento oggettivo e che può risultare evidente solo per la persona che lo esperisce. I lapsus linguistici sono i più noti e sono molto comuni: avvengono ogni qual volta salta la sequenza temporale di un’espressione linguistica, come nel caso di una parola o una frase detta in anticipo rispetto all’intenzione originaria. Mistake. E' un errore nella pianificazione. Le azioni vengono messe in pratica come sono state pianificate, ma è il piano stesso a non essere valido rispetto alla situazione corrente. Si tratta di errori nelle intenzioni, in quanto la nostra mente attiva dei processi inferenziali conseguenti ad una percezione sbagliata o incompleta rispetto alle caratteristiche del compito da svolgere. Il mistake si manifesta nell’attuazione di un piano non idoneo alla soluzione del problema oppure nella mancata comprensione della necessità di agire. I mistakes possono essere di due tipi: rules-based e knowledge-based. Il rules-based mistake si ha quando è scelta la regola sbagliata a causa di una errata percezione della situazione oppure nel caso di uno sbaglio nell'applicazione di una regola. Il caso più frequente è quello dell’applicazione di regole robuste ma sbagliate (strong but wrong) in base al meccanismo dell’azzardo in base alla frequenza. Il knowledge-based mistake dipende dalla mancanza di conoscenze o dalla loro scorretta applicazione. Il risultato negativo dell'azione risiede nelle conoscenze sbagliate che l'hanno determinata. Tale errore è naturale per esseri dotati di razionalità limitata e collocati in contesti che presentano dei problemi talvolta al di fuori della portata delle capacità cognitive individuali. La figura 3 è lo schema riassuntivo della tassonomia delle azioni contrarie alla sicurezza elaborata da Reason (1990). Pensato per un contesto organizzativo, lo schema riformula l’errore nei termini di “azioni contrarie alla sicurezza”, che è anche un invito a concentrarsi sulle conseguenze dell’errore anziché sulle colpe, coerentemente con l’impostazione che vede l’errore come un aspetto normale del comportamento umano. Come già detto, le azioni contrarie alla sicurezza si suddividono nelle

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due macrocategorie di “azioni non secondo le intenzioni” e “azioni secondo le intenzioni”: alla prima categoria appartengono gli slips e i lapses, alla seconda i mistakes e le violazioni vere e proprie. Le violazioni sono azioni “sbagliate” intraprese consapevolmente dai soggetti e valutate tali da un giudice esterno. Spesso, nei contesti organizzativi, le persone intraprendono delle azioni valutate come sbagli in conseguenza a norme o regole difficili da applicare e da osservare: queste sono le così dette violazioni di routine. Ci sono poi le violazioni eccezionali connesse a situazioni di particolare gravità oppure a dinamiche caotiche del contesto. Infine, tra le violazioni, rientrano anche gli atti di sabotaggio, estremamente rari, finalizzati al danneggiamento del contesto dell’azione.

Azioni

Basso

Medio/Elevato

Errori R

Errori K

Errori S e L

Violazioni

Controllo attenzionale Tipo d’errore

Errori attenzionali Intrusioni, Omissioni, Inversioni

Ordinamenti sbagliati,Tempi sbagliati

Errori della memoriaOmissioni di elementi pianificati

Confusioni spaziali, Oblio delle intenzioni

Applicazione erronea di buone regole

Applicazione di regole sbagliate

Errore di giudizio o incapacità di utilizzare in maniera ragionevole le

informazioni disponibili

Non conoscere o dimenticare alcune informazioni critiche

Manifestazione

Atti di sabotaggio

Violazioni eccezionali

Violazioni di routine

Azioni

Basso

Medio/Elevato

Errori R

Errori K

Errori S e L

Violazioni

Controllo attenzionale Tipo d’errore

Errori attenzionali Intrusioni, Omissioni, Inversioni

Ordinamenti sbagliati,Tempi sbagliati

Errori della memoriaOmissioni di elementi pianificati

Confusioni spaziali, Oblio delle intenzioni

Applicazione erronea di buone regole

Applicazione di regole sbagliate

Errore di giudizio o incapacità di utilizzare in maniera ragionevole le

informazioni disponibili

Non conoscere o dimenticare alcune informazioni critiche

Manifestazione

Atti di sabotaggio

Violazioni eccezionali

Violazioni di routine

Figura 3: le azioni contrarie alla sicurezza

La dinamica degli incidenti tra errori attivi ed errori latenti L’idea fondamentale alla base della prospettiva sistemica, propria dell’ergonomia, è che l’errore e più in generale il comportamento umano non possono essere compresi in isolamento dai contesti in cui le persone vivono e lavorano. Ecco quindi che Reason (1990) ha introdotto la distinzione fondamentale tra errori attivi ed errori latenti, per comprendere più a fondo la dinamica degli incidenti nella relazione tra errori attivi ed errori latenti. Un sistema che risponde agli errori in maniera reattiva attende che l’errore si manifesti in un incidente per riflettere sulle condizioni organizzative che lo hanno provocato ed eventualmente per intraprendere delle iniziative di cambiamento o di giustificazione dell’avvenuto. Spesso, gli errori organizzativi sono così profondamente radicati nella cultura che non bastano nemmeno gli incidenti o le disfunzioni affinché la dirigenza sia capace di riconoscerli ed assumersene la dovuta responsabilità. Solo riconoscendo la propria fallibilità le organizzazioni possono apprendere dagli errori, per introdurre dei miglioramenti tesi a ridurre i rischi che un errore occorso si verifichi di nuovo provocando un altro incidente. Le barriere agli errori, come le norme di sicurezza ed i dispositivi di protezione, soffrono della razionalità limitata dei progettisti, che fanno le loro previsioni sulla base delle conoscenze disponibili, dei report degli incidenti accaduti in passato, di un armamentario teorico elaborato per studiare gli eventi avversi conosciuti dalla letteratura. Di conseguenza è inevitabile che nuovi errori

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mettano alla prova le difese del sistema e possano trovare un varco che genera le condizioni per un incidente. Reason descrive questa situazione con l’ormai famosa metafora del groviera: il sistema ha delle difese su tutti i livelli dell’organizzazione; le barriere difensive sono come delle fette di groviera, sulla superficie qua e là hanno dei buchi, che rappresentano i punti critici. Di solito, anche se un azione su un livello buca la barriera difensiva, non provoca alcun danno perché le difese del livello successivo assorbono l’errore. Quando però si verificano delle particolari condizioni, per cui i buchi delle fette di groviera si allineano su un’unica direttrice, il rischio di incidente aumenta notevolmente perché se un processo organizzativo imprevisto si allinea sulla direttrice dei fori, le barriere non possono far nulla per evitare l’incidente (figura 4).

(Reason, 1990)

Alcuni buchi sonodovuti a errori attivi

Altri sono dovutia fattori latenti

(elementi patogeni residenti)

Rischi

Incidente

Contesto operativo

Tecnologia

Organizzazione

Formazione

D i f e s e d e l s i s t e m a

D i f e s e d e l s i s t e m a

(Reason, 1990)

Alcuni buchi sonodovuti a errori attivi

Altri sono dovutia fattori latenti

(elementi patogeni residenti)

Rischi

Incidente

Alcuni buchi sonodovuti a errori attivi

Altri sono dovutia fattori latenti

(elementi patogeni residenti)

Rischi

Incidente

Contesto operativo

Tecnologia

Organizzazione

Formazione

D i f e s e d e l s i s t e m a

D i f e s e d e l s i s t e m a

Figura 4: la dinamica degli incidenti illustrata con la metafora del groviera Le difese di un sistema possono addirittura diventare la fonte di sviluppo di elementi patogeni latenti che minano la sicurezza dell’organizzazione. La metafora degli elementi patogeni latenti è utile per comprendere come mai delle pratiche a rischio sopravvivono all’interno di un organizzazione, in attesa di manifestarsi nella forma di incidente o disfunzione. Le barriere all’errore, come si è detto, sono in grado di assorbire delle azioni scorrette senza causare danni o interruzioni nel processo di lavoro. Questo vuol dire che alcune pratiche scorrette possono svilupparsi ed andare avanti senza causare problemi, perché le barriere assorbono l’errore evitando che avvenga un incidente. Ma se la pratica scorretta resta circoscritta su di un livello organizzativo è possibile che nessuno si renda conto dei rischi che cova, perché tali rischi sono assorbiti dai sistemi di sicurezza e non si manifestano in incidenti o disfunzioni. Una situazione del genere alimenta gli elementi patogeni ed il loro periodo di latenza nei processi di lavoro, fin tanto che le barriere sono in grado di assorbire gli errori. Quando però gli elementi patogeni diventano troppi, la possibilità che intercettino uno dei buchi delle barriere aumenta considerevolmente e l’incidente è ormai prossimo ad avvenire. L’unica possibilità per evitare incidenti gravi, è riuscire a riconoscere ed a gestire in maniera attiva gli errori e le pratiche scorrette. Le organizzazioni hanno bisogno di strumenti di monitoraggio delle pratiche lavorative ad ogni livello, per incoraggiare dei processi organizzativi in cui l’errore venga messo in conto come un’eventualità quotidiana, che può essere gestita se l’organizzazione è strutturata in maniera tale da lasciare lo spazio per la riflessione e la risoluzione dei problemi. Se l’errore è considerato un fallimento da nascondere o da punire, allora gli elementi patogeni troveranno un ambiente propizio per insediarsi e minacciare la sicurezza del sistema. Le pratiche e le relazioni tra i livelli organizzativi devono quindi essere trasparenti e comprensibili ai lavoratori,

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che nella maggior parte dei casi sono i primi a correre dei seri rischi per la loro incolumità quando capita un incidente. Purtroppo, se i lavoratori di prima linea sono direttamente coinvolti nell’evenienza di un incidente, non vale la stessa cosa per i dirigenti, che sono i responsabili delle decisioni di lungo termine, l’attività più a rischio d’infezione da parte degli elementi patogeni: talvolta, gli errori latenti non si lasciano cogliere per l’ incapacità e l’indisponibilità del management di mettere in dubbio la validità delle proprie scelte (Vaughan, 1997). L’ergonomia organizzativa per la gestione del rischio clinico L’ergonomia in ambito organizzativo si occupa delle interazioni fra il fattore umano e le altre componenti che costituiscono l’organizzazione in cui la persona agisce. Per quanto riguarda l’organizzazione sanitaria possiamo parlare di un sistema in cui una molteplicità di componenti diverse interagiscono in modalità altamente complesse. Le principali componenti del sistema sono identificabili nella organizzazione adottata per svolgere le attività, le tecnologie impiegate a supporto e l’ambiente (fisico ma anche sociale istituzionale e politico) nel quale si agisce. Al centro di questo sistema ci sono le persone. Dal punto di vista della gestione del rischio clinico, per comprendere gli eventi avversi e soprattutto per sviluppare strategie di prevenzione degli incidenti il focus dell’attenzione deve spostarsi dalla ricerca dell’errore attivo, quello visibile a quella dell’errore latente ovvero dal fallimento nella prestazione dell’operatore di prima linea, come ad esempio la somministrazione al paziente di una fiala del farmaco sbagliato, a quello delle condizioni organizzative sociali e normative che hanno reso possibile o addirittura indotto l’operatore a sbagliare. In questa ottica, come si è detto, l’errore umano più che la causa diviene in molti casi la conseguenza di altre anomalie presenti nel sistema conseguenti a scelte e decisioni organizzative sbagliate che non hanno considerato i limiti cognitivi e talvolta fisici degli operatori. In altri termini gli operatori sanitari commettono errori in quanto l’organizzazione non è pianificata, tenendo conto della razionalità limitata degli esseri umani e della necessità di progettare sistemi ergonomici (che tengano conto delle caratteristiche delle interazione con macchine, ambienti, persone, procedure). Seguendo l’approccio sistemico, discusso in precedenza, l’errore che può comportare l’accadimento di incidenti non deve essere considerato in relazione alla componente meccanica o a quella umana, analizzate singolarmente nell’ambito del processo, ma in una prospettiva globale che prenda in considerazione il modo in cui la presenza e l’interazione fra elementi tecnici, umani e organizzativi possa impedire o favorire il verificarsi di incidenti. E sono soprattutto le modalità di interazione di queste diverse componenti a rappresentare il fattore determinante nel definire il livello di sicurezza del sistema. Quando le interazioni sono attente “mindful” come le definisce Karl Weick nell’analisi delle caratteristiche delle organizzazioni ad alta affidabilità, la capacità del sistema di gestire i rischi e di garantire performance affidabili aumenta. Quando le interazioni sono attente significa che ogni individuo è consapevole di quello che sta succedendo nel proprio reparto o area di lavoro, il livello di allerta e di attenzione del gruppo aumenta insieme alla capacità di gestire eventuali situazioni inattese o di emergenza (Weick, 2002). La capacità di gestire situazioni in attese in effetti non appartiene ad un singolo individuo ma piuttosto risiede nelle relazioni che le persone stabiliscono, nella qualità di queste relazioni. Ed è tipico di un’organizzazione ad alta affidabilità. L’ospedale può essere un’organizzazione ad alta affidabilità o un sistema ad alto rischio a seconda della qualità dei processi che vengono sviluppati al suo interno per la gestione del rischio e la promozione della sicurezza. L’ospedale: organizzazione ad alta affidabilità o sistema ad alto rischio? Nelle organizzazioni ad alta affidabilità, elevati livelli di rischio sono contenuti grazie all’abilità dell’organizzazione di realizzare performance affidabili.

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I sistemi sanitari sono complessi e differenti per molti versi dai sistemi che sono stati studiati nelle scores decadi relativamente all’errore umano (among others: Turner, 1978; Perrow, 1984; Reason, 1990, 1997; Catino, 2002; Leveson, 2004). Di certo anche le organizzazioni sanitarie hanno incidenti organizzativi la cui analisi evidenzia la necessità di individuare misure di miglioramento per aumentare le difese del sistema. Ma anche se questo è un presupposto fondamentale, è necessario comunque fare altre considerazioni. In particolare il sistema sanitario ha un numero di caratteristiche che lo rendono molto diversi dagli altri contesti ad alto rischio (Reason, 2004): diversità nei processi operative e nelle attrezzature adottate, frequenza delle mergenze, grado di incertezza e vulnerabilità del paziente. La distinzione principale è che nelle industrie ad alto rischio un numero molto limitato di persone presta servizi per un numero molto elevato di utenti, mentre nell’ambito sanitario la relazione è sempre uno a uno o uno a pochi. Inoltre il rischio e la sicurezza in ospedale sono caratterizzati da alcuni specifici elementi (Wears, 2002; Reason, 2004; Albolino et al., 2005): Incidenti significativi avvengono molto più frequentemente in medicina che non nel sistema aeronautico o negli impianti nucleari. Inoltre questi incidenti sono pressoché equamente distribuiti nelle diverse aree di cura e nelle diverse fasi del processo di cura (IOM, 2000). Ogni evento di solito coinvolge solo alcuni operatori sanitari e sortisce degli effetti su pochi pazienti di solito uno solo alla volta. Al contrario di quello che succede nel sistema di trasporto ferroviario o di quello aereo, le catastrofi in ospedale sono di piccole dimensioni e frequenti (Reason, 2004). Gli operatori coinvolti non sono le vittime dirette anche s possono riportare gravi consequenze psicologiche. I clinici danno grande valore alla responsabilità personale sui risultati ottenuti (Wears, 2002). Questo tipo di atteggiamento porta ad accettare una spiegazione degli incidenti incentrata sull’errore umano senza tener conto dei fattori sistemici. La componente principale del sistema sanitario sono le persone. I clinici agiscono motivati dalla passione per la loro professione nella quale sono coinvolti emotivamente. In questo sistema “a doppia catena umana”, l’interfaccia principale di un operatore è un altro essere umano, il paziente. Di solito l’interfaccia tecnologica in ambito sanitario è sottile e spesso inesistente ed il contatto con il paziente è diretto (Reason, 2004, Cook et al., 2005). Il contatto diretto fra due esseri umani produce un risultato altamente incerto. Come ha osservato Karl Popper “l’ambiguità delle situazioni contingenti è sempre alta quando l’oggetto della scienza è l’essere umano”. La diversità ed ambiguità di ogni situazione è molto alta. The diversity and ambiguity of each situation is high. Inoltre la decentralizzazione dell’autorità e la frammentazione dle lavoro non sono compensate da una centralizzazione basata su valori comuni (Wears, 2002). Quindi, gli sforzi per migliorare il sistema sono locali ed indirizzati ogni volta ad aree specifiche. Tutte le azioni sono realizzati in tempi stretti, questo aumenta la probabilità che un errore possa diffondersi nel sistema (Cook, Nemeth, 2005). Gli errori comunque fanno parte della stessa pratica clinica, la quale si sviluppa grazie alla sperimentazione. La strategia della prova ed errori è una pratica condivisa per migliorare le performance mediche (Gawande, 2004). Date queste peculiarità del sistema sanitario, l’analisi e la comprensione delle caratteristiche del lavoro tecnico di prima linea è presupposto fondamentale per costruire sistemi più sicuri. In particolare tale analisi è premessa allo sviluppo di quelle che sono le caratteristiche principali che permettono all’ospedale di comportarsi come un’organizzazione affidabile piuttosto che un sistema ad alto rischio: Preoccupazione per il fallimento. Nei settori ad alto rischio l’accadere di eventi gravi è molto raro, e quindi è difficile imparare da questi eventi. E’ quindi fondamentale porre la massima attenzione anche ai quasi incidenti. Le organizzazioni ad alta affidabilità promuovono le attività di tutte le

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tipologie di incidenti anche quelli minori e/o senza danno al paziente. Una premessa per il reporting è lo sviluppo di una cultura della sicurezza basata sull’idea che gli errori sono un’occasione di apprendimento per l’intera organizzazione. Un ospedale affidabile è un ospedale in cui esiste un sistema di segnalazione volontaria basato sulla confidenzialità e l’anonimato. In ogni reparto si analizzano i casi critici in profondità, le lezioni apprese diventano patrimonio comune aziendale. Le persone che segnalano sono premiate, i reparti che discutono dei propri problemi relativi alla sicurezza sono resi visibili al pubblico come esempi di buone pratiche. Riluttanza ad adottare visioni semplificate della realtà. L’attenzione diffusa a livello di sistema permette di fronteggiare la tendenza naturale delle organizzazioni a semplificare la visione della realtà in base alle loro aspettative. L’attenzione contribuisce a porre attenzione ai dati di contesto specifici ed ai segnali deboli. In un ospedale orientato allo sviluppo dell’attenzione collettiva, i casi sono analizzati al momento delle consegne rivalutando dati clinici e strumentali e considerando tutte le possibilità. La comunicazione è fra pari a prescindere da ruoli e professioni coinvolte. Si tenta di valutare la singolarità di ogni caso. Sensibilità alle attività di prima linea. In un’organizzazione sanitaria affidabile si pne attenzione all’evoluzione continua delle situazioni contingenti. In particolare, si mantiene una visione condivisa e continuamente aggiornata della situazione del reparto. I dettagli ed i cambiamenti nell’evoluzione dei casi sono prontamente condivisi. Ognuno si mette in condizione di poter intervenire in caso di emergenza Tutti sanno quali sono i rischi presenti e lavorano per contenerli. Chi acquisisce informazioni nuove su un caso informa gli altri. Esistono procedure condivise per attivare unità di crisi in casi di emergenza. Esistono strumenti di supporto alla comunicazione tempestiva (cerca persone, lavagne,…) Capacità di essere resiliente. Quando non è possibile prevenire un fallimento, l’essere resiliente permette ad un sistema di correggere i fallimenti prima che i loro effetti si moltiplichino. Di mitigare anziché prevenire per quelle situazioni che nono sono prevedibili. E’ importante quindi costruire un’attitudine alla flessibilità basata su: velocità e accuratezza nella comunicazione, velocità di apprendimento, familiarità con l’improvvisazione. Si attiva un’unità di crisi per compiere azioni rapide di gestione dell’evento. Si gestisce la comunicazione con l’esterno e si realizzano incontri con gli operatori per comprendere cosa è successo. Si mettono subito in atto alcune azioni che possono prevenire l’evento Deferenza per la competenza Nelle attività di routine nelle organizzazioni è opportuno seguire le gerarchie. Nelle situazioni di emergenza è importante invece costituire una unità di crisi composta dai più esperti del problema. In questo caso, la gerarchia segue le scelte dettate dalla competenza. Weick (2002) fornisce un esempio molto interessante dell’adozione d questo tipo di approccio in ambito sanitario: all’Ospedale pediatrico Loma Linda il problema della estubazione accidentale dei tubi endotracheali è gestita in maniera innovativa. Quando l’infermiere ritiene che lo stato di agitazione del bambino potrebbe provocare uan estubazione chiede al medico una prescrizione per aumentare il livello di sedazione. I medici sono stati formati a seguire le indicazioni del personale infermieristico, le loro richieste sono quindi usualmente concesse. Metodi per l’analisi del rischio clinico secondo un approccio sistemico Caso 1: Abbiamo dimenticato qualcosa? Un uomo di 76 anni è sottoposto a intervento riparatorio per aneurisma all’aorta. Dopo l’intervento ha febbre che è inizialmente attribuita a una polmonite associata alla ventilazione artificiale. Tuttavia, la febbre persiste e non si riesce ad identificare un’origine specifica. Il paziente riceve diversi antibiotici nel periodo di ospitalizzazione che dura due mesi. Diversi mesi dopo essere stato dimesso, il paziente si presenta ad un altro ospedale lamentando febbre ricorrente, deficit neurologici e problemi ai reni. Gli fu diagnosticata una endocardite con Candida Albicans sulla base di una ecocardiografia e degli esami del sangue. Nonostante l’amfotericina e l’intervento alla valvola mitrale, muore dopo poche settimane dal ricovero. L’autopsia rileva una garza chirurgica nell’addome collocata vicino alla riparazione dell’aorta fatta

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nel primo intervento. Una TAC fatta durante il ricovero precedente aveva evidenziato la presenza di una clip metallica ma non altre anormalità. Il paziente non aveva avuto altri interventi chirurgici. L’analisi per la gestione del rischio clinico Nonostante le procedure sviluppate nel corso degli anni il problema riportata nel caso rimane estremamente rilevante e diffuso. La conta delle garze, come precauzione, è time consuming e troppo semplice come misura preventiva. Difatti, dipende in maniera molto forte dalla performance umana ed è soggetta ad errori da parte della persona. Questo tipo di pratica, il conteggio, in particolare, induce la persona all’errore: se in un doppio check la prima conta non dà il risultato atteso, ma la seconda sì, sicuramente ci si ferma alla seconda, ignorando la possibilità che il primo conteggio fosse giusto e che il secondo conteggio fosse sbagliato. E’ quindi necessario aggiungere a questo tipo di precauzione altre che facciano affidamento su altri meccanismi di controllo, come ad esempio il fare una radiografia in sala operatoria prima di mandare via il paziente operato, e garantire che tutte le macchine per le radiografie siano in grado di identificare le garze. Queste soluzioni possono essere trovate all’interno di un processo di analisi del caso che si basa su una revisione fra pari interdisciplinare che vede coinvolti tutti i soggetti direttamente interessati dall’accaduto e che è orientata alla individuazione delle criticità e delle soluzioni di miglioramento. Strumenti per questo tipo di revisione sono l’audit clinico per la gestione del rischio e le rassegne di mortalità e morbidità. Al termine di ogni analisi può essere redatto un alert report che contiene l’analisi del caso e l’indicazione delle azioni di miglioramento da intraprendere per far fronte alle criticità rievate. L’alert report deve essere diffuso tramite la rete aziendale alle strutture interessate ed alla direzione aziendale per prendere visione delle indicazioni di prevenzione emerse dall’analisi dei casi. Tale sistema, basato sul dibattito clinico e la formulazione e implementazione di soluzioni ad hoc, favorisce un costante livello di attenzione e di vigilanza sugli incidenti, facendo comunicare tra loro gli operatori sanitari. I dati che si ottengono non hanno nell’immediato un valore epidemiologico per descrivere in modo esaustivo il fenomeno incidentale. Servono essenzialmente per dare memoria all’organizzazione e a fornire indicazioni per il miglioramento. Nel contempo il sistema favorisce la comunicazione e la circolazione di conoscenze tra i vari attori del sistema in un’ottica di apprendimento continuo. L’analisi può anche realizzarsi in maniera proattiva partendo dall’analisi delle fasi critiche di un processo che potrebbero portare ad eventi avversi come quello sopra descritto. Decisionmaking e sensemaking nelle organizzazioni sanitarie La recente letteratura relative al decision making pone in evidenza che piuttosto che concentrarsi sui meccanismi cognitivi del ragionamento (Kanheman, 1982) e sul livello di esperienza degli operatori(Klein, 1999), è fondamentale analizzare le condizioni organizzative e le criticità latenti che portano un soggetto a prendere decisioni che non sono efficaci (Reason, 1990; 2001). Dal punto di vista organizzativo e dell’ergonomia il concetto di errore nella presa delle decisioni non esiste (Woods, 1993; Hollnagel, 2005). La scoperta degli errori umani nella presa di decisioni è invece il trigger per analizzare le condizioni di contesto nelle quali si producono cattivi risultati. E’ necessario analizzare gli elementi del sistema: disponibilità delle informazioni, chiarezza degli obiettivi, clima interno, capillarità ed efficacia della comunicazione, definizione di responsabilità e tecnologie a disposizione. Lavorare in situazioni di incertezza, come spesso avviene in ambito sanitario, è un ostacolo molto grande a prendere decisioni efficaci. L’incertezza genera confusione e incomprensioni ed ha un impatto negative sulla capacità di interpretare la situazione corrente in modo da agire in maniera efficace. Ma gli studi sul processo di decision making in contesti naturali (come l’ospedale) dimostrano che è comunque possibile prendere decisioni efficaci e tempestive se vengono sviluppate alcune condizioni. Lo sviluppo del sensemaking è una delle condizioni principali. Il sensemaking è il processo sociale attraverso il quale i componenti di un team sviluppano, attraverso la cooperazione e lo scambio comunicativo, una visione comune dei casi

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clinici che hanno in carico. Questa visione comune favorisce la collaborazione fra gli operatori sanitari coinvolti ed una presa di decisioni ed un’azione congiunta più efficace. Per migliorare la sicurezza del paziente piuttosto che concentrarsi solo sull’analisi degli errori è opportuno comprendere quali siano gli elementi che concorrono a realizzare performance di successo. La costruzione di un senso condiviso (sensemaking) della situazione e dei casi clinici da parte degli operatori sanitari è una delle abilità che contribuisce a migliorare la sicurezza del paziente. Dall’approccio sistemico allo sviluppo dell’affidabilità L’approccio al sistema che si è affermato e diffuso a partire dalla pubblicazione dei diversi rapporti dell’ Institute of Medicine (2000, 2001, 2003), ha dato avvio soprattutto a studi che si sono basati sul principio dell’error management e del clinical risk management. Ma questi studi non hanno sempre dato risultati efficaci. Questo perché è difficile considerare la categoria dell’errore umano come una categoria scientifica distinta (Cook, 2002; Hollnagel , 1983; Rasmussen, 1990, 2000). L’errore a volte rimane un concetto sfuggente, controverso ed indistinto (Cook, 2002). Molto spesso esso non è una buona guida per la progettazione di sistemi (Rasmussen, 2000). E’ difficile circoscrivere l’errore ad alcune situazioni specifiche. Esso si estende a tutta l’organizzazione e pare a volte impossibile ideare meccanismi capaci di spiegare ogni singolo errore. Sembra invece più facile e funzionale considerare gli errori come parte dell’azione normale e focalizzare quindi l’attenzione nel comprendere i meccanismi che sono dietro all’azione (Hollnagel, 1983). Emerge quindi la necessità di integrare gli studi focalizzati sull’errore e sulla sua gestione con l’analisi dei sistemi organizzativi che, guardando alle modalità che garantiscono performance quotidiane di successo, sviluppando un approccio alla gestione del rischio che si basa su una visione positiva della sicurezza. Come sostiene Hollnagel (2005: 3): “Una teoria dell’errore dovrebbe essere una teoria dell’interazione fra la variabilità della performance umana e i vincoli situazionali (…)”. Da questo punto di vista, il focus è sulla variabilità dell’azione umana che conduce a commettere mistake. Il punto fondamentale nel migliorare la sicurezza del paziente è comprendere come i mismatch possono essere prevenuti. “Un indizio di quanto questo è vero è rintracciabile nei casi in cui non avvengono imprevisti (…) sarebbe ragionevole andare a studiare in maniera più approfondita queste situazioni per prevenire eventi non voluti e ridurre quindi il numero di errori umani (ibidem, pag.3)”. Per gestire il rischio e migliorare i livelli di sicurezza, è fondamentale comprendere che cosa conduce a performance di successo, piuttosto che concentrarsi solo sull’analisi dell’errore. Come ha affermato Wears (2003: 210) nell’analizzare un caso critico: “ciò che risulta impressionante di questo caso non è il numero di cose che sono andate male, ma quante sono state realizzate nel modo giusto. E’ fondamentale l’abilità che gli operatori dimostrano nel compensare gli errori, sia i propri che quelli indotti dal sistema”. E’ il funzionamento dell’intero sistema che produce dei risultati – sia intenzionali che inintenzionali – per cui i fallimenti devono necessariamente avere con il sistema gli stessi legami dei successi (Cook, O’Connor, 2005). Nel momento in cui si considera solo l’analisi e la prevenzione degli incidenti, si pongono le stesse difficoltà dell’approccio basato sulla gestione dell’errore: “Poiché è difficile prevedere come avverranno gli incidenti futuri, è difficile anche pianificare il lavoro in sicurezza. L’aspirazione è quella di migliorare la sicurezza attraverso l’eliminazione degli incidenti. Ma la relazione fra incidenti passati e il modo in cui il sistema potrà fallire in futuro è raramente chiara” (Cook, O’Connor, 2005: 73). La gestione dell’errore è basata sull’assunzione che lo sviluppo di un incidente ha natura deterministica, in modo tale che vengono identificate e isolate alcune cause specifiche di un incidente. Ma, i fallimenti di sistema sono soprattutto dovuti alla combinazione inusuale di condizioni legate alle caratteristiche dinamiche dei sistemi socio-tecnici: gli incidenti sono dovuti ad azioni usuali realizzate in circostanze inusuali piuttosto che ad azioni inusuali compiute in circostanze usuali (Hollnagel, 2005). Gli incidenti sono generati dalla dinamicità e complessità dei legami funzionali interni ai sistemi. Gli errori possono accadere quando gli operatori, mentre

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cercano di fare del loro meglio a tutti i livelli, perdono il controllo di quel che fanno (Hollnagel, 2004). L’attenzione a livello di sistema o mindifulness (Weick, 1995) è quindi un prerequisito fondamentale nella prevenzione degli eventi indesiderati. Il problema degli errori medici non è rappresentato dalla mancanza di competenze tecniche individuali, piuttosto risiede nell’organizzare e connettere le attività. “Gli eventi avversi si costruiscono nel contorno di questa interdipendenza” (Weick, 2002: 197). Per costruire sistemi affidabili è quindi fondamentale concentrarsi sullo sviluppo ergonomico dell’interdipendenza fra le diverse componenti del sistema e sui meccanismi organizzativi che la supportano. Bibliografia Albolino S., Bagnara S., Bellandi T., Tartaglia R. (2005), “Building a reporting and learning culture of medical failures in a healthcare system”, proceedings of Annual Conference of the European Association of Cognitive Ergonomics, 29 September-1 October, Creta. Albolino S., Cook R. (2005a), “Making sense of risks: a field study in an intensive care unit”, in Albolino S., Bagnara S., Bellandi T., Tartaglia R. (eds.), Healthcare Ergonomics and patient safety, proceedings of the International conference HEPS2005, March 30-April 2, 2005, Taylor and Francis ed., UK. Albolino S., Cook R. (2005b), Medici in terapia intensiva: sensemaking, sicurezza e lavoro quotidiano, Studi Organizzativi, vol.2, pagg. 7-28. Bogner S (2003), Misadventures in Health Care: Inside Stories. Lawrence Erlbaum Associates Cook R.I. (1999), A Brief Look at the New Look in error, safety, and failure of complex systems. Available at http://www.ctlab.org/. Cook (2002), “The uses of error: reply to senders”, position paper for the Clambake III Conference, September, 2002, Chicago. Cook R.I., Woods D.D. (1994), Operating at the sharp end: the complexity of human error. In Bogner, M.S., ed. Human Error in Medicine. Hillsdale, NJ: Lawrence Erlbaum Associates. Cook R.I., Woods D.D., Miller C. (1998), A Tale of Two Stories: Contrasting Views of Patient Safety. Chicago: National Health Care Safety Council of the National Patient Safety Foundation at the AMA. Cook R.I., Woods D.D. (2005), “Going solid”: a model of system dynamics and consequences for patient safety. Qual Safe Health Care; 14: 130-134 Cook R.I. (2005), Towards a theory of patient safety: lessons from the first decade. In Tartaglia R, Bagnara S, Bellandi T, Albolino S (editors) (2005), Healthcare systems Ergonomics and Patient Safety. London: Taylor and Francis.

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