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Collectif Leggere Fichte Volume II Filosofia pratica e dintorni teorici : antropologia, etica, diritto, politica, religione, estetica EurOPhilosophie Fichte Online

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CollectifLeggere Fichte Volume IIFilosofia pratica e dintorni teorici :antropologia, etica, diritto, politica, religione, estetica

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LEGGERE FICHTE

VOLUME II

FI LOSOFIA PRATICA E DINTORNI TEORICI: ANTROPOLOGIA, ETICA, DIRITTO, POLITICA, RELIGIONE,

ESTETICA

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INDICE

Alessandro Bertinetto Presentazione Benedetta Bisol La lettura fichtiana degli Aforismi filosofici di Platner: il problema del rapporto tra mente e corpo nelle lezioni jenesi su logica e metafisica Giovanni Cogliandro L'originario e la comunità. L'Etica del 1812 tra ontologia trascendentale e assolutizzazione dell’«Invito» Marco Rampazzo Bazzan L’Eforato in Johann Gottlieb Fichte Franco Gilli Dialettica, ontologia e filosofia della religione nelle lezioni I-IV della Anweisung zum seeligen Leben Giorgia Cecchinato Il più nobile fiore dell’umanità. Riflessioni intorno al giudizio di Fichte sull’Ifigenia in Tauride di Goethe

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Presentazione

Leggere Fichte è uno dei frutti del lavoro di comune e libera

discussione intorno ad alcuni importanti aspetti del pensiero di J. G. Fichte (Rammenau, 1762 – Berlino, 1814)1, che da alcuni anni – sulla base della solida tradizione italiana negli studi sulla filosofia classica tedesca – è svolto dai partecipanti ai seminari bolognesi della Rete italiana per la ricerca su Fichte: un’organizzazione informale di studiosi del pensiero fichtiano (in particolare) e della filosofia classica tedesca (in generale), che, promossa tra gli altri da Claudio Cesa, Carla de Pascale, Marco Ivaldo, Giuseppe Duso2, riunisce periodicamente studiosi affermati, giovani ricercatori, dottorandi e laureandi nella discussione critica di temi significativi della filosofia fichtiana.

Al volume hanno collaborato alcuni dei partecipanti agli incontri della Rete, in alcuni casi rielaborando relazioni proposte originariamente proprio per quelle occasioni. Esso trae dunque ispirazione dal metodo di lavoro ermeneutico sperimentato nella discussione seminariale e intende offrire una guida di lettura vuoi per opere (e sezioni di opere) fichtiane vuoi per plessi tematici fondamentali e innovativi del suo pensiero. Lo scopo è quello di far conoscere al pubblico degli studiosi e degli studenti una immagine

1 Un’agile biografia di Fichte è quella pubblicata da F. Ferraguto nel

portale della Fichte-Gesellschaft; cfr. la URL: http://www.fichte-gesellschaft.de/phpfusion/viewpage.php?page_id=100.

2 Ai seminari della Rete fichtiana partecipano inoltre (a parte gli autori dei contributi del presente volume) Carla Amadio, Stefano Bacin, Corrado Bertani, Guido Boffi, Antonio Carrano, Giorgio Criscuolo, Martino Dalla Valle, Tristana Dini, Isabella Ferron, Claudio Fiorillo, Luca Fonnesu, Erich Fuchs, Enrico Giorgio, Matteo Guidotti, Watanabe Koji, Lorenzo Marras, Salvatore Patriarca, Emanuela Pistilli, Salvatore Principe, Ives Radrizzani, Gaetano Rametta, Graziella Rotta, Mauro Sacchetto, Barbara Santini, Cristiana Senigaglia, Stefano Volpato. Le informazioni relative alle attività della Rete sono disponibili nel portale www.fichte-news.org curato da M. V. D’ALFONSO e M. RAMPAZZO BAZZAN.

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più ricca e meditata del filosofo tedesco, contribuendo a sradicare pregiudizi interpretativi di varia natura e a valorizzare gli standard attuali della Fichte-Forschung (ricerca su Fichte) internazionale.

Certamente, con questo non si intende affatto voler imporre una particolare linea interpretativa determinata (che sarebbe ovviamente parziale). A dimostrarlo bastano i diversi e, spesso, tra loro inconciliabili punti di vista ermeneutici e speculativi che sorreggono le tesi storico-teoriche proposte in ciascuno dei contributi che compongono il volume. Piuttosto, nella varietà e diversità dell’impostazione di ciascuno capitolo e delle tesi sostenute (dovute anche, ma non soltanto, alle diverse ‘scuole’ universitarie italiane rappresentate dal volume3) emerge lo sforzo di recare liberamente a chiarificazione per un verso aspetti concettuali e possibilità teoriche, per altro verso eredità e confronti storici della filosofia fichtiana, senza tradirne il rigore, ma facendone emergere piuttosto tutta la forza e/o la complessità argomentativa.

Fichte incoraggiò sempre il Selbst-Denken. E questo volume è testimonianza e risultato dello sforzo di una libera comunità di studiosi di riflettere autonomamente sul pensiero fichtiano e sulle questioni filosofiche da esso sollevate. Così, a parziale smentita di quanto appena affermato, dai testi che danno vita al libro emerge comunque un orizzonte comune, per quanto minimale, sfumato e problematico: si tratta della linea ermeneutica che sembra essere predominante nella ricerca italiana (e non soltanto) intorno alla filosofia fichtiana, e cioè l’idea del pensiero fichtiano come ‘filosofia trascendentale’.

3 Per una presentazione delle scuole e dei diversi indirizzi di ricerca

nell’ambito degli studi italiani su Fichte, mi permetto di rinviare il lettore a una mia nota di qualche anno fa: Fichte nell’attuale storiografia filosofica in Italia, in “Rivista di storia della filosofia”, n. 3, 2002, pp. 489-511. Si veda anche M. IVALDO, Fichte in Italien, in “Il giornale di filosofia”, http://www.giornaledifilosofia.net/public/filosofiaitaliana/scheda_fi.php?id=49. Una bibliografia dedicata al contributo offerto dalla ricerca italiana agli studi sul pensiero fichtiano si trova alla URL: http://www.fichte-gesellschaft.de/phpfusion/viewpage.php?page_id=75.

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Che cosa questa espressione possa significare, emergerà dalla lettura del libro. Ma si può già qui chiarire che l’interpretazione ‘trascendentale’ del pensiero di Fichte tende 1. a considerare tutto il pensiero fichtiano, sia la fase jenese, sia la fase posteriore all’800, come un pensiero coerente (per quanto diversi siano anzitutto linguaggio, modalità espositive, singole argomentazioni e teorie particolari) 2. a comprendere in maniera organicamente articolata il rapporto tra le diverse parti del suo pensiero (epistemologia, gnoseologia, ontologia, etica, diritto, religione, politica, estetica, ecc.), 3. a vedere in Fichte in qualche modo un ‘continuatore’ di Kant, un’alternativa a Hegel e, in qualche misura, anche una possibilità per la riflessione filosofica contemporanea, perché offre ed elabora argomentazioni rigorose, ancora meritevoli di un intenso confronto intellettuale, basate sull’idea che ogni operazione filosofica richiede di essere giustificata riflessivamente.

Il libro si articola in tre parti, strettamente interconnesse – al punto che alcuni contributi potrebbero benissimo essere collocati in parti diverse da quelle in cui sono stati inseriti. Dato che ogni articolo è preceduto da un abstract, in lingua inglese, che ne espone in breve i contenuti, mi limito qui a presentare l’articolazione generale del volume. La prima sezione, La fondazione del sapere e l’ontologia trascendentale, presenta articoli che, in senso ampio, riguardano le questioni principali della “Dottrina della scienza”, il progetto filosofico che Fichte elaborò nel corso di tutta la sua attività di filosofo, a partire dal 1793: la fondazione trascendentale della filosofia e delle scienze e la questione dei principi del sapere (D’Alfonso; Vodret); il concetto di volere in rapporto al problema dell’autocoscienza (Valentini); i problemi metodologici e sistematici della riflessione trascendentale e la sua articolazione teorica (Ferraguto; Bertinetto); la questione del rapporto tra filosofia trascendentale e ontologia (Fabbianelli). Nella seconda sezione, Filosofia pratica e dintorni teorici sono discussi, attraverso indagini puntuali, ma collocate all’interno del quadro generale del pensiero fichtiano, temi e problemi di antropologia (Bisol); etica (Cogliandro); diritto e politica (Rampazzo Bazzan); religione (Gilli); estetica (Cecchinato). La terza parte presenta invece contributi intorno alle complesse relazioni storico-teoriche che, nell’ambito di

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questioni di filosofia sia teoretica sia pratica, intercorrono tra Fichte e i suoi contemporanei: Kant (Ivaldo); Jacobi e Kant (Acerbi); Schlegel e Schleiermacher (Picardi); Hegel (Tafani; Furlani).

Questo progetto nasce dalla collaborazione di tutti i suoi

autori; ma la condizione di possibilità della sua realizzazione è stata la dedizione di Carla De Pascale e Marco Ivaldo, che hanno con grande impegno, convinzione ed energia cercato e trovato i mezzi per la pubblicazione del volume. E, naturalmente, un ringraziamento speciale va a chi ha generosamente messo a disposizione questi mezzi: l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, in particolare nelle persone dell’Avvocato Gerardo Marotta e del Prof. Antonio Gargano, che pubblica l’edizione cartacea del libro, e Jean-Christoph Goddard, presidente della Internazionale J.G. Fichte-Gesellschaft nel triennio 2006-2009, che ha cortesemente messo a disposizione il portale Europhilosophie (http://www.europhilosophie.eu/) per l’edizione on line del volume.

L’invito che, in conclusione, rivolgiamo a chi sta leggendo

queste righe è di leggere Leggere Fichte come un invito a leggere Fichte.

ALESSANDRO BERTINETTO

Torino, 24 dicembre 2008

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Principali abbreviazioni

Indichiamo qui alcune abbreviazioni generali. Ulteriori

abbreviazioni sono indicate nei singoli contributi. WL o DS = Wissenschaftslehre o Dottrina della scienza GA = Johann Gottlieb Fichtes Gesamtausgabe der

Bayerischen Akademie der Wissenschaften, a cura di R. Lauth et al., Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1962-; I, Opere; II, Opere postume; III, Corrispondenza; IV, Lezioni. [si citerà indicando i numeri romani la sezione e in cifre arabe il volume]

SW = J. G. Fichte’s sämmtliche Werke, a cura di I. H. Fichte,

8 voll., Berlin, Veit & Comp.,1845-46; J. G. Fichte’s Nachgelassene Werke, a cura di. I. H. Fichte, 3 voll., Bonn Adolph-Marcus, 1834-35 (ristampa, Berlin, de Gruyter, 1971)

Ak = Kant’s gesammelte Schriften, a cura dell'Accademia

Prussiana delle Scienze, Berlin, de Gruyter, 1900 ss. KrV = I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, prima edizione, in

Ak, IV, pp. 1-252 (= KrV A); seconda edizione in Ak, III, pp. 1-552 (= KrV B).

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LA LETTURA FICHTIANA DEGLI AFORISMI FILOSOFICI DI

PL ATNER:

IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA MENTE E CORPO NELLE LEZIONI JENESI SU LOGICA E METAFISICA

BENEDETTA BISOL

Abstract

Currently, freedom and responsibility are the most discussed topics within neurophilosophy. From a neurobiological point of view, freedom and responsibility are brain products. Philosophical positions, which do not focus consciousness as a neurobiological product, are regarded as outdated. My paper discusses this approach in relation to J. G. Fichte’s position and more specifically in relation to the Lectures on Logic and Metaphysics, which Fichte read in Jena at the end of 18th century. In these lectures Fichte develops a critical view on Ernst Platner’s concept of consciousness. Fichte illustrates how the problem of the relation between consciousness and body (i.e. the question about the “Sitz der Seele”) is not identical with the philosophical problem of consciousness. For Fichte, freedom and responsibility are basic questions concerning the meaning of human action. This meaning does not result from neurobiological research, although this does not imply to underestimate neurobiological studies or philosophical efforts to interpret scientific results.

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1 – Introduzione. Il problema del corpo umano e

della corporeità nel pensiero di J. G. Fichte e

nella ricerca su Fichte

La concezione del corpo umano e la questione della corporeità

non sono temi tradizionalmente molto frequentati nella ricerca su Fichte, anche se da alcuni anni a questa parte si può rilevare un crescente interesse per essi, in particolare per come sono trattati all’interno della sfera dell’etica e della filosofia del diritto1. È proprio in questi due ambiti, del resto, che si concentra la riflessione fichtiana sul corpo: Fichte affronta la questione soprattutto in ambito pratico, considerando il significato e la rilevanza del corpo in quanto veicolo e strumento dell’eticità così come in relazione al concetto di persona e ai diritti della persona.

1 Sulla questione del corpo nel pensiero di Fichte è apparsa, finora,

un’unica monografia: H. SCHÖNDORF, Der Leib im Denken Schopenhauers und Fichtes, München, Berchmans, 1982. Si vedano inoltre: D. Breazeale, T. Rockmore (a cura di), Rights, Bodies, and Recognition. New Essays on Fichte's Foundations of Natural Right. New essays on Fichte’s Foundations of natural right, Alerschot, Ashgate, 2006; G. ZÖLLER, Leib, Materie und gemeinsames Wollen als Anwendungsbedingungen des Rechts (Zweites Hauptstück: §§ 5-7), in J. C. Merle (a cura di), J. G. Fichte. Grundlage des Naturrechts, Berlin, Akademie Verlag, 2001, pp. 97-111; V. LÓPEZ DOMINGUEZ, Die Idee des Leibes im Jenaer System, in “Fichte-Studien”, 16, 1999, pp. 273-296; J. CLAM, Qu’est –ce faire violence? Intersubjectivité, corporéité et violabilité la personne dans le Fondement du droit naturel (1796) de Fichte, in “Archives de Philosophie du Droit” 40, 1996, pp. 348-389; C. DE PASCALE, Etica e diritto. La filosofia pratica di Fichte e le sue ascendenze kantiane, Bologna, il Mulino, 1995; M. MAESSCHALK, Corporéité et éthique chez Fichte, in “Tijdschrift voor Filosofie”, 55, 1993, pp. 657-676; F. ONCINA COVES, La criteriología fichteana del derecho: corporeidad y Eforato, in “Estudios Filosóficos”, XLI (118), 1992, pp. 475-522; A. RENAUT, Le systém du droit. Philosophie et droit dans la pensée de Fichte, Paris, Presses universitaires de France, 1986.

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In particolare, il Diritto naturale di Jena contiene la deduzione filosofico - trascendentale del corpo2. In quest’opera, Fichte mostra come quello del corpo sia un concetto da cui non si può prescindere se si vuole pensare l’essere razionale finito nell’ambito del diritto. L’individuo che agisce all’interno della società (o la persona: in questo senso i due termini sono sinonimi) non può essere altro che dotato di corpo. Attraverso il corpo, l’individuo si relaziona al mondo e agisce in esso. Il corpo rappresenta, di conseguenza, un momento costitutivo, e non solo all’interno della teoria della persona: esso ha un ruolo determinante anche per la concezione dell’interpersonalità. Il diritto della persona all’inviolabilità del corpo, e quindi il primato del possesso personale del corpo e la limitazione degli interventi su questo da parte di terzi, così come il dovere del singolo di mantenere il proprio corpo capace di agire nel mondo e il dovere di servirsi di esso secondo principi etici costituiscono i tratti fondamentali della concezione fichtiana della corporeità in ambito pratico.

Questa elaborazione comporta una correzione decisiva rispetto dello statuto epistemico della corporeità. A differenza di posizioni di stampo cartesiano, che considerano la corporeità come un aspetto che assimila l’uomo agli altri esseri viventi e in particolare agli animali, Fichte indica in essa un tratto distintivo dell’uomo in quanto essere razionale finito. Anche in quanto corpo, l’uomo non è un animale, o perlomeno non del tutto. Lo studio sulla corporeità non passa quindi, per Fichte, attraverso un’analisi dell’elemento del corporeo in quanto corpo: né in quanto oggetto materiale, né in quanto corpo di un essere vivente. Fichte sviluppa piuttosto una teoria filosofico-trascendentale dell’uomo. Egli non propone quindi

2 J. G. FICHTE, Fondamento del diritto naturale secondo i principi della

Dottrina della scienza, tr. it. e a cura di L. Fonnesu, Roma/Bari, Laterza, 1994 (Grundlage des Naturrechts nach den Prinzipien der Wissenschaftslehre (1796), Hamburg, Meiner, 1979, 1991; anche in GA I/3, pp. 313-460 e GA I/4, pp. 5-165; SW III, pp. 1-385). Per un commento testuale molto dettagliato dei paragrafi dedicati al corpo si veda: G. ZÖLLER, Leib, Materie und gemeinsames Wollen als Anwendungsbedingungen des Rechts, op. cit.

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un modello antropologico in senso proprio. L’uomo è essere razionale dotato di corpo. Il corpo è capacità di movimento, possibilità di movimento e di apprendimento del movimento non definita da limitazioni dettate dall’istinto, ma determinata dalla capacità formativa e progettante della ragione.

La teoria fichtiana, rispetto a questi aspetti della corporeità, è estremamente interessante. Essa anticipa alcune riflessioni centrali sul corpo della filosofia del Novecento, in particolare dalla fenomenologia e dall’antropologia filosofica, come per esempio il concetto di corpo proprio e la distinzione plessneriana tra essere corpo e avere corpo. A mio vedere, essa offre inoltre non pochi spunti per una riflessione sulla corporeità che voglia andare oltre a una ricostruzione storico-filosofica, (e quindi, in questo caso specifico, a una riscoperta, o addirittura a una scoperta di Fichte), e confrontarsi con quelli che sono, ancora oggi, i temi urgenti della questione del corpo3.

Nelle pagine che seguono vorrei cercare, in particolare, di mettere in evidenza alcuni elementi della teoria fichtiana all’interno di una prospettiva gnoseologica. Più concretamente, intendo offrire una possibile lettura di alcuni materiali fichtiani in relazione alla riflessione filosofica contemporanea sul mind-body-problem4.

3 Ho dedicato a questo tema una monografia, in corso di pubblicazione per

Frommann Holzboog. 4 Mi sono noti solo due contributi sul tema del corpo come questione della

filosofia della mente che prendono in considerazione da vicino la concezione di Fichte: G. ZÖLLER, Fichte’s Foundation of Natural Right and the Mind-Body Problem, in D. Breazeale, T. Rockmore, (a cura di), Rights, Bodies, and Recognition, op. cit., pp. 90-106; P. GRÜNEBERG, Grundlagen und Voraussetzungen der Leib-Seele/Körper-Geist-Dichotomie in der gegenwärtigen Philosophie des Geistes, in C. Asmuth (a cura di), Leiblichkeit – Interpersonalität – Anerkennung, Bielefeld, transcript, 2007, pp. 25-43. Per ragioni di spazio, mi limito a citare qui, per quanto riguarda la filosofia della mente, solamente una lettura introduttiva e di orientamento: D. J. CHALMERS, Philosophy of mind: classical and contemporary reading, New York, 2002. Ringrazio inoltre calorosamente Franco Chiereghin per le conversazioni sui temi della

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Certamente bisogna premettere che Fichte non è un filosofo che si sia confrontato in modo particolare con gli studi scientifici del tempo, senz’altro non quanto un Kant o uno Hegel. Le considerazioni fichtiane rispetto al tema del corpo in prospettiva gnoseologica sono tutte concentrate nelle lezioni su logica e metafisica degli anni jenesi, lezioni in cui Fichte aveva presentato un’introduzione alla filosofia, servendosi come compendio degli Aforismi filosofici del medico e filosofo Ernst Platner5. I documenti a

filosofia della mente e sulle neuroscienze, che hanno contribuito in maniera decisiva alla concezione di questo mio lavoro.

5 Cito e traduco gli Aforismi filosofici (E. PLATNER, Philosophische Aphorismen nebst einigen Anleitungen zur philosophischen Geschichte, Leipzig, 1776) secondo la riedizione pubblicata nel supplemento al volume II, 4 dell’opera omnia di Fichte: GA II/4 S. (Mie sono anche le traduzioni delle altre fonti citate in questo lavoro). Per una datazione precisa delle lezioni in cui Fichte utilizza gli Aforismi filosofici come compendio si veda il catalogo redatto da Fuchs: E. FUCHS, Verzeichnis der Lehrveranstaltungen, Predigten und Reden J. G. Fichtes in chronologischer Folge, in Philosophie als Denkwerkzeug. Zur Aktualität transzendental-philosophischer Argumentation, M. Götze et al. (a cura di), Würzburg, Königshausen & Neumann, pp. 59-66. In generale, le lezioni su Platner sono testi finora poco frequentati dalla ricerca fichtiana. La prima pubblicazione delle lezioni jenesi sulla logica e metafisica è contenuta nel primo volume (l’unico pubblicato) dell’edizione critica del lascito curata da Jacob: H. Jacob (a cura di), Johann Gottlieb Fichte. Schriften aus den Jahren 1790-1800, Berlin, Junker/ Dünnhaupt, 1937. Le lezioni, riferisce Jacob, erano state riscoperte in cerchie ristrette solo da pochi anni (H. JACOB, Vorbericht mit einem Einleitungsentwurf Fichtes zur Neuen Darstellung der Wissenschaftslehre und einer Zusammenstellung der in den Jenaer Vorlesungsverzeichnissen angekündigten Vorlesungen, Ibidem, pp. IX-XXV, qui XVI.) Si veda anche, su questo: E. FUCHS, Zur Geschichte der J. G. Fichte-Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, G. Bien et. al. (a cura di), Wissenschaftsgeschichte zum Anfassen. Von Frommann bis Holzboog. Stuttgart-Bad Cannstadt, Frommann Holzboog, 2002, pp. 267-270, qui 268. Che all’epoca di Fichte, le lezioni circolassero in forma manoscritta, lo testimonia una lettera di Hegel del 1808, in cui Hegel, appunto, chiede a Niethammer di

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disposizione non comprovano che Fichte abbia sviluppato oltre questa teoria. Anche se, inoltre, la riflessione sulla questione della corporeità come problema del rapporto tra mente e corpo non è un tema a cui Fichte abbia dedicato molto spazio, si può ricostruire in maniera chiara come Fichte negli anni jenesi si sia confrontato, attraverso la mediazione di Platner, con le teorie riguardanti la relazione tra anima e corpo e la questione della sede dell’anima più diffuse dell’epoca e sia arrivato a formulare una propria posizione originale rispetto al problema. La riflessione fichtiana, come intendo discutere in chiusa di questo contributo, fornisce argomenti validi ancora oggi, all’interno del dibattito su body e mind (o meglio su brain e mind). Essa consente, inoltre, di mettere in evidenza alcuni aspetti problematici di posizioni filosofiche, che si sviluppano in questo ambito, che giudicano superata e irrilevante la quasi totalità della tradizione filosofica sul tema del corpo, qualora essa non difenda un approccio naturalistico6.

procurargli una Nachschrift, per verificare il metodo critico di Fichte. (E. Fuchs, (a cura di), Johann Gottlieb Fichte im Gespräch. Berichte der Zeitgenossen. Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann Holzboog, 1978-1992, vol. 1, p. 507). È solo con la pubblicazione dei volumi dell’opera omnia curata dall’Accademia delle scienze bavarese che i testi diventano accessibili, senza che tuttavia si possa parlare di uno studio approfondito di queste fonti. Sul rapporto Fichte e Platner mi sono noti solamente questi due lavori: D. BREAZEALE, Fichte’s Conception of Philosophy as a ‘Pragmatic History of the Human Mind’ and the Contribution of Kant, Platner and Maimon, in Journal of the History of Ideas, 62 (4), 2001, pp. 685-703; J. F. GOUBET, Platner und Fichte: Von der medizinischen zur philosophischen Anthropologie, in K. Regenspurger, T. van Zantwijk (a cura di), Wissenschaftliche Anthropologie um 1800?, Stuttgart, Steiner, 2005, pp. 70-85.

6 Per un’interpretazione di Fichte che si basa su questo fraintendimento si veda per esempio: M. PAUEN, Was ist der Mensch? Die Entdeckung der Natur des Geistes, München, Deutsche Verlags-Anstalt, 2007, in particolare p. 57 s.

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2 – La concezione fichtiana della coscienza e del

suo rapporto con il corpo: il confronto con

Platner

«Sono numerosi anche gli studiosi di medicina che frequentano tutti i corsi di Fichte – la maggior parte di loro [ne frequenta] almeno uno – solo che tutti lamentano di non capire – e tuttavia magnificano F. incondizionatamente»7: così riferisce in una lettera un contemporaneo di Fichte, Rahn, nel 1794. Tra le lezioni di Fichte che attraggono l’attenzione degli studiosi di medicina egli nomina esplicitamente le lezioni di logica e metafisica. In queste, confutando e ribaltando completamente il sistema di Platner, Fichte tratta, così Rahn, questioni che stanno particolarmente a cuore agli studiosi di medicina. Fichte, infatti, «negherebbe del tutto l’influsso del corpo sull’anima»8. Secondo Rahn, però, le affermazioni di Fichte a questo proposito altro non sono che giochi di parole. Gli esempi, tra l’altro, il fatto che «che un uomo, rivolgendo i propri pensieri ad altri oggetti sia in grado di dimenticare del tutto il dolore fisico – che sia in grado di interrompere il sonno»9, non sono utilizzati nel giusto contesto.

Anche se non è possibile fornire una prova consistente dal punto di vista testuale, nella lettera si fa riferimento con tutta probabilità al commento fichtiano a quei paragrafi degli Aforismi filosofici di Platner che riguardano la concezione della coscienza. Che nella lettera si parli di anima, e non di coscienza, non è a mio modo di vedere rilevante per stabilire il riferimento: come si vedrà più da vicino nelle pagine che seguono, Platner utilizza il termine anima, così come il termine organo dell’anima (Seelenorgan) anche per indicare la coscienza. Se questi concetti non sono solo concetti empirici (ma su questo la concezione di Platter non è del tutto univoca), anima e coscienza sono profondamente legate al corpo,

7 E. Fuchs, (a cura di), Johann Gottlieb Fichte im Gespräch, op. cit., vol. I,

p. 86. 8 Ivi. 9 Ivi.

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anzi dipendono dal corpo. Fichte nega, al contrario di Platner, qualsiasi determinazione corporea della coscienza e, in questo senso, come si nota nella lettera, non è strano che «neghi» la capacità del corpo di influire su di essa10.

Ancora nei paragrafi relativi al problema della coscienza, Platner, si sofferma sul problema dello statuto della coscienza negli stati di sonno e di veglia e fa riferimento a alterazioni patologiche, sia della coscienza sia del corpo. Appare in questo senso del tutto plausibile che il commento, sopra ricordato, relativo alla «superiorità» dello spirito rispetto al corpo, superiorità che arriva al punto da rendere possibile l’interruzione del sonno con un atto di volontà, possa essere stato pronunciato da Fichte in questo ambito.

Una contestualizzazione imprecisa o addirittura inesatta della citazione di Fichte nulla toglierebbe, tuttavia, alla rilevanza del punto che la lettera mette in evidenza: la questione del rapporto tra anima e corpo, così come la presenta Fichte, non è immediatamente chiara per gli studiosi di medicina, e anche la soluzione presentata non è, per gli scienziati dell’epoca che ascoltano le lezioni di Fichte, immediatamente convincente. Di fatto, questo il problema principale, e insieme la tesi che intendo qui dimostrare: ciò che Fichte intende per coscienza non può essere compreso a partire del paradigma delle scienze naturali. Questo fatto, tuttavia, non comporta una delegittimazione né della ricerca neuroscientifica, né del confronto della filosofia con le problematiche che la scienza elabora attraverso la sperimentazione.

10 Il motivo fichtiano della separazione tra anima e corpo, o meglio della

differenza radicale, filosoficamente parlando tra coscienza e corpo, non è volto tuttavia a contraddire quella che oggigiorno chiameremmo l’interazione psicosomatica. Nella Praktische Philosophie si legge in questo senso: «Mi immagino un male imminente: da ciò sorge il timore, che è già di per sé una sensazione spiacevole: qui allora l’immaginazione provoca sensazioni e precisamente [sensazioni] interiori» (GA II/3, p. 201).

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3 – Il problema delle alterazioni della coscienza

Per comprendere le critiche fichtiane alla concezione della

coscienza che Platner espone negli Aforismi filosofici, è utile prendere le mosse dall’esposizione di Platner che riguarda in modo particolare il sorgere delle rappresentazioni. Platner distingue, a proposito del formarsi di una rappresentazione completa, tre momenti fondamentali: l’apprendere (Auffassen); il riconoscere (Anerkennen); infine la coscienza dell’oggetto e del soggetto rappresentante. Nel momento dell’apprensione l’impressione (Eindruck) che proviene dal mondo esterno è trasformata in un’immagine (Bild) e quindi, attraverso un processo di riconoscimento, è messa in relazione con un concetto. Di qui risulta la coscienza dell’oggetto, ovvero la rappresentazione, accompagnata nel soggetto dalla coscienza di sé11. Il primo momento, quello dell’apprendere, è direttamente determinato dalla capacità ricettiva dell’organo dell’anima. Tale capacità è determinante per interpretare i dati provenienti dai sensi ed è, a sua volta, determinata dall’attività dell’organo dell’anima, ovvero, dice Platner, dai movimenti dell’organo dell’anima. Visto che questi movimenti nel sonno sono molto deboli (nel sogno) o non sono per nulla presenti (nel sonno profondo) non può darsi nel sonno l’apprendere adeguato, necessario al sorgere di una rappresentazione completa12. Platner fornisce così una spiegazione su base fisiologica dei diversi gradi di chiarezza della rappresentazione, nel sonno e in fase di veglia: tra coscienza e incoscienza possono darsi quindi degli stadi intermedi, per esempio nel passaggio dal sonno alla veglia.

Le trasformazioni degli stati di coscienza possono inoltre essere dovute a ragioni di natura patologica: la febbre fa alzare in maniera innaturale il «grado delle rappresentazioni della fantasia», cosicché si ha coscienza della presenza di cose che di fatto non esistono realmente. Al contrario, in caso di deliquio, l’azione degli 11 GA II/4S., p. 26. 12 GA II/4 S., p. 45.

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oggetti sull’organo dell’anima è talmente debole che la rappresentazione della coscienza risulta privata dell’elemento della presenza: gli oggetti reali appaiono all’individuo prodotti della fantasia13.

La capacità di rappresentazione è quindi decisamente determinata, secondo Platner, dall’impressione (Eindruck) che gli oggetti esercitano, attraverso gli organi di senso, prima sui nervi e poi sull’organo dell’anima. Tale impressione può essere, a seconda delle condizioni dell’individuo, più o meno forte. Platner fornisce quindi un argomento empirico per sostenere l’elaborazione attiva (diremmo oggi: mentale) da parte dell’anima di stimoli esterni (materiali). Per Platner l’anima è caratterizzata quindi sia dall’attività che dalla passività, dalla recettività. Se l’organo dell’anima, anche solo provvisoriamente, come nel caso del sonno, non è ricettivo, non sono possibili l’impressione, e quindi l’apprensione, che portano al sorgere della rappresentazione e al darsi della coscienza.

La linea argomentativa portante che Fichte sviluppa per costruire una critica radicale a Platner si basa, prima di tutto, su osservazioni che riguardano le modificazioni della chiarezza e dell’intensità della rappresentazione. Le obiezioni di Fichte si concentrano sull’influsso del corpo sulla coscienza che Platner sostiene, sia nell’esempio del sonno sia nell’esempio del mancamento o della febbre: se la chiarezza e l’intensità delle rappresentazioni cambiano ciò è dovuto, secondo Fichte, a una ragione puramente fisiologica. Ciò, tuttavia, non implica un cambiamento della coscienza, che non è mai passiva, ricettiva. Di più: Fichte rigetta completamente la differenza tra una coscienza alterata patologicamente e una coscienza sana: «è lo stesso – e non vedo dove debba essere la differenza, se credo di vedere di qualcosa quando sono febbricitante e in stato di salute»14. Il criterio decisivo per determinare la realtà (Wirklichkeit) dell’oggetto rappresentato è, secondo Fichte, il fatto che la rappresentazione di un oggetto reale è valida universalmente. Qualora la rappresentazione abbia luogo,

13 Ivi. 14 GA II/4, p. 95.

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empiricamente, essa è caratterizzata da un elemento di costrizione (Zwang): nello stato di salute si dà necessariamente un sentimento del reale: le mie rappresentazioni e quelle degli altri individui (sani) coincidono. La salute è quindi, per Fichte, una condizione naturale (Natürlichkeit) della costituzione psicofisica di un individuo, la corrispondenza cioè tra l’organizzazione (Organisation) di un individuo con quella dell’organizzazione di tutti gli individui appartenenti al genere umano. La malattia, invece, implica alterazioni di tale condizione: la costituzione naturale di un individuo non corrisponde all’organizzazione naturale. Salute e malattia non hanno quindi a che vedere con la capacità di rappresentazione in quanto tale, ma con la singolarità dell’individuo, appunto sano o malato.

Siano reali o immaginari, gli oggetti rappresentati vengono sempre rappresentati nel medesimo modo, ovvero secondo le leggi del pensiero. Lo stato fisiologico, patologicamente alterato, o a causa di uno stato di sonno, non modifica quindi, a differenza di quanto afferma Platner, la capacità di rappresentazione in quanto tale, in quanto coscienza. Non è necessario, allora, per comprendere come sia possibile una rappresentazione (e quindi che cosa significhi coscienza) presupporre che l’anima (la coscienza) sia passiva, recettiva e accolga qualcosa che proviene dall’esterno. In altre parole, anche nel caso della malattia, la capacità di rappresentazione, la coscienza non risulta modificata: è piuttosto il sentimento del reale a mancare. Questo comporta l’incapacità, da parte dell’individuo di distinguere tra rappresentazioni di cose reali e rappresentazioni di cose immaginarie. Dal punto di vista oggettivo, non ci sono criteri per determinare la validità universale della rappresentazione e quindi la realtà dell’oggetto rappresentato.

Anche la critica fichtiana al problema delle rappresentazioni sorte nel sonno insiste su questo punto. Certo – in questo Fichte concorda con Platner– durante il sonno l’organo diventa inservibile. L’intelligenza, la capacità di comprendere, tuttavia permane15. La critica a Platner rimane anche qui fondamentalmente la stessa: nel

15 Ibidem, p. 96.

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sonno è diverso qualche cosa che riguarda lo statuto di realtà degli oggetti, in quanto non si dà percezione degli oggetti. La struttura della coscienza che permette il sorgere della rappresentazione è invece sempre la stessa. Quello che manca, nel sonno, è la possibilità di attribuire alla coscienza dell’oggetto, che sorge in maniera attiva, una determinazione di realtà che deriva dalla limitazione imposta dalla percezione. L’attività della coscienza, di conseguenza, gode di una libertà illimitata di formarsi, non rileva la costrizione data dal sentimento del reale. Ciò determina in chi sogna, osserva Fichte, un sentimento di disagio, un’inquietudine che accompagna una fantasia senza freno.

Fichte determina così una differenza radicale tra la coscienza in quanto attività e quelli che con terminologia moderna potremmo definire gli stati di coscienza. Qualora si dia coscienza, essa è regolata sempre dalle stesse leggi, è strutturata sempre in una maniera, indipendentemente dal suo contenuto e dall’essere reale o meno di questo. Fichte chiarisce così la differenza tra la propria prospettiva di analisi della coscienza, filosofico-trascendentale, e il punto di vista di Plattner, che rimane legato alla prospettiva del senso comune.

La critica al concetto platneriano di anima si basa, inoltre, nelle lezioni su logica e metafisica, anche su un chiarimento terminologico. Anima è un termine che, secondo Fichte è, per così dire, logorato dall’uso, oppure, per esprimere la critica in maniera positiva, così carico di significati che risulta vuoto, se essi non vengono precisati. Il concetto platneriano di anima in quanto «soggetto della coscienza» è quindi, prima di tutto, troppo impreciso, per indicare una «azione dello spirito» (Handlung des Geistes)16.

16 Per questa, e le citazioni successive di questo paragrafo, si veda GA

IV/1, p. 195. Fichte commenta in questo luogo il paragrafo 27 degli Aforismi filosofici (GA II/4 S., p. 21). Fichte annota, riguardo al paragrafo 27 semplicemente: «Animo, anima, Io» (GA II/4, p. 60). In un altro luogo del lascito manoscritto osserva, sempre rispetto al paragrafo 27: «Anima significa proprio qualcosa d’altro, e lo spiegherò a tempo debito. Animo è spiegato bene. Mi sembra che Io sia del tutto esauriente» (GA II/4, p. 63).

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Anche gli altri termini che Platner impiega per indicare la coscienza, per esempio animo (Gemüth), spirito (Geist), testa (Kopf) oppure cuore (Herz) non sono sufficientemente chiari per comprendere che cosa sia coscienza. Solo l’espressione Io, secondo cui «coscienza» altro non indica che l’azione della coscienza su se stessa, permette di indicare il tratto fondamentale della coscienza, che consiste in un’attività in cui soggetto e oggetto di tale attività sono assolutamente identici.

Nel momento in cui dicendo anima Platner intende la coscienza, egli utilizza allora, prima di tutto, un’espressione imprecisa. In secondo luogo, se si vuole continuare a utilizzare il termine anima in senso filosofico, anche se esso dà luogo a fraintendimenti, esso significa «qualcosa d’altro rispetto a quello che intende Platner»17. Anima è, infatti, così Fichte, il termine di collegamento tra lo spirito e il corpo, il principio dell’organizzazione del corpo18. Anima è di conseguenza un concetto empirico, radicalmente distinto da quello di Io, ma non è un qualche cosa di cui si possa trovare il luogo corporeo: essa è la forma del corpo. Che l’anima abbia un organo, ovvero che ci sia qualcosa in cui l’anima risiede, nel corpo, è, secondo Fichte una concezione materialistica, incompatibile con la prospettiva filosofico-trascendentale.

Nemmeno la posizione di Platner, in realtà, può essere considerata un materialismo in senso stretto: secondo Platner, infatti, l’attività mentale non può essere del tutto individuata dal punto di vista empirico. Sebbene eventuali lesioni cerebrali possano determinare alterazioni nei movimenti dell’anima, i movimenti dell’anima non sono identici alle modificazioni delle strutture cerebrali. Per Platner, infatti, l’organo interiore dell’anima (inneres Seelenorgan) oppure la sede dell’anima (Sitz der Seele) è quella parte del corpo, «in cui vanno a finire tutte le impressioni dei sensi, cominciano tutti i movimenti del corpo e si mostrano, per prima cosa, tutti gli effetti dell’anima»19. Gli effetti, o i movimenti

17 GA IV/1, p. 194. 18 Ivi. 19 GA II/4 S., p. 31 [corsivo mio].

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dell’anima, allora, non sono identici al sostrato materiale, in cui essi si manifestano: i movimenti dell’anima sono «capacità mentali» (geistige Fertigkeiten). Il fatto che a un danneggiamento del cervello corrisponda un’alterazione delle capacità mentali sta però a dimostrare, secondo Platner, come l’anima, tuttavia, risieda in qualche modo «lì». La posizione di Platner oscilla così tra il materialismo e una concezione mentalista della coscienza, secondo il contesto in cui egli discute questo problema20.

4 – Il mind-body-problem e la filosofia

trascendentale fichtiana

I tentativi di interpretazione filosofica delle ricerche

neurofisiologiche – ai tempi di Fichte ma direi anche oggigiorno – si trovano tutti a doversi confrontare con un problema teoretico centrale: la definizione adeguata del concetto di quel «lì» che empiricamente deve essere necessariamente in stretta relazione con le strutture cerebrali, e deve, di conseguenza, «trovarsi» da qualche parte nel cervello, ma contemporaneamente non è un substrato materiale, nella misura in cui esso indica il luogo della coscienza in quanto attività21.

20 Di fatto Platner oscilla, negli Aforismi filosofici, tra il tentativo di

rinunciare alla metafisica, per spiegare la coscienza, e l’attribuzione all’organo dell’anima di un carattere sovrannaturale, che non può essere colto considerando l’organo a partire dal cervello. Per una valutazione della concezione di Platner si veda l’unico studio a proposito, di Schöndorf, che condivide questa linea interpretativa e registra un’ambiguità di fondo: Platner considera lo spirituale come il momento «più alto», tutto ciò che lo riguarda diventa duraturo e stabile; ed è anche una sorta di «epifenomeno» della materia, in qualche modo una «materia particolarmente sottile, inafferrabile e evanescente». H. SCHÖNDORF, Der Leib und sein Verhältnis zur Seele bei Ernst Platner, in “Theologie und Philosophie”, 60, 1985, pp. 77-87.

21 Per una panoramica sulla questione, con particolare riferimento al problema della localizzazione, si veda J. BRUNNER, Kursorischer

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In termini platneriani, si tratta di indicare nella materia il punto in cui risiede l’anima, che è propria di quella particolare forma di vita che è la vita cosciente e cosciente di sé: quel punto di passaggio, allora tra la materia e lo spirito, che deve essere insieme il luogo in cui si incontrano il fondamento dell’organizzazione e quindi il principio organizzativo della materia. Si tratta allora della definizione di un qualcosa che per definizione non può essere un qualcosa, in quanto non può essere percepito dai sensi: lo spirito, appunto. La teoria platneriana si muove all’interno di queste coordinate concettuali, rimanendo per così dire imprigionata in esse e oscillando tra il materialismo e lo spiritualismo. Affronta il problema della coscienza come questione di localizzazione del mentale, ma rifiuta l’identificazione tra mente e cervello; spiritualizza la coscienza considerandola un’anima (individuale!), ma insieme la considera un organo materiale.

Se la coscienza, però, come sostiene Fichte, non è identificabile con gli stati di coscienza; se l’anima, in quanto principio vitale non può essere localizzata in un punto del corpo, in quale modo può essere affrontato adeguatamente il problema della «sede dell’anima», della relazione tra mentale e corporeo?

È possibile, a questo punto, indicare i tratti fondamentali di quella che si potrebbe definire una teoria fichtiana del mentale, certo, non articolata, ma profondamente diversa dall’immagine che alcune posizioni contemporanee in ambito di filosofia della mente gli attribuiscono. Fichte distingue nettamente tra la riflessione filosofica sulla coscienza (1), che trova il suo nucleo concettuale nel problema dell’autocoscienza, indicato, nel periodo jenese, dal termine Io, e la riflessione sulla problematica della coscienza e (dell’autocoscienza) in quanto oggetto di ricerca degli studi sulla fisiologia del cervello (2) e quindi dell’interpretazione filosofica di queste ricerche (3).

Streifzug durch die Geschichte der Neurowissenschaften aus neuroethischer und neurophilosophischer Perspektive, in D. Groß, S. Müller (a cura di), Sind die Gedanken frei? Die Neurowissenschaften in Geschichte und Gegenwart, Berlin, Medizinisch Wissenschaftliche Verlagsgesellschaft, 2007, pp. 2-26.

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Mi concentro, qui di seguito, soprattutto su alcune osservazioni che riguardano il secondo dei punti nominati. Dal punto di vista scientifico, con Fichte, si può difendere un materialismo metodologicamente rigoroso, che non entra in conflitto con l’elaborazione di una teoria filosofica della coscienza, qualora si mantengano chiaramente distinte le prospettive. Questo appare chiarissimo, a mio vedere, proprio dal confronto con Platner.

Fichte rimprovera a Platner una confusione terminologica e concettuale, una commistione tra argomenti che si basano su osservazioni empiriche e considerazioni filosofiche. In ambito scientifico, il «mentale» non è«spirituale», come in qualche modo sostiene Platner. Esso può essere spiegato in base a parametri scientifici, ovvero a osservazioni che riguardano la neurofisiologia. Le alterazioni della percezione dovute a patologie vengono intese da Fichte come problemi «del corpo»: in maniera più moderna, potremmo dire che un’alterazione della percezione è anche per Fichte un problema neurologico, comprensibile, e forse, risolvibile nel caso di patologia, a partire da uno studio approfondito sul funzionamento del cervello. A questo si aggiunge il fatto che l’anima, secondo Fichte, non è altro che l’essere in vita dell’essere vivente: è il «risultato dell’interazione tra tutte le parti». Non è quindi nella massa del corpo, ma è la vita dell’individuo: «non appena termina la vita», allora, «termina anche l’interazione, avanza solo la semplice massa»22. Considerando il corpo come oggetto materiale, allora, il punto in cui si troverebbe l’anima non c’è: non si dà interazione tra due cose: l’attività della coscienza è una prospettiva diversa della considerazione del corporeo, appunto come vivente, come essere animato. Fichte esprime così delle riserve esplicite rispetto a ricerche sull’anatomia del cervello che siano condotte su cadaveri. Terminata la vita non è possibile trovare nel cervello il luogo dell’anima: «Non si può sperare mai di trovare quest’ultimo, se vogliamo cercarlo in uomini morti, perché esso non c’è più, è inseparabile dalla vita»23. E ancora: «Nelle nostre ricerche

22 GA IV/1, p. 346. 23 Ivi.

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possiamo avvicinarci fino al punto in cui il nervo sfugge dai nostri sensi, il punto lo si è trovato davvero nel cervello; ma lì si può dire solo: deve essere qui. Trovare che cosa sia è del tutto inutile. Sia nella vita che nella morte, come dimostrato»24.

A tutta prima, queste osservazioni di Fichte appaiono probabilmente superate, a chi si occupa oggi di neuroscienze. Per esempio, le tecniche di neuroimaging permettono un accesso non invasivo alle strutture cerebrali e un’osservazione in tempo reale o quasi dei processi cerebrali25. D’altra parte le riflessioni di Fichte contengono un’intuizione valida, a mio vedere, ancor oggi: quella che lo studio del rapporto tra materia e vita non possa essere ulteriormente approfondito, se intende la materia semplicemente come massa26. Fichte tocca indirettamente, infine, un altro problema,

24 Ivi. Per una storia della psicochirurgia si veda: D. GROß, Von der

Topektomie zur modernen Stereotaxie: Die Geschichte psychochirurghischer Interventionen, in D. Groß, S. Müller (a cura di), Sind die Gedanken frei? Die Neurowissenschaften in Geschichte und Gegenwart, Berlin, Medizinisch Wissenschaftliche Verlagsgesellschaft, 2007, pp. 144-174.

25 T. F. MÜNTE, H. J. HEINZE, Beitrag moderner neurowissenschaftlicher Verfahren zur Bewusstseinsforschung, in M. Pauen, G. Roth (a cura di), Neurowissenschaften und Philosophie. Eine Einführung, Padeborn/München, Fink/UTB, 2001, pp. 298-328. Hagner mette invece bene in luce un altro aspetto: come il neuroimaging (e in generale la ricerca sul cervello) sia non solo una procedura di analisi scientifica, ma un progetto della modernità: la produzione di una ben precisa concezione dell’uomo e dell’attività del pensiero, che egli definisce come «cerebralizzazione dell’uomo»: M. HAGNER, Der Geist bei der Arbeit. Historische Untersuchungen zur Hirnforschung, Göttingen, Wallstein, 2006.

26 La concezione fichtiana della materia è un capitolo tutto da scrivere, nella ricerca fichtiana. Sicuramente si potrebbe mostrare abbastanza facilmente la presenza di una concezione energetica della materia, a partire dalla quale il problema della localizzazione dovrebbe essere completamente ripensato. Di fatto, nei più recenti studi sul cervello, si sviluppano filoni di ricerca che mettono in primo piano la non-località e la diffusione dei processi cerebrali, sulla base di teorie olonomiche. K.H.

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teoretico e metodologico insieme, dell’intersezione tra una ricerca neurofisiologica e la sua interpretazione filosofica: il carattere sperimentale delle ricerche di neuroscienze e, di conseguenza, la difficoltà di valutare, all’interno della ricerca, prima, e in senso filosofico, poi, quell’elemento di artificialità che l’esperimento in quanto tale comporta27.

Rimane l’interrogativo di fondo: una volta svelato ogni segreto del funzionamento del cervello dal punto di vista fisiologico, una volta compreso come sia costituito il mentale e in che relazione esso stia con le strutture del sistema nervoso– obiettivi di ricerca, beninteso, del tutto degni di essere perseguiti – si sarà scoperto che cosa significa pensare e agire?

La risposta di Fichte è su questo punto univocamente e indiscutibilmente negativa. Il fraintendimento del senso di questa negazione, vizia, a mio vedere, alcune posizioni filosofiche contemporanee e impedisce loro di comprendere adeguatamente il senso della ricerca filosofica fichtiana, ma non solo, sulla coscienza28. Essa non nega, lo sottolineo ancora, la rilevanza della ricerca sul cervello, né la possibilità di uno studio interdisciplinare

PRIBRAM, Brain and Perception, Hillsdale, N.J., Lawrence Erlbaum 1991; ID., Brain and Quantum Holography: Recent Ruminations, in M. Jibu, T. Della Senta e K. Yasue (a cura di), No Matter, Never Mind – Fundamental Approaches, Amsterdam/Philadelphia, John Benjamins Publishing Company 2001.

27 Mi limito a ricordare l’esperimento attualmente più dibattuto nell’ambito della neurofilosofia, ovvero quello di Libet sulla libertà del volere: B. LIBET, Mind Time. The Temporal Factor in Consciousness, Cambridge/Mass., Harvard University Press, 2004. Per una critica, anche rispetto ai metodi, dell’esperimento di Libet si veda per esempio: A. BECKERMANN, Neuronale Determiniertheit und Freiheit, in K. Köchy, D. Stederoth (a cura di), Willensfreiheit als interdisziplinäres Problem, Freiburg i.Br., Karl Alber, 2005, pp. 289-304

28 Sulla questione di una collocazione sistematica della neurofilosofia si veda lo scritto di G. NORTHOFF, Was ist Neurophilosophie? Programmatische Charakterisierung eines neuen Ansatzes, in “Philosophia naturalis”, 38, 2001, pp. 205-244.

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che discuta i risultati scientifici. Nega però la possibilità di sviluppare una riflessione sull’agire umano che derivi immediatamente e direttamente dalla ricerca scientifica.

Cerco di spiegarmi con un paragone. Potremmo dire che voler identificare l’attività del pensiero che sta a tema della filosofia fichtiana con l’attività mentale sarebbe come affermare che un brano musicale è il solco di un disco di vinile (ovvero il cervello, in quanto «supporto materiale») oppure è l’elaborazione che avviene attraverso la lettura del disco da parte del giradischi («il mentale»). Il paragone è calzante, a mio vedere: a nessuno verrebbe in mente di chiedersi «dove» sia il brano musicale quando il giradischi non suona, e affermare che esso sia «dentro» il disco appare senz’altro almeno una formulazione un po’ infantile. Allo stesso tempo nessuno si stupirebbe, se un disco graffiato producesse una cattiva esecuzione o se, spento il giradischi, non si percepisse più nessuna musica. Continuando in metafora: se grazie alla ricerca scientifica, la struttura del supporto risulta sempre più chiara, è il funzionamento del giradischi a rimanere oscuro. Affermare, però, che senza uno studio del funzionamento del disco e del giradischi, non si comprende la differenza tra musica barocca o romantica significherebbe ignorare la ricerca di senso, che sta al fondo dello studio fichtiano sul problema della coscienza.

Tale ricerca riguarda non tanto il come, nel mondo, sia dia empiricamente la possibilità di pensare e di agire, quanto piuttosto quali siano gli scopi e i moventi di questo agire e come esso, in quanto tale, sia strutturato all’interno di un orizzonte di significato che non è, e non può essere dedotto dall’empirico. Si mostra allora in tutta chiarezza l’inevitabilità, per la filosofia, di una riflessione pratica, da declinarsi in ambito etico, giuridico, politico, in tutte le forme del fare di cui il genere umano è capace. Che le cose siano così lo dimostrano anche posizioni che negano, in ambito neuroscientifico, libertà e responsabilità dell’agire. Singer, uno dei pionieri della ricerca tedesca nelle neuroscienze, afferma per esempio: «Esaminando dei cervelli, non sono in grado di trovare da nessuna parte un agente mentale come il libero arbitrio o la responsabilità – e tuttavia la sera vado a casa e considero i miei figli

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responsabili delle sciocchezze che eventualmente hanno fatto»29. Non è quindi difficile solo il poter trovare la risposta, quanto piuttosto il comprendere la domanda, o meglio le domande, a cui si vuole rispondere. Oggi, come ai tempi di Fichte. Fichte disse a questo proposito: «Con il fluido organizzato, come lo chiama Kant su suggerimento di Sömmering, il guaio è che non si è trovato quello che si cercava»30. La speranza che le scoperte scientifiche indichino risposte definitive sul senso dell’agire umano continua ancor oggi a essere mal riposta, e, vien da dire, per fortuna.

29 W. SINGER, Ein neues Menschenbild? Gespräche über die

Hirnforschung, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 2003, p.12. 30 GA IV/1, p. 346. Samuel Thomas Sömmering aveva comunicato, nel

1796, la scoperta di liquidi cerebrali in cui si poteva ipotizzare un movimento che rendesse ragione dell’attività cerebrale e quindi la sede dell’anima, della coscienza. Il lavoro venne pubblicato grazie a Kant e con un commento dello stesso (S. T. SÖMMERRING, Über das Organ der Seele. Königsberg, Nicolovius, 1796. Vedi anche I. KANT, Akademie-Ausgabe, Berlin, Reimer, 1902 ff, vol. XII, p. 30 ss. e vol. III, pp. 398-414). Probabilmente Fichte non lesse molto accuratamente, o non lesse affatto il commento di Kant, che afferma tutt’altro che la scoperta della sede dell’anima nell’acqua organizzata, anzi sostiene una posizione, nei suoi tratti fondamentali, vicina a quella di Fichte. (Si veda su questo punto l’approfondito studio di W. EULER, Die Suche nach dem ‘Seelenorgan’ Kants philosophische Analyse einer anatomischen Entdeckung Soemmerings, in “Kant-Studien”, 93, 2002, pp. 453-480.)

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L'ORIGINARIO E LA COMUNITÀ

L'ETICA DEL 1812 TRA ONTOLOGIA TRASCENDENTALE E ASSOLUTIZZAZIONE DELL’INVITO

GIOVANNI COGLIANDRO

Abstract

Aufforderung and Erscheinung are the two main concepts of the late Fichte’s doctrine of science. The community in my essay is considered together with the definition of a concept as the pivotal axis of this fundamental part of the transcendental doctrine, formalized in the Sittenlehre 1812. My paper focuses on the ontological content and ethical properties of such a Metaphysics and considers Fichte’s ethical ontology in comparison with the impact it had on contemporary debates on modality, fundamental theology and moral theory.

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1 – Introduzione

L’Etica del 1812 rappresenta per vari motivi un luogo

fondamentale dell’evoluzione della dottrina trascendentale. In essa viene sviluppata una dottrina morale superiore, poiché non si muove dai principi già esposti nella dottrina della scienza, ma si costituisce come una fenomenologia della volontà dell’assoluto di elevare tutti gli spiriti alla moralità. Distingueremo da subito il termine ‘dottrina morale’ (superiore o meno) dal termine ‘etica’ che riserveremo al titolo dell’opera scritta. La dottrina morale superiore verrà da noi esposta sommariamente a partire dai concetti fondamentali di invito, manifestazione, comunità.

Il punto di partenza dell’esposizione non è quindi il dover essere, il sistema dei doveri incondizionati o condizionati, universali o particolari, come si era fatto nella esposizione jenese della dottrina morale (1798). Dal punto di vista del sistema della dottrina trascendentale conseguito nelle tarde esposizioni della dottrina della scienza possiamo dedurre una dottrina della manifestazione della volontà, che si configura come originariamente causata dall’autoposizione del concetto. La dottrina morale superiore non si diparte infatti da un imperativo rivolto al singolo, ma da un fatto, da una posizione tetica: il concetto è ciò su cui il mondo si fonda. Con le parole iniziali del testo che esaminiamo nel nostro contributo:

Fatto della dottrina morale. Il concetto è la causa del mondo. Con la coscienza assoluta, che esso lo sia. (con il riflesso di questa relazione.) Con l’analisi di questa affermazione dobbiamo misurarci! Come questa sia possibile. Che cosa presuppone? Che cosa è contenuto in essa, o da questa procede.1

L’esposizione inizia in maniera non ipotetica, con una evidenza, cioè con la coscienza tetica della fattualità del concetto. Il fatto è originariamente il concetto, e viceversa non vi è fattualità

1 GA II/13, p. 307.

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morale al di fuori del concetto. Per negationem il fatto del concetto è in generale ciò che si contrappone al fatto dell’istinto della ragione2. Considerato come posizione tetica, quindi in modo assolutamente positivo e rigorosamente trascendentale, il concetto è la comprensione del dispiegarsi della vita dell’assoluto nelle forme della comprensione possibile di questa stessa vita. Esso è quindi, già nella Dottrina della scienza del 1804-II, il principio della comprensione del dispiegarsi dell’essenza del sapere. Nella Iniziazione alla vita beata (1806) esso riceve l’attributo di «creatore del mondo» (Weltschöpfer), in quanto, secondo la dottrina trascendentale, tramite il congiungersi della comprensione della vita dell’assoluto e dell’essenza delle forme del sapere si esaurisce la totalità dei costituenti fondamentali della stabilità e della dinamica del mondo. Solo un’affermazione di principio può essere un fatto della ragione, e al di là della posizione del concetto non vi sono altri fatti del mondo che possano essere semplicemente trovati. Il concetto deve essere il fondamento del mondo (causa sive ratio, nel duplice senso in cui il termine Grund può essere inteso). Il concetto è quindi anche sostanza nel senso classico che questo termine assume. Il concetto come fondamento sostituisce il concetto di fine, inteso come fondamento del volere concreto nella Wissenschaftslehre 1796/99 nova metodo3: da questo punto di vista il compito indirizza il volere se il compito è concettualizzato. Nel testo che analizziamo invece il concetto assume il ruolo di fondamento e causa (Grund)

2 Come nota Traub: «Il concetto è il principio che si contrappone

all’istinto nel suo modo di essere efficace e nella sua articolazione. Il concetto è lo “strumento della liberazione dall’autorità dell’istinto di ragione”» (SW VII, p. 21). H. TRAUB, J. G. Fichtes Popularphilosophie 1804-1806. Frommann-Holzboog, Stuttgart 1992, p. 53.

3 Non abbiamo l’autografo fichtiano di questa esposizione della dottrina della scienza, che ha mostrato in misura sempre maggiore la sua centralità per una interpretazione rinnovata della filosofia fichtiana: nell’edizione dell’accademia sono edite le due Kollegnachschriften che la riportano: la prima, detta di ‘Halle’ dal nome della biblioteca dove fu ritrovata è edita nel volume IV/2 delle opere complete; la seconda, detta ‘Krause’, dal nome del filosofo che la stese, è edita nel volume IV/3.

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unitamente alla coscienza di esserlo. La coscienza assoluta di essere causa viene definita come ‘riflesso di questa relazione’ (Reflex dieses Verhältnisses): la coscienza non è più originaria nel senso in cui lo era nelle prime esposizioni della dottrina della scienza, ma è originaria in quanto è il riflesso (Reflex) della relazione propria tra il principio e il principiato.

Una linea interpretativa ormai superata tendeva a dividere la produzione fichtiana in due fasi, utilizzando come momento decisivo del mutamento di orizzonte l’Atheismusstreit. Il ‘primo’ Fichte focalizzerebbe la sua attenzione sulla riflessione ed elaborerebbe un sistema dell’autocoscienza, il ‘secondo’ Fichte invece, a partire dalla Bestimmung des Menschen (1800), sposterebbe la sua attenzione sulla filosofia dell’assoluto, sul rapporto tra la finitezza e la divinità. Già Pareyson poteva affermare che questo paradigma andava superato4. Uno dei cardini che hanno guidato la nuova Fichte-Forschung nel mutare il paradigma esegetico è proprio la nozione di riflesso. Al riguardo afferma Ivaldo:

Fichte realizza l’impresa di elaborare una dottrina delle determinazioni trascendentali di un mondo della ‘natura’ e degli esseri razionali attraverso uno svolgimento radicale delle potenzialità del ‘riflesso’, ovvero della tendenza autoformativa della ragione, (ciò che indica subito la differenza qualitativa del punto di vista trascendentale del ‘riflesso’ dal punto di vista della ‘riflessione’ come facoltà soggettiva, cui i sistemi dell’idealismo credono a torto appartenga la Wissenschaftslehre).5

4 L. PAREYSON, Fichte. Il sistema della libertà, cit.. L’autore mostra come

la questione del passaggio sia di notevole complessità, sicuramente non riducibile a una cesura netta o a una Kehre religiosa: come la questione relativa al ‘primo’ e ‘secondo’ Heidegger o al ‘primo’ e ‘secondo’ Wittgenstein la ricerca approfondita mostra come queste siano solo sistemazioni manualistiche.

5 M. IVALDO, I principi del sapere. La visione trascendentale di Fichte, Bibliopolis, Napoli 1987, pp. 299-300.

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È il riflesso a consentire la riflessione, e quindi l’autocoscienza muove dal riflesso. Il riflesso è il movimento dell’assoluto, che proprio in quanto ab-solutus non può essere inteso come oggetto: l’assoluto è luce, è agilità, e la sua dinamica inizia dal riflesso6. Il problema è che sovente gli esegeti non considerano come l’assoluto sia dinamico e non statico, quindi non si comprende l’operare del riflesso come osservazione pura dell’automovimento dell’assoluto. Nella Wissenschaftslehre l’assoluto mantiene il carattere dell’agilità, è il principio ordinatore e costitutivo del reale, e lo è in primo luogo ordinando l’agire degli individui. Questa progressiva enfatizzazione della agilità dell’assoluto può essere una feconda chiave di lettura per comprendere l’evoluzione delle esposizioni della dottrina, e il passaggio alla dottrina superiore della scienza: lo schematismo della manifestazione dell’assoluto è il culmine della comprensione di questa attività.

La prima manifestazione (Erscheinung) è la manifestazione che si sa immagine dell’assoluto: è una nozione già presente nella dottrina della scienza e nel suo schematismo. La novità contenuta nella Etica 1812 è sintetizzata nella deduzione che segue:

1) L’unica cosa realmente autonoma all’interno della manifestazione è la stessa manifestazione, come è in sé, come immagine di Dio. La manifestazione è questa immagine solo nella sua unità, come comunità degli individui.

2) Questo suo essere si presenta come un compito; quindi essa appare nella forma di un principio assoluto. Dunque – il concetto si indirizza necessariamente all’intero e parla dell’intero. Non c’è in senso proprio nessun dovere del singolo ma solo uno dell’intera comunità.7

6 L’assoluto diviene invece soggetto in quanto spirito nel sistema di Hegel.

In particolare è da notare come Hegel attribuisca i caratteri della soggettività (cioè automovimento e autoposizione) all’idea, al concetto, al sapere, allo spirito: queste entità si appropriano del volere e agiscono, prendono il posto del soggetto, ma anche dell’assoluto tout court.

7 GA II/13, p. 358.

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La manifestazione è autonoma, e quindi rientra nel dominio della dottrina della scienza, cioè appartiene alla ‘esposizione dell’assoluto’ (cfr. Dottrina della scienza 1804-II), poiché la manifestazione viene conosciuta in quanto tale perché è compresa come immagine di Dio. È immagine di Dio perché è autonoma, proprio perché è autonoma può essere posta a base di una vera comunità di individui. Dal punto di vista del sapere quindi la manifestazione si trova in una situazione paradossale: è una in quanto immagine dell’assoluto, ma questa unità si concretizza sempre in una comunità, in una comunità di individui considerata nella sua interezza. Si può dare un dovere determinato per il singolo, ma, dal punto di vista filosofico che viene assunto, il dovere originariamente è solo per la comunità. Questo perché ciò che è propriamente autonomo nella manifestazione è il suo essere immagine di Dio: anche questa è una inserzione di contenuto nella dottrina morale da parte della dottrina della scienza. Poiché la dottrina morale è la più alta tra le scienze del sistema trascendentale, essa riceve i suoi contenuti direttamente dagli schemi della dottrina della scienza. La manifestazione può essere considerata come vera imago Dei solo se unifica le manifestazioni particolari della vita che danno contenuto al concetto, cioè gli individui. Propriamente si potrebbe dire che solo comprendendosi nella comunità l’individuo diviene io: non a caso Fichte utilizza il concetto del ‘grande io universale’8. La scienza della pratica consente di svolgere questo 8 Ad esempio: «La presupposizione potrebbe essere questa, che il grande

io universale, l´intero genere umano si debba elevare alla moralità, proprio la sua, dell’intero genere umano, tramite un´arte illuminata» (GA II/13, p. 337). Questo io-comunità è l’immagine di Dio, l’unica realtà indipendente nella manifestazione, ciò che è articolato, per cui appare il dovere e non l’obbligo, il punto di passaggio che a Kant doveva restare ignoto. Ricordiamo come per Kant la comunità entri nella trattazione della Chiesa, e solo in tale circostanza si colgono le insufficienze del suo sistema indirizzato solo all’individuo. Da questo paragone con la Religione entro i limiti della sola ragione di Kant si può rischiarare molto quanto verrà esposto in questa parte finale dell’Etica. Sul tema si veda quanto si afferma in M. M. OLIVETTI, Introduzione a J. G. FICHTE, Saggio di una critica di ogni Rivelazione, Laterza 1998, pp. VII-LX.

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apparente paradosso: il concetto (di fine) si indirizza sempre all’intero, e descrive in senso morale l’intero: un tale intero non può che essere comunitario, poiché solo in una comunità (Gemeine) può costituirsi la moralità individuale, e non vi è alcuna concettualizzazione della legge morale se non in un individuo che si sappia individuo tra altri. Vale anche la conseguenza, cioè che la comunità e l’idea stessa di umanità sono concepite solo in quanto vengano organizzate ed articolate verso il fine morale. Tale idea viene radicalizzata ed estesa nella Etica:

Tutta l'umanità è ricompresa in questo scopo, ed è legata al cuore amorevole dell’uomo che agisce moralmente, come strumento della moralità (Werkzeug der Sittlichkeit), assolutamente sotto nessun altro aspetto. Ogni altro amore ed inclinazione, l’amore patologico, non è morale ma è qualcosa di naturale, cioè qualcosa di fondato su motivi incomprensibili, quindi cede sempre e si ordina sotto il superiore amore morale, senza considerare il fatto che questo avrebbe potuto rimanere nelle oscure profondità della natura: ne troveremo dopo l’applicazione.9

L’umanità intera, la comunità più ampia di ogni comunità, è uno strumento della moralità, e non esisterebbe se non per questo. Si potrebbe ribaltare l’espressione di Fichte: essere strumento della moralità superiore è per l’umanità (intesa propriamente, cioè come totalità) lo stesso che essere kantianamente un fine in sé. La finalità del singolo e della comunità è quella di rispondere all’appello dell’assoluto: lo scopo di questo è unico, e l’assoluto, nell’ordinare in questa maniera la sua finalità, è il solo ad aver uno scopo unico, cioè l’elevazione alla moralità di tutti gli individui. Questo è un limite per qualsiasi retta aspirazione di unità di vita, come nell’etica cristiana: solo l’assoluto è modello di unità di intento, e solo avvicinandosi indefinitamente a tale ideale il singolo può situarsi nel progresso morale. Ogni altra tendenza, inclinazione, persino l’amore umano (che nel testo che analizziamo verrà trattato nella lezione 25 più in profondità, come l’ultimo gradino della scala ascendente che

9 GA II/13, p. 374.

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conclude al simbolo e alla comunità perfetta, cioè la Chiesa), può divenire patologico se non risponde a questo orientamento morale. Il tema del patologico, inteso in maniera pluriforme come assenza di destinazione etica o come assenza di destinazione esistenziale, è stato a lungo trascurato dalla ricerca fichtiana: in tempi recenti è stato però oggetto di acute indagini da parte degli studiosi della filosofia trascendentale10. Solo il comprendersi come strumenti dell’agire dell’assoluto è garanzia di non ricadere nel patologico dal quale si tenta di allontanarsi. Essere strumento dello scopo dell’assoluto è per la volontà morale come essere un fine in sé, in quanto il postulato dell’etica fichtiana è quello della perfettibilità della moralità, nonché quello di una eternità della vita che non viene interrotta dalla morte. In questa ottica teistica l’uomo è fine in sé in quanto risponde all’appello divino e si fa strumento della volontà dell’assoluto. Dal punto di vista dell’intero il fine in sé è la moralità, che si serve della totalità degli individui come di uno strumento; si badi bene: non il singolo ma la comunità è lo strumento della moralità, sino ad includere l’intera umanità come comunità illimitata. Fichte si interroga poi sulla genesi concreta di una comunità, che si origina da un accordo (Übereinstimmung): un tale accordo sull’agire genera lo Stato, ma poiché questo non è un consenso apriorico non riguarda la dottrina morale.

10 Sul tema del patologico nella filosofia trascendentale rimando al volume

di J.-CH. GODDARD, La philosophie fichtéenne de la vie. Le transcendental et le pathologique, Vrin, Paris 1999. Segnalo inoltre il bizzarro studio di W. GARTLER, Feindesliebe. Szientismus und Paranoia in Fichtes Wissenschaftslehre, Turia & Kant, Wien 1992. La patologia è qui spinta fino al parossismo dell’amore per i nemici, quale formalizzabile a partire da una concezione psicologica o psichiatrica che si fondasse sui presupposti antropologici contenuti nelle prime esposizioni della dottrina della scienza. Queste prospettive di ricerca insolita sui testi di Fichte sono comunque da considerare come stimoli insoliti per nuove interpretazioni della dottrina trascendentale. Un esempio notevole in questo senso è l’opera di Günter Schulte, si veda tra gli altri articoli Tarte à la crème -- bis der Tod uns scheidet, in “Fichte-Studien”, 15 “Transcendentale Logik”, 1999, pp. 83-104.

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Una altra forma di consenso è quella che viene definita da un simbolo:

L'accordo sulla visione viene denominato Simbolo: e la comunità, realizzata secondo la nostra presupposizione attraverso questo accordo, viene denominata la comunità dei credenti (quelli che credono al simbolo): la Chiesa.11

La volontà morale si relaziona al simbolo in una particolare comunità, che viene analizzata da Fichte in relazione al suo fondarsi sopra un simbolo: la Chiesa. Che cos’è quindi il simbolo? Esso è nella dottrina morale trascendentale l’accordo su una determinata intuizione, su una visione. Lo Stato viene dopo, poiché si fonda sopra l’accordo su determinate norme comportamentali, che divengono le leggi12. La comunità originaria, che deve essere indagata da una dottrina morale trascendentale, è quella che si basa su una comunione nella visione del mondo. Una configurazione storica di questa comunità è la Chiesa. Un simbolo deve essere

11 GA II/13, pp. 381-2. 12 Tutta la filosofia che si occupa dell’origine dello stato da un contratto o

da una convenzione esula quindi dal discorso fondativo: non sarà che una applicazione. Aggiungiamo inoltre che ovviamente per la filosofia trascendentale non è possibile fondare uno Stato su una comunità, cioè uno Stato di individui che abbiano la stessa Einsicht: ciononostante è proprio quello che si è tentato di fare nel secolo delle ideologie, e, per una ironia storica, si è ritenuto di imputare parte delle responsabilità filosofiche proprio al filosofo di Rammenau. Si pensi alle distorsioni cui sono andati incontro i Discorsi alla nazione tedesca che, non credo casualmente, sono stati tradotti in italiano la prima volta durante il dibattito relativo all’intervento nella prima guerra mondiale (1915) e la seconda volta nel 1942 in piena seconda guerra mondiale, ovviamente con prefazioni adeguate ai tempi. Un’opera pregevole che ha tentato di esaminare a fondo la concezione della nazione di Fichte e ha rigorosamente confutato il preteso antisemitismo di Fichte che si poteva evincere dai Contributi per rettificare il giudizio del pubblico sulla rivoluzione francese (1793) è quella di H. – J. BECKER, Fichtes Idee der Nation und das Judentum. Den vergessenen Generationen der jüdischen Fichte-Rezeption, Rodopi, Amsterdam/Atlanta 2000.

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creduto: il credere implica non solo la convinzione teorica, ma anche la persuasione di dover agire in un determinato modo, conseguentemente, secondo un volere morale, che si trova a coincidere con ciò che Fichte denomina «la volontà del concetto» (der Wille des Begriffs). Il volere morale si coniuga con il simbolo: il problema di come avvenga tale relazione occupa tutta l’ultima parte dell’Etica 1812. L’umanità organizzata in comunità, attorno a un simbolo, viene indagata nella sezione conclusiva del testo dell’Etica. Le determinazioni storiche dell’umanità sono invece trattate parzialmente nella Dottrina dello Stato del 1813, che muove dalla constatazione della situazione storica quale si era già ormai irrimediabilmente determinata, e che quindi si indirizza solo alla comunità della quale tratta, cioè alla Germania. La dottrina morale invece può riferirsi ed indirizzarsi ad ogni comunità, si può anzi affermare che in essa viene ripreso da un punto di vista filosofico più elevato l’intento programmatico dello Stato commerciale chiuso (1800). La comunità umana è quindi governabile dalla filosofia, che può contenere ogni conoscenza morale, ogni simbolo, ogni rivelazione, ovvero ognuna delle cause dell’agire dei singoli nella comunità, che agiscono in modo conseguente al volere del concetto. Il concetto si mostra quindi come il fondamento del mondo conoscibile e, unitamente, come l’unica facoltà di pensare consequenzialmente l’umanità come uno strumento, cioè come strumento della moralità. Il singolo può quindi sapersi concettualmente, cioè determinarsi, solo se agisce moralmente: è questo il principio che già nella prima dottrina della scienza era chiaro per il soggetto medesimo, ma che ora si mostra nella sua conseguenza dal punto di vista della comunità, cioè della filosofia che ormai si sa praticoteoretica, cioè dottrina della scienza. Per connotare la dottrina della scienza si devono infatti congiungere i due aggettivi di pratico e teoretico13, che tradizionalmente connotano

13 I due termini sono utilizzati da Lauth in connessione nel suo scritto

L’idea globale di filosofia in J. G. Fichte, in R. LAUTH, La filosofia trascendentale di J. G. Fichte, Guida, Napoli 1986, pp. 23-68. In questo scritto la dottrina di Fichte è indicata come ‘teoretico-pratica’. Si è scelto

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le due principali ripartizioni della filosofia trascendentale, fin dalle Critiche kantiane. Questo termine composto è un tentativo di esprimere verbalmente il fatto che le due componenti del sistema della dottrina della scienza sono inseparabili, esprimono due punti di vista filosofici sulla stessa attività. A partire dalla Dottrina della scienza nova methodo 1796/99 l’attività viene infatti conosciuta nell’intuizione intellettuale come ritornante in se stessa e non ancora distinta in capacità di agire moralmente giudicabile e in ragione che costituisce il reale tramite la determinazione teorica delle sue strutture. Nel passaggio al punto di vista superiore dell’esame delle manifestazioni dell’assoluto la connotazione di praticoteoretica si applica in primo luogo alla dottrina della scienza che si conosce in quanto tale, come Fichte aveva iniziato a fare nella sua ultima esposizione del 1814, in cui cominciava la trattazione della dottrina dallo schema supremo, l’autocomprensione della dottrina della scienza in quanto tale. Per questo motivo si è posta in esergo a questo libro l’ultima frase manoscritta del Diario, in cui si descrive la vita nel suo figurare le forme infinite dell’intellegibilità nell’intuizione morale14, e solo in questo modo la vita può attualizzare una tra le infinite possibilità che le si manifestano.

Questo contributo vorrebbe proporre alcune interpretazioni relative all’Etica del 1812: l’intento è cercare di stimolare la discussione su alcuni suoi caratteri peculiari nel contesto del sistema della dottrina della scienza. Ho scelto di concentrarmi in particolare su tre punti: l’invito al sapere assoluto, la manifestazione dell’assoluto, la comunità e lo scopo dell’agire morale.

di congiungere i termini e di invertirne l’ordine per sottolineare ulteriormente il primato del pratico nel costituirsi del reale.

14 «Nella intuizione morale la vita figura la forma della intelligibilità e la vita delle infinite forme possibili, precisamente in una maniera: perché è davvero immagine di Dio: non devo far comparire l’immagine di Dio in altra maniera: perciò la forza reale è» (Diarium III, 16 gennaio 1814; in J. G. Fichtes Ultima Inquirenda, a cura di R. Lauth, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 2001); cfr. nota 1. Questa frase è un testo programmatico, quasi un testamento filosofico e l’indicazione di un compito a chi vuole proseguire il lavoro iniziato da Fichte.

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2 – L’invito al sapere assoluto.

Nell’Etica del 1812 si procede dal concetto, che viene posto

come il fondamento della costituzione non solo del mondo per l’io, ma dell’io e del mondo in interazione reciproca. Più originario dell’io è il vedere, la capacità di sapere le manifestazioni dell’assoluto. Questa capacità si trova in uno iato con l’esistente in attività, cioè con la vita. Il vedere e la vita si identificano nel processo di costituzione dell’io. La costituzione dell’io nella dottrina morale superiore viene così esposta:

L’identità assoluta del vedere e della vita è l´io: così la vita di un concetto, che ha causalità, assume necessariamente questa forma di io nella coscienza, e il concetto si muta in causalità di qualcosa.

Forza, in cui é inserito un occhio: il carattere proprio dell’io, della libertà, della spiritualità (Geistigkeit). Ha ottenuto molto chi sa ottenere una immagine vivente di questo, mantenerla e fondare ogni suo giudizio su cose di questo tipo. La vista accompagna la forza15

Questo passaggio sintetizza una delle acquisizioni più rilevanti che la dottrina morale consegue, e anticipa rispetto alla trattazione che ne può offrire la dottrina della scienza dal punto di vista dell’osservazione schematica della manifestazione dell’assoluto. Dal punto di vista della dottrina morale il concetto ha concreta efficacia sulla realtà, quindi ha vita, in quanto tramite la sua azione e forza organizza ed articola, come si è visto, il molteplice. Nella forza, si legge, è inserito un occhio: espressione che non è ignota al lettore della Dottrina della scienza del 1801/2, in cui l’occhio è la prima manifestazione sensibile del sapere assoluto. Come è noto, Fichte scrisse nel 1802 un sonetto dedicato a questo tema, L’occhio di Urania, in cui attingeva al mito arcaico per offrire una versione accessibile della dottrina trascendentale. La forza, agente

15 GA II/13, p. 317.

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dell’articolazione, cioè dell’orientamento verso uno scopo, è la sede in cui il sapere assoluto trova il suo ingresso nell’ambito della volontà, quindi della libertà materiale. Il vedere di un tale occhio è sempre presente quando viene operata la scelta, la distinzione tra i diversi scopi cui può essere rivolta l’azione.

Lo sguardo accompagna, guida e determina la forza. Autodeterminazione = una metamorfosi (Verwandlung) di se stesso, del principio meramente ideale, in reale, cioè in un vedere oggettivo assolutamente producente. (Una forma del concetto nell’altra).16

Lo sguardo conduce alla autodeterminazione della forza del soggetto agente e consente il passaggio modale dalla possibilità alla realtà della sua capacità di agire: lo sguardo è questo principio di individuazione, la cui attività è il figurare. Il vedere oggettivo è il figurare reale, cioè il determinare e il dare realtà ai concetti. La forza viene determinata dallo sguardo: potremmo dire che la forza è l’ipostatizzazione della capacità di agire del soggetto, la realtà della possibilità di essere causa nel mondo. Lo sguardo è invece il figurare che avviene realmente, ed esso accompagna la forza, cioè l’agire reale.

Lo sguardo accompagna la forza. Come questa fluisca sopra è comunque immediatamente visibile: esso [lo sguardo]

guida la forza, vede il cammino che la forza deve descrivere prima che questa lo descriva, essendo un il compimento che é ancora presso , e così via: lo sguardo determina la forza tramite la sua guida: quando questo sguardo, forte e vivente, si muove oltre attraverso , la forza reale la segue immediatamente, in quanto la forza reale é proprio lo sguardo, solo nella reale forma della vita. Cioè, questa affermazione deve essere intesa così: il concetto è [/] immediatamente causa; lo sguardo é immediatamente e tramite sé medesimo vita creatrice. La realtà viene vista nell’azione; vista, dico, senza l´utilizzo di alcun altro organo, vista in quanto realtà, non come una mera immagine, in

16 ivi, p. 318.

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quanto essa é proprio realtà per l´altra forma di intuizione oggettiva.17

La causalità del concetto si esprime attraverso la guida che lo sguardo esercita sulla forza. Possiamo, alla luce di quanto esposto, raffigurare in tal modo secondo le categorie della modalità i termini della dinamica fondamentale della dottrina della scienza:

• POSSIBILITÀ: figurare - agire • REALTÀ: sguardo - forza • NECESSITÀ: manifestazione dell’assoluto - vita

Le categorie modali sono state poste in relazione con il tardo

sistema della dottrina della scienza in riferimento alla problematica metafisica del costituirsi di una dottrina dell’essere: questo problema tuttavia non riguarda direttamente la nostra indagine18.

17 ivi, pp. 317-8. 18 In particolare si rimanda a J. BRACHTENDORF, Fichtes Lehre vom Sein:

Eine kritische Darstellung der Wissenschaftslehren von 1794, 1798/99, und 1812, cit. In questo volume l’autore conduce una sua personale collocazione della dottrina della scienza nel complesso della metafisica occidentale. In questo tentativo esegetico l’autore si contrappone esplicitamente (p. 67) all’identificazione di una «Logica della determinazione assoluta» come centro dell’intera dottrina della scienza: l’enucleazione di questa logica è la tesi portante del volume di J. STOLZENBERG, Fichtes Begriff der intellektuellen Anschauung; Klett-Cotta, Stuttgart 1986. Per il riferimento alle categorie modali nella tarda filosofia fichtiana si vedano le pp. 244-7 dell’opera di Brachtendorf, in cui si conduce un cursorio ma rilevante confronto tra l’univocazione dell’ente, compiuta da Duns Scoto e riproposta da Wolff, e quanto viene da Fichte affermato nelle Tatsachen des Bewusstsein 1813. La critica che Fichte muove a buona parte dei sistemi filosofici contemporanei è di ridurre la possibilità dell’essere a mero complemento, quasi parassitario, della realtà dell’essere. L’essere reale si trova quindi ad essere equiparato all’essere in generale: non era questa la proposta di Scoto e di Wolff, i quali, pur con sfumature differenti, consideravano l’essere in generale come la possibilità di essere, non come l’ens reale: questo si chiarifica ulteriormente nei riguardi di Scoto che considerava la metafisica come

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Nella dottrina della scienza il principio positivo è sempre ciò che viene posto: in questo caso la posizione originaria è la manifestazione dell’assoluto, che si mostra anche come vita assolutamente libera, infinitamente capace di agire e di figurare: questa infinità quantitativa viene determinata dallo sguardo, che sempre accompagna e conduce la forza. Lo sguardo e la forza sono i due nomi dell’unica attività praticoteoretica che si mostra primariamente nella manifestazione dell’assoluto.

Lo sguardo fornisce la conoscenza delle forme secondo cui l’agire deve conformarsi, in tal maniera si passa dalla potenza della volontà all’atto della libertà. Questo atto è libero proprio in quanto l’articolazione del suo scopo avviene attraverso lo sguardo che rende presente il sapere assolutamente libero, cioè il sapere assoluto. Tale principio è ideale, cioè, con un linguaggio ripreso dalla Dottrina della scienza 1801/2, è un occhio chiuso, completamente indipendente dalle rappresentazioni (ritorneremo su questo punto). Tale occhio si apre nella forma del concetto producente, cioè nella autodeterminazione. Si può aggiungere che l’apertura del sapere assoluto avviene solo per la produzione di rappresentazioni, di rappresentazioni pratiche, che possiamo interpretare in parallelo con lo schema 1 della dottrina della scienza superiore (in particolare la Dottrina della scienza del 1812), cioè la manifestazione dell’assoluto.

Dopo aver chiarito questi punti, possiamo spingerci oltre nella nostra interpretazione della filosofia pratica trascendentale, per esporre un punto centrale dell’intero sistema fichtiano. L’attività concreta dell’io inizia grazie ad una Aufforderung: il termine viene tradotto in italiano come «sollecitazione», oppure «esortazione»,

una scienza eminentemente pratica, prescrittiva e non speculativa. Sul tema della modalità in Scoto rimando a L. HONNEFELDER, Scientia transcendens. Die formale Bestimmung der Seiendheit und Realität in der Metaphysik des Mittelalters und der Neuzeit (Duns Scotus –Suarez – Wolff – Kant – Peirce). Hamburg, Meiner 1990; S. KNUUTTILA, Time and modality in scholasticism, in S. Knuuttila (a cura di.), Reforging the great chain of being. Studies in the history of modal theories. Reidel, Dordrecht-Boston 1981, pp. 163-257.

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«appello» o «invito» (gli ultimi tre termini sono a mio avviso da preferire, in quanto la prima traduzione risente troppo della metafora fisica della stimolazione sensoriale). Fichte espone questa teoria per la prima volta nella Dottrina della scienza nova methodo e nel Diritto naturale del 179619. L’invito muove il soggetto a dare un contenuto al proprio volere, quindi ad indirizzare la propria attività verso uno scopo, attraverso la produzione di un concetto di scopo (Zweckbegriff). Lo scopo dell’agire dell’io può essere classificato sotto due ambiti: lo scopo ultimo (LetztZweck) e lo scopo finale (EndZweck)20. L’invito nel sistema della libertà jenese viene quindi considerato in primo luogo come un invito ad un agire pratico21. Al riguardo scrive Lauth:

19 «L’esortazione è la materia dell’operare, ed una libera attività causale

dell’essere razionale, alla quale è tesa l’esortazione, è il suo fine ultimo. L’essere razionale non deve affatto essere determinato, necessitato all’azione dall’esortazione – come secondo il concetto della causalità ciò che è causato viene determinato e necessitato dalla causa. Egli deve, invece, solo determinare se stesso all’azione in seguito all’esortazione. Ma se deve far questo, allora deve innanzitutto capire, e comprendere, l’esortazione, e si fa conto dunque su una sua conoscenza precedente. La causa dell’esortazione che si è posta al di fuori del soggetto deve quindi presupporre almeno la possibilità che quest’ultimo possa capire e comprendere, altrimenti l’esortazione a lui rivolta non serve a niente.» GA I/4, p. 36; tr. it. J. G. FICHTE, Diritto naturale, a cura di L. Fonnesu, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 33.

20 Riguardo al tema della teleologia si veda quanto afferma Radrizzani sul confronto tra Fichte e la Kritik der Urteilskraft di Kant: I. RADRIZZANI, Von der Aesthetik der Urteilskraft zur Aesthetik der Einbildungskraft, oder von der kopernikanischen Revolution der Aesthetik bei Fichte, in Der Transzendentalphilosophische Zugang zur Wirklichkeit, pp. 341-59.

21 Sul tema dell’invito anche in relazione alla Destinazione dell’uomo si veda lo studio di E. DÜSING, Sittliche Aufforderung. Fichtes Theorie der Interpersonalität in der Wissenschaftslehre nova methodo und in der Bestimmung des Menschen, in Transzendentalphilosophie als System. Die Auseinandersetzung zwischen 1794 und 1806, a cura di A. Mues, Meiner, Hamburg 1989, pp. 174-197.

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La riflessione […] può passare nell’esistenza solo se viene ostacolata in un certo modo ben definito, cioè in modo tale che, con la e nella resistenza in questione, l’urto sia funzionale all’esecuzione del compito razionale che costituisce la sua stessa condizione di possibilità. Ma questo tipo di resistenza è data solo in una determinazione orientata, la quale include in sé un intero processo, che essa come semplice determinazione non porta già ipso facto con sé: questa determinazione orientata è l’appello. L’io esiste non soltanto da sé e per sé, ma solo mediante l’appello dell’altro, cioè in quanto fin dall’inizio è un essere sociale.22

L’assoluto per la prima dottrina della scienza è un assoluto pratico, che forma attraverso l’invito l’agire moralmente qualificato del singolo, il quale tramite il proprio agire si relaziona alla comunità. La prospettiva della dottrina della scienza successiva muta, in quanto l’assoluto si presenta come manifestatesi in quanto conoscibile, e in questa sua manifestazione dà forma agli schemi della conoscenza dell’io. L’io nelle esposizioni della dottrina della scienza successive a quella del 1801/2 compare sempre in una posizione successiva negli schemi deduttivi, e la problematica della manifestazione dell’assoluto ha una posizione sempre anteriore nell’esposizione del sistema. La nostra tesi non è naturalmente quella di una cesura tra l’esposizione jenese e quelle successive, ma l’affermazione di una elevazione dell’analisi che trasforma l’assoluto da semplicemente pratico (l’assoluto invita all’agire determinato ma la relazione conoscitiva tra l’io e il non io è costruita dal soggetto) ad assoluto che si fa conoscere (tramite gli schemi della sua manifestazione). L’insieme degli schemi della manifestazione, questa è la nostra tesi, costituisce l’invito al sapere assoluto che l’assoluto rivolge al soggetto.

Nel plesso Dottrina della scienza nova methodo 1796/99 – Esposizione della dottrina della scienza 1801/2 si compie una ulteriore rivoluzione nella filosofia trascendentale della dottrina della scienza, che ne conferma la continuità nel radicalizzarsi dell’analisi.

22 R. LAUTH, Il pensiero trascendentale della libertà. Interpretazioni di

Fichte, a cura di M. Ivaldo, Guerini e Associati, Milano 1996, p. 86

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La considerazione dell’assoluto è diventata praticoteoretica: l’assoluto si fa conoscere attraverso l’invito ad un agire pratico e attraverso un invito al sapere. Consideriamo un plesso unico queste due esposizioni, pensate entrambe per una pubblicazione mai effettuata, che ruotano sull’asse dell’Atheismusstreit e che si stendono su un arco di sei anni: le consideriamo un plesso unitario perché le parti di cui sono composte singolarmente ricevono il loro senso da una visione d’insieme delle due opere, un senso che si può cogliere compiutamente avendole presenti entrambe, e che si perde se le si considerano in maniera scissa. In questo plesso si illumina in particolare la visibilità parergonale23 propria dell’opera di Fichte, cioè il considerare un sapere o un’azione dalla pluralità dei punti di vista possibili, nel continuo che si estende dalla monade soggettiva fino al punto di vista dell’assoluto inteso come Dio24.

Questa rivoluzione viene esposta in forma popolare nella Bestimmung des Menschen del 1800, che è stata interpretata nei modi più diversi sin dalla sua pubblicazione: come un passo avanti geniale o come una caduta nella oscura Schwärmerei. Ciò che suscita il maggior interesse è innanzitutto l’articolazione dei tre momenti in cui viene suddivisa l’opera: Dubbio – Sapere – Fede. La fede esposta al temine dell’itinerario è un punto di vista superiore al sapere, potremmo dire un sapere di sapere o metasapere che si costituisce, è questa la nostra proposta interpretativa, come riconoscimento di un invito a sapere che l’assoluto esercita nei confronti del soggetto. Senza questo invito il soggetto non potrebbe sapere alcunché, ma soprattutto non potrebbe sapere che vi è per lui la possibilità di avere

23 Il termine è utilizzato, in modo più limitato e comunque riferito solo alla

filosofia tarda di Fichte ed in particolare alle Tatsachen des Bewusstsein, in J. WURZER, FichtÈs parergonal visibility; in Brezeale-Rockmore (a cura di), Fichte, Humanities Press, New Jersey 1994, pp. 211-21.

24 Per questa scala ascensionale (o discensionale) presente nell’opera fichtiana e in particolare nella dottrina della scienza 1801/2 si veda la seconda parte di M. IVALDO, Fichte e Leibniz. La comprensione trascendentale della monadologia, Guerini e Associati, Milano 2000; essa è dedicata al problema della costituzione di una concreta monadologia trascendentale.

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un sapere tout court. Per questo vi è sì una svolta nella dottrina della scienza e nelle sue scienze sistemiche, ma questa svolta non è in alcun modo un fuoriuscire dai principi delineati già nella sua prima esposizione: semplicemente già nella prima esposizione si fa chiara l’enormità del compito scientifico che si dischiude per il filosofo trascendentale e che, come di fatto è stato, avrebbe richiesto più che la vita di Fichte medesimo per il proprio svolgimento. La fede di cui si parla al termine della Bestimmung des Menschen è la fede ‘praticoteoretica’ del Wissenschaftslehrer nei due inviti che l’assoluto rivolge all’io: l’invito ad un’agire determinato e l’invito a sapere. In realtà l’invito è unico, è un invito alla determinazione praticoteoretica, ed è inscindibile dal punto di vista superiore dello Schema 1 della manifestazione dell’assoluto. Questo è il territorio (nel senso kantiano del termine) dell’indagine propria alla dottrina della scienza superiore, dottrina che diviene superiore in quanto si interroga sulla propria genesi, cioè indaga il proprio costituirsi come dottrina della scienza. La scissione tra la componente pratica e quella teoretica dell’invito avviene dal punto di vista dell’io, che si considera come una monade che cerca di comprendere pienamente le proprie potenzialità pratiche e conoscitive, e perciò le considera separate. Questa considerazione muta nel risalire lungo gli schemi della manifestazione dell’assoluto, e per far questo si deve attingere da quanto viene conseguito dalla dottrina della scienza superiore, la quale considera come origine della dinamica dell’invito la manifestazione dell’assoluto, intuita come Bild Gottes (e descritta come tale soprattutto nel Diarium III) e schematizzata come manifestazione dell’assoluto25.

25 La fusione di pratico e teoretico è un portato della dottrina della

intuizione intellettuale che Fichte ha mutuato forse senza averne piena consapevolezza non tanto dal neoplatonismo, ma dalla grande tradizione della mistica cristiana. Riteniamo si possa scorgere una connessione con la dottrina della conoscenza divina della scuola di Bonaventura e di Duns Scoto: ne abbiamo cercato di descrivere le principali conseguenze in G. COGLIANDRO, Duns Scoto e J. G. Fichte. La prospettiva scotista e la dottrina della scienza di fronte al problema della determinazione, in Giovanni Duns Scoto - Studi e ricerche nel VII Centenario della sua

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La dottrina morale procede secondo lo schematismo dell’assoluto. I tre schemi sono la base della suddivisione possibile della materia della Etica 1812:

morte in onore di P. César Saco Alarcón a cura di M. CARBAJO NÚÑEZ, Antonianum, Roma 2008, pp. 279-318.

Spingendoci adesso ancora oltre nel nostro risalire retrospettivo (movimento inteso in senso complementare all’approccio prospettivista caro a Lauth, Ivaldo e Radrizzani nella storia della filosofia), almeno cursoriamente è necessario comparare questa dottrina con quella degli effetti della Noche Oscura sull’anima. Con le parole di Giovanni della Croce:

¡Oh noche que me guiaste!,

¡oh noche amable más que el alborada!,

¡oh noche que juntaste

amado con amada,

amada en el amado transformada!

(Noche oscura vv. 21-25)

Nell’excessus mentis che caratterizza questo stato supremo del cammino unitivo dell’anima uno degli effetti che con più dovizia di particolari vengono descritti dal Dottore mistico è la fusione di intelletto e volontà: «accade che qualche volta questa mistica e amorosa teologia, oltre che infiammare la volontà, ferisca anche, illuminandola, l’altra potenza, quella dell’intelletto […]. Questo incendio di amore insieme con l’unione delle due potenze, intelletto e volontà, che avviene in questo momento, è per l’anima sorgente di grandi ricchezze e diletto» (GIOVANNI DELLA

CROCE, Notte oscura, in Id., Opere, OCD, Roma 1991, p. 438). Edith Stein prese una vigorosa posizione filosofica ispirandosi alla fenomenologia nei confronti di questo filosofo della mistica nella sua opera Scientia Crucis. Riteniamo sia un compito aperto e possibile il farlo con il metodo della dottrina trascendentale.

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SCHEMA 1: concetto fondamento del mondo = manifestazione dell’assoluto che invita l’io al sapere assoluto.

SCHEMA 2: io puro, egoità formale, che si concretizza nel volere in interazione con la comunità – l’io comprende di conoscere l’assoluto.

SCHEMA 3: io individuale, e suo rapporto alla comunità degli io – l’io si conosce come invitato a comprendere l’assoluto.

Il figurare (Bilden) esposto nella Dottrina della scienza del

1812 sintetizza la risposta praticoteoretica al duplice invito che l’assoluto rivolge all’io – sapere. L’immagine infatti è il nome che riceve il sapere nel suo rispondere all’invito, senza considerare il suo essere identico con il soggetto finito.

La scissione di pratico e teoretico avviene infatti solo dal punto di vista dell’io, che si considera come una monade che cerca di comprendere pienamente le proprie potenzialità pratiche e conoscitive e le considera separate nello Schema 3 (manifestazione della manifestazione della manifestazione dell’assoluto). Il passaggio tra lo schema 3 e lo schema 1 si ha attraverso il riconoscimento dell’assoluto come invitante l’io a sapere: l’assoluto invita a conoscere l’assoluto (schema 1), al sapere se stesso da parte dell’io come conoscente l’assoluto (schema 2), infine al sapere se stesso dell’io come invitato a conoscere l’assoluto dall’assoluto medesimo (schema 3).

Nella Etica 1812 lo schema viene concretizzato attraverso la considerazione di più soggetti in interazione, in un mondo che è stato reso figurabile solo tramite il concetto. Nella Dottrina della scienza 1812 si identificano concetto e manifestazione:

Abbiamo detto che il concetto dell’assoluto è: siamo immediatamente coscienti di questo, e la parola non esprime altro che questa coscienza immediata. Abbiamo inoltre detto sopra: cosa sia una immagine sarà immediatamente chiaro, per il fatto che l’immagine è, l’immagine caratterizza se stessa e la sua figuralità. Concetto = immagine [corsivo mio, N.d.A.]. Abbiamo trovato in questi due principi che la manifestazione appare a se stessa; in parte, che essa è in generale formaliter; in parte che cosa essa sia

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qualitativamente. La manifestazione appare a se stessa in conseguenza del fatto.26

Nel processo di apparizione dell’immagine dell’assoluto l’immagine, essendo attiva, si determina nel riflesso. Si è mostrata la possibilità di sapere l’assoluto, cioè di averne un concetto. Il primo modo in cui si può quindi conoscere l’assoluto è di avere un concetto della sua manifestazione. La manifestazione si presenta con il carattere della figuratività (Bildlichkeit), dell’attività ordinatrice. In questo suo figurare essa sta in rapporto al concetto, se li si considera, aggiungiamo noi, come praticoteoretici insieme:

• l’immagine nel figurare il sapere = concetto nell’ordinare

l’agire pratico • l’immagine nel figurare l’agire pratico = concetto

nell’ordinare il sapere Questa equazione esprime l’interazione tra l’assoluto e il

soggetto nel figurare, che dal punto di vista della Dottrina della scienza 1812 è una cosa sola.

In questo modo la fede perde ogni connotato di Schwärmerei e diviene riconoscimento dell’operare schematico dell’assoluto nel soggetto che agisce e conosce insieme e scinde i due momenti dell’agire solo nello schema 3, il più complesso ma il più soggettivo. Il procedere non è ascendente: esso invece discende, partendo dal riconoscimento dell’invito ‘praticoteoretico’; in questo modo il movimento giunge alla esposizione complessa della relazione io-assoluto nello schema 3 della manifestazione dell’assoluto medesimo, quella che più mostra l’intrecciarsi di pratico e teoretico, di agire e sapere, singolarmente intrecciati nel termine ‘fede’. La nostra lettura è resa possibile dall’interpolazione della struttura della Dottrina della scienza 1812 con il plesso 1796-1802 (Dottrina della scienza nova methodo –Dottrina della scienza 1801/02): il nostro presupposto è la sostanziale continuità d’intenti delle successive esposizioni della dottrina trascendentale, che trova riscontro nella

26 WL 1812, in GA II/13, p. 61.

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maggioranza degli esegeti. Ciò che ci sembra nuovo ed insieme necessario per la comprensione della dottrina della scienza organicamente intesa è il riconoscimento dell’invito al sapere assoluto, che l’assoluto medesimo esercita sull’io finito.

Questo invito viene così formulato nei termini della Etica 1812:

Fino ad adesso il genere umano è stato educato da Dio, e questa educazione durerà ancora tanto a lungo in questo modo, finché esso diverrà adulto, e avocherà a sé la propria educazione con libertà e arte non ingannevole. Non si creda che questa sia temerarietà, o che dopo l´umanità si troverà peggiorata. Infatti Dio educherà il genere umano solo fino alla capacità di educarsi da sé, questo è il suo proposito27. Inoltre Dio, se l´umanità si rende indipendente, non la educherà di meno, ma solo non la educherà più immediatamente, nella forma di una cieca evoluzione naturale, ma bensì nella forma di un chiaro e luminoso concetto per gli uomini, che non sono altro che un suo strumento; vi è solo una differenza: se questi lo siano in quanto morali, con una chiara coscienza, o senza di essa, quindi non propriamente questi stessi.28

In questa esposizione dell’invito al conoscere praticoteoretico Fichte fonde il tema della educazione divina e quello della destinazione dell’uomo in un unico argomento. In precedenza tali temi avevano avuto trattazione autonoma nella Iniziazione alla vita beata e nei Discorsi alla nazione tedesca. Gli uomini devono passare dalla organizzazione tipica di un corpo incosciente alla articolazione tipica di una comunità cosciente del proprio scopo. L’invito di Dio è

27 Si può confrontare questo passo con la dottrina della Iniziazione alla vita

beata del 1806, relativa all’invito che Dio fa ad Adamo ed Eva ad un agire libero e morale (libero e morale è per Fichte una endiadi). In questo passo viene sintetizzata la dottrina lessinghiana dell’educazione infinita del genere umano con la volontà dei singoli che trascendentalmente si sentono invitati ad agire, e così completano indefinitamente la propria autoconoscenza.

28 GA II/13, p. 337.

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fino ad ora arrivato tramite l’intelletto, tramite i simboli (il simbolo riceverà una trattazione nella parte finale della Etica 1812). Questo è però un invito per chi non si è ancora elevato alla chiara comprensione del concetto: il concetto deve divenire il nuovo strumento della chiamata divina ad un agire libero e insieme cosciente. Nella dottrina morale il concetto percorre lo stesso iter che nella dottrina della scienza è percorso dal sapere. Il concetto deve conoscersi come causa e fondamento del mondo, tramite la comprensione della vera causalità dell’agire del soggetto nel sistema degli io. Il sapere deve diventare assoluto rispondendo all’invito dell’assoluto medesimo.

3 – La manifestazione dell’assoluto

Nella dottrina della manifestazione propria della dottrina

morale il punto di partenza è l’io, immagine del concetto che si sa in quanto tale perché giustificata in questo dalla serie ascendente-analitica della ragione, conosce la verità sullo sfondo. Questo conoscere la verità veniva definito nella Dottrina della scienza 1801/2 e 1804-II il sapere assoluto, ma questo termine nella dottrina morale non compare mai. Il sapere della verità è il considerare il concetto come essere spirituale puro, visione unitaria29. La ragione e il sapere vanno a completare lo schema quintuplice delle relazioni tra vita e verità nella dottrina morale, mediate dall’attività del concetto vivente. 29 «L’unica cosa che semplicemente è, è il concetto: un puro essere

spirituale. La moltitudine non si può per nulla elevare al concetto di un tale essere […] Determinato attraverso la contrapposizione: non oggettivamente; non come in quella visione viene determinata la duplicità, ma proprio solo la purezza e l´unità. Proprio questa duplicità, l’essere secondo un sapere e al contrario è il carattere; ciò è qui del tutto negato: è molto più un sapere, che porta in sé il carattere della sua realtà: vero in sé, chiaro, saputo e reale. Immateriale, pura spiritualità e in generale mondo spirituale (GeisterWelt) in sé e per mezzo di sé. Idea, o pura visione (Idee, oder bloßes Gesicht)» (GA II/13, p. 329).

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dottrina della verità

dottrina della manifestazione

vita - ragione - VERITA’- sapere - vita

attività analitica del concetto

attività genetica del concetto

creazione della manifestazione

figurare della manifestazione

La serie della dottrina della scienza e delle sue scienze (come,

prima fra tutte, la dottrina morale) è sempre quintuplice, perché questa forma consente di inserire la dialettica tra i due estremi della vita, da cui si muove e a cui si arriva. La triplicità del movimento è inserita nella dualità di ciò che viene prima trovato come determinabile e quindi viene ritrovato come determinato dalla serie triplice interna.

È quindi possibile contrapporre la dottrina autentica della manifestazione a quella che deriva da una errata valutazione della forza dell’io:

Dottrina della manifestazione: l´io è immagine assoluta e fedele della vita del concetto: e il concetto è visibile solo nell’io: come l´io che tu vedi e che solo vedi, quindi dentro i limiti che sono stati assegnati tramite questo io nella manifestazione generale, così è il concetto che tu non vedi. Tu vuoi vedere se [il concetto è visibile nell’io]: non puoi vedere il concetto, tu vedi te stesso.

Dottrina della parvenza: che ora crede ad una tale forza reale dell’io, vuole determinare la medesima e prescrivere la propria regola alla sua determinazione. (Dove la dottrina morale deve essere perciò pragmatica, e qualcosa d’altro che

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pura e semplice teoria, cosa che essa tuttavia é in questa forma, in quanto dottrina della manifestazione)30

Il concetto si mostra solo nell’io, solo nell’individuo è possibile riconoscere il concetto come una manifestazione, un fenomeno dell’unica ‘cosa in sé’ che permane nella dottrina della scienza, l’assoluto. Il concetto è tuttavia invisibile nel mondo della manifestazione, dove si mostra già come io. Per questo motivo nella dottrina della scienza non si è parlato del concetto e della sua attività creatrice, ma solo dell’io o del sapere assoluto. Il concetto è visibile all’io come se stesso: viene visto come io, potremmo dire come io che si pone, mutuando il linguaggio dei principi del Fondamento della intera Dottrina della scienza del 179431. La dottrina della parvenza, il sapere erroneo, si limita invece a ciò che si mostra dal punto di vista dell’io che crede di produrre e determinare il reale secondo il proprio arbitrio32. Questa dottrina apparente porta a ritenere che l’io possa volere questo o quello, decidere in maniera indipendente: questo vale sicuramente nei confronti dei

30 GA II/13, pp. 338-9. 31 Fondazione, non esposizione delle sue componenti: il voler interpretare

questo scritto come l’intera dottrina della scienza ha portato ai noti fraintendimenti della filosofia trascendentale.

32 Magari seguendo una tecnica e dimenticando la verità: si noti ancora una volta l’analogia tra certe movenze del sistema trascendentale e la rivisitazione che Severino opera del pensiero di Heidegger: la contrapposizione tra la verità e l’apparenza, tra il punto di vista del filosofo e la prassi che pretende di modificare il mondo e di produrre degli stati di cose seguendo il proprio arbitrio. È possibile sottolineare la prossimità di queste posizioni a suggestioni che possono scaturire dalla lettura delle opere di Fichte, come testimoniato dalla monografia che egli vari decenni fa dedicò proprio a Fichte, la sua unica monografia impegnata a sostegno di un sistema diverso dal suo: E. SEVERINO, Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia fichtiana, La Scuola, Brescia 1960. Senza entrare nel merito di una analisi approfondita con le posizioni severiniane, mi limto a sottolineare come nella filosofia di Fichte è centrale proprio la necessità di costituire le strutture che Severino ritiene impossibile trovare nel reale.

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condizionamenti empirici, non però nei confronti del concetto. Questo pensiero viene espresso nei termini della dottrina morale con la definizione dell’io come immagine del concetto:

Il principio fondamentale della dottrina morale si può esprimere anche così: l´io deve manifestarsi, solo in quanto manifestazione; poiché non deve essere la propria vita, ma la vita di qualcosa d´altro e di estraneo, del concetto.33

L’immagine della vita vera viene divisa dal proprio contenuto e riceve la propria forma dal suo contenuto stesso nell’io, che si figura come immagine dell’immagine del concetto in questa operazione. In ciò il concetto si mostra come vita divina che si volge all’io che è forma vuota, pura potenzialità che aspetta di accogliere il proprio contenuto tramite questa stessa vita divina. L’uomo ha bisogno di un appello dell’assoluto, di un Sollen, per divenire morale, tramite il concetto che si mostra per prima cosa in una immagine, quindi nel procedere del figurare proprio dell’io: il concetto vi irrompe come qualcosa di estraneo, di non prodotto dall’io, che rende manifesto all’io la necessità di un contenuto per il suo figurare. Questo contenuto è il ‘materiale del dovere’34, la realtà dell’agire morale. Heimsoeth giunge ad affermare che la totalità del mondo che viene intuito è il materiale sensibilizzato del compimento del dovere: solo in questo consiste la sua concretezza35. Da questo si comprende come sia possibile che la totalità dell’agire figurante, che caratterizza la diade io-mondo, riceva la propria unificazione in una totalità di senso36. Questa totalità di senso può ricevere due caratterizzazioni: la prima è il riconoscimento in linea di principio

33 GA II/13, p. 339. 34 Riprendo il termine dal titolo dallo studio di H. FREYER, Das Material

der Pflicht. Eine Studie über Fichtes spätere Sittenlehre, in “Kant-Studien”, 25, 1920, pp. 113-155.

35 Heinz Heimsoeth, Metaphysik der Neuzeit, p. 119. 36 Credo che in questa direzione si possa riconoscere una vicinanza tra la

posizione di Heimsoeth e quella che Lauth espone nella sua opera Die Frage nach dem Sinn des Daseins, Barth, München 1953.

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del fatto che il molteplice delle rappresentazioni riceve il proprio senso solo tramite il figurare (dell’io in risposta all’invito dell’assoluto). La seconda caratterizzazione è l’esposizione sintetico-deduttiva degli effetti di questo figurare in forma sistematica, cioè in un sistema che sia privo di contraddizioni. Tra questi due poli interpretativi si collocano le diverse esposizioni della dottrina della scienza, ora inclinanti verso la prima caratterizzazione (come l’esposizione del 1812 e la Dottrina della scienza nova methodo), ora verso la seconda (come la Dottrina della scienza del 1804-II). Il figurare non è mai un mero rappresentare, così come l’essere al di fuori di Dio non riceve senso se non tramite questo figurare: questo è uno dei fondamenti inconcussi del sistema trascendentale.

L’io è la vita del concetto, il concetto è il contenuto del figurare del soggetto: questa in sintesi la ‘fenomenologia della moralità’ descritta nella Etica 1812. Il compito che contraddistingue la dottrina morale superiore è la descrizione completa del manifestarsi dell’io37. Questo perché viene percepita una resistenza nell’io, una forza di ribellarsi all’irrompere della vita del concetto, che costituisce propriamente il porre dell’io medesimo. Questa resistenza è il carattere proprio dell’io finito che percepisce la propria volontà e vuole mantenere questa, senza cedere all’incarnazione del concetto. Da qui la conclusione: l’uomo non si rende morale da sé, ma è solo l’irrompere dell’immagine divina a renderlo tale, a figurare il suo volere come volere morale e a renderlo capace a sua volta di figurare e di figurarsi. Il concetto quindi deve ridivenire immagine per l’io, dopo essere stato riconosciuto come immagine dell’assoluto al principio della dottrina morale. Il ridivenire immagine del concetto avviene per mostrarsi all’io come già vivo e dotato di forza, per poter quindi realmente sostituirsi al volere individuale. Se il concetto si mostra all’io come concetto, cioè come forma da vivificare, allora l’io può rifiutare di dare vita al concetto, porsi in opposizione a questa, tramite il proprio pre - sapere che rende noto all’io che il concetto darà un ordine completamente nuovo al suo volere. Se il concetto si mostra invece come immagine, 37 Questo compito viene formulato al principio della lezione 13 (GA II/13,

p. 340).

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appare all’io come già vivo e necessariamente a lui destinato, per rivoluzionare l’ordine del proprio volere. In questa concezione, che conclude la dodicesima lezione della Etica del 1812, si uniscono le due concezioni dell’assoluta libertà dell’io e dell’assoluta necessità del vivificarsi del concetto in esso. Viene mantenuta la realtà di entrambe queste dinamiche, attraverso le differenti forme di manifestazione dell’unico concetto assoluto. Solo il mostrarsi come immagine dell’assoluto fa sì che il concetto non venga considerato come una manifestazione dell’essere, cioè del non-io, ma come parte dell’io medesimo. La vita del concetto che appare si mostra come uguale all’io, il quale di converso è la vita del concetto medesimo.

La vita del concetto = Io; di converso: tutto l’io è vita del concetto. È anche vero. Qui, immediatamente: nel suo ingresso immediato nell’immagine; altrove, della sua immagine: questo è l´opposto38

L’io è vita del concetto e anche vita dell’immagine del concetto: si può tradurre questa espressione come l’espressione della causalità del concetto nel mondo tramite l’esistenza dell’io, e in secondo luogo tramite le azioni concrete dell’io morale. il concetto rende possibile la presenza dell’io nel mondo soprasensibile e consente che il suo agire riceva una forma determinata.

Il concetto può prendere due forme: la forma dell’immagine (Bild) e la forma della manifestazione (Erscheinung). Se il concetto prende la forma di una immagine si considera come autoformantesi, riflette la vita che riceve come una vita propria, ma questa vita è una vita apparente. Infatti l’io non riceve alcuna luce da questa manifestazione del concetto come immagine, quindi non diviene morale: non vi è comunicazione tra il concetto e l’io. Se il concetto prende la forma della manifestazione si considera come un riflesso della vita vera, quindi non si considera come autonomo (e il soggetto in cui si incarna non cade neppure esso in un tale errore esiziale). Si considera come un riflesso della vita e quindi è un concetto morale. Il concetto che si considera immagine diretta non può invece essere morale, vive di una vita apparente. Il perché di questo non è 38 GA II/13, p. 340.

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esplicitato nel testo fichtiano, per cui lo si può interpretare in questo modo: l’immagine è sempre un risultato del figurare, e il figurare è proprio dell’io. Il concetto che venisse considerato immagine sarebbe un concetto che si dà come riflesso indeterminato all’io, che lo può modificare a proprio arbitrio. È un concetto che si pretende possa dare il carattere all’io, mentre in realtà lo lascia informe e immorale. Dal fatto di seguire un concetto disincarnato si sono originate le peggiori abiezioni che si sono spacciate per ideali di grande riforma morale dell’umanità: si poteva al tempo di Fichte pensare alla Rivoluzione tramutatasi nel terrore giacobino, ai nostri giorni sono fin troppo ovvi i paragoni con i tragici eventi del secolo scorso. Se il concetto viene considerato immagine la determinazione che se ne ricava è arbitraria, quindi l’agire sarà non solo immorale ma tragicamente sbagliato.

Il punto medio della manifestazione del concetto è sempre l’io; questo viene espresso con la formula: «il concetto C x Io assume nella forma Io a + b + c e così via»39. Il concetto si incarna nell’io e in questa incarnazione ne assume con la vita la molteplicità. Prosegue il cammino a ritroso della manifestazione, che discende dall’unità alla molteplicità e nella molteplicità trova l’immoralità, sotto tutte le forme già definita. L’immoralità si mostra al concetto tramite l’opposizione (Gegensatz). Gli elementi a + b + c della formula mostrata possono anche essere disposti in modo differente: Fichte di seguito offre gli esempi della formula C x a x I x b + c oppure C x a + b x I. La prima delle due formule mostra il concetto che conduce un elemento del molteplice a mostrarsi unitamente ad esso all’io, il quale a sua volta si è già posto in relazione con due o più elementi della molteplicità: il concetto mostra all’io una scelta alternativa da compiere rispetto a quanto trova come determinato. La seconda di queste due possibilità mostra il concetto che di nuovo, prima di entrare in rapporto con l’io, incontra un elemento della molteplicità sensibile, che quindi si mostra all’io unitamente al concetto: è la figurazione attraverso una formula del compito

39 GA,II/13, p. 341. Si rende la B dell’originale Begriff con la C

dell’italiano Concetto.

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(Aufgabe) che il concetto già mostra determinatamente nella sua concretezza all’io, riguardante l’operare dell’io nel mondo fisico. Il concetto incontra l’io già legato a un elemento del molteplice, che potrebbe essere identificato con la sua corporeità. Mentre all’io possono essere associate molte forme sensibili, il suo carattere è solo quello che gli viene mostrato dal concetto, il quale in ogni caso propone all’io una sola alternativa a priori, e solo nella sensibilità dell’io conosce la molteplicità. Questa genesi dell’individualità puramente dal concetto costituisce uno degli apporti rivoluzionari dell’Etica del 1812 all’intero sistema della dottrina della scienza.40

L’io diviene vita del concetto quando risponde all’imperativo morale. «Il Verbo si è fatto carne» è il motto che presiede

40 Carla De Pascale espone così questa rivoluzione della caratterizzazione

dell’Io: «Non resta, dunque, che ricercare in che cosa consista il carattere “individuale” di ogni uomo, quello che contraddistingue in modo specifico ciascun individuo da ogni altro suo simile. E qui ci imbattiamo in un’autentica sorpresa, nel senso che la risposta che otteniamo è totalmente diversa, anzi è opposta, a quella cui gli scritti del filosofo – lungo praticamente l’intero arco della sua produzione – ci avevano abituato. Fin dalle prime opere, riecheggiando una tematica consolidata all’età dei Lumi, Fichte aveva più volte dichiarato che il dato individuale – quello che produce la differenza tra gli uomini – è, in sintesi, il dato fisico (dal quale poi scaturisce tutta una vasta gamma di ulteriori differenze), mentre l’aspetto comune, quello che appunto rende gli esseri umani sostanzialmente “uguali” – e diversi dagli animali – è rappresentato dalla ragione. In questo scritto, viceversa, il carattere individuale di un essere umano non risiede più nelle sue peculiarità fisiche, ma nel “concetto”, ovverosia nella sua ragione. Il mutamento intervenuto a questo proposito nel pensiero di Fichte andava indicato, e anch’esso è certo il segno di un più generale spostamento del suo orizzonte teorico; ma è d’altro canto agevole da comprendere come solo a queste condizioni – solo cioè in quanto ragione – quell’io poteva esser chiamato a far parte della comunità degli spiriti. E proprio perché è parte della comunità degli spiriti – e soltanto in quanto vi fa parte, è partecipe dell‘”unica vera realtà” – quell’io ha valore» (C. DE PASCALE, Le lezioni di etica del 1812: appunti di lettura, in C. De Pascale, Vivere nella storia, agire in società. Libertà, diritto e storia in Fichte, Guerini e associati, Milano 2001, pp. 61-74, pp. 71-2).

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all’interpretazione offerta da Ivaldo della dottrina morale superiore. Il celebre passo del prologo del Vangelo di Giovanni ci consente l’accesso alla tematica della vita secondo la morale superiore, vita che viene descritta religiosamente come vita beata nell’opera che Fichte dedica proprio al commento del vangelo di Giovanni41. Il Logos è l’unione divina di Idea e Vita, dell’Ideale e della sua concreta realizzazione, attuale e sempre possibile per il volere dell’individuo e per la realtà interpersonale. Nella filosofia trascendentale che risponde all’invito al sapere e all’agire superiore il Logos si incarna nel doppio schematismo della dottrina della scienza e della dottrina morale, e in questa incarnazione non è la realtà inferiore a elevarsi ad uno stadio superiore ma è la realtà superiore che rende reale il possibile (secondo le categorie modali). Nello schematismo della manifestazione dell’assoluto, esposto nella dottrina della scienza, è l’assoluto a invitare il sapere a divenire sapere assoluto: l’io finito comprende che l’incondizionato che l’io medesimo si sforza di conoscere è in primo luogo un invito a trasformare il proprio sapere finito in un sapere assoluto. Dalla risposta a questo appello dipende la trasformazione del punto di vista dell’io da epistemico (punto di vista della conoscenza dell’organizzazione e della articolazione del reale) a epistemologico (sapere del proprio sapere nei suoi principi incondizionati e nella sua origine dall’assoluto medesimo). Il punto di vista epistemico è il 41 Al riguardo Lauth si è così espresso: «Questo “concetto “ è in primissimo

luogo da assumere in se stesso, e qui non può essere visto altrimenti che come plenificante. Fichte ha chiamato questa potenza plenificante del “concetto “ beatitudine. Il bene beatifica. Lessicalmente non è questa l’espressione migliore: nell’ambito non filosofico troviamo però un termine corrispondente: pace. Il bene è in se stesso pace» (R. LAUTH, Con Fichte, oltre Fichte, p. 70). La beatitudine è il riempimento di senso del concetto: tuttavia la pace potrebbe essere un termine ancora più adeguato, nel senso che il termine ‘pacÈ assume nella contemplazione mistica. È da rilevare inoltre come la Seeligkeit del sistema fichtiano sia un attributo della vita, mentre la Glückseligkeit kantiana sia solo una caratteristica dell’individuo: in Fichte la Seeligkeit è propria della comunità religiosa, mentre la filosofia pratica kantiana manca di entrambe queste dimensioni.

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punto di vista finito del reale inteso come esterno all’io, il punto di vista epistemologico presuppone quindi la comprensione dell’essere assolutamente principio dell’assoluto nell’io. In maniera analoga nella dottrina morale è la vita assoluta del dovere a mostrarsi come mozione del volere, quindi a rendere possibile il dovere superiore e il costituirsi della relazione tra persone morali. Prima di questo invito non è

possibile la comprensione del concetto come fondamento del mondo, cioè come costituente il mondo interpersonale. Aggiungiamo che solo tramite questo concetto è possibile realizzare l’analogia subjecti42 che consente di riconoscere l’altro come analogo a noi e consente inoltre la sola vera compenetrazione razionale della realtà (per usare un termine introdotto da Lauth), quella interpersonale L’io può, prima dell’incontro con il concetto (in una temporalità però irreale, perché la temporalità è determinata solo dal concetto), ritenere di godere di una libertà di scelta tra alternative sensibili, libertà che gli viene sottratta con la congiunzione con la forma ideale del concetto stesso. Questa libertà si mostra quindi come un falso pre-sapere, un arbitrio pre-concettuale, quindi paragonabile a un

42 L’opera più feconda e influente al riguardo è quella di M. M. OLIVETTI,

Analogia del soggetto, Laterza 1992. In questo volume Olivetti conduce il proprio itinerario ricostruttivo e propositivo nei confronti delle differenti filosofie dell’intersoggettività che oggi sono al centro della discussione filosofica. L’autore parte dalla posizione tetica dell’etica come filosofia “anteriore” nei confronti delle altre forme possibili dell’attività filosofica. La prospettiva di questo volume è stata poi sviluppata negli anni seguenti dall’autore in una serie di articoli e saggi che hanno come tema l’incarnazione del dovere e la terzietà dell’altro. È evidente, anche solo da questi brevi cenni, l’importanza di questa posizione per la prospettiva del nostro lavoro sulla morale trascendentale superiore. La linea di ricerca sull’incarnazione del dovere ha però una specifica matrice legata alla dottrina trascendentale contemporanea. Questa trova una espressione particolarmente eminente in M. IVALDO: Ethik der Inkarnation in J.G. Fichtes Vorlesungen über die Sittenlehre 1812, in: Rozum Jest Wolny, Wolnosc-Rozumna, Festschrift zum 60. Geburtstag von Marek J. Siemek, a cura di R. Marszalek & E. Novak-Juchacz, Warsaw, 2002, pp. 101-116.

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istinto. Si può quindi dedurre che l’immoralità è ciò che si oppone al figurare del concetto: questo perché movendo dai principi esposti nella dottrina morale il concetto deve mostrarsi come manifestazione, mai come figura. Il concetto che si mostra già come figura non è mai un riflesso ma è frutto di un riconoscimento arbitrario e falso da parte dell’io. Si noti come il giudizio di moralità viene formulato prima dell’azione e viene espresso sul rapporto che intercorre tra la forma e il contenuto del concetto medesimo.43

43 Si può condurre cursoriamente un parallelo con la connessione analogica

che vi è nella filosofia pratica di Kant tra il concetto puro e l’immagine pura. Tale analogia è presieduta dall’idea pratica in generale, come afferma Pagani: «L’idea, intesa come modello avente funzione pratica, presiede a quello che il nostro autore chiama “schematismo dell’analogia”, e che egli distingue dallo “schematismo della determinazione dell’oggetto”. L’idea, così intesa, equivale dunque a uno schema, ma di valore pratico piuttosto che teoretico: tant’è vero, che Kant le riconosce un potere, non di tipo determinante, ma piuttosto di tipo analogante. Infatti “schematizzare” nel senso ora indicato, vuol dire “rendere accessibile un concetto mediante l’analogia con qualcosa di sensibile” […] In altre parole, uno schematismo dell’analogia è inteso da Kant come un accostamento che rende proporzionato un concetto puro – per esempio, l’ideale morale - rispetto a un immagine altrettanto pura - per esempio, l’idea pratica corrispondente» (P. PAGANI, Schematismo trascendentale. Etica e intersoggettività in Kant in Etica trascendentale e intersoggettività a cura di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 305-371, pp. 313-14). La nozione di schematismo come analogia potrebbe essere messa a confronto con lo schematismo dell’assoluto, analogato dal soggetto per renderlo comprensibile. Vi è tuttavia una differenza radicale, che aiuta a comprendere la centralità del confronto che Fichte attua con la dottrina kantiana nel suo Diarium III: nella dottrina della scienza l’iniziativa della manifestazione parte dall’assoluto, mentre nel criticismo kantiano il soggetto opera lo schematismo sui contenuti della propria esperienza, che si mostrano passivi. Questa differenza radicale diviene chiara in particolare nel Diario, testo in cui Fichte fa frequentemente menzione esplicita di vari luoghi della Critica della ragion pura, riguardo al tema della appercezione.

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L´io è nel fatto indifferente. Quindi nel fatto (per la manifestazione) deve essere. Il concetto deve proprio entrare in una forma figurale, non vivere immediatamente, ma solo essere, deposto e morto in una immagine. C x a. L´io è reale, in questo caso; in questa mera manifestazione: senza considerare che per prima cosa esso non è manifestazione, ma manifestazione della manifestazione.44

L’indifferenza dell’io è una indifferenza verso la realtà o verso la manifestazione, le quali sono equivalenti per l’io medesimo. Si può interpretare la cosa così: tutto il reale per l’io è solo una manifestazione, con termine kantiano un fenomeno. I due termini traducono in italiano il tedesco Erscheinung:45 la differenza sta

44 GA II/13, p. 342. 45 Per la traduzione italiana del termine Erscheinung con ‘manifestazione’

anziché ‘fenomeno’ fornisce motivazioni convincenti De Pascale: «Occorre segnalare il problema costituito dalla traduzione di “Erscheinung”; la difficoltà è in realtà assai più di natura teorica che non terminologica. Renderlo con “manifestazione” sensibile (o fenomenica) risolve ogni dubbio sul piano della trasposizione linguistica, ma ci dice ancora molto poco sulle reali intenzioni di Fichte di riproporre una dottrina del “fenomeno” sulla scia di quella kantiana. […] D’altra parte esso non scompare del tutto dalle opere fichtiane: è presente non soltanto nel Versuch einer Kritik aller Offenbarung – ove, in un contesto (quasi) totalmente kantiano, non c’è ragione per non tradurlo con “fenomeno” -, ma anche in Das System der Sittenlehre. E già qui cominciano le difficoltà, se si vuol continuare a servirsi di questo termine “fenomeno” (senza poter evidentemente annullare il nesso ch’esso conserva con la teoria critica), pur essendo d’altra parte consapevoli della portata della presa di distanza da parte di Fichte nei confronti di Kant, sia nell’ambito specifico dell’etica sia in quello più generalmente teoretico. […] Le sopraccitate difficoltà si ripresentano, a maggior ragione anche se in un’altra veste, nella più tarda filosofia, nella quale ci troviamo di fronte a una sorta di paradosso: per un verso, al punto di vista che guarda allo erscheinen si può dire venga attribuito un valore ormai assai scarso; per altro verso, però – ed è questo ciò che sembra contare più di tutto – la nozione stessa di Erscheinung assume un ruolo del tutto centrale nella costruzione teorica complessiva; e di essa – qualificata di preferenza come Bild dell’assoluto – il filosofo mette alternativamente in luce (a

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nell’attività assoluta della manifestazione nel sistema della dottrina della scienza, contrapposta alla passività che la connota nella filosofia trascendentale kantiana: la ferma decisione di eliminare la cosa in sé kantiana dal sistema della dottrina della scienza portò Fichte a utilizzare sporadicamente il termine nelle sue prime esposizioni del sistema, per poi delinearne una compiuta teoria come fondamento del proprio sistema, fino a rielaborare ancora la propria dottrina dell’immagine e della manifestazione dell’assoluto nelle ultime complesse meditazioni contenute nel Diarium III46. La

seconda che assuma l’una o l’altra delle due opposte prospettive) ora la connotazione negativa che è propria di ciò che è soltanto una copia, ora la forza evocativa che appartiene a un’immagine tanto fedele da riuscire a essere una copia» (C. DE PASCALE, Le lezioni di etica del 1812: appunti di lettura, cit., pp. 62-3, nota 3). Di contro Rametta nelle sue traduzioni delle esposizioni della dottrina della scienza del 1807 (Milano, Guerini e associati 1995) e del 1811 (Milano, Guerini e associati 1999) preferisce il termine ‘fenomeno’ o ‘apparizione’. Si legge in particolare nel Glossario posto al termine della versione italiana della dottrina della scienza del 1807 (p. 182): «Erscheinung: “fenomeno”. È costituito dal “legame” tra “A” (= “assoluto”, “Mondo ultrasensibile”) e “x” (“molteplicità”, “mondo sensibile”). Esso decade a “vuota apparenza” quando si scioglie dal vincolo dell’”unità” con la “vita originaria”; ne costituisce invece l’”apparizione”, e così viene in taluni casi tradotto, quando il rapporto viene mantenuto». Bertinetto, nella sua traduzione della prima Logica Trascendentale del 1812 (Guerini e associati, Milano 2000), compila un altro Glossario, nel quale si legge: «Erscheinung: “apparizione” (nei casi in cui viene tradotto con “fenomeno” il termine tedesco è indicato tra parentesi). È la “parvenza conosciuta in quanto parvenza”, il cui concepirsi è il fondamento di ogni concetto”, di ogni “riflessione” particolare. (…) Sua legge essenziale è “apparirsi”, assumendo riflessivamente la “forma-io”, per concepirsi in quanto “immagine dell’assoluto”: tale concepirsi è “il contenuto e l’ambito della sua vita” e, concependosi, “deve contemporaneamente concepire il suo concepire e sottrarre questo dal concepito”» (p. 327) [si omettono i molteplici riferimenti testuali dei glossari, per non appesantire inutilmente la citazione, N.d.A.].

46 La passione filosofica per la definizione di una compiuta teoria dell’immagine e della manifestazione, nonché delle loro relazioni

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manifestazione è una scelta esclusiva dell’assoluto, che comporta, al livello cui siamo arrivati, che il concetto si mostri come un essere statico, privo della suddetta attività, espresso con la formula C x a. Sotto questa forma il concetto è la totalità del reale, che si mostra al volere dell’io, per cui si può affermare all’inverso che

Reale non è altro che Dio: qui noi osserviamo, e così resta in verità, il concetto come reale: questo assolutamente: anche qui in quanto presupponiamo di stare dal punto di vista assoluto47

Il concetto è il reale in quanto concreto. Questa è la determinazione di che cosa sia Dio, in quanto l’assolutamente reale, all’interno della dottrina morale. In questa scienza infatti si muove dall’assolutezza del concetto proprio perché la conoscenza di Dio nella sua dinamica di manifestazione è demandata alla dottrina della scienza, che proprio per questo può essere definita anche dottrina di Dio48. È questo quindi il primo modo per definire quale sia il contenuto della manifestazione di Dio: infatti, come era stato chiarito nella Dottrina della scienza del 1794 il secondo principio, in cui si oppone com’è noto l’io al non-io, determina i due poli dell’opposizione secondo il loro contenuto. La dottrina della manifestazione procede da questa determinazione come il terzo principio della dottrina della scienza summenzionata, in cui ha luogo l’opposizione. Dopo la determinazione del contenuto (l’opposizione tra Dio e ciò che non è reale) è possibile determinare secondo la

mediate dal figurare dell’io sono l’oggetto degli ultimi sforzi del filosofo. Colpisce, anche per i suoi tratti di triste ironia, la testimonianza sugli ultimi giorni di vita del filosofo lasciataci da Varnhagen von Ense: «Nell’ultimo periodo della sua malattia, tormentato dalla febbre, egli gridava spesso con ardore: “Datemi un’immagine!” L’infermiera non poteva intenderlo che secondo il significato comune, e diceva ai parenti: “Il professore vuole avere un’immagine, ma io non so quale”» (J. G. Fichte in Gesprächa a cura di E. Fuchs, R. Lauth, W. Schieche, vol. 5, p. 70, n. 2366).

47 GA II/13, p. 342. 48 Cfr. GA II/13, pp. 308; 325.

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forma: Io oppongo nell’Io all’Io divisibile un Non-io divisibile49, che nella dinamica che si può dedurre dalla dottrina morale, si tramuta: Dio oppone in se stesso la molteplicità del reale alla molteplicità della manifestazione.

Questa è la dinamica che viene presupposta dalle affermazioni della dottrina morale: l’attività è solo in Dio; per questo se il reale viene concepito come un riflesso passivo non è possibile attribuire questa realtà a Dio. Il molteplice del reale penetra nel concetto dopo l’incontro con l’io, con le possibili varianti che abbiamo esaminato e che definiscono da una prospettiva superiore che cosa sia il dovere per la coscienza che incontra il concetto. La coscienza, cioè l’io, è però una manifestazione della manifestazione dell’assoluto, cioè il manifestarsi del concetto dinanzi al molteplice del reale. La garanzia della verità di questa dinamica è però lo slittamento predicativo che si esercita tra l’io della Dottrina della scienza 1794 e l’assoluto-Dio, del quale la dottrina della scienza nel sistema degli anni 1810-14 aspira ad essere la fenomenologia. L’operazione di determinazione reciproca, che abbiamo esposto secondo la nostra ricostruzione, consente che tramite l’operare archetipico di Dio sia possibile la realtà e la manifestazione della molteplicità. È la questione radicale che può essere posta: perché esiste il molteplice della manifestazione (o del fenomeno) e non il nulla? La risposta è una risposta tetica e non ipotetica: l’affermazione della suprema attività di Dio che decide di manifestarsi sotto le due forme del concetto e dell’io, mantenendo solo per sé l’assolutezza. Questa domanda radicale resta senza risposta nel sistema critico, come venne da subito rilevato da Fichte sin dal Grundriss des Eigentümlichen der Wissenschaftslehre (1795):

Kant procede dalla presupposizione che sia dato un molteplice all’unità della coscienza per la possibile percezione, ed egli non poteva procedere da un altro punto che da quello nel quale si era posto. Egli tramite questo ha fondato il particolare per la dottrina della scienza teoretica.50

49 GA I/2, p. 272; J. G. FICHTE, Dottrina della Scienza (1794), tr. di A.

Tilgher, rivista da F. Costa, Roma-Bari, Laterza 1993, p. 91. 50 GA I/3, p. 144.

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L’unica immagine di Dio autentica è la vita, che non è mai

figurata dal soggetto, ma anzi consente ogni figurare. Il concetto e l’io sono invece manifestazioni di Dio, che figurano e si figurano reciprocamente. Questa può essere in sintesi la dottrina della verità che si situa a fondamento della scientia prima del sistema, la dottrina morale.

4 – La comunità

Con queste parole Fichte inizia nella Etica 1812 la trattazione

del tema della comunità:

L’empiria è l’esposizione della figuratività (Bildlichkeit), della forma del vedere in generale in un oggetto in generale, da parte di un [/] soggetto in generale. Con questo si è conclusa. Per questo si richiede solo un soggetto. Come si trova quindi esso nell’empiria? Si trova come una somma di soggetti (Summe von Subjekten), di io, una comunità di questi; questo sarà per ciascuno empiricamente, assolutamente e fattualmente nel vedere fattuale, senza alcun intervento della libertà, e nessuno lo può modificare! D’ora innanzi il fatto dell’empiria sopravanza il concetto di questa: si mostra che essa non solo rende visibile il vedere come deve secondo il suo concetto, ma anche un assolutamente visibile, ciò è presente ed è assolutamente nella forma del vedere: una comunità di io (Geminde von Ichen). In questa comunità il sovraempirico, un vedere, non è vuoto, ma è reale con un contenuto assoluto, e nei fatti è rappresentato chiaramente agli occhi di tutti; deve vederlo proprio ognuno: che ognuno comprenda come da questo abbiamo sviluppato l’intelletto e il concetto, questa è un’altra cosa. Ogni individuo ha ora un doppio significato (doppelte Bedeutung). È in parte puramente empirico, esposizione della forma vuota di un vedere. In questo senso è a tutti gli altri assolutamente uguale, in quanto la mera forma del vedere è ovunque uguale a sé;

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questo sarebbe sufficiente nell’unità. In parte è qualcosa in sé, un membro della comunità.51

La comunità è la connessione dell’io con il soprasensibile, così come si dispiega nella storia52. Questo primato epistemologico si configura quindi anche come un primato ontologico, una anteriorità costitutiva. L’io si trova nell’empiria come somma, come un molteplice quantitativo di altri io che esso riconosce come suoi simili. Nella Dottrina della scienza 1801/02, come si è già ricordato, la quantitabilità è la manifestazione della libertà: la molteplicità possibile è quindi la possibilità della libertà. Nell’Etica che esaminiamo la categoria di quantità viene definita originariamente come molteplice, e questo realmente, e non solo come una possibilità: essa ha una originaria concretizzazione ‘praticoteoretica’ nella molteplicità degli io. Questa molteplicità concreta rende l’empiria anteriore, per la prima volta, al proprio concetto, poiché l’empiria si mostra già articolata in soggetti che operano, che sono indirizzati verso un fine. Il concetto secondo il quale si ordina la comunità viene trovato dall’io unitamente alla comunità, nel suo situarsi nell’empiria. L’empiria è quindi anteriore al proprio concetto, nel senso che la scelta di situarsi nel punto di vista empirico consente di vedere il concetto dell’empiria medesima, che si mostra come comunità, e non il contrario. Il concetto fonda il mondo, ma nell’analisi fichtiana il trovarsi nell’empiria comunitaria precede il riconoscimento del concetto stesso. Nel procedere genetico-discendente della prima parte si era identificato il molteplice movendo dall’unico punto di partenza del concetto che fonda il mondo. Nel procedere analitico ascendente della seconda parte il molteplice viene dato come somma di io: questo procedimento ricalca, invertendo la disposizione delle parti, quello della Dottrina della scienza 1804-II: la successione tra momento analitico e momento genetico viene infatti invertita, poiché si

51 GA II/13, pp. 352-3. 52 Sul rapporto tra la comunità e la storia rimando a I.RADRIZZANI, Le

fondément de la communauté humaine chez Fichte, in “Revue de Théologie et de Philosophie”, 119 (1987), pp. 195-216.

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comincia con l’esposizione genetica del dispiegarsi della causalità del concetto, quindi, cominciando con la comunità, si risale analiticamente verso l’unico principio della dottrina morale. L’Etica 1812 è l’unica opera della tarda produzione di Fichte in cui sono ancora presenti entrambi, poiché nelle ultime esposizioni della dottrina della scienza il momento analitico-ascendente è dato ormai per presupposto. La comunità è, al principio di questa seconda parte dell’Etica, l’assolutamente visibile, poiché non ha bisogno del concetto, anzi ne consente la conoscenza da parte del soggetto, come si è già detto. È quindi chiara l’antecedenza dell’empirico nei confronti del concetto, o, come la si esprimerà nelle pagine del Diario III, l’anteriorità dell’intelligibilità (Verständlichkeit), della capacità pre-concettuale che si dà nella manifestazione in generale, nei confronti dell’intellezione attuale e concettuale.

Il concetto, lo si ribadisce, è il fondamento della attualità del mondo presente nella sua forma disposta dalle priorità etiche dell’io morale. La visibilità è la possibilità, infinita nelle sue molteplici declinazioni, prima che la scelta morale venga effettuata. La comunità è comunque l’unica possibilità che consente la realtà del soggetto, quindi è una significativa ed unica eccezione a quanto si è appena espresso: per il principio organizzatore della realtà il cominciamento non può essere simile a quello delle altre possibili ripartizioni filosofiche della realtà: l’io si mostra a se stesso non come uno, ma come originariamente molti, e da qui comincia il suo proprio percorso di individuazione, mediato necessariamente dalle scelte morali. Questa mediazione è una realtà necessaria, ma non è invece determinata quale di queste disposizioni verrà scelta dal soggetto stesso, che liberamente sceglie di essere (morale) o di non essere (morale). Se l’io si trovasse da subito come uno, questo indicherebbe che esso possiede già il concetto, cioè che ne ha già intrapreso il processo individuante, quindi l’io avrebbe già compiuto il processo di incarnazione del concetto. Prima del concetto infatti non vi è l’io, vi è solo la molteplicità intesa come somma, cioè come un risultato ormai empiricamente inscindibile, un conglomerato informe che solo la determinazione concettuale, quindi etica, può trasformare in compiuta individuazione. L’intero è la vita nella sua realtà, quindi in opposizione alla mera empiria. La considerazione

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empirica si ferma solo alla forma, non l’interno qualitativo, ciò che vi è di più proprio nella comunità.

Di questa comunità è finora conosciuto solo il suo vuoto essere formale: in nessun caso il suo essere interno e qualitativo, che si può rendere visibile a sé solo in una vita, poiché solo la vita è la forma fondamentale di ogni visibilità. Ma è chiaro che questa comunità è un intero organico costituito da tali individui, ogni individuo può aver parte a tutto l’essere e la vita della comunità, in cui semplicemente nessun altro gli è uguale. Il suo carattere individuale: quindi, come l’intero, così ogni individuo è un vero reale (quantomeno in opposizione alla vuota empiria). Vita reale fuori da sé medesima: questo potrebbe forse allora manifestarsi, come noi la vogliamo ulteriormente indagare.53

Indagare la vita reale che si esterna, è scoprire l’individuo non sotto il presupposto della relazione ad altri, ma come assoluto potenzialità di questa relazione, a partire dal concetto incarnato. È questo il punto di partenza per il sistema dello spirito che si configura in maniera originale nella dottrina della scienza, come ha di recente ben mostrato nel suo eccellente saggio Radrizzani54. Si può forse istituire un confronto e una ben netta differenza con il sistema dello spirito hegeliano, che è in se stesso altro da sé e superandosi si ritrova nella ben nota sintesi pluriforme. L’altro in Fichte non può invece mai essere ridotto al medesimo poiché il sé medesimo necessita di un altro per poter giungere a se stesso. In tal maniera lo spirito può solo avvicinarsi all’idea attraverso un infinito cammino di approssimazione. In questo non può sfuggire la vicinanza della dottrina della scienza all’approccio di Levinas. L’alternativa tra Fichte e Levinas è stata peraltro indagata da Olivetti

53 GA II/13, p. 353. 54 I. RADRIZZANI, Der Geist in der Philosophie Fichtes, in E. Düsing e H.-

D. Klein (a cura di), Geist und Psyche. Klassische Modelle von Platon bis Freud und Damasio. Würzburg 2008, pp. 161-174. Radrizzani sta curando una revisione del testo dell’Etica 1812 che vedrà la luce nel 2009.

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in una delle più efficaci pagine di Analogia del soggetto. Nel rovesciamento della soggettività in soggezione (il soggetto non è originariamente pensiero; il soggetto non è originariamente il nominativo grammaticale, ma irrimediabilmente si comprende come l’accusativo) si realizza la neutralizzazione «di ogni ‘stanza’ della pretesa sostanza»55. Ciò che sta sotto è anche ciò che non può rappresentare il primum, il fondamento non può venir prima ma è sempre posteriorità. In ogni caso il processo di avvicinamento infinito non credo debba venir inteso alla maniera illuministica, alla Lessing per intenderci. Sovviene una rappresentazione molto in uso nelle cattedrali gotiche di Francia, il cui esempio più celebre si ha a Chartres: il labirinto cristiano: proprio quando si crede di essere più vicini, è allora che ci si allontana dalla meta, ma nelle volute e nei ritorni del labirinto si gira intorno al centro, alla meta che è anche infinitamente vicina.

Con la trattazione della comunità comincia la fase analitico-ascensionale della Dottrina morale, che, si può dire, attua una epochè del concetto per indurre, avendo presenti le deduzioni della prima parte, le condizioni di concretizzazione dell’unico principio morale.

L’io deve potersi manifestare come autonomo e in quanto riempie il tempo mediante se stesso, è un principio autonomo di rappresentazioni oggettive: questo prima che la vita del concetto abbia inizio in lui, perché questa deve manifestarsi come iniziante in qualche momento nel tempo.

Quindi l’io deve apparire come un principio autonomo della manifestazione oggettiva, per sé, mediante sé, da sé. L’uomo deve avere una causalità, indipendentemente dalla moralità, deve poter vivere ed operare immoralmente, altrimenti non potrebbe essere morale.

2) Da dove viene tale causalità nel sistema della manifestazione a noi noto? Nel sapere che è assolutamente, nell’empirico, deve apparire qualcosa che non si lascia comprendere dal concetto dell’empiria, ovvero che in essa

55 M.M. OLIVETTI, Analogia del soggetto, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 75

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venga raffigurata la mera pura e vuota Figuratività: che perciò deve essere pensato come qualcosa di sovraempirico, come un visibile in sé e non come mera visibilità. Una tale entità è la comunità degli individui e ogni membro di questa, quindi per la rappresentazione del mero vedere formale sarebbe sufficiente un solo soggetto.56

Deve venire ammessa una causalità dell’io indipendente dalla moralità, quindi anche dal concetto, perché possa darsi moralità: questa affermazione paradossale è giustificata dall’inversione della successione di momento genetico e analitico nell’opera in esame. Il concetto è stato analizzato nel suo dispiegarsi, e solo dopo si dispiega la deduzione della sua unicità: questa è la miglior garanzia epistemologica, seppur difficile a cogliersi, della necessaria differenza metodica tra la dottrina della scienza superiore (esposizione del 1804-II) e la dottrina morale superiore. Quest’ultima deve includere la necessità della libera scelta morale, e tale paradosso viene espresso con l’inversione del movimento caratteristico della più completa tra le esposizioni della dottrina della scienza (la WL 1804-II). La necessità della libertà non può essere esplicata nel momento sintetico, se non come libertà del concetto, il quale costituisce il mondo morale come un mondo di esseri liberi. Questi vengono posti in interazione tra loro nella comunità, che dinamicamente renderà possibile il risalimento all’unicità del concetto originario. Mentre la vita del concetto inizia nel tempo, la causalità dell’io è già da sempre esistita, come figuratività. La causalità dell’io può essere indipendente dalla causalità del concetto: la causalità del concetto produce la visibilità, la causalità dell’io produce il visibile concreto. La causalità del concetto produce moralmente la totalità della possibilità del vedere, mentre la causalità dell’io produce il reale visibile.

Vi è quindi un paradosso: la produzione del possibile richiede la moralità e il concetto, mentre la realtà della causalità dell’io deve venire pensata anche come indipendente dal concetto. Il possibile si mostra come condizionato, come sottoposto alla condizione che ciò

56 GA II,13,353-4.

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che può venire all’esistenza sia prodotto dell’agire doxico-pratico57; il reale è invece incondizionato, non è sottoposto alla condizione della moralità, in quanto per il semplice fatto di esistere è prodotto doxico dell’attività morale: si ha quindi una vera e propria inversione della gerarchia delle categorie modali. La possibile spiegazione è questa: il momento deduttivo-sintetico ha ormai esaurito la totalità della possibilità, mentre nel risalire analitico il punto di partenza è già la realtà, costituita all’interno delle infinite possibilità attraverso una scelta: in questo spazio di realtà si pone il soggetto come sorgente della realtà, anteriore al concetto. Quindi la realtà si costituisce prima del concetto, ma la realtà già presuppone la visibilità in generale, nonché l’intelligibilità (discussa nel Diario III). Quindi il reale si situa nello spazio del possibile e la fenomenologia della causalità reale dell’io è comunque resa possibile solo dall’anteriore deduzione del mondo fenomenico a partire dal concetto. La causalità dell’io è visibile nel movimento analitico, che invece occulta la causalità del concetto: solo il movimento sintetico della prima parte della dottrina morale, la deduzione genetica del mondo dal concetto, può rendere visibile la causalità assoluta del concetto.

La causalità dell’io produce ciò che nel sapere si mostra come il meramente empirico, non sottoposto anteriormente alle leggi della determinazione e tuttavia visibile: la causalità dell’io produce quindi la comunità, che non è determinata dall’io, ma che consente la determinazione dell’io medesimo. Non vi è determinazione reciproca tra la comunità è l’io, ma solo una determinazione univoca che la comunità esercita sull’io medesimo. L’io, si può dire, rende visibile la comunità, ma l’io si rende visibile a se stesso solo nella comunità, poiché nella comunità solo l’io si mostra come persona, cioè come

57 Tale termine viene sovente utilizzato da Lauth, cfr. ad esempio R.

LAUTH, Con Fichte, oltre Fichte, cit., p. 56. Al tema della concezione doxica della realtà nella Dottrina della scienza 1794-95 è dedicato E. FUCHS, Wirklichkeit als Aufgabe. Die doxische Konstitutiva der theoretischen Konzeption des faktischen Gegenstandes in J. G. .Fichtes “Gundlage der gesammten Wissenschaftslehre” von 1794-95, Diss., Monaco, 1973.

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soggetto morale capace di scelte anche contrarie alla moralità, non ancora determinato alla moralità. Nella figuratività l’io si mostra cioè come un conglomerato di possibilità, e questo definisce che cosa sia la figuratività nella dottrina morale: la figuratività è la totalità delle possibilità, l’insieme del visibile possibile, che dovrà essere concretizzato solo successivamente alla scelta morale per l’individuo, ma viene già concretizzato per la somma degli individui nella comunità. L’individualità della comunità nel suo insieme è quindi indipendente dall’individualità del singolo io: nella realtà la comunità è anteriore all’individuo suddetto; nel reame della possibilità, dischiuso geneticamente dal concetto, è l’individuo a incarnare il concetto, senza alcun riferimento all’interpersonalità che non è stata ancora costituita, e non sarà costituita se non nel successivo momento analitico. La comunità di fatto è quindi l’unica entità del mondo che non è compresa dal concetto. Essa è l’equivalente epistemologico della Vita nei confronti del sapere, quale viene descritta nella Dottrina della scienza 1804-II. La comunità è nella dottrina morale superiore il molteplice vivente che appare assolutamente separato dall’unicità del concetto, così come la vita esprime nella dottrina della scienza il molteplice che si oppone all’unicità del sapere con uno hiatus irrationalis. Vi è quindi una inclusione nella dottrina morale superiore del ‘principio eterologico’ definito da Gurwitsch in riferimento alla dottrina della scienza58. Essa è l’unica figurazione che è manifestamente sovraempirica, e al tempo stesso costitutiva dell’empiria preconcettuale. La comunità è, in questa tensione originata dal tentativo di una sua comprensione epistemologica, una individualità parallela a quella dell’individuo, individualità collettiva che rende possibile il darsi della persona in

58 In Gurwitsch il principio eterologico ha come correlato l’infinità del

compito della conoscenza, come si esercita sul molteplice mai pienamente compreso della vita: cfr. G. GURWITSCH, Fichtes System der konkreten Ethik, cit., p. 36. Nella dottrina morale la comunità, mai compresa dal concetto, si comprende nei suoi elementi costitutivi, gli individui che conoscono di essere determinati dal concetto, che a sua volte viene analizzato partendo dalla comunità, dopo essere stato definito come principio della sintesi nella prima parte della Dottrina morale.

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generale. L’individuo singolo si costituisce invece come tale solo a seguito della risposta morale. L’io è principio del reale quando si è riconosciuto come io morale, mentre per la comunità esso è solo un ente, un qualcosa di visibile: esso sa di vedere, e quindi si differenzia da tutti gli altri enti per la sua figuratività.

È impossibile pensare l’esistenza del concetto morale senza la propria vita, come si è dimostrato per il singolo nella prima parte della dottrina morale: la prospettiva genetica della prima parte di questa rende necessario mostrare la vita del concetto successivamente all’incarnazione del concetto stesso, facendo astrazione dal tempo reale. Nella prospettiva ascendente che si segue nella trattazione della comunità si può invece mostrare come la vita sia inscindibile dal concetto medesimo. La vita è la forza del concetto, forza che determina la vita stessa, dividendola in scansioni temporali ciascuna orientata secondo una finalità. Il contenuto della vita si mostra infatti come finalità, e non vi è più la possibilità della morte, divenuta concreta negli individui portati ad esempio. La volontà non può quindi più essere arbitrio, cioè si è manifestata a sé come tendente a uno scopo morale, che riceve nella prospettiva analitica il proprio contenuto. Si può infatti a questo punto affermare che la prospettiva analitica risale verso un principio che diviene sempre più chiaro a se stesso, come lo scopo dell’instaurazione della moralità in ogni membro della comunità. Si parte dal concetto, e quindi si descrive la fenomenologia della causalità del concetto nel mondo a partire dall’individuo nel quale si è incarnato. Quindi la comunità si scopre come antecedente ad ogni individuo59: da qui

59 La comunità può mostrare la sua anteriorità in modo eminente nel suo

poter essere il punto di partenza per una prova intersoggettiva dell’esistenza di Dio. Questa prova viene proposta da Olivetti, che la considera come la prova ‘eticologica’ dell’esistenza di Dio, quindi una prova che sfugge alle obiezioni di Kant e rifonda il modo di pensare il Dio trascendente ed immanente, secondo una prospettiva ben prossima a quella della dottrina morale superiore. Si vedano al riguardo, oltre al già citato Analogia del soggetto (in particolare p. 135), M. M. OLIVETTI, Teologia e Analogia Subjecti, in Colloquim Philosophicum, Annali Dip. di filosofia, A.A. 1996-1997, L. S. Olschki Editore, Firenze 1998, pp.

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parte un ascendere analitico che accompagna la finalità concreta della moralità, e la finalità suddetta giunge, al termine della dottrina morale, a comprendere se stessa come riempita dallo scopo dell’instaurazione concreta e libera della moralità in ogni individuo. Essa non vuole secondo il concetto, in quanto questi due elementi non sono più separati nella fase ascendente-pratica della dottrina morale: la comunità vuole semplicemente, in quanto conosce il proprio fine che oltrepassa la prospettiva del singolo, rispetto al quale si poteva operare la suddivisione genetica (non temporale) tra momento dell’incarnazione del concetto e conseguente volontà. La comunità viene condotta attraverso l’incarnazione del concetto a riconoscere tramite la coscienza della propria destinazione che la propria volontà è indirizzata a farla divenire ciò che già è: al riguardo si può far riferimento a quanto viene afferma to nella Dottrina della scienza nova methodo:

Lo scopo complessivo dell’educazione dell’uomo è condurlo a fare tramite il lavoro ciò che era prima senza lavoro.60

Lo scopo dell’educazione superiore è quindi, in un procedere che si potrebbe definire anamnestico, nel senso platonico del termine, ricondurre il soggetto (singolo o, da una prospettiva superiore, comunitario) al proprio essere tramite l’agire. L’essere originario, cioè l’essenza morale dell’individuo è quindi ormai inattingibile tramite la semplice attività teoretica: solo nell’agire si configura la possibilità di definire i costituenti ontologici del mondo, nonché di comprendere l’immortalità dell’io etico61. L’agire

275-283; Id., L’argument ontologique et la philosophie contemporaine in L’argomento ontologico, “Archivio di filosofia”, n. 58, 1990.

60 GA IV/3, p. 326. 61 Al riguardo è sempre chiarificatrice la lettera della Dottrina della scienza

nova methodo: «La questione concernente l’obiettività del mondo è quindi altrettanto interessante che quella che riguarda l’oggettività della divinità oppure dell’immortalità, e se non si risponde alla prima questione, allora non si può rispondere neanche alle ultime due.» GA IV/3, p. 324.

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moralmente orientato secondo uno scopo concettualizzato è la possibilità teoretica e la necessità pratica di attingere la giustificazione dell’esistenza dell’individuo62. La possibilità è infatti il dominio del sapere teoretico, la necessità è il territorio della scienza pratica: il necessario viene esposto nella dottrina morale superiore, in quanto descrizione dello scopo, che è anche l’originario, cui si orienta l’azione. Il possibile è la globalità della manifestazione, il dispiegarsi dell’assoluto dinanzi all’umana Verständlichkeit, dal quale si configura la dottrina della scienza.

Dal punto di vista della serie reale della manifestazione, si può affermare che la comunità si forma prima del concetto e conosce unitariamente la propria volontà e il concetto, nella ricerca dell’unico scopo: non le si può presentare altro scopo che la moralità di tutti, potremmo dire quindi che le si manifesta in tutta chiarezza lo scopo dell’incarnazione del concetto in ciascuno dei membri della comunità medesima.

Propriamente si potrebbe dire che solo comprendendosi nella comunità l’individuo diviene io: non a caso Fichte enuncia prima il concetto del grande io universale. Questo io-comunità è l’immagine di Dio, l’unica entità indipendente nella manifestazione, ciò che è articolato, per cui appare il dovere superiore e non la semplice obbligazione morale: questo è il punto di passaggio che a Kant doveva restare ignoto. Nella tesi che ho cercato di supportare la 62 Richiamo solo cursoriamente, per indicare quanto questo problema sia

uno tra i refrain della cultura filosofica occidentale, la differente considerazione della teologia che portò Duns Scoto a dissentire da Tommaso d’Aquino: per Scoto la teologia non è una scienza speculativa, ma è la scienza sommamente pratica, in quanto sapere necessario all’agire, totalità di ciò che bisogna sapere, fondamento determinante della capacità salvifica: più in generale è proprio il fondamento filosofico della determinazione ad essere un tema comune tra la prospettiva scotista e quella fichtiana. Al riguardo mi permetto di rimandare a G. COGLIANDRO, Duns Scoto e J. G. Fichte. La prospettiva scotista e la dottrina della scienza di fronte al problema della determinazione, in Giovanni Duns Scoto. Studi e ricerche nel VII Centenario della sua morte, a cura di M. Carbaio Nunez, Antonianum, Roma 2008, pp. 279-318.

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dottrina morale superiore procede secondo lo schematismo dell’assoluto. I tre schemi sono la base della suddivisione possibile della materia della Etica 1812:

Schema 1: concetto fondamento del mondo = manifestazione

dell’assoluto che invita l’io al sapere assoluto. Schema 2: io puro, egoità formale, che si concretizza nel

volere in interazione con la comunità – l’io comprende di conoscere l’assoluto.

Schema 3: io individuale, e suo rapporto alla comunità degli io – l’io si conosce come invitato a comprendere l’assoluto.

Il figurare (Bilden) esposto nella Dottrina della scienza del

1812 sintetizza la risposta praticoteoretica al duplice invito che l’assoluto rivolge all’io – sapere. L’immagine infatti è il nome che riceve il sapere nel suo rispondere all’invito, senza considerare il suo essere identico con il soggetto finito. La comunità che diviene soggetto morale trascendentale è la comunità all’interno della quale l’io comprende che la totalità del proprio sapere procede dall’invito divino: il sapere non è mai neutro, ma orienta allo scopo il soggetto conoscente. In questo senso assumono rilievo la metafora fichtiana contenuta nell’Etica 1812, in cui i filosofi sono caratterizzati come il «pubblico scientifico nel grembo (Schooße) della Chiesa » (GA II/13, p. 385). I filosofi possono quindi essere definiti come i figli della comunità per eccellenza, comunità che trova nel pubblico scientifico la sua forza morale e la sua sottigliezza indagante. Sono essi i figli, i custodi e gli eredi della comunità in generale, in quanto sono i primi a comprendere e a costituire praticamente la comunità stessa, in particolare nella sua particolarissima forma di Chiesa, nella sua forma visibile e nella sue invisibili esplicazioni iniziatiche. Quindi possiamo giungere ad affermare che proprio nella attività praticoteoretica del filosofare, attività che è originaria per l’io ma è

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al tempo stesso sempre la risposta al’invito assoluto e all’invito storico, l’io si scopre originariamente figlio63.

63 In limine dedico questo scritto alla memoria di Reinhard Lauth e Marco

Maria Olivetti, due maestri che in maniera molto diversa mi hanno accompagnato per le strade impervie della ricerca e dell’amore di quella Sofia che spero adesso contemplino.

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L’EFORATO IN JOHANN GOTTLIEB FICHTE

MARCO RAMPAZZO BAZZAN

Abstract

What did Fichte say about democracy? How does Fichte interprete the political solutions of Hobbes; Rousseau or Kant? This article seeks to explain the meanings and the rule of the most important element of the constitution in Fichtes theory of right: the éphorat. Why does Fichte use this old institution? What does he want to? Thinking about éphorat means reflecting on the control problem for the modern concept of sovereignty by going through the logic of the modern natural right and by studying the origins of public opinion.

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1 – Kant e l’Eforato

Nel 1796 Fichte chiude l’introduzione al suo Das Naturrecht

nach den Principien der Wissenschaftslehre chiedendo pubblicamente a Kant un giudizio sull’eforato1. A questo istituto Fichte aveva fatto pure menzione nella sua recensione2 allo scritto Zum ewigen Frieden. Commentandone il primo articolo definitivo Fichte aveva affermato: «dovrebbe essere posto al fianco del potere esecutivo un’altra magistratura, l’eforato»3: un istituto che sia in grado, in caso di pericolo e sotto la propria piena responsabilità, di chiamare il popolo a riunirsi in comunità. Agli Efori aveva pure accennato tre anni prima nel Beitrag zur Berechtigung der Urtheile des Publikums über die französische Revolution, allorquando, nel quinto capitolo, trattando dei diritti ereditari, aveva richiamato alla memoria la legislazione di Licurgo a Sparta che li prevedeva4.

1 Secondo quanto affermato dai curatori dell’edizione critica (GA), la

prima parte del Diritto Naturale venne pubblicata nel marzo 1796 dall’editore Christian Gabler e compare nel terzo volume della prima serie, dedicata agli scritti editi in vita da Fichte (GA I/3, pp. 313-460). La seconda parte dell’opera che tratta dell’ambito applicativo della dottrina del diritto uscì la pentecoste del 1797 sempre per lo stesso editore e compare nel quarto volume della stessa serie (GA I/4, pp. 5-165). La traduzione italiana (J. G. FICHTE, Diritto Naturale, Roma-Bari, Laterza, 1994) è stata curata da L. FONNESU.

2 Questa recensione venne pubblicata senza indicazione del recensente nel primo quaderno del quarto volume del Philosophischen Journals einer Gesellschaft Teutscher Gelehrten edito da Niethammer ora si trova in GA I/3, pp. 221-228.

3 GA I/3, p. 226. 4 GA I/1, p. 327.

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L’opinione di Kant a proposito purtroppo non ci è nota5. E la questione non è affatto marginale perché nel 1796 Fichte presenta l’Eforato come «das wesentliche Bestandtheil jeder Constitution»6. Per comprendere che cosa potesse pensare Kant al riguardo non resta che considerare l’argomento del primo articolo definitivo della Pace perpetua, cioè il repubblicanesimo7. In questo articolo Kant distingue il governo dispotico da quello repubblicano in base al principio della divisione dei poteri. Definisce, più precisamente, come repubblicanesimo «il principio politico della separazione del potere esecutivo (il governo) dal potere legislativo»; e lo contrappone al ‘dispotismo’ che esprime invece «il principio politico dell’autonoma esecuzione, da parte dello Stato, di leggi che lo Stato stesso ha promulgato», ossia «la volontà pubblica che viene esercitata dal sovrano come sua volontà privata»8. È in questa cornice che Kant vaglia le tre forme classiche di governo, monarchia, aristocrazia e democrazia, giudicando quest’ultima «necessariamente un dispotismo» perché tutti decidono su o contro uno. Si tratta di un modo di governare che porta la volontà generale a contraddire sia se stessa, che la libertà. In summa: Kant sostiene il principio rappresentativo tanto da giudicare la democrazia diretta addirittura una Unform.

È a questa altezza che la sua filosofia giuridico-politica sembra aderire con più evidenza al paradigma moderno del giusnaturalismo, che ha il suo primo cosciente teorico in Thomas Hobbes. Nel XVII capitolo del suo Leviatano il filosofo inglese aveva spiegato come sia il sovrano (creato dal patto) a modellare le

5 Cfr. a proposito F. ONCINA COVES Para la paz perpetua de Kant y el

fundamento del derecho naturale de Fichte: encuentros y desencuentros in Daimon 9, 1994, pp. 313-339.

6 GA I/3, p. 328 «l’elemento più essenziale di ogni costituzione» (tr. it. p. 15).

7 «In ogni Stato la costituzione civile deve essere repubblicana» I. KANT, Ak, VIII, pp. 349-353 (tr. it pp. 54 e ss.).

8 Ak., VIII, p. 352 (tr. it. p. 57).

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volontà della moltitudine e renderla un soggetto: la civitas9. Perché, come aveva chiarito in precedenza:

Etiam plurium hominum fit una persona, quando repræsentatur ab uno qui habet a singulis authoritatem. Non enim repræsentati, sed repræsentantis unitas est, quæ personam facit esse unam; neque unitas alio modo in multitudine intelligi potest.10

La scienza moderna del diritto naturale si occupa della forma politica e della neutralizzazione11di quel conflitto, anche solo

9 Nella versione latina «Civitas persona una est, cujus actionum homines

magno numero, per pacta mutua uniuscujusque cum unoquoque, fecerunt se authores; eo fine, ut potentia omnium arbitrio suo ad pacem et communem defensionem uteretur» (T. HOBBES [Willam Molesworth curatore] Opera Philosophica omnia III, Thoemmes Press, Bristol, 1999 [d’ora in poi Leviathan Vers. Lat], p. 131). O nella traduzione inglese «The essence of commenwealth» ist «one person, of whose acts a great multitude, by mutual covenants one with another, have made themselves every one the author, to the end he may use the strength and means of them all, as he shall think expedient, for their peace and common defence» (T. HOBBES Leviathan or the matter, form, and power of a commonwealth ecclesiastical and civil in The collected works of Thomas Hobbes Collected and Edited by Sir Willam Molesworth, London, Routledge/ Thoemmes Press, 1992, Vol III [d´ora in poi Leviathan Vers. Ingl], p. 158) ; tr. it.: Thomas Hobbes, Leviatano, Roma-Bari, Laterza, p. 143.

10 Leviathan cap. XIV Vers. Lat, p. 125 («A multitude of men, are made one person, when they are by one man, or one person, represented; so that it be done with the consent of every one of that multitude in particular. For it is the unity of the representer, not the unity of the represented that maketh the person one» Vers. Ingl. p. 151; tr. it p. 134).

11 Neutralizzazione è un termine utilizzato da Carl Schmitt in un discorso tenuto al Congresso della Federazione internazionale della cultura dal titolo Das Zeitalter der Neutralisierungen und Entpolitisierungen pubblicato prima nella Europäischen Revue nel 1929 e poi nella terza edizione (1932) di Der Begriff des Politischen, München Leipzig, Verlag von Duncker & Humblot, 1932, pp. 66-81. È stato tradotto in italiano sotto il titolo L’epoca delle neutralizzazioni e spoliticizzazioni ed è

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potenziale, tra volontà diverse mediante un’istanza terza che sia giudice tra loro, e che sia capace di far valere il proprio giudizio con la forza12. A differenza di Hobbes però- sostiene Giuseppe Duso- «il rappresentante non è qui [in Kant] immediatamente e in senso pieno il sovrano, ma rappresenta la sovranità del popolo»13. In altre parole: Kant vuole coniugare la sovranità del popolo teorizzata da Rousseau con il principio rappresentativo formulato da Hobbes. Per lui la volontà generale (o della comunità), vale a dire l’unità politica, può manifestarsi solo nella misura in cui viene rappresentata.

Fichte sembra condividere esclusivamente la parte analitica di questo giudizio. Si esprime infatti, in pieno accordo con Kant, contro la forma di governo democratica che definisce semplicemente inammissibile14. Per lui la costituzione democratica è:

la più insicura di tutte quelle che potrebbero esistere, perché non solo si dovrebbero temere continuamente le violenze di tutti, come se si fosse fuori dallo Stato, ma di quando in quando, ci sarebbe da temere anche la furia cieca di una massa eccitata, che procederebbe ingiustamente in nome della legge.15

Anche Fichte sembra pertanto condividere l’argomento secondo il quale legislatore e parte in causa, giudice e parte, non

contenuto nel volume curato da G. MIGLIO/P. SCHIERA, Le Categorie del Politico, Bologna, Il Mulino, pp. 167-183. Il processo di successive neutralizzazioni e spoliticizzazioni interessa lo spostamento del centro del conflitto politico- per Schmitt discriminante tra amico (Freund) e nemico (Feind) – che caratterizza ai suoi occhi la storia dello Stato moderno.

12 G. DUSO, Introduzione: Patto sociale e forma politica in G. DUSO (a cura di) Il contratto sociale nella filosofia politica moderna Milano, Franco Angeli, 19932, pp. 7-49.

13 G. DUSO, Logiche e aporie della rappresentanza tra Kant e Fichte in Filosofia politica I, 1987, p. 37.

14 GA I/4, p. 81 (tr. it. p. 250). 15 GA I/3, p. 439 (tr. it. p. 142).

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possono mai coincidere. Un’impossibilità che Kant aveva paragonato alla differenza originaria tra le due premesse che permettono l’esistenza del sillogismo: le premesse universale e particolare che mai possono coincidere in una stessa proposizione. Come mai, del resto, lo possono essere neppure volontà generale e volontà di tutti. E in questo Kant e Fichte rimangono entrambi fedeli alla lezione di Rousseau che tanto si era prodigato a distinguerle16.

La posizione di Fichte differisce da quella kantiana, invece, per quanto concerne l’indicazione dei modi in cui ci si può preservare dal dispotismo che definisce, analogamente a Kant, come quell’ordinamento «in cui gli amministratori della forza comune non hanno nessuna responsabilità»17. Per Fichte, la separazione dei poteri, in particolare quella tra i poteri esecutivo e legislativo, non garantisce in nessun modo dalla degenerazione nel dispotismo. A essere diviso non può, e non deve, essere il potere sovrano secondo le sue facoltà. Per Fichte si deve piuttosto separare «il potere esecutivo» – che comprende in sé il potere giudiziario e quello esecutivo in senso stretto- dal «diritto di sorvegliare e di giudicare come il potere venga amministrato». Il primo deve essere rappresentato, affidato, cioè trasmesso (übertragen) a persone determinate; mentre il secondo dovrebbe rimanere in mano alla comunità. Sull’indivisibilità dei poteri Fichte propone un argomento inconfutabile basato sul principio della sovranità moderna: Se vi è un potere che decide sul potere sovrano, esso è tout court sovrano. 16 GA I/3 nota p. 400 (tr. it. nota a p. 95) «È la volontè générale di

Rousseau, la cui differenza dalla volontè de tous non è affatto inconcepibile». Cfr.«Il y a souvent bien de la différence entre la volontè de tous et la volontè générale; celle-ci ne regarde qu’à l’interet commun, l’autre regarde à l’interet privè, et n’est qu’une somme de volontés particuliers». J.-J. ROUSSEAU, Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1964, vol. III Du Contrat social [d’ora in poi CS], Lb. II. cap. III p. 371.

Sul rapporto tra Kant Fichte e Rousseau si veda tra gli altri G. GURWITSCH, Kant und Fichte als Rousseau Interpreten contenuto in Kant-Studien, 1922, pp. 138-164. In particolare sulla volontà generale p. 160.

17 GA I/3, p. 400.

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All’interno dello Stato il potere che rende vigenti le delibere del potere legislativo e le sentenze del giudiziario è quello esecutivo. Il potere esecutivo è pertanto sovrano; lo è perché è detentore di quella forza (del monopolio legittimo della forza suggerirebbe Weber) che sola può garantire il rispetto di ogni sua delibera. Il diritto di sorveglianza e di giudizio sull’operato dei magistrati è, invece, la facoltà propria dell’Eforato al quale spetta pertanto il compito di controllare e vigilare che le delibere del sovrano siano ispirate dalla volontà generale, e non dalla sua volontà privata. Come noto Hobbes aveva dichiarato questo problema insolubile e si era affidato al principio autorictas, non veritas facit legem. Il problema del controllo risultava semplicemente insolubile all’interno del suo sistema. Ma prima di analizzare i tratti definitori della visione dell’eforato da parte di Fichte, pare opportuno vagliarne le possibili fonti, cioè i luoghi della storia del pensiero politico che possono averlo ispirato nella sua elaborazione.

2 – Sulle origini dell’eforato: tribunato o

eforato?

L’eforato è originariamente un istituto di saggi che fa parte

delle istituzioni di molte città doriche tra le quali Sparta. Sulle sue origini non vi è accordo già tra gli antichi. Vi è chi lo fa risalire a Licurgo (IX- VII sec. a.c.), e chi al re Teopompo (750 a.c.). Nell’antichità gli efori avevano la funzione di selezionare i cittadini per la guerra, di interpretare gli oracoli e di occuparsi della legislazione civile. Proprio quest’ultima funzione ne fece crescere l’importanza all’interno delle città tanto da rendere gli efori una figura centrale sia nei rapporti tra re e cittadini, che nelle relazioni esterne. A Sparta gli efori venivano eletti per acclamazione. L’Eforato fu abolito nel 227 a.C. da Cleomene; fu restaurato poi nel 221 a.C. per scomparire definitivamente nel II secolo d.C. Nella tradizione l’Eforato ha sempre rappresentato la comunità di fronte al re, e quindi, ha costituito un’istanza capace di opporsi o di resistere ai governanti.

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Nel suo Beitrag zur Berichtigung der Urteile über die Französische Revolution Fichte aveva sostenuto il diritto di un popolo a cambiare la propria costituzione. Sembrava insomma voler fondare razionalmente quel diritto di resistenza tanto importante per la tradizione monarcomaca fino ad Althusius18. Anche per questa ragione la maggior parte degli interpreti ha rintracciato una possibile fonte d’ispirazione dell’Eforato fichtiano nella Politica methodice digesta ataque exemplis sacris et profanis illustrata19. Ad interrogarsi esplicitamente sulla questione è stato Claudio Cesa nella seconda delle sue Noterelle sul pensiero politico di Fichte20. Per l’interprete sarebbero alcune assonanze di carattere concettuale a suggerire un richiamo ad Althusius: la funzione di controllo ascritta agli efori, il suffragio popolare per la loro elezione e la loro convocazione periodica. Cesa sottolinea inoltre che, pur parlando di efori, Fichte sembra avere piuttosto in mente i tribuni romani. A dire il vero, l'analogia tra efori e tribuni appartiene interamente alla tradizione. Il primo a paragonarne le funzioni fu Cicerone tanto nel De Legibus21, che nel De Republica22. Lo stesso Cesa ammette,

18 D'ADDIO (L’idea di contratto sociale dai sofisti alla riforma e il De

Principatu di Mario Salamonio, Milano, 1954, p. 488) definisce l’opera di Althusius ad esempio come: «l’opera più organica di tutta la pubblicistica monarcomaca, nella quale Althusius tentò di formulare tutti i problemi inerenti alla organizzazione costituzionale della Respublica».

19 Tra gli altri .J.C. MERLE, L’institutionalisation du droit de rèsistance chez Fichte in J.C. ZANCARINI (ed.) le droit de rèsistance Xie-Xxe siécle Paris 1999 e A. RENAUT Présentantion à J.G. Fichte Fondement du Droit Naturel selon les principes de la doctrine de la science (1796-1797) e Id. Le sistème du droit. Philosophie et Droit dans la pensée de Fichte Paris, PUF, 1986.

20 C. CESA, Noterelle sul pensiero politico di Fichte in “Rivista critica di storia della filosofia”, 23, 1968 § 2. Particolare sulla teoria dell’eforato pp. 65-73.

21 «Ac ne Lycurgi quidem disciplina tenuit illos in hominibus Graecis frenos; nam etiam Spartae regnante Theopompo sunt item quinque quos illi ephoros appellant [...] ut contra consulare imperium tribunis plebis, sic illi contra uim regiam contituti». CICERONE De legibus, II, p. 33 (58).

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d’altronde, che non sono conosciuti riferimenti né diretti, né indiretti che dimostrino, o suggeriscano, che Fichte si sia confrontato effettivamente con la tradizione monarcomaca o con Althusius, ammettendo di basare la sua ipotesi su una semplice assonanza concettuale.

In una nota esplicativa nel Diritto Naturale Fichte chiarisce che:

l’eforato (nel senso stretto della parola), qui dedotto dalla pura ragione, è del tutto diverso dall’eforato nell’ordinamento spartano, dall’inquisizione di Venezia e da istituti simili. I tribuni della plebe della Repubblica romana hanno con esso la maggiore affinità.23

Si tratta di una precisazione preziosa perché avvalora una tesi di Martial Gueroult. È stato infatti l’interprete francese a sostenere con decisione la filiazione di questa figura da quella del Tribunat nel Contratto Sociale di Rousseau24. Nel cap. 5 del quarto libro di quest’opera Rousseau definisce il Tribunat come l'organo che conserva le leggi e il potere legislativo:

Il sert quelquefois à protéger le Souverain contre le Gouvernement, comme fasoient à Rome les Tribuns du peuple, quelquefois à soutenir le Gouvernement contre le Peuple, comme fait maintenant à Venise le conseil des Dix, et quelquefois à maintenir l’équilibre de part et d’autre, comme fasoient les Ephores à Sparte.25

22 «Quare nec ephori Lacedaemone sine causa a Theopompo oppositi

regibus, nec apud nos consulibus tribuni» CICERONE, De republica III, p. 16.

23 GA I/3, p. 449 (tr. it. p. 153). 24 M. GUEROULT, ètudes sur Fichte Paris 1974, p. 221. Generale

concordanza tra gli interpreti vi è sul fatto che Fichte pensi direttamente o indirettamente al Jury constitionnaire di Sieyés.

25 CS, Lb. IV, cap. V, p. 454.

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Come si vede chiaramente, la nota di Fichte riprende, da un lato, i medesimi riferimenti storici (gli efori spartani, il Consiglio dei Dieci e i tribuni della plebe) del passo citato del Contrat social; e, dall’altro, distngue in modo speculare a Rousseau le funzioni degli efori spartani e Consiglio dei dieci, da un parte; e tribuni della plebe, dall’altra. Oltre alla concordanza testuale vi è un altro elemento che fa propendere decisamente per questa tesi. Negli anni di redazione del Diritto Naturale, Fichte ha avuto sotto mano le bozze della traduzione curata da Franz Wilhelm Jung che, seppur pronta nel 1795, uscirà solo nel 1801 con il titolo Vom gesellschaftlichen Vertrage oder über die Grundsätze der Staatslehre vom Johann Rousseau (Neu Übersetzt, Frankfurt am Main 1801), e che era stato oggetto di un vivo dibattito tra i suoi studenti. A testimoniarlo sono sia una lettera di Isaac Von Siclair al traduttore del 1794, nella quale fa menzione ad alcuni rilievi discussi con Ebel, che aveva portato all’attenzione del traduttore; sia un’altra lettera dello stesso Jung a Ebel datata 24 marzo 1801, nella quale afferma che sei anni prima- quindi nel 1795- Fichte aveva conosciuto il lavoro e si era adoperato per farlo pubblicare26. A suffragare ulteriormente questa ipotesi sono le stesse mansioni dell’eforato che ora prenderemo in esame.

3 – Le funzioni dell’eforato: interdetto e

processo

Le tribunat n’est point une partie constitutive de la Cité, et ne doit avoir aucune portion de la puissance législative ni de l’exécutive, mais c’est en cela même que la sienne est plus grande: car ne pouvant rien faire il peut tout empêcher.27

Al Tribunato Rousseau ascrive un potere esclusivamente negativo. Quest’organo può impedire tutto, ma non può in alcun 26 E. FUCHS, Fichte im Gespräch, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann

Holzboog, 1994 e ss. (da ora = FG) 1994, vol. 6 pp. 64 e 554-555. 27 CS, p. 454.

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modo operare positivamente. Per lui «le Tribunat sagement tempéré est le plus ferme appui d’une bonne constitution; mais pour peu de force qu’il ait de trop il renverse tout». Quando sia in possesso di troppo potere, il tribunato può degenerare facilmente in tirannia perdendo la sua funzione moderatrice, iniziando a decidere le leggi, invece di proteggerle.

Fichte sembra riproporre completamente quanto affermato al riguardo da Rousseau. Priva infatti il suo Eforato di ogni forma di potere positivo, vale a dire esecutivo, attribuendogli un semplice potere proibitivo. Come si è visto in precedenza, la sua opposizione radicale al principio della divisione dei poteri si basa sul fatto che il potere esecutivo formula giudizi inappellabili, ai quali non si può opporre nessuna istanza, perché, se solo ve ne fosse una in grado di farlo, essa stessa si dimostrerebbe vera sovrana. Gli efori pertanto non possono né formulare giudizi nei confronti del sovrano, perché altrimenti lo vincolerebbero alla loro volontà, né tantomeno amministrare positivamente la giustizia, perché il magistrato, cioè il detentore dell’esecutivo, è l’unico giudice di ogni forma di conflitto. Agli efori è attribuito allora esclusivamente un potere proibitivo assoluto. Non possono limitarsi a censurare una particolare delibera, perché altrimenti sarebbero in grado di esprimere un giudizio sul sovrano e ne rappresenterebbero in questo modo un’istanza di possibile appello, o potrebbero addirittura condizionarlo, per esempio, ricattandolo o minacciandolo. Possono, invece, sospendere il potere pubblico in toto. Fichte paragona questa sospensione alla censura della figura giuridica dell’interdetto nel diritto canonico.

3. a) L’interdetto L’interdetto è originariamente una figura del diritto romano, è

un ordine emanato dal pretore in conformità all’editto promulgato alla sua entrata in carica su richiesta di un cittadino per la tutela di un interesse privato o collettivo. Ve ne sono tre tipi: l’esibitorio, con il quale si ingiunge di esibire cose o persone; il restitutore, che decide la restituzione di cose o persone; e il proibitorio, che obbliga ad astenersi da determinati atti. Nel caso sia rispettato, l’interdetto evita il ricorso al processo che si svolge, invece, nel caso di sua inottemperanza. Nel diritto canonico codificato nel XIV secolo,

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l’interdetto indica una censura, cioè vieta a determinate persone (interdetto personale), o in determinati luoghi (interdetto locale), la celebrazione o la partecipazione ai riti ecclesiastici.

Conosciuta come Questione dell’interdetto è la controversia sorta tra la Serenissima Repubblica di Venezia e la Santa Sede all’inizio del XVII secolo. Il 17 aprile del 1606 Paolo V lanciò l’interdetto locale contro tutto il territorio della repubblica scomunicandone il Senato per il rifiuto a rimettere al tribunale ecclesiastico due religiosi macchiatisi di reati comuni, di ritirare l’obbligo di previa autorizzazione del Senato all’erezione di ospedali e chiese (“luoghi pii”) e la loro cessione al clero, come pure l’abolizione del diritto di prelazione degli ecclesiastici sui beni enfiteutici. La Serenissima impose al clero di continuare l’esercizio delle proprie funzioni espellendo quegli ordini regolari che si opposero, come i Gesuiti. La diatriba si risolse il 21 aprile 1607 con la consegna dei due ecclesiastici (con la mediazione francese), la sospensione delle tre leggi e il ritiro di scomunica e interdetto da parte di Paolo V.

Proprio la Questione dell’interdetto mostra la costellazione concettuale medievale in cui si inserisce, vale a dire la lotta tra autorità spirituale e temporale, cioè tra forze limitate e capaci di produrre diritto, che entrano in conflitto al fine di allargare confini e competenze delle rispettive potestà. La figura giuridica dell’interdetto si iscrive in un contesto giuridico complesso e, come mostra questo tipo di controversia, conflittuale pure a livello di giurisdizioni, e pertanto appartiene ad un contesto completamente altro rispetto al diritto naturale moderno che mira a estiguere e neutralizzare questa tipologia di conflitti, semplificandone la complessità, cioè uniformando le diverse legislazioni. La sua trasposizione da parte di Fichte all’interno della costellazione concettuale moderna fondata da Hobbes - quella atta alla «generatio magni illius Leviathan, vel, ut dignius loquar, mortalis Dei, cui pacem et protectionem sub Deo immortali debemus omnem»28, ossia 28 Leviathan cap. XVII V. L. p. 131(«generation of the great LEVIATHAN

or rather, to speak more revently, of that mortal God, to which under the immortal God our peace and defence»; Vers. Ingl. p. 158; tr. it. p. 143).

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di quel diritto indipendente o coincidente con l’autorità religiosa, l’ecclesia - non può allora che risultare problematica. Se gli efori esercitano un potere assolutamente negativo, la prima questione che ci si pone riguarda il modo in cui costoro possano far valere la loro decisione. Fichte, immerso nella logica di autorizzazione formale del suo trattato, immagina che il loro decreto serva a delegittimare gli atti del sovrano, a rompere il vincolo comando-obbedienza, facendoli ritornare da detentori della sovranità alla condizione di semplici privati cittadini. Mediante l’interdetto le azioni e gli ordini dei magistrati sarebbero privati di qualsiasi valore legale e, pertanto, non risulterebbero più vincolanti. Se allora nel diritto romano l’interdetto doveva evitare il processo, nel Diritto Naturale di Fichte, invece, lo istituisce tanto che lo stesso «annuncio dell’interdetto è allo stesso tempo convocazione della comunità»29.

3. b) Il processo La comunità viene così convocata al fine di essere giudice nel

processo istituito con l’interdetto. Un tale processo vede, da una parte, sul banco degli imputati, gli ex Magistrati; e dall’altra, su quello dell’accusa, gli efori. La prima decisione, che la comunità deve prendere, concerne la validità legale dell’interdetto: cioè quella di autorizzare o meno il processo. La comunità è pertanto subito chiamata a legittimare o meno l’azione degli efori che avevano proprio la funzione di rappresentarla. Ogni decisione della comunità diviene legge costituzionale30e retroattiva31, perché il popolo riunito in comunità detiene il vero e proprio potere costituente. Il problema, come vedremo in seguito, è come possa riunirsi e comporre una voce sola quando, Fichte sposando il principio rappresentativo, ha previsto per esprimere la voce e la volontà del corpo politico, e quindi della stessa comunità, prima i magistrati e, poi, gli efori. L’interdetto sottrae pertanto ogni valore legale agli ordini dei magistrati, perché con esso gli efori esprimono la volontà della comunità da cui sono

29 GA I/3, p. 450 (tr. it. p. 154). 30 Ivi, p. 450 (tr. it. p. 154). 31 Ivi, p. 451 (tr. it. p. 155).

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stati autorizzati a lanciarlo. La parte perdente al processo è dichiarata colpevole di alto tradimento e viene così espulsa dal corpo politico. Nel caso degli efori: per aver arrestato il compito supremo della Res Publica, cioè il procedere del diritto; nel caso dei magistrati: «per essersi serviti del potere dello Stato per l’oppressione del diritto»32. Si tratta di una procedura che risolve il conflitto tra le massime istituzioni dello Stato. Il processo rappresenta l’ultimo argine legale per evitare la guerra civile, un argine che rappresenta l’esatto confine di validità del potere e della logica che lo sorregge.

4 – Eforato e costituzione: la rappresentanza

fiduciaria

Come ricordato in precedenza nel 1796 Fichte indica l’eforato

come «das wesentliche Bestandtheil jeder Constitution»33. Il significato di questo istituto va perciò compreso in rapporto alla costituzione e, più precisamente, al concetto di costituzione utilizzato da Fichte, prima nel Diritto naturale, e poi nel corso di dottrina del diritto del 181234. ‘Costituzione’ traduce due termini tedeschi: Konstitution35 e Verfassung. Nel 1796 e 1797 Fichte utilizza i due termini pressoché come sinonimi. Si può infatti attribuire a Constitution un significato più ristretto e in qualche modo più eminentemente giuridico, mentre Verfassung tende ad abbracciare una serie di significati anche non specificamente giuridico-formali tanto che Fichte per caratterizzarne il senso utilizza le forme composite Staatsverfassung36 e Rechstverfassung37, o gli attributi

32 Ivi, p. 453 (tr. it. p. 156). 33 GA I/3, p. 328 (tr. it. p. 15). 34 A proposito del rapporto tra eforato e costituzione si veda C. DE

PASCALE, Etica e diritto, La filosofia pratica di Fichte e le sue ascendenze kantiane, Bologna, il Mulino, 1994, pp. 389 e ss.

35 Nel 1796/97 Fichte utilizza Constitution mentre nel 1812 Konstitution. 36 GA I/3, pp. 227; 446 e 449 e GA I/4, p. 40.

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bürgerliche38 e rechtliche39. La distinzione diviene più chiara nel 1812, e ciò va probabilmente messo in relazione con quanto Fichte aveva esposto nelle sue Reden an die Deutsche Nation a proposito dei Fremdwörter40. Non si intende tanto affermare che Fichte conii due significati distinti di costituzione, quanto segnalare che i due termini sembrano acquisire con il passare del tempo, almeno nei suoi scritti eminentemente giuridici, due valenze distinguibili e non univoche e che, essenzialmente, al termine Konstitution sia ascrivibile un significato più eminentemente tecnico-formale.

La costituzione è la terza e conclusiva sezione del diritto di cittadinanza (Staatsbürgerrecht) che segue la trattazione del contratto di cittadinanza (Staatsbürgervertrag) e della legislazione civile (bürgerliche Gesetzgebung)41. La costituzione è «la legge che riguarda il modo in cui la legge stessa deve essere resa esecutiva»42. Va intesa pertanto come Grundgesetz, corpo delle leggi fondamentali dello Stato. Nel 1812 Fichte definisce Konstitution come «die absolute Begründung des Rechts in die Wirklichkeit», la fondazione assoluta del diritto nella realtà effettuale43. La costituzione indica allora la struttura portante ed istituzionale dello Stato, e corrisponde al contenuto delle carte costituzionali moderne e, d’altra parte, Fichte non può che riferirsi alle redazioni delle costituzioni francesi di quegli anni, che erano dibattute dai suoi studenti in relazione al contrat social proprio nel momento in cui stava redigendo il suo corso di Diritto Naturale. Fichte utilizza peraltro un concetto di costituzione prossimo a quello elaborato da Kant nel Per la pace

37 GA II/13, p. 198, 206, 224, 227. 38 GA I/4, p. 59. 39 GA I/4, p. 75 e GA II/13, p. 209. 40 J.G. FICHTE, Reden an die deutsche Nation, Hamburg, Meiner, 1978 p.

69 [tr. it. G. Rametta (a cura di), J.G. FICHTE, Discorsi alla nazione tedesca, Bari, Laterza, 2003 pp. 58-59].

41 GA I/3, p. 322 (tr. it. p. 11). 42 GA I/3, p. 328 (tr. it. p. 15). 43 GA II/13, p. 279.

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perpetua, laddove costituzione veniva definito «der Akt des allgemeinen Willens, wodurch, die Menge ein Volk wird»44. È proprio il fatto che sia la comunità ad essere invocata e chiamata a decidere il processo tra le due massime istituzioni dello Stato ad indicare non solo che essa rappresenta de facto il potere costituente, ossia l’istanza che definisce lo Stato, in quanto gli dà forma, ma anche che il processo costituisce l’ultimo argine della legalità dello Stato prima della guerra civile che ne decreta la fine.

Si tratta allora di interrogare il modo di darsi della costituzione, ossia il modo in cui il diritto sia da fondare nella realtà effettuale. Fichte, come si è detto, concorda con Kant sul principio rappresentativo: anche per lui (come pure del resto per Hobbes) l’unico modo per rendere una moltitudine popolo, ossia un soggetto dotato di una sola volontà, è la rappresentazione: il governo deve pertanto essere trasmesso. Dalla trattazione di Kant quella di Fichte si distingue in virtù della critica che muove alla divisione dei poteri. La legittima istanza di controllo- al fatto che il potere esecutivo operi conformemente al diritto- che la divisione dei poteri dovrebbe garantire- viene assolta nell’idea costituzionale di Fichte dall’eforato, con le prerogative di controllo e sorveglianza e lo strumento dell’interdetto che abbiamo analizzato. È una soluzione problematica come aveva, del resto, già notato Rousseau. È infatti solo il tribunato ‘saggiamente temperato’ – per il ginevrino - ad essere «le plus ferme appui d’une bonne constitution». Non appena esso però abbia un po’ troppa forza «il renverse tout». A suffragio di questa tesi Rousseau richiamava le degenerazioni dell’Eforato spartano, dei tribuni romani, del Consiglio del Dieci. «Le meilleur moyen» per prevenirne le usurpazioni è quello di «ne pas rendre ce corps permanent», di fissare quindi degli intervalli di tempo, non troppo lunghi, in cui esso sia soppresso45. Fichte aggiunge un’altra modalità degenerativa di questo istituto: la possibilità che gli efori si alleino con il potere esecutivo, fatto che significherebbe la corruzione, irrimediabile sul piano giuridico, del corpo politico. È a questa altezza che si

44 Akad. Aus. VIII, p. 351 (tr. it. p. 57). 45 CS, p. 454.

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comprendono alcune peculiarità del tipo di rappresentanza degli efori ipotizzato in questo contesto. Fichte riprende parzialmente l’indicazione di Rousseau preferendo, però, alla soppressione a intervalli, la sostituzione periodica degli efori che riceverebbero pertanto un mandato temporaneo. L’eforato è perciò una carica limitata temporalmente e le sue facoltà devono essere descritte dalla costituzione. L’unica considerazione di Fichte in proposito è che a nominare gli efori non possano essere i detentori del potere esecutivo. Lo giudica «insensato» perché ne comporterebbe la dipendenza dall’organo che dovrebbero controllare. A nominarli dovrebbe essere il popolo secondo modalità descritte- per l’appunto- dalla Costituzione.

Già Reinhold, nella recensione al Diritto Naturale pubblicata nella Allgemeine Literatur Zeitung del novembre 1798, aveva sottolineato che i magistrati, detentori di un potere assolutamente positivo (indicabile con il simbolo algebrico +1), e l’eforato, dotato di un potere assolutamente negativo (corrispondente a -1), scontrandosi, non possano che produrre un valore nullo, ossia uno Stillstand del diritto46. D’altronde, lo stesso Fichte si era già mostrato d’accordo in linea di principio con questo argomento quando aveva criticato la divisione dei poteri proposta da Kant. La questione non sembra però poter ridursi a un problema di algebra elementare. Per Fichte, l’Eforato rappresenta la comunità in modo diverso. Non la rappresenta mediante un meccanismo di autorizzazione, come nel caso dei magistrati, ma sulla base di un legame fiduciario. Sono almeno tre le occasioni in cui Fichte lo evidenzia nell’argomentazione: dapprima, descrivendo l’eforo come «colui sul quale cade l’occhio e la fiducia del popolo»47; poi, considerando il fatto che gli efori, se instaurassero rapporti d’amicizia e clientela con i magistrati, perderebbero il Zutrauen del popolo48; ed infine, nel

46 E. FUCHS, W. JACOBS, W. SCHIECKE, Fichte in zeitgenossischen

Rezensionen Stuttgart Bad Cannstatt, Frommann Holzboog, 1995 e ss., p. 135.

47 GA I/3, p. 456 (tr. it. p. 160). 48 GA I, 3, p. 455 (tr. it. p. 160).

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sottolineare la delicatezza della funzione dell’eforato, indica come siano «uomini particolarmente anziani e maturi» a dover essere nominati efori49. Tutti questi elementi suggeriscono come segno peculiare della rappresentanza degli efori un elemento metagiuridico.50 Se Treue e Glaube rappresentano le condizioni di possibilità del rapporto giuridico nello Stato di natura, quando esse non possano essere garantite, richiedono la costruzione dello Stato civile mediante un meccanismo di autorizzazione. Vanno intesi come elementi estranei al diritto (modernamente inteso) perché estranei al suo metodo e alla sua logica. In summa: gli efori rappresenterebbero la volontà originaria che ha generato il corpo comune; rappresenterebbero quella comunità capace di esprimere una volontà costituente: quella volontà che è giusta perché è conforme al diritto originario (Urrecht). Del resto, al fine che gli efori possano assolvere al loro incarico, Fichte ne prevede l’inviolabilità per legge: gli efori sono sacrosancti, non sono né perseguibili, né tantomeno condizionabili, da parte del potere esecutivo.

Ora, se l’eforato rappresenta la comunità in base ad un elemento fiduciario, questa figura si colloca al limite del dominio del principio giuridico, del metodo della trattazione e quindi del suo ambito di validità. La dottrina del diritto deve procedere senza far leva sui principi di Treue e Glaube laddove la morale può dare una sanzione semmai aggiuntiva. Ma non aggiunge nulla sul piano del diritto dove non ha alcun valore far leva sulla volontà buona. D’altra parte, è la stessa costituzione a rappresentare il passaggio dalla scienza alla vita, da un lato, concludendo certo la trattazione della dottrina del diritto; e dall’altro, introducendo già degli elementi che appartengono ad un altro ordine dimostrativo: a quella politica che Fichte proprio a questa altezza si premura di distinguere dalle competenze della Rechtslehre. Nel §.21 dedicato alla Costituzione Fichte, dopo aver definito politica: «quella scienza che ha a che fare

49 Ibidem p. 451 (tr. it. p. 155). 50 Un elemento messo in rilievo da G. RAMETTA, Diritto e potere in Fichte

in G. DUSO (a cura di), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Roma, Carocci, 2001, p. 289.

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con uno Stato particolare determinato da caratteri contingenti (empirici), e che prende in considerazione come la legge giuridica si possa realizzare, in esso, nel modo più opportuno», ne distingue chiaramente il dominio da quello della scienza giuridica, tanto da affermare che «tutte le sue questioni non hanno nulla a che fare con la nostra scienza, la dottrina del diritto, che è puramente a priori, e devono essere tenute accuratamente distinte da essa».51 Alla politica appartiene esclusivamente l’ambito storico- filosofico della scienza giuridica che coniuga e figura i principi eterni della scienza a priori nel contingente, nella dimensione storica o empirica52.

È un modo di affermare che la trattazione dell’eforato si colloca ai limiti della validità della scienza giuridica tanto da non resistere alla critica mossa dalla logica del diritto naturale moderno. Come è possibile infatti che l’eforato rappresenti la comunità quando alla rappresentazione della stessa è deputato il potere esecutivo? E anche quando così fosse, chi garantirà che i detentori del potere esecutivo si lasceranno processare quando loro stessi controllano il potere esecutivo, l’apparato poliziesco che fa valere nello Stato ogni delibera? E poi, chi potrà mai garantire che i magistrati e gli efori non si mettano d’accordo e governino lo Stato in modo contrario al diritto (rechtswidrig)?

5 – Eforato e formalismo giuridico

5. a) L’eforato naturale Nel 1796, nonostante non condivida le preoccupazioni a

proposito delle possibili derive dell’Eforato, che considera anzi piuttosto improbabili, Fichte tratta comunque questa possibilità

51 GA I/4, p. 80 (tr. it. p. 249). 52 A proposito è da ricordare la distinzione dei tipi di sapere elaborata da

Fichte nel primo corso sulla Bestimmung des Gelehrten del 1794 GA I, 2 121-123. Cfr. Anche R. LAUTH Einleitung zu J. G. FICHTE, Die späte wissenschaftliche Vorlesungen II Stuttgart- Bad Cannstatt, Frommann Holzboog; 2003, pp. XV-LVIII, in particolare p. LVI.

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perché «una scienza rigorosa deve occuparsi [anche] di ciò che è inverosimile»53. Sebbene giudichi inverosimile che la condizione morale del popolo sia così misera e, tanto più dubitando che dovendo essere nominati54 efori i migliori, uomini anziani e maturi (alte und gereifte Männer) della comunità, si possa verificare una tale evenienza, si sente tuttavia in dovere di considerare anche il caso che gli efori si accordino con il potere esecutivo a danno della comunità. È a questo punto che Fichte introduce la figura degli efori naturali. Quando i detentori del potere esecutivo ed efori si alleino in modo contrario al diritto (rechtswidrig), si pone il problema di come debbano essere esautorati. Fichte, criticando la definizione di “ribellione” per descrivere una sollevazione popolare in virtù del principio della sovranità popolare, perché ci si ribella propriamente solo a una istanza superiore e nulla vi può essere immanente allo Stato di superiore al popolo, indica due possibili modalità d’azione della comunità. La prima è l’azione congiunta di tutti i suoi membri, ossia la (ri)attivazione del potere costituente. La seconda è la chiamata all’azione da parte di singoli. Si tratta degli efori naturali, “tutori della nazione” aldilà della forma giuridica. La loro azione sarà perseguibile fintantoché non sarà autorizzata dalla comunità dopo che essa si sia sollevata. Rischiano però di essere condannati e puniti se il loro appello cade nel vuoto. «Avrebbero dovuto conoscere meglio la loro nazione» sostiene Fichte. Con il loro insuccesso e la conseguente condanna pagherebbero allora un giudizio imprudente. Il confine tra l’essere eroi e ribelli è qui labile quanto abissale, a seconda che si colga il punto di vista soggettivo o oggettivo di una scelta ed azione in rapporto a un contesto che può essere più o meno favorevole. Sono le circostanze a determinarne il destino. È lo spazio della prudenza (Klugheit) che governa il campo della politica che, come abbiamo sottolineato in precedenza, non ha nulla a che fare con la scienza giuridica.

Far leva sull’idea di diritto contro la sua forma positiva riapre uno spazio filosofico di accezione platonica in favore di un concetto

53 GA I/3, p. 456 (tr. it. p. 161). 54 Preferisco cambiare qui la traduzione italiana per ernennen.

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di politica che non la riduce alla semplice applicazione e amministrazione, ma che sembra invece rimandare ad una concezione della politica come Kunst, vale a dire come arte e figurazione nel mondo sensibile dell’idea di diritto. Idee è il concetto fondamentale delle opere popolari del biennio 1804-1806 nelle quali Fichte articola il piano storico- filosofico della sua filosofia55. I concetti a priori della ragione divengono nella pratica idee che rappresentano la guida della vita etica. Nel 1812 indica il dovere del suo tempo la realizzazione completa del concetto, e quindi dell’idea del diritto, su cui fa leva anche la possibile azione contro il potere costituito. Sembra insomma procedere in una direzione che, facendosi carico dell’impossibilità di soluzione della dimensione giuridica in un sistema formale, prospetta una pratica politica ispirata dall’idea di diritto non tanto nei termini di applicazione di un modello, quanto in quelli di figurazione e formazione (Bildung). È a questa altezza che la scienza giuridica di Fichte si rivela più come un comprendere immanente e dissolvente la logica del diritto naturale moderno, che come vero e proprio trattato. Un attraversamento tale da metterne in evidenza le contraddizioni, indicando al tempo stesso l’ulteriorità della pratica politica e filosofica al suo dominio metodologico e obiettivo56. Si tratta evidentemente di un problema complesso che qui può essere solo indicato; di una questione tanto più delicata, quanto il percorso di Fichte non risulta lineare. Si tratta di un percorso composto più da rimandi, che da formulazioni decise;

55 Sull’Ideenlehre si rimanda all’ottimo lavoro di H. TRAUB, Johann

Gottlieb Fichtes Populärphilosophie 1804-1806, Stuttgart- Bad Cannstatt, Frommann Holzboog, 1992.

56 Alcune considerazioni a proposito si possono trovare in C. DE PASCALE, La teoria e la pratica del diritto in “DAIMON”, 9, 1994, pp. 275-288, G. DUSO La philosophie politique de Fichte: de la forme juridique à la pensée de la pratique in “Fichte-Studien”, 16, 1999, pp. 191-211 e Politische als praktische Philosophie bei späten Fichte in E. FUCHS, M. IVALDO, G.MORETTO (a cura di), Der transzendentalphilosophische Zugang zur Wirklichkeit. Beiträge aus der aktuellen Fichte-Forschung, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 2001, pp. 533-551. pp. 393-409 e G. RAMETTA, Diritto e potere in Fichte, cit.

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che si articola anche, e soprattutto, in abbozzi e tentativi. Si tratta di una prospettiva probabilmente non elaborata fino in fondo, e certamente non tematizzata in quanto tale: Fichte non scrive nessun trattato sulla politica, e le considerazioni che vi dedica nei diversi ambiti disciplinari e nei diversi tempi della sua riflessione possono apparire anche incoerenti e contraddittorie. Ma si è di fronte, comunque, ad una prospettiva affascinante, come mettono in evidenza le considerazioni conclusive formulate nelle ultime lezioni della Rechtslehre del 1812, che siglano l’abbandono definitivo dell’eforato come parte della costituzione e, quindi, come istituto giuridico.

5. b) L’abbandono dell’eforato: il diritto tra idea e forma Nel 1812 Fichte si mostra molto più scettico sulla natura

umana e sulle qualità morali della nazione rispetto al 1796/97. La Rechtslehre di Berlino è priva di alcuni elementi ancora ottimistici presenti nelle considerazioni di Jena a proposito dei problemi qui trattati. Ed è probabilmente questa amarezza a permettere lo sfaldamento di alcune resistenze che si basano più su un orizzonte ideale etico, che sulla razionalità formale del diritto. D’altra parte, non sono in fondo il degrado etico, la corruzione, il giudizio antropologico negativo sull’umanità a rappresentare alcune delle condizioni di pensabilità della scienza politica moderna? In una delle lezioni conclusive del suo corso dedicato alla Rechtslehre a Berlino, Fichte torna ancora ad interrogarsi sull’eforato, ripensando alle formulazioni esposte a Jena57, e dichiara di non ritenerlo più- nach einer reiferen Überlegung - una soluzione efficace e soddisfacente al problema del controllo. Fichte solleva innanzitutto il dubbio su chi debba controllare il controllore, ossia su chi possa garantire che l’eforato agisca solo quando il diritto sia violato, e non, invece, per fare il proprio interesse, seguendo il proprio Privatwille prestando il fianco alla critica della cattiva infinità secondo Hegel. Fichte considera poi che il potere esecutivo userà senz’altro la sua forza per fare pressione fin dall’inizio e non permetterà tanto facilmente di 57 Cfr. R. SCHOTTKY, Einleitung a J.G. FICHTE, Rechtslehre. Von Ostern

bis Michaelis, Hamburg, Meiner 1980, pp. XIX-XXV.

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essere privato della propria autorità58. Lo fa ripercorrendo le stesse considerazioni effettuate all’altezza della critica della divisione dei poteri. Una critica che risulta valida ed efficace, in questa logica, per ogni potere istituzionalizzato. Ogni potere può infatti svincolarsi dalla volontà che lo istituisce. È un problema di forma e Fichte lo comprende come tale: se formalmente infatti è indubitabile che il popolo esprima il giudizio giusto, sarà poi effettivamente così nella realtà, materialiter?59 Sarà vero che la maggioranza esprime un giudizio migliore della riunione dei più saggi che dovrebbero essere nominati magistrati ed efori? De facto Fichte riprende, ma con più forza e realismo, il medesimo giudizio del 1796: il fatto che gli efori, vale a dire il collegio dei migliori, abbiano «così poca virtù da non resistere alle tentazioni» va assunto come un segnale chiaro ed inequivocabile che il popolo che rappresentano non è in grado di proteggersi da solo. In questo caso risulta pertanto impossibile che tale popolo possa dotarsi di una costituzione migliore di quella che ha. In summa:

la realizzazione di un eforato, come membro di una

costituzione non è realizzabile perché gli esseri umani sono troppo cattivi: fino a che non diventino migliori, costoro dovranno allora avere una costituzione che non ha bisogno di alcun eforato istituzionalizzato.60

Fichte propone allora una forma più articolata di eforato

naturale: il pubblico colto e capace di coltivarsi. A questo eforato spettano i due compiti propri di questo istituto: da una parte, ammonire i governanti; dall’altra, quando questo non serva, convocare la comunità. Ma ora lo ha svincolato da ogni istituzionalizzazione. Con l’eforato Fichte sembra pertanto, dapprima cercare di mantenere aperta la via della rivoluzione all’interno dell’ordinamento giuridico, poi voler legittimare a posteriori la

58 GA II/13, p. 283. 59 Ibidem, p. 282. 60 Ibidem, p. 284.

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possibilità di una rivoluzione sul modello di quella francese: Critica illuministica e rivoluzione borghese. In questo modo Fichte si emancipa in queste considerazioni dal formalismo della sua elaborazione giuridica jenese e del modello giusnaturalista moderno. Non essendovi garanzie formali efficaci, capaci di imporre la Herrschaft del concetto di diritto, l’unica via è affidare il governo ai migliori. Soluzione che vale certo solo come criterio di giudizio sul grado di giuridicità di un determinato Stato, e non evidentemente come modello di uno Stato da realizzare; perché altrimenti si porrebbe il problema di come effettuare e garantire la selezione di tali presunti migliori61. Su tale problema si interrogherà nuovamente nelle conferenze di filosofia applicata (Staatslehre) del 1813 nelle quali però non farà alcun cenno all’eforato.

Sul problema del controllo e sull’eforato sein letztes Wort è pertanto quella del 1812 e sembra avvicinarsi considerevolmente alle considerazioni di Kant sulla pubblica opinione nel 179762. Il sovrano rimane, all’interno della logica giuridica moderna, irresistibile e l’unica speranza che si ravveda dei possibili errori è la formazione di un’opinione pubblica capace di ammonirlo e di garantire pertanto il diritto con l’esercizio della critica. L’unica speranza per il miglioramento della vita dello Stato è allora «il progresso della formazione dell’intelletto e dell’eticità e la silenziosa azione dell’eforato in questo progresso»63. Questo è il modo con cui Fichte, quasi concordando con il suo maestro, sembra rispondere a quella richiesta avanzata nel 1796 a Kant a proposito dell’eforato, e alla quale probabilmente Kant diede già, a suo modo, immediata risposta nel 1797.

61 Cfr. F. ONCINA COVES, Critereologia fichteana del derecho:

corporeidad y eforato in “Estudios Filosoficos”, 118, 1992, pp. 475-522. 62 Cfr. Considerazione A della «Considerazione degli effetti giuridici

derivati dalla natura della società civile» in I KANT, Methaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre (Ak.,VI, pp. 318 e ss. ; tr. it. pp. 148 e ss.).

63 GA II/13, p. 284.

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DIALETTICA, ONTOLOGIA E FILOSOFIA DELLA RELIGIONE

NELLE LEZIONI I-IV

DELLA ANWEISUNG ZUM SEELIGEN LEBEN

FRANCO GILLI

Abstract

From the analysis of the ontological conception of Fichte’s Seynlehre and Gotteslehre, in particular in the 1st, 2nd and 3rd lessons of the Anweisung zum seeligen Leben, we become to the arrival point of his Transzendentalphilosophie, that we can resume with the expression «to concept the inconceivable» (Begreifen des Unbegreiflichen): the absolute is inconceivable (unbegreiflich) and invisible, because it’s the fundament of the same light (Grund des Lichtes), the clearest point (das Allerklarste), that appears as invisible because of its infinite and untenable brightness. The philosophical reflection comes to the annihilation of the concept (Vernichtung des Begriffs) in front of the inconceivable (Unbegreifliches). Even the Wissenschaftslehre will modify its value and will be a real docta ignorantia in critic-transcendental meaning. The inexhaustibleness of the absolute constitutes its highest cipher: it is, always indirectly and per via negationis, sign of the vitality (Lebendigkeit) inside the absolute itself. The philosophical reflection rach here its limit (or its apex).

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L’obiettivo del presente contributo consiste in una lettura interpretativa delle prime lezioni dell’Anweisung zum seeligen Leben di J. G. Fichte1 ed è volto ad individuare ed enucleare i plessi concettuali centrali della concezione dialettica ed ontologica della Seynlehre e della Gotteslehre fichtiane, così come vengono sviluppati nel corso delle lezioni popolari dedicate alla Religionslehre ed alla Seeligkeitslehre.

1 – Brevi cenni al contesto storico-biografico. La

Populärphilosophie di Fichte

Nella lettera ad Hanstein del 2 gennaio 18062, Fichte esprime

il proprio disappunto per il diffondersi della falsa opinione, secondo la quale sarebbe stato pronunciato un divieto in riferimento alle annunciate lezioni domenicali sull’Anweisung zum seeligen Leben. Contemporaneamente a questo corso, e più precisamente agli inizi di febbraio, vengono date alle stampe le dieci lezioni tenute ad Erlangen nel semestre estivo del 1805 sulle caratteristiche del dotto, con il titolo Über das Wesen des Gelehrten und seine Erscheinungen im Gebiete der Freiheit3.

Nella lettera del 9 marzo 1806 a K. A. Von Hardenberg4, Fichte inoltra al Re la richiesta per un impiego stabile ad Erlangen, richiesta che verrà accolta con la nomina di Fichte a Professore ordinario di filosofia all’Università (il 18 marzo 1806).

1 GA I/9, pp. 1-212. Le lezioni dell’Anweisung hanno inizio domenica 12

gennaio 1806 (tra le 12.00 e le 13.00) per concludersi il 30 marzo, con un’unica interruzione il 19 gennaio (per problemi di salute da parte di Fichte); tr. it. a cura di G. Moretto in J. G. Fichte. La dottrina della religione, Napoli, Guida, 1989, pp. 241-406 [Abbreviazione: A].

2 GA III/5, pp. 323-325. 3 GA I/8, pp. 37-139. 4 GA III/5, pp. 336-337.

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Il 3 aprile dello stesso anno, viene annunciata la pubblicazione de Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters5, mentre il 22 dello stesso mese Fichte prende accordi presso l’editore Reimer per la pubblicazione dell’Anweisung zum seeligen Leben. Le tre serie di lezioni tenute in parallelo ai corsi sulla Wissenschaftslehre e sui Principien vedono, dunque, la pubblicazione tra il febbraio e l’aprile 1806. È lo stesso Fichte a definire i tre testi come «opere popolari» o «filosofia popolare» (Populärphilosophie), proprio per distinguerli dai corsi sulla Wissenschaftslehre, la cui impostazione metodologica risulta essere quella specificatamente scientifica. In una lettera a Jacobi dell’8 maggio 1806, Fichte dichiara esplicitamente: «[…] nelle lezioni allegate, soprattutto nell’Anweisung, credo di aver espresso chiaramente i risultati del mio sistema di pensiero. […] Come io la pensi con il concepire l’inconcepibile in quanto tale, sarà dunque altrettanto chiaro in queste lezioni»6. Nonostante la consapevolezza da parte di Fichte della rilevanza del proprio lavoro, le tre opere non incontrano il favore della critica, incorrendo in non poche difficoltà per quanto riguarda la censura.

Nell’estate 1806, Fichte si ripropone alcune pubblicazioni: gli Jahrbücher des wissenschaftlichen Geistes im 19th Jahrhundert e la redazione de Bericht über den Begriff der Wissenschaftslehre und die bisherigen Schicksale derselben7. I suoi progetti non si limitano alla produzione editoriale: oltre al piano per la pubblicazione periodica di testi di un’università tedesca e le idee per l’organizzazione

5 GA I/8, pp. 141-396. 6 «Ich glaube in den beigeschlossenen Vorlesungen, besonders in der

Anweisung ec. die Resultate meines Denksystems klar ausgesprochen zu haben» (GA III/5, p. 354). La lettera prosegue: «[…] Wie ich es mit dem Begreifen des Unbegreiflichen, als solchen, meine, wird in diesen Vorlesungen wohl gleichfalls klar» (Ibidem, p. 356).

7 Pubblicato a cura del figlio sotto il titolo Zur Einleitung in die Wissenschaftslehre.

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dell’università di Erlangen, egli manifesta l’intenzione di prendere parte attiva alle decisioni politiche della Prussia8.

Il 23 settembre 1806 Fichte ottiene l’autorizzazione per la prosecuzione del suo incarico di docente presso l’università di Erlangen per il semestre invernale. Il 18 ottobre dello stesso anno decide di partire da Berlino alla volta di Königsberg; questa decisione si comprende alla luce della considerazione fichtiana di ritenere un dovere inderogabile seguire la corte ed il governo prussiani dopo l’abbandono di Berlino di fronte all’avanzata dei francesi; ecco perché la scelta della città di Königsberg, luogo di tranquillità per la prosecuzione dei propri progetti di studio.

A seguire una tabella di sintesi che mette in relazione i corsi sulla Wissenschaftslehre e le lezioni della cosiddetta Populärphilosophie.

1.Wissenschaftliche

Darstellungen

2. Populärphilosophie

Corso Date delle lezioni Corso Date delle

lezioni

Data

Pubblic

azione

WL041 17/01 - 29/03/1804

(30 lez.)

WL042 16/04 - 08/06/1804

(28 lez.)

WL043 05/11 - 31/12/1804

(25 lez.)

Grundzüge 04/11/1804-

17/03/1805

Aprile 1806

GSRL 06/02 - 30/03/1805

(23 lez.)

WL054 18/06 - 03/09/1805

(30 lez.)

Über das

Wesen

08/06-

31/08/1805

Inizi febbraio

1806

Anweisung 12/01-

30/03/1806

Fine aprile 1806

8 Tale intenzione vorrebbe concretizzarsi nella partecipazione in qualità di

predicatore sul campo (Feldprediger) a fianco dell’esercito prussiano nella quarta guerra di coalizione contro l’esercito napoleonico, richiesta che viene tuttavia declinata da parte del Re.

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Gli anni tra il 1804 ed il 1806 presentano un tratto di fondo

comune e peculiare del pensiero fichtiano: l’evidente contrasto fra la notevole risonanza pubblica dell’evoluzione del suo pensiero e le decise critiche da parte delle principali riviste filosofiche e dei filosofi più importanti dell’epoca (Schelling ed Hegel in primis). Come rileva Lauth,

[…] è un evento unico della storia mondiale il fatto che un filosofo avesse come uditori nelle sue lezioni private un principe, sette ministri, sei futuri ministri e cinque ambasciatori accanto a numerosi apprezzati scienziati, scrittori ed artisti […]. E non deve stupire il fatto che il numero dei filosofi partecipanti sia limitato. A quell’epoca Berlino non aveva ancora un’università né degli studenti. Questi filosofi erano o professori di filosofia a Berlino o studenti presenti casualmente ma giunti da Jena o da altre università.9

Tale situazione «anomala» diede adito a notevoli risvolti polemici: lo stesso Hegel espresse tutto il suo maligno disprezzo verso le esposizioni sulla Wissenschaftslehre del 1804, definendole «[…] una filosofia per ebrei ed ebree istruiti, consiglieri di stato, Kotzebue»10. Tale aspro giudizio proveniente dalla figura emergente del panorama filosofico tedesco degli inizi del XIX secolo ebbe come effetto quello di attribuire al complesso dell’intera seconda fase della filosofia fichtiana una «etichetta», in quanto filosofia priva di contenuti speculativi (nichts Spekulatives), giudizio che ha fatto sentire il suo peso e la sua influenza sino ai giorni nostri.

La connessione tra la problematica della «filosofia popolare» e la visione globale che Fichte offre della propria filosofia favorisce un approccio di tipo sistematico al problema centrale per la filosofia della comunicabilità e della «mediazione» (Vermittlung). L’aggettivo

9 R. LAUTH, Über Fichtes Lehrtätigkeit in Berlin von Mitte 1799 bis

Anfang 1805 und seine Zuhörerschaft, in “Hegel-Studien”, 15, 1980, p. 47.

10 Ivi.

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«popolare» non solo non mette in discussione il valore specificatamente filosofico delle opere pubblicate in questi anni, ma rimanda indirettamente alle esposizioni filosofico-scientifiche, nelle quali viene sviluppata in chiave genetica la struttura sistematica che Fichte sta elaborando. Il concetto di Popularität permette il saldarsi dei vincoli che intercorrono tra la speculazione (Wissenslehre) e l’esistenza (Existenz). In essa la filosofia compie la propria Bestimmung: comunicare attraverso un’autentica «dimensione soterica», senza peraltro cadere nel rischio di intendere la stessa religione quale «metafisica del popolo» o «filosofia elementare». Fichte evidenzia come la Popularität detenga il primato rispetto alla filosofia scientifica: da un lato, perché lo stesso filosofo scientifico, nel momento in cui intraprende il cammino della ricerca filosofica, deve già essere in possesso della verità ed essere guidato dal «senso naturale della verità» (natürlicher Wahrheitssinn o Wahrheitsgefühl); dall’altro, perché la filosofia deve comunque avere una destinazione di tipo universale, deve cioè essere rivolta ad un pubblico più ampio rispetto alla ristretta cerchia dei filosofi specialisti.

Fichte parla anche di «senso religioso» (religiöser Sinn), intendendo con questo termine la condizione originaria di possibilità della religione, nonché lo stesso oggetto della filosofia della religione: in tal senso, ogni uomo deve essere detto religioso e nessuno può essere appellato come ateo.

Nei tre scritti popolari del 1806 viene esplicitamente sviluppata la dottrina dell’idea (Gotteslehre), la quale è presente sin dalle prime lezioni dei Grundzüge (II, III, IV), ma diviene tema centrale e dominante delle lezioni Über das Wesen des Gelehrten e soprattutto dell’Anweisung zum seeligen Leben11. In una delle pagine

11 Per quanto riguarda l’evoluzione della «dottrina dell’idea» in Fichte, la

critica offre motivazioni fra loro discordanti: infatti, se nei lavori jenesi il concetto di idea si richiama alla concezione kantiana, durante il periodo berlinese esso subisce una rivisitazione da parte dello stesso Fichte in direzione di una prospettiva platonica. Come sottolinea Traub, dal punto di vista del contesto storico – filosofico tale mutamento potrebbe aver subito l’influenza della ripresa della filosofia platonica grazie agli scritti di Jacobi o alle traduzioni effettuate da Schleiermacher.

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introduttive a Die Principien der Gottes- Sitten- und Rechtslehre, Fichte chiarisce come i concetti di Dio (Gott) e di divino (Göttliches) non debbano essere intesi in quanto personificazioni di matrice metafisico-teologica, bensì rimandino propriamente all’assoluto «Ens a se - per se», «portatore» (Träger) di ogni essere e vita12. L’idea divina costituisce il «fondamento del fenomeno» (Grund der Erscheinung), il quale riceve realtà (Realität) e verità (Wahrheit) solamente per mezzo del suo legame originario con essa. Nel concetto di Dio trova piena espressione l’essere fondamentale (grundsätzliches Sein), l’assoluta immanenza e chiusura-in-sé dell’assoluto, l’assoluto in quanto Dio. L’accostamento operato da Fichte dei concetti di «assoluto» e di «fenomeno» a quelli di «Dio» (Gott) e di «mondo» (Welt), dà tuttavia adito ad alcune difficoltà: in primo luogo, la necessità di chiarire come l’essenza (Wesen) dell’assoluto, in sé assolutamente chiusa e compiuta, possa procedere al di fuori di sé, divenendo «causa di un mondo» esterno; in secondo luogo ed in maniera simmetrica, come tale mondo possa presentarsi in quanto esterno a Dio, visto che esso, secondo verità, è lo stesso con Dio. Il compito della Wissenschaftslehre consiste, dunque, nel dimostrare l’identità ed al contempo la differenza di assoluto e fenomeno, ovvero «l’unità e differenza di Dio nel mondo»13.

In tal senso, la Ideenlehre e la Gotteslehre costituiscono il cuore della riflessione speculativa operata da Fichte in questi anni, nonché dei corsi popolari contemporanei. Risulta dunque evidente come le tre opere popolari del 1806 non possano prescindere da tale

12 J. G. FICHTE, Die Principien der Gottes- Sitten- und Rechtslehre, in GA

II/7, p. 378. 13 Ibidem, p. 394. Asmuth sostiene che in Fichte sia presente la prevalenza

del concetto di Io rispetto a quello di Dio: «il Dio reale e proprio è interiore, è in noi stessi, non è altro che la nostra essenza interiore, ossia Io» (CH. ASMUTH, Das Begreifen des Unbegreiflichen. Philosophie und Religion bei J. G. Fichte 1800-1806, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1999, p. 311). In realtà l’Io è quello che si potrebbe definire, un nome dell’assoluto per la Wissenschaftslehre mediana, che ne esprime l’essenza spirituale ed il legame intimissimo con il nostro io, ossia ciò che è più intimo a noi di noi stessi.

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sostrato teoretico: la «dottrina dell’idea» e la «dottrina di Dio» sono l’autentico trait d’union che collega questi tre cicli di lezioni ed impedisce ogni loro riduzione a semplici opere divulgative. Tale prospettiva conferisce valore alla scelta di un’analisi approfondita dei passi nei quali Fichte espone in maniera popolare i risultati della propria speculazione filosofica condotta secondo l’impostazione scientifico – genetica14.

2 – Le lezioni sull’Anweisung zum seeligen

Leben

La dottrina dell’idea e la dottrina di Dio sono al centro delle

lezioni sull’Anweisung, l’opera nella quale si realizza la compenetrazione fra sostrato teorico ed esposizione popolare intorno al tema della «dottrina della religione» (Religionslehre). L’Anweisung costituisce, infatti, l’apice della riflessione filosofico – popolare fichtiana: in essa convergono tematiche affrontate nelle altre due opere popolari di questi anni, ossia il tema della mediazione tra le strutture della visione contemporanea del mondo e della vita ed il tema del rapporto tra il compimento dell’essere portatore dell’esistenza e l’esistenza concreta dell’individualità. Con le lezioni sull’Anweisung Fichte intende mettere in relazione il compimento universale dell’essere e l’esistenza concreta, nel contesto di una dottrina generale della felicità (Glückseligkeitslehre).

Nell’Anweisung viene realizzata una profonda riflessione intorno alla stretta connessione fra Religionsphilosophie e

14 Benché talora Fichte utilizzi l’espressione idea nei suoi lavori scientifici,

tuttavia ciò avviene in maniera non specifica. Cfr. ad esempio J. G. FICHTE, Die Wissenschaftslehre - Zweiter Vortrag im Jahre 1804, a cura di R. Lauth e J. Widmann, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1975-19862 [Abbreviazione: WL 1804/II], p. 19-20. Cfr. J. DRECHSLER, Fichtes Lehre vom Bild, Stuttgart, Kohlhammer, 1955; W. JANKE, Fichte, Sein und Reflexion - Grundlagen der kritischen Vernunft, Berlin, de Gruyter, 1970.

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Wissenschaftslehre, a partire dalla considerazione fondamentale secondo cui la Religionsphilosophie è deducibile nel suo principio dall’unità della stessa ragione ed appartiene alla costituzione della teoria del sapere. Solamente a partire dalla fondazione del principio della filosofia della religione nell’unità della ragione è possibile procedere allo svolgimento del sistema verso la «disciplina materiale» della Religionslehre, la quale, insieme alle dottrine della natura, del diritto e della morale, è parte costitutiva del sistema complessivo della Wissenschaftslehre.

Scrive Fichte nella Prefazione all’Anweisung:

Queste lezioni, assieme a quelle appena apparse […] con il titolo Caratteri fondamentali dell’epoca presente e a quelle Sull’essenza del dotto […] – nelle quali viene sviluppato, con riferimento a un oggetto particolare, il modo di pensare dominante in tutte queste esposizioni – costituiscono l’insieme di un insegnamento popolare (populärer Lehre), di cui le presenti lezioni rappresentano il vertice ed il punto di più intensa luminosità (Gipfel und hellster Lichtpunkt).15

Le prime lezioni sull’Anweisung – in particolar modo le lezioni II, III e IV – costituiscono il punto di partenza della riflessione metafisica ed ontologica fichtiana di questi anni, che verrà sviluppata in chiave scientifica nei corsi a partire dal 1804 sulla Wissenschaftslehre. È lo stesso Fichte a distinguere le lezioni dell’Anweisung in due parti: le prime sei lezioni, che tematizzano la

15 A, p. 47. La Anweisung costituisce l’apice della riflessione filosofica

popolare: in essa vengono affrontati sia il tema della mediazione tra le strutture della visione contemporanea del mondo e della vita (cfr. Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters), sia quello del rapporto tra il compimento dell’essere portatore dell’esistenza e l’esistenza concreta dell’individualità (Über das Wesen des Gelehrten). Finalità dell’Anweisung è di sviluppare, procedendo al di là della determinazione dell’essenza del dotto, la messa in relazione (Inbeziehungsetzung) tra compimento universale dell’essere ed esistenza concreta, nel contesto di una dottrina generale della felicità (Glückseligkeitslehre). Cfr. H. TRAUB, J. G. Fichtes Populärphilosophie 1804-1806, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1992, p. 14.

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costituzione di una «teoria generale dei possibili progetti di esistenza»; le restanti cinque, che sviluppano la concezione di una «dottrina generale della felicità» sulla base di questa teoria16. Non si tratta di una suddivisione meramente estrinseca:

la nostra teoria dell’essere e della vita è ora esposta compiutamente. […] Ora il possesso vivente della teoria esposta, e non certo la sua conoscenza arida e morta, puramente storica, costituisce […] la più alta e unica beatitudine possibile. Provare questo è d’ora in avanti il nostro compito, e ciò costituisce propriamente la seconda parte principale di tutte queste lezioni […].17

16 Questo è lo schema della struttura delle undici lezioni:

I lezione: sguardo d’insieme sull’intero corso di lezioni;

II lezione: distinzione tra metodo popolare e filosofico;

II-V lezione: prima parte principale: teoria generale dei possibili progetti di esistenza;

VII-X lezione: seconda parte principale, dottrina generale della beatitudine;

VI, XI lezione: realizzazione della pretesa sistematica della dottrina della religione quale «iniziazione», ossia quale scienza mediatrice che riduce l’abisso fra teoria e prassi.

17 «Unsere Theorie über Sein und Leben ist nun vollständig vorgetragen. […] Der aufgestellten Theorie lebendiger Besitz nun, keineswegs aber ihr trocknes und totes, lediglich historisches Wissen, ist […] die höchste, und die einzig mögliche Seligkeit. Dieses darzutun ist von heute an unser Geschäft, und es machet dies eigentlich den zweiten Hauptteil dieser ganzen Vorlesungen aus […]» (A, p. 129). Questa suddivisione delle lezioni sulla Anweisung risponde, dunque, all’esigenza di dedurre in maniera sistematica la dottrina della religione quale «iniziazione alla vita beata», senza con ciò discostarsi dalla concezione globale della stessa filosofia fichtiana; si tratta cioè della volontà di favorire l’analisi critico-epocale della concezione filosofica complessiva sottostante a ciascuno dei tre scritti filosofico-popolari, in vista del compimento del realizzarsi della ragione.

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2.1. Lezione I

Quanto emerge sin dalla I lezione18 è la centralità della teoria dell’essere e della vita (Seyns- und Lebenslehre) in vista dello svolgimento di una dottrina della beatitudine all’interno della Religionslehre e fermo restando la necessità di interpretare quest’ultima in stretta connessione con il concetto di filosofia quale scienza mediatrice, espressione dell’esigenza di realizzazione (Realisierung) della ragione in un complesso di presupposti empirico e determinato.

I principali plessi concettuali presenti nella I lezione possono essere così schematizzati. - L’esposizione in forma popolare degli elementi della filosofia

trascendentale: la Wissenschaftslehre viene ad essere intesa non più come teoria della coscienza, bensì come teoria del sapere assoluto (absolutes Wissen), dottrina dell’idea (Ideenlehre) e dottrina di Dio (Gotteslehre).

- L’esito della filosofia in quanto Wissenschaftslehre è interpretabile come l’annientamento del concetto (Vernichtung des Begriffs) di fronte all’inconcepibile (Unbegreifliches), vero e proprio concepire dell’inconcepibile (Begreifen des Unbegreifliches).

- L’emergenza di un «nuovo compito della filosofia»: «ricondurre tutto il molteplice all’unità assoluta»19, dove per unità assoluta s’intende il vero (das Wahre), l’in sé immutabile (das Unveränderliche an sich), il criterio di validità della Wissenschaftslehre stessa.

- Il profilarsi della «dottrina dell’immagine» (Bildlehre), dove il sapere è mera immagine (Bild) dell’essere (Sein). Il sapere assoluto non è né l’essere assoluto, né un non-essere negativo, bensì l’essere nella forma della visibilità (Sichtbarkeit); l’essere

18 La lezione si tiene domenica 12 gennaio 1806. 19 «Alles Mannigfaltige zurückzuführen auf absolute Einheit» (WL 1804/II

, p. 7]).

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o Dio non è un in-sé (An-sich), un qualcosa di oggettuale (gegenständliches Etwas), di metafisicamente stabile; l’essere è «il non-visibile» (das Nicht-Sichtbare).

- La distinzione tra vita reale e vita apparente: la vita vera (reales Leben) è semplice, immutabile, eternamente uguale a se stessa, in opposizione alla vita apparente (scheinbares Leben), che vive solo nel mutevole. Solo l’essere è vita (Sein = Leben), mentre il non essere è non vita (Nicht-Sein = Tod).

- Soltanto l’essere (das Sein) – ciò che è in sé e per sé – è (ist). Esso è semplice, uguale a se stesso, invariabile, immutabile, senza origine né declino.

- L’amore (Liebe) è il centro della vita vera. Grazie ad esso giunge la beatitudine (Seligkeit), in quanto essere unito con ciò che si ama. È propria solo della vita vera, non di quella apparente, necessariamente infelice.

- Altro concetto chiave è quello dell’impulso (Trieb), che sta alla base della «nostalgia per l’eterno» (Sehnsucht nach dem Ewigen) e che spinge ogni esistenza finita alla ricerca della vita vera, incessante e senza mai quiete (angoscia). Vivere autenticamente significa dunque pensare veramente, conoscere la verità.

- Inoltre, poiché ciò che è eterno (das Ewige) può essere attinto solo con il pensiero, la stessa «dottrina della beatitudine» (Seeligkeitslehre) altro non è se non «dottrina del sapere» (Wissenslehre).

- L’iniziazione (Anweisung) alla vita beata è dunque da intendersi come riposare nell’uno, rigettare la vita non vera: per divenire beato occorre spostare il proprio amore dal molteplice all’Uno (raccoglimento – Sammlung, ritorno all’Uno).

2.2. Lezione II

Nella seconda lezione20, Fichte esplicita la propria intenzione di esporre in maniera popolare l’ontologia e la metafisica costitutive della vera conoscenza. Nonostante le immediate ed aspre obiezioni sollevate da numerosi filosofi contemporanei, contrari a tale tipo di

20 La lezione si tiene domenica 26 gennaio.

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operazione per via della non opportunità di affrontare temi filosofici mediante un’esposizione popolare, Fichte sottolinea come chi non è in grado di comprendere gli elementi fondamentali della conoscenza non possa giungere all’autonomia interiore del pensiero, poiché rimane legato all’opinione (Meinen), ossia alla mera apprensione di un’intelligenza estranea (fremder Verstand), in quanto privo di «[...] un organo del senso spirituale, e precisamente il più nobile che lo spirito possieda. […] [Inoltre] soltanto mediante il pensiero autentico, puro e vero, e assolutamente con nessun altro organo, si può attingere e attirare a sé la divinità e la vita beata che sgorga da essa»21. L’accettazione acritica del principio, secondo il quale esclusivamente attraverso la filosofia sistematica è possibile elevarsi all’autentica verità, comporterebbe l’esclusione di tutti i non-filosofi dalla possibilità di pervenire alla conoscenza della verità stessa.

Fichte non solo intende la religione come conoscenza diretta di Dio, autentico possesso nella propria persona per mezzo del pensiero puro, ma ne rifiuta ogni componente fideistica, evidenziandone il momento intellettuale; il significato più autentico della religione non consiste nel credere (glauben) che esista Dio, affermazione che in realtà non è altro che superstizione (Aberglaube), ma nel fatto che essa possieda un carattere filosofico-razionale, unico elemento che permette di cogliere (ergreifen) veramente Dio. Tale concezione evidenzia chiaramente come la filosofia della religione fichtiana non sia affatto riducibile a mero misticismo22, dal momento che in essa il pensiero puro viene a

21 «[...] immerfort ein geistiges Sinnorgan, und zwar das edelste, welches

der Geist hat. [...] man nur durch das eigentliche, reine und wahre Denken, und schlechthin durch kein anderes Organ, die Gottheit und das aus ihr fließende seelige Leben, ergreifen, und an sich bringen könne» (A, p. 68).

22 È stata questa la tendenza interpretativa di parte della critica. Ad esempio, J. BARION, Die intellektuelle Anschauung bei J. G. Fichte und Schelling und ihre religionsphilosophische Bedeutung, Würzburg, 1929, attribuisce all’Anweisung la presenza di una componente mistica di fondo; l’affermazione dello stesso Fichte, secondo cui Dio può essere guardato (angeschaut) dall’uomo tramite il pensiero, costituirebbe per

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coincidere con l’esistenza divina, immagine (Bild) reale di Dio nell’esistente (Daseyn); la teoria del pensiero, quale organo della conoscenza di Dio, permette di comprendere come quest’ultimo possa essere colto e visto in maniera immediata. L’autentica religione non consiste nel credere semplicemente nell’esistenza di Dio, bensì nel «vedere, avere e possedere Dio direttamente nella nostra propria persona, e non in una estranea, con il nostro proprio occhio spirituale, e non con uno estraneo. [...] Il pensiero puro è la

Barion una particolare (eigenartig) accezione di pensiero, ossia una sorta di esperienza sentimentale (Gefühlserlebnis) di matrice psicologizzante. Contro tale interpretazione si esprime W. JANKE, in Fichte – Studien – Supplementa 4, Amsterdam – New York, Rodopi, 1994, pp. 83-95.

È comunque lo stesso Fichte a pronunciarsi, non solo contro l’obiezione di misticismo, ma anche contro l’affermazione secondo la quale il concetto di amore, centrale nella dottrina della religione, farebbe della sua filosofia una filosofia del sentimento (Gefühlphilosophie); la vita beata non può costruirsi sul sentimento, dal momento che quest’ultimo è caratterizzato dall’assenza di vita e da un’intrinseca mutevolezza.

Nonostante l’evidente rischio di fraintendimenti cui espone l’utilizzo del termine misticismo quale espressione della concezione fichtiana della Religionslehre, tuttavia, sono numerose le interpretazioni che ne sottolineano la connotazione mistica (o misticheggiante): ad esempio E. DÜSING, Sittliches Streben und religiöse Vereinigung. Untersuchungen zu Fichtes später Religionsphilosophie, in Religionsphilosophie und spekulative Theologie: der Streit um die göttlichen Dinge 1799-1812, a cura di W. Jaeschke, Hamburg, 1994, pp. 107-125, inscrive la filosofia della religione fichtiana nell’orizzonte di una «metafisica cristiana»: Dio si dischiude al concepito nello sguardo e nell’unione mistici con amore inesprimibile; in ciò si rivela una «inebriante esperienza di unificazione» (beseligende Einigungserfahrung) e nel punto culminante (Gipfelpunkt) un’autentica unio mystica. Tale interpretazione si rivela in realtà problematica, poiché, facendo uso di una concettualità desunta dalla mistica cristiana ed assimilando la stessa filosofia fichtiana a figure quali Meister Eckhart o Agostino, ne offusca la complessa aspirazione teoretico-sistematica. In questa direzione critica va, ad esempio, CH. ASMUTH, Wissenschaft und Religion. Perspektivität und Absolutes in der Philosophie J. G. Fichtes, in Fichte Studien, 8, 1995, pp. 1-19.

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stessa esistenza divina; e viceversa l’esistenza divina, nella sua immediatezza, non è nient’altro che il pensiero puro»23. In tal senso, l’essenza della Religionsphilosophie consiste nella coincidenza tra esistenza divina e pensiero puro / reale. Questo snodo cruciale ci permette di cogliere l’intima connessione tra pensiero e religione: l’autentica religione non consiste nel credere semplicemente all’esistenza di Dio, bensì nella visione e nel possesso di Dio direttamente nella propria persona e non in una estranea, tramite il nostro proprio «occhio spirituale». Il pensiero puro è la stessa esistenza divina, e viceversa l’esistenza divina, nella sua immediatezza, non è nient’altro che il pensiero puro.

Il pensiero puro, reale, è Dio o, più correttamente, l’esistenza divina (göttliches Daseyn); simmetricamente, l’esistenza divina nella sua immediatezza non è altro che il pensiero puro. Esattamente in questo plesso teoretico trova espressione l’essenza della Religionsphilosophie fichtiana: qui vengono a coincidere il più alto grado di conoscenza dell’assoluto raggiungibile da parte della conoscenza filosofica e contemporaneamente la più fondata certezza di Dio da parte dell’uomo religioso24. La tematizzazione della coincidenza tra esistenza divina e pensiero puro costituisce l’espressione più completa della teoria dell’essere e dell’immagine, grazie alla perfetta confluenza di Gotteslehre e di Ideenlehre con la Religionslehre, in quanto in questo punto Wissenschaftslehre e Religionslehre coincidono nel loro contenuto. Se, da un lato, è vero che per Fichte solamente la Wissenschaftslehre fornisce la conoscenza genetica della dottrina dell’essere e di Dio e che la Religionslehre considera l’assoluto come un «fatto assoluto»,

23 «[...] man, in seiner eigenen Person, und nicht in einer fremden, mit

seinem eigenen geistigen Auge, und nicht durch ein fremdes, Gott unmittelbar anschaue, habe, und besitze. Dies aber ist nur durch das reine und selbstständige Denken möglich. [...] Das reine Denken ist selbst das göttliche Daseyn; und umgekehrt, das göttliche Daseyn in seiner Unmittelbarkeit, ist nichts anders, denn das reine Denken» (A, p. 69, sottolineature nostre).

24 Cfr. J. BARION, Die intellektuelle Anschauung bei J. G. Fichte und Schelling, cit.

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dall’altro quest’ultima permette di cogliere Dio stesso nella maniera più completa e senza ricorso ad alcun fondamento esterno rispetto alla propria persona.

2.3. Lezione III

Nella terza lezione25, Fichte riprende gli elementi fondamentali della propria Transzendentalphilosophie, al fine di evidenziarne la portata e la valenza alla luce della Religionslehre. Sulla base della duplice considerazione che non tutto ciò che appare vivo in realtà vive e che la maggior parte degli uomini non perviene al pensiero autentico ma si limita all’opinione, le denominazioni pensiero (Denken) e vita (Leben) vengono a configurarsi come sinonimi, in quanto «l’elemento della vita è stato posto nel pensiero, e quindi il non pensare è la sorgente della morte»26.

Il sapere (wissen) dell’assoluto è la sua esistenza, ossia «l’essere-qui-dell’essere» (das-Da-des-Seins); questa presenza immediata dell’essere nel sapere viene indicata nella Religionslehre fichtiana con il termine Da-seien (non semplicemente Da-sein), concetto che esprime l’essenziale vitalità (Lebendigkeit) ed attualità (Aktualität) dell’essere all’interno dell’esistenza. Nell’immediatezza di tale profonda radice vitale si evidenzia il fatto che, tra essere ed esistenza, Dio e sapere, non sussiste alcuna divisione (Trennung), e che entrambi sono completamente assorbiti l’uno dall’altro; Dio esiste in quest’esistenza quale semplicemente è in se stesso, senza che avvenga alcuna trasformazione nel passaggio dall’essere all’esistenza, nessuna frattura (Trennung) o abisso (Kluft). Come Dio è in sé uno, identico in se stesso, senza mutamento o trasformazione ed esiste anche in quanto unità e senza trasformazione, così, neppure noi siamo soggetti a mutamento, trasformazione, divisione o lacerazione, dal momento che il sapere coincide con la stessa esistenza divina. Tuttavia, nella realtà concreta (Wirklichkeit) sono rinvenibili le distinzioni dell’essere e nell’essere (des und in dem

25 La lezione si tiene domenica 2 febbraio 1806. 26 «[...] das Element des Lebens in den Gedanken gesetzt worden, somit

wohl das Nichtdenken die Quelle des Todes seyn dürfte» (A, p. 80).

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Seyn), assolutamente impossibili per il pensiero: da ciò sorge la necessità di conciliare la contraddizione (Widerspruch) di fondo tra percezione della realtà (Wahrnehmung der Wirklichkeit) e pensiero puro (reines Denken), al fine di dimostrare come possano essere entrambe vere e da dove provenga la molteplicità (Mannigfaltigkeit), visto che l’essere è in sé semplice.

I principali plessi concettuali della III lezione ripropongono in chiave popolare gli elementi della Ideen- und Gotteslehre elaborate nelle esposizioni della Wissenschaftslehre di questi anni (soprattutto la Wissenschaftslehre 18042) e possono essere così schematizzati. a) Il compito principale del pensiero è di «pensare con rigore

l’essere» (das Seyn scharf zu denken): «l’essere autentico e vero non diviene, non nasce né emerge dal non essere»27, poiché esso non sorge dal nulla. L’essere vero è pertanto pensabile in maniera autentica «[...] soltanto come essere in sé, a partire da sé e per sé»28, come ciò che non è divenuto e che non necessita di alcun altro essere. Il pensiero pensa l’essere senza relazione con altro; l’essere è fondamento (Grund) di se stesso, indipendente (unabhängig) ed autonomo (selbstständig). Esso è perché (weil) è.

b) L’essere è immutabile (unveränderlich), da e per tutta l’eternità (von aller ... in alle Ewigkeit), indiviso, senza restrizioni, fornito di assoluta indipendenza (Unabhängigkeit) ed autonomia (Selbstständigkeit); il pensiero pensa l’essere come ciò che è ciò che è (als dasjenige, das ist, was es ist). Esso è così come può (kann) e deve (muß) essere tramite se stesso (durch sich).

27 «Das eigentliche und wahre Seyn Wird nicht, entsteht nicht, geht nicht

hervor aus dem Nichtseyn» (Ivi). Se fosse altrimenti, la ricerca dell’essere cadrebbe nell’argumentum ad infinitum, inammissibile dal punto di vista della filosofia trascendentale fichtiana; infatti, per interrompere tale serie, sarebbe necessario pervenire ad un essere che non diviene e che è causa sui, «[...] semplicemente per se stesso, di se stesso e a partire da se stesso, [...] schlechthin Durch sich selbst, Von sich, und Aus sich selbst» (A, p. 85).

28 «[...] nur als Seyn von sich selbst, aus sich selbst, durch sich selbst» (Ivi, sottolineature nostre).

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Pertanto, «l’essere va pensato unicamente come uno, e non come molteplice; e soltanto come un’unità chiusa in se stessa, compiuta e assolutamente immutabile»29.

c) La distinzione tra «essere interno e nascosto in sé» (inneres und in sich verborgenes Seyn) ed «esistenza» (Daseyn) costituisce uno degli apici della Gotteslehre, in quanto fra le due idee sussiste un’opposizione totale e non sussiste alcun legame. «Direttamente ed alla radice, l’esistenza dell’essere è la coscienza, o la rappresentazione dell’essere»30; l’esistenza si presenta come contrassegno esterno dell’essere indipendente, immagine (Bild) di esso, ossia come «il suo essere al di fuori del suo essere»; l’esistenza è coscienza (Bewußtsein) o rappresentazione (Vorstellung) dell’essere.

d) «[…] La coscienza dell’essere, unica forma ed unica modalità possibile dell’esistenza dell’essere, è perciò essa stessa, in maniera del tutto immediata, puramente ed assolutamente questa esistenza dell’essere»31; l’essere deve esistere (soll daseyn), benché, in quanto in sé autosufficiente ed assoluto, non si confonde con l’esistenza. L’esistenza in quanto semplice esistenza (bloßes Daseyn) è espressione dell’essere assoluto (absolutes Seyn) ed annulla (vernichtet) anche il proprio essere dinnanzi ad ogni altra esistenza assoluta, offrendosi come semplice immagine (Bild), rappresentazione (Vorstellung), coscienza (Bewußtseyn) dell’essere. Pertanto, «l’esistenza dell’essere deve essere necessariamente e non può essere nient’altro che un’autocoscienza dell’esistenza stessa in quanto semplice immagine dell’essere esistente in se stesso in maniera

29 «[...] das Seyn schlechthin nur als Eins, nicht als mehrere; und es nur als

eine, in sich selbst geschloßne, und vollendete, und absolut unveränderliche Einerleiheit, zu denken sey» (A, p. 86).

30 «Unmittelbar, und in der Wurzel, ist - Daseyn des Seyns das - Bewußtseyn, oder die Vorstellung des Seyns».(Ivi, sottolineature nostre).

31 «[...] Das Bewußtseyn des Seyns, die einzig mögliche Form und Weise des Daseyns des Seyns, somit selber ganz unmittelbar, schlechthin und absolute, dieses Daseyn des Seyn, sey» (A, p. 88).

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assoluta»32. Tale contrapposizione fra essere ed esistenza si dà all’interno della stessa esistenza, la quale deve, da un lato cogliere se stessa come esistenza, dall’altro porre e raffigurare al tempo stesso un essere assoluto, di cui essa stessa costituisce la pura esistenza. L’esistenza di Dio è ed al tempo stesso non è Dio33. Il pensiero annulla (vernichtet) il proprio essere, la propria autonomia ed indipendenza e raggiunge se stesso come ciò che è, ossia coscienza saputa (bewußtes Bewußtsein) dell’essere, autocoscienza (Selbstbewußtsein).

e) La coscienza, in quanto autocoscienza, sì coglie (auffassen) in quanto tale, non si chiarifica (aufklären), non è cioè in grado di penetrare il fondamento (Grund) della propria determinatezza (Bestimmtheit). La coscienza dell’essere non è in grado di comprendere il modo (wie) in cui dall’essere assoluto ed in sé nascosto necessariamente derivi l’esistenza quale sua manifestazione. Essa non può comprendersi (begreifen) e dedursi (ableiten) al di là (jenseit) di se stessa.

f) La coscienza pensa l’essere assoluto solamente nella misura in cui si concepisce come mera espressione e rivelazione in sé insussistenti (wesenslos) dell’essere; ovvero nella misura in cui essa concepisce la propria libertà e se stessa come «non-essere dell’assoluto» (nicht-Sein des Absoluten)34. «[La vita è] la

32 «Das Daseyn des Seyns - nothwendig ein - Selbstbewußtseyn seiner (des

Daseyns) selbst, als bloßen Bildes, von dem absolut in sich selber seyenden Seyn, seyn - Müsse, und gar nichts anders seyn könne» (Ivi).

33 «Pertanto la coscienza dell’essere è riunificazione (Vereinigung) tra essere-cosciente-di-se-stesso dell’essere e la nostra coscienza dell’essere. Proprio nel fatto che l’essere tenta di penetrare nell’esistenza e che l’esistenza aspira all’unità consiste la coscienza dell’essere. Logicamente, è questa […] la riunificazione di unità e molteplicità» (C. KUMAMOTO, Der Begriff der Erscheinung bei spätem Fichte, in AAVV, Der transzendentale Gedanke - Die gegenwärtige Darstellung der Philosophie Fichtes, a cura di K. Hammacher, Hamburg, Meiner Verlag, 1981, p. 75).

34 Il coglimento di Dio da parte dell’uomo «[…] è l’autoannientamento della coscienza (Selbstvernichtung des Bewußtseins)». (F. MEDICUS,

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vivente e potente esistenza dell’assoluto stesso, che solo è in grado di essere e di esistere, al di fuori del quale non c’è niente e niente esiste realmente. Ora l’assoluto, come non può essere che per se stesso, così non può esistere che per se stesso»35. Sapere e Dio sono, dunque, pensabili nella loro unità e differenziazione: se quest’ultima risulta inevitabile per la coscienza, la quale è tale differenziazione, tuttavia, la stessa coscienza si trova ad essere nell’unità con Dio, unità che anzi deve presupporre proprio per poter essere se stessa.

2.4. Lezione IV

Nella IV lezione36, Fichte affronta la tematica della determinazione dei fondamenti della molteplicità (Mannigfaltigkeit), a partire dall’analisi della dottrina dell’idea ed in stretta connessione con la dottrina della religione e della beatitudine: infatti, l’unica vera condizione della vita beata consiste nello «[...] attingimento dell’uno e dell’eterno con intimo amore e godimento, benché quest’uno, in verità, possa essere colto soltanto in immagine, ma noi stessi non possiamo mai, in realtà diventare l’uno e trasformarci in esso»37. Si evidenziano qui le due linee tematiche presenti nelle lezioni: suscitare la vera conoscenza dell’essere come uno immutabile e per sé, e riconoscere che noi, benché intimamente radicati in esso, non

Einleitung zu J. G. Fichte. Die Anweisung zum seligen Leben, Leipzig, 1910, p. VII).

35 «Dieses sein Seyn, sein Reales, lediglich unmittelbar wahrzunehmendes, Leben genannt haben. [...] das lebendige, und kräftige Daseyn des Absoluten selber, welches ja allein zu seyn, und da zu seyn vermag, und außer welchem nichts ist, noch wahrhaftig da ist. Nun kann das Absolute, so wie es nur durch sich selbst seyn kann, auch nur durch sich selber da seyn» (A, p. 89, sottolineature nostre).

36 Tenutasi domenica 9 febbraio 1806. 37 «[...] Erfassung des Einen und Ewigen, mit inniger Liebe, und Genusse:

wie wohl dieses Eine, freilich nur im Bilde erfaßt, keinesweges aber Wir selber, in der Wirklichkeit, zu dem Einen werden, noch in dasselbe uns verwandeln können» (A, p. 92).

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coincidiamo con esso. «Al di fuori di Dio non esiste, realmente e nel vero senso del termine, nient’altro che – il sapere: e questo sapere è la stessa esistenza divina, puramente e semplicemente, e nella misura in cui siamo il sapere, noi stessi, nella nostra radice più profonda, siamo l’esistenza divina»38. Quanto ci appare come esistenza non esiste veramente ed in sé, ma solamente nella coscienza e nel pensiero, proprio in quanto cosciente e pensato, ed in nessun altro modo39.

Il «principio della molteplicità» viene, dunque, chiarito proprio a partire dalla posizione del problema nell’ambito della «dottrina della religione». - L’essere assoluto, Dio, è (ist) assolutamente ed immediatamente

ciò che è, per sé e da sé (durch und von sich); inoltre, esso è esistente (ist Da), si esprime (äußert sich) e si rivela (offenbaret sich). Pertanto, Dio è anche questa esistenza da sé ed immediatamente nell’essere da sé, nella vita immediata e nel divenire (unmittelbare Leben und Werden) totale ed immutabile.

- In Dio, essere (Seyn) ed esistenza (Daseyn) sono completamente fusi ed uniti, in quanto il suo essere da sé e per sé implica l’esistenza, la quale non può avere nessun’altra ragione; inoltre «[...] la sua esistenza comporta a sua volta tutto ciò che esso è interiormente e per la sua essenza»40. Pertanto, la distinzione essere-esistenza e la loro eventuale non-connessione esistono solamente per noi, in quanto conseguenza della nostra limitazione (Beschränkung), non in sé, ossia nell’esistenza divina.

38 «Es ist, außer Gott, gar nichts wahrhaftig [...] da, denn - das Wissen: und

dieses Wissen ist das göttliche Daseyn selber, schlechthin und unmittelbar, und inwiefern Wir das Wissen sind, sind wir selber in unserer tiefsten Wurzel das göttliche Daseyn» (A, p. 93).

39 Fichte sottolinea come questa sia la più completa formulazione popolare della vera conoscenza, la quale rende accessibile la beatitudine anche a chi non possiede gli specifici strumenti metodologici filosofico – scientifici.

40 «[...] wiederum zu Seinem Daseyn gehört alles dasjenige, was er innerlich und durch sein Wesen ist» (A, p. 96).

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- L’essere non può confondersi con l’esistenza ed i due concetti devono rimanere distinti «[...] affinché l’essere emerga come essere e l’assoluto come assoluto»41; la distinzione ed il come costituiscono una divisione assoluta, principio di ogni successiva distinzione e molteplicità. La connessione essere-esistenza non rimane nell’immediatezza del suo essere: poiché il sapere nella sua radice vitale è uno con l’assoluto, esso costituisce già un «annullamento» (Aufhebung) di tale interconnessione immediata, ossia una raffigurazione (Abbild) dell’unità immediata. Il sapere non «è» (ist) più tale unità, ma la «sa» (weiß); dunque, tale unità si realizza (vollziehen) nell’esistenza proprio nel raffigurare (abbilden) e tramite la stessa esistenza si compie la legge fondamentale del suo essere, ossia l’essere sapere (Wissen) o comprendere (Verstehen). Fichte indica questo «farsi-forma-del-sapere» (zu-Gestalten-des-Wissens-machen) con il concetto di «formare» (Bilden): il sapere – esistenza dell’assoluto – può sapere della propria essenza e del proprio fondamento di esistenza solamente «in quanto saputo» (als Gewußtes).

I plessi concettuali chiave della IV lezione dell’Anweisung possono essere così sintetizzati. a) La relazione tra Seyn ed Existenz, Grund e Begründetes: unità e

contemporanea derivazione dei due concetti, relazione tra unità immediata ed unità saputa, ossia tra fondamento (Grund) e fondato (Begründetes). Il come (der Als) delle due realtà, essere ed esistenza, «[...] non dà immediatamente il loro essere, ma soltanto ciò che esse sono, la loro descrizione e caratterizzazione: esso le dà in immagine, e precisamente in un’immagine composita»42, in quanto ognuna delle due viene individuata dall’altra nella misura in cui non è ciò che l’altra è.

41 «[...] damit das Seyn, als Seyn, und das Absolute, als Absolute,

heraustrete» (Ivi). 42 «[...] liefert nicht unmittelbar ihr Seyn: sondern es liefert nur, Was sie

sind, ihre Beschreibung, und Charakteristik: es liefert sie im Bilde: und zwar liefert es - ein Gemischtes [...] Bild beider» (Ivi).

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b) La coscienza coglie solamente in immagine (Bild) ed in rappresentazione (Rapräsentanten), ossia entro i limiti del comprendere. Così Fichte esprime tale concezione in maniera popolare: noi non ci comprendiamo per ciò che siamo in noi stessi, né comprendiamo l’assoluto qual è in se stesso, ma solamente per mezzo del concetto che non comprende se stesso.

c) La trasformazione (Verwandlung) dell’essenza originaria dell’essere e dell’esistenza di Dio avviene nella coscienza (Bewußtseyn) in quanto atto del distinguere (Unterscheiden). Quanto viene caratterizzato mediante il concetto si trasforma in un essere stabile e presente (stehendes und vorhandenes Seyn), ossia in qualcosa di oggettivo (ein Objectives). Ciò che in sé è direttamente la vita divina nella vita, ossia «la vita vivente» (das lebendige Leben), assume la figura (Gestalt) di un essere stabile e quieto per mezzo della trasformazione compiuta dal concetto, diviene cioè il mondo (Welt); è il concetto il vero creatore del mondo (Weltschöpfer).

d) Il mondo si rivela dunque come «ciò che nasce dal concetto»: il concetto costituisce «il come» (das Als) rispetto all’essere ed all’esistenza divina. Nella riflessione su se stesso il sapere si divide (spaltet sich) per se stesso, non soltanto in generale (überhaupt), ma anche in quanto «questo e quello» (als Das und Das). Il principio della molteplicità deve porsi nell’ambito della differenza (Unterschiedenheit), ossia non nell’attività tramite cui Dio si esprime e si rivela, bensì nell’attività della coscienza, dell’essere consapevole sia di se stessa in quanto coscienza, sia della propria differenza dall’essere stesso. Il distinguere costituisce l’attività della coscienza stessa ed è indice dell’irraggiungibilità dell’in-sé (An-sich). Il come, oltre che rendere possibile la contrapposizione tra essere ed esistenza, conferisce al distinto una forma, un contorno preciso, cosicché sapere qualcosa significa sapere qualcosa di determinato (etwas Bestimmtes) e, conseguentemente, distinguere.

e) Il primo ed immediato oggetto della riflessione è l’esistenza trasformatasi in un essere stabile; tale essere, nella sua totalità, è il mondo (Welt), a sua volta suddiviso secondo caratteri determinati, e «figure particolari» (besondere Gestalte). Sulla

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base dell’assoluta libertà e spontaneità della riflessione, si ha il passaggio ad un processo all’infinito, cosicché il mondo viene alla luce in una forma sempre nuova, modificandosi e rivestendosi di forme all’infinito, fluendo come una «molteplicità infinita» (unendliches Mannigfaltige). Il concetto trasforma la vita divina (göttliches Leben) in un essere stabile (stehendes Seyn); solamente per (für) e nel (in) concetto il mondo è manifestazione necessaria della vita.

f) La coscienza costituisce, dunque, un’inscindibile unità con la stessa esistenza divina: essa si fa coscienza nel momento in cui si coglie nell’essere, cosicché il proprio essere (il vero essere divino) diviene il mondo. La coscienza assoluta costituisce l’attuazione (Vollziehung) immediata – ma non consapevole – della trasformazione della vita immediata in un mondo. La vita divina ed immediata rimane nascosta alla stessa coscienza, esiste proprio nel suo essere nascosto della coscienza (im verborgenen Seyn des Bewußtseyns), inaccessibile al concetto43.

In ogni coscienza reale (wirkliches Bewußtseyn) si compie un

atto di riflessione (Reflexionsakt), che inevitabilmente divide (spaltet) l’unico mondo in infinite figure (unendliche Gestalte), mai completamente comprensibili e, dunque, presenti come serie infinita nella coscienza stessa. Il mondo in quanto uno (die Eine Welt) è in maniera autentica, solamente «nell’assoluta e unica forma fondamentale del concetto»44, ossia in quella forma che non può essere ristabilita nella coscienza reale immediata, bensì solo nel pensiero che la supera. Solamente nella riflessione l’essere della coscienza assume la forma della molteplicità, la quale è tanto insopprimibile e necessaria all’occhio spirituale, quanto lo sono i

43 «[...] in dem, was allein das Bewußtseyn trägt, und es im Daseyn erhält,

und es im Daseyn möglich macht. Im Bewußtseyn verwandelt das göttliche Leben sich unwiederbringlich in eine stehende Welt» (A, p. 100).

44 «[...] in der absoluten und Einen Grundform des Begriffes» (Ivi).

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colori per l’occhio sensibile45. L’esistenza si contrappone all’essere nel momento in cui si concepisce come esistenza autonoma (selbständig), cogliendosi come autocoscienza: è il primo atto della riflessione, la quale deve (soll) essere. Il fondamento di tale esigenza intrinseca (Sollen) è in Dio e consiste nel principio di autonomia (Selbständigkeit) e di libertà (Freiheit) della stessa coscienza. Ed è proprio il risiedere di tale principio in Dio a far sì che l’autonomia e la libertà esistano veramente senza essere riducibili a mera apparenza (Schein).

La divisione (Spaltung) della coscienza unica in un’infinità di individui è frutto dell’originaria divisione essere-esistenza. La coscienza reale (wirkliche) non è in grado di trascendere la serie infinita delle rappresentazioni; solamente il pensiero può concepire il mondo come unico nella forma fondamentale, unica ed assoluta, del concetto, benché non possa comprendere come (wie) dall’essere derivi l’esistere e si limiti al che (daß), al fatto (Faktum) che l’esistenza è effettivamente fondata sulla necessità intrinseca dell’essere. Essere e forma (cioè esistenza) si compenetrano a tal punto da risultare indisgiungibili; il che significa che il concetto è sì attivo nel momento del differenziare (Unterscheiden), ma che non può fornire la realtà della stessa attività. La forma in sé è nulla: ciò

45 «Elevati, al di là di questa apparenza, fino al pensiero; lasciati afferrare

da esso; e d’ora in poi presterai fiducia soltanto ad esso», «[...] Erhebe über diesen Schein dich zum Denken; laß von diesem dich ergreifen; und du wirst von nun an nur ihm Glauben beimessen» (A, p. 101). L’esempio utilizzato da Fichte per chiarire tale principio è quello dell’occhio sensibile (sinnlicher Auge) inteso come prisma, in cui l’etere, puro ed incolore, del mondo sensibile si rifrange in molteplici colori quando si riflette sulle cose. Tale etere non è in sé e per sé colorato, ma si scompone nei colori grazie all’azione dell’occhio stesso: infatti, l’etere non può essere visto (poiché incolore), ma può essere pensato come tale; e si può prestare fede a tale pensiero solamente dopo aver chiarito la natura dell’occhio stesso. Analogo discorso vale per il cosiddetto occhio spirituale (geistiger Auge): «quello che tu vedi, lo sei eternamente tu stesso; [...] ma tu lo sei invariabilmente, puramente, senza colore e senza figura», «Was du siehst, bist ewig du selbst; [...] aber du Bist es, unveränderlich, rein, farben- und gestaltlos» (Ivi).

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che si forma è solamente l’assoluto reale, ossia l’essenza divina; ogni momento dell’infinità è determinato tramite l’essenza interiore dell’assoluto e tramite il formarsi infinito di questo stesso. Il pervenire a sé da parte dell’esistenza non avviene in maniera immediata, bensì come «sviluppo graduale»: la reale autocoscienza dell’esistenza non viene prodotta immediatamente dalla rifleione, ma sorge nell’esistenza stessa proprio sulla base del suo riferimento al mondo; è l’esistenza che, a partire dal mondo che essa stessa pone, ritorna a sé, cosicché il mondo si presenta al contempo come punto originario di partenza e di riferimento della stessa riflessione.

3 – Ontologia e dialettica. Elementi

Per quanto concerne lo sviluppo della filosofia fichtiana nel

corso di questi anni, tra i Grundzüge e l’Anweisung si evidenzia una profonda trasformazione (Veränderung) concettuale: nella seconda e nella terza lezione dei Grundzüge, Fichte afferma che tra l’individualità della vita chiusa in sé e la dedizione alla vita del genere si dà opposizione (Gegensatz), con il conseguente superamento di ogni progetto di vita legato alle visioni sensibili del mondo; nella dottrina della religione tale rapporto viene invece caratterizzato come connessione (Zusammenhang), che interpreta le differenti visioni del mondo come stadi di un possibile sviluppo della ragione. Widmann legge questo oltrepassamento concettuale come progresso di ordine sistematico, autentico «superamento della dialettica della negazione» (Überwindung der Negationsdialektik) attuato da Fichte negli ultimi sviluppi della propria speculazione46: si tratterebbe del passaggio concettuale da una dialettica caratterizzata dalla negazione degli stadi inferiori in favore di quelli successivi, ad una «dialettica dello sviluppo» (Entwicklungsdialektik), nella quale

46 Benché Widmann richiami direttamente la Staatslehre del 1813 e le

Rede an die Deutsche Nation del 1807/08, tale interpretazione può essere estesa anche all’Anweisung. Cfr. J. WIDMANN, Johann Gottlieb Fichte, Berlin – New York, de Gruyter, 1982.

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gli stadi successivi comprendono quelli inferiori nel graduale accrescimento di significato. Tale mutamento concettuale è comunque già rintracciabile nei corsi di lezioni sulla Wissenschaftslehre 18042 e nell’Anweisung, dove viene sviluppata l’idea di una connessione sistematica dei punti di vista fra loro contrapposti. È l’accostamento a questa concezione, mutata rispetto alla visione del mondo e della vita esposta nei Grundzüge, che spiega il passaggio alla «teoria dei possibili progetti dell’esistenza».

Inoltre, nelle lezioni sull’Anweisung possiamo individuare alcuni plessi concettuali chiave di questa fase della speculazione ficthiana. - In primo luogo, la ricerca del primo, dell’origine, del principio

(Grund), il quale non è solo immediatamente intuibile ed indubitabilmente certo, ma anche immensamente più retrocesso rispetto ad ogni altro principio.

- Il concetto di stabilità dell’essere, cui si attinge non per via affermativa, bensì tramite una dialettica negativa: il Sein è il Nicht-Wissen e simmetricamente il Wissen è il Nicht-Sein.

- Il conseguente procedimento di avvicinamento all’essese, indiretto ed allusivo (volendo utilizzare un termine di matrice pareysoniana), dal momento che è il principio stesso a nascondersi, a celarsi, a retrocedere, a regredire continuamente.

- Il concetto secondo il quale in luogo del fondamento (Grund) non c’è il nulla, bensì l’abisso (Abgrund), nel senso di fonte, scaturigine, origine inesauribile dell’essere stesso. Tale interpretazione della concezione fichtiana47 risulta pienamente coerente con l’impostazione critica iniziale, dal momento che non conduce ad una metafisica oggettiva, bensì ad un’autentica ontologia, per cui l’uomo (come Bewußtsein) è egli stesso rapporto con l’essere (Sein), in quanto esistenza (Dasein) di quest’ultimo.

- L’essere (Seyn) non viene, quindi, disperso nella molteplicità, ma al contrario viene a costituire il sostrato profondo e sempre

47 In modo particolare, nei suoi sviluppi a partire dall’esposizione della

Wissenschaftslehre 1801/02.

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presente della stessa (è in tal senso che L. Pareyson parla di «spessore della vita»).

- La concezione di dialettica che viene via via delineandosi si allontana da un’accezione di matrice hegeliana, che parla di necessarietà del processo tramite il quale la contraddizione si sospende, si annulla (Aufhebung). In Fichte ci troviamo di fronte ad una dialettica della tensione (e non del processo), una dialettica della libertà (e non della necessità). Ciò che è all’origine viene dispiegato nel tempo grazie agli inesauribili punti di vista interpretativi (tempo, storia, eventualizzarsi, temporalizzarsi).

- Da tale accezione di dialettica, sorge il concetto di vita (Leben), intesa come contrasto insanabile, movimento, rincorrersi perenne dei contrari, e non come superamento conciliante ed annichilente, composizione dei diversi momenti.

- L’essere (Sein), in quanto principio che è abisso (Grund – Abgrund) e quindi libertà abissale (e non necessità), ci pone di fronte ad una dialettica di tipo storico, libera e non necessaria.

- Lo stesso pensiero (Denken) è abissale nel suo mirare all’essenziale, ossia paradossale e contraddittorio, dal momento che pensa il principio come il totaliter aliter rispetto agli enti, trascendenza assoluta. In tal modo, ossia grazie a questa sua non relazione con gli enti stessi, esso può fondarli in maniera definitiva, cioè proprio tramite la relazione di opposizione.

4 – Considerazioni finali

La filosofia fichtiana, così come si sviluppa a partire dalla

cosiddetta Mittelphase48 e via via con sempre maggior chiarezza nelle ultime esposizioni della Wissenschaftslehre degli anni 1810-1813, è sostanzialmente identificabile come «dottrina

48 Con tale definizione si intendono non solo le Populärwerke del 1806,

ma anche le esposizioni sulla Wissenschaftslehre del 1801/02 e del 1804 – 1807.

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dell’immagine» (Lehre vom Bild)49. È infatti da questi anni che Fichte prosegue il costante lavoro di affinamento e di approfondimento della Wissenschaftslehre, passando dalla Ideenlehre e dalla Gotteslehre50 alla cosiddetta Bildlehre, che supera – completandola – la Ichlehre ed al contempo costituisce «[…] il punto di partenza dal quale Fichte nel suo rapporto con i pensatori a lui antecedenti […] può essere colto nella maniera più insistente dell’immediatezza religiosa»51.

La problematica fondamentale della Bildlehre è, dunque, interpretabile da un lato come l’esito dell’intero percorso speculativo fichtiano, dall’altro come l’istanza sottesa e comune alle molteplici rielaborazioni della Wissenschaftslehre52. L’esigenza di fondo della filosofia di Fichte (in linea con il criticismo kantiano) consiste nel giungere ad un’affermazione dell’assoluto senza mai uscire dal punto di vista del finito, rimanendo perciò Idealismo trascendentale in senso puro. Paradossalmente, si potrebbe affermare che per Fichte la filosofia non è conoscenza dell’assoluto, ma sempre e soltanto ricostruzione sistematica dello spirito finito; essa è essenzialmente Wissenschaftslehre, che fonda e garantisce il punto di vista del finito, invalicabile per il filosofo, quand’anche questi si ponga nell’orizzonte della filosofia trascendentale che oltrepassa il punto di

49 «Wirklichkeit ist für Fichte Bild, inneres, geistiges, schöpferisches Bild»

(J. DRECHSLER, Fichtes Lehre vom Bild, cit., p. 9). 50 Proprio nelle Populärwerke del 1806, i tratti principali della propria

Ideenlehre vengono enucleandosi, evidenziando la loro vicinanza ad istanze platoniche (cfr. il concetto platonico di idea - , come Urbild precedente la stessa Seele) e neoplatoniche (per via dei tratti di religiosità e di sottolineatura della centralità della realtà religiosa).

51 J. DRECHSLER, op. cit., p. 15. La concezione fichtiana dell’immagine viene spesso avvicinata all’imago Dei agostiniana o alla sinderesi (Seelenfunke) echkartiana, benché nell’immagine di Fichte divenga visibile l’intero Aufri di una realtà dell’essere e del mondo.

52 Nelle sue tappe principali: 1794, 1798, 1801/02, 1804, 1810.

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vista comune (gemein) della divisione, operata dalla coscienza, in soggetto ed oggetto53.

Per quanto riguarda la Bildlehre, dopo l’elaborazione del cosiddetto «sistema della libertà»54, Fichte prosegue nell’approfondimento della riflessione sulla Seynslehre, fino ad individuare il carattere di realtà dell’assoluto, di Leben, di realtà soprasensibile (überwirklich) seppure non trascendente e sempre all’interno di una prospettiva critico-trascendentale. Con tale riconoscimento, si giunge al «sistema dell’assoluto», che da un lato concepisce l’assoluto nella sua realtà precoscienziale (ens realissimus antecedente la coscienza comune immersa nella polarità soggetto / oggetto), dall’altro intende lo spirito finito come sua coscienza in quanto schema della vita divina, Bild Gottes, luogo in cui l’assoluto stesso si fa presente nel mondo, in cui l’infinita vita soprasensibile (überwirklich) può esprimersi nella vita terrena (wirklich).

L’immagine (Bild) è il medium che permette all’uomo di cogliere la realtà (die Wirklichkeit): è infatti tramite l’immagine che la realtà diviene visibile (sichtbar) all’uomo55. Drechsler definisce 53 A partire dall’esposizione della Wissenschaftslehre del 1801/02 Fichte è

andato cambiando la propria terminologia, segno evidente del procedere del suo percorso di costante affinamento della riflessione sul senso e sul fondamento della filosofia stessa: la coppia concettuale Absolutes - Bild, l’interpretazione della propria filosofia come sistema dell’assoluto (System des Absoluten), Gottes- und Seynslehre da un lato, Bildlehre dall’altro, evidenziano tale trasformazione.

54 Come viene delineandosi nella cosiddetta prima fase, in specifico con l’esposizione della Wissenschaftslehre del 1798. Pareyson sostiene che questa prima accezione non avrebbe condotto ad esiti del tutto soddisfacenti, dal momento che con l’affermazione dell’idealità dell’assoluto ed in un certo senso dell’assolutizzazione dello stesso spirito finito, risulta impossibile pervenire all’Ursprung più profonda, «precoscienziale» (come la definisce Pareyson stesso, distinguendola dalla libertà cosciente propria della Sittlichkeit).

55 «Bei Fichte […] geht die Erfassung der Wirklichkeit als eines Ganzen und im Gesamtbewu tsein von Welt und Wirklichkeit gerade von der inneren geistigen Wirksamkeit und Wirklichkeit eines Bildes aus» (J.

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questo «mondo dell’immagine» (Welt des Bildes) come una sorta di «mondo intermedio» (Zwischenwelt) tra noi stessi, tra il sé del nostro io e la natura in quanto tale, richiamando in tal senso sia il fenomeno del linguaggio (Sprache), che la facoltà immaginativa (Einbildungskraft).

La dottrina dell’immagine (Lehre vom Bild), già presente nelle Wissenschaftslehre del primo periodo, viene associata alla dottrina dell’idea e dell’essere (Ideen- und Seinslehre) della fase mediana, per giungere a piena espressione nelle ultime stesure della Wissenschaftslehre degli anni 1810-181356, con le quali Fichte raggiungerà il «principio dell’essere assoluto» (Grund des absoluten Seins) e con esso il «principio di Dio» (Grund Gottes). Fichte approfondirà ulteriormente quella che viene spesso indicata come «concezione mistica» (mystische Ergriffenheit) del suo pensiero, giungendo alla coincidenza dell’essere assoluto con l’essere di Dio: «Il primo punto da cui noi procediamo è dunque un’immagine dell’apparire, ancora senza alcuna relazione con le forme dell’intelletto e senza alcun essere proprio, ma che si basa sull’essere assoluto, su Dio»57. Ed è proprio in Dio, che è possibile individuare un essere di Dio (Sein Gottes), un essere nascosto in Dio, ovvero il principio assoluto dal quale muove il pensiero ed ogni conoscenza e che, come sottolinea Pareyson, è l’altro rispetto al sapere, è non-sapere (Nicht-Wissen). Dirà Fichte nelle ultime esposizioni della Wissenschaftslehre: «Un altro essere al di fuori dell’essere realmente nascosto in Dio è assolutamente impossibile […]»; ed ancora «[…]

DRECHSLER, op. cit., p. 17). È solo nell’immagine e tramite l’immagine che noi siamo in relazione con la realtà, viviamo in essa: noi cogliamo (tragen) la realtà solo come immagine e nell’immagine, ed ogni accesso (Zugang) alla realtà avviene solo nell’immagine e tramite questa.

56 Cfr. anche i due corsi su Die Tatsachen des Bewu tseins, i due corsi sulla Transzendentale Logik del 1812.

57 «Also der erste Punkt, von dem wir ausgehen, ist ein Bild des Erscheinens, noch ohne alle Beziehung auf die Verstandesform und ohne alles eigene Sein, nur sich stützend auf das absolute Sein, auf Gott» (J. DRECHSLER, op. cit., p. 187).

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si mostra, che l’essere è solo in Dio, non al di fuori di esso; che perciò tutto ciò che giunge nel sapere può dunque essere solo immagine»58.

Il fenomeno (Erscheinung) è immagine di Dio (Bild Gottes), è non-essere, mentre l’essere è al di là di ogni fenomeno (jenseits aller Erscheinung) ed è indipendente da questo. Il verbo è (ist) può essere pronunciato solo per l’assoluto e per nient’altro al di fuori di esso59: «C’è dunque un assoluto, un Dio che sorge per, da e per sé: la cui rivelazione è la conoscenza (e viene inteso in quanto tale). […] Solo Dio è Al di fuori di lui solo il suo fenomeno»60.

Siamo al cuore della Transzendentalphilosophie fichtiana:

L’essere di Dio è il concetto intrinseco di ogni realtà; […] l’essere di Dio si fonda assolutamente su se stesso; in quanto questo essere esso è chiusura in se stesso; assoluta immanenza in se stesso; assenza di immagine. Tuttavia, ogni altro essere, che costituisce l’opposto verso l’essere di Dio, è essere dedotto, non è affatto vero essere; è in forza dell’immagine che esso ha rapporto con l’essere assoluto, mentre in se stesso l’essere dedottto è rapporto e relazione reciproca di immagine e di essere immagine.61

58 «Ein anderes Sein au er dem wirklich in Gott verborgenen Sein ist

schlechthin unmöglich […]»; ed ancora «[…] es zeigt, da das Sein nur in Gott sei, nicht au er ihm; da darum alles, was im Wissen vorkomme, eben nur sein könne Bild» (Ivi).

59 J. DRECHSLER, op. cit., p. 187. Cfr. Tatsachen des Bewu tsein, 1813. 60 «Es ist allerdings ein Absolutes, durch, von, aus sich Stammendes, -

Gott: dessen Offenbarung ist die Erkenntnis (und wird als solche verstanden). […] Nur Gott ist. Au er ihm nur seine Erscheinung». (J. DRECHSLER, op. cit., p. 188. Cfr. Staatslehre, 1813).

61 «Gottes Sein ist der Inbegriff aller Wirklichkeit; […] Das Sein Gottes ruht absolut in sich selbst; als dieses Sein ist es Geschlossenheit in sich selbst; absolute Immanenz in sich selbst; Bildlosigkeit. Alles andere Sein aber, das den Gegensatz bildet zu Gottes Sein, ist abgeleitetes Sein, ist kein wahres Sein; seine Beziehung zu dem absoluten Sein hat es kraft des Bildes, des absoluten Bildes, in sich selbst aber ist das abgeleitete

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La stessa conoscenza vera (wahre) è soltanto in virtù

dell’essere assoluto; solo l’essere di Dio è; la sua immagine è rivelazione (Offenbarung) che si compie nella conoscenza, poiché nella autentica (echte) conoscenza si esprime l’immagine di Dio, in cui è racchiusa (beschlossen) ogni realtà del mondo e dell’esistenza (Dasein). Dio stesso è (ist) nella conoscenza (Erkenntnis): «L’essere assoluto lascia […] l’essenza assoluta di Dio ancora intatta / inviolata (unberührt) e non può disvelarla (enthüllen). Il sapere interno a Dio è un riposare (Ruhen) in Dio ed al contempo nel processo di conoscenza, nel quale si rivela l’esistenza di Dio, un ricercare infinito, un proseguire e formare»62. Benché la Wissenschaftslehre assurga al grado di dottrina di Dio (Gotteslehre), essa non può costitutivamente giungere alla dottrina dell’essere (Seinslehre), che è solamente nella misura in cui si tratta dell’essere racchiuso in Dio. L’essere assoluto è il fondamento stabile (festes Fundament) a partire dal quale la molteplicità dei rapporti con l’essere e con la realtà dell’essere diviene visibile nell’immagine (Bild). Al più alto grado di altezza, ossia nell’immagine assoluta (absolutes Bild), il sapere (Wissen) viene a contatto con l’essere di Dio; benché il rapporto di tensione (Spannungsverhältnis) tra l’essere che si trova in Dio e l’essenza di Dio stesso rimanga insuperato (aufgehoben). Siamo di fronte al principio (Grund) inesauribile (unerschöpflich), inafferrabile (unergreiflich), inconcepibile (unbegreiflich) che sta dietro o a monte di ogni Wissenschaftslehre e che arretra e sfugge continuamente ad ogni posizione e coglimento da parte del sapere63.

Sein Beziehung und Verhältnis von Bild und Bildsein untereinander» (J. DRECHSLER, op. cit., p. 188).

62 «Das absolute Sein greift durch Gott hindurch und lä t doch zugleich das absolute Wesen Gottes noch unberührt und kann es nicht enthüllen. Das Wissen um Gott ist ein Ruhen in Gott, zugleich aber im Erkenntnisproze , in dem sich für Fichte Gottes Dasein offenbart, ein unendliches Forschen, Weiterschreiten und Gestalten» (Ibidem, p. 189).

63 Nelle ultime stesure della Wissenschaftslehre 1810, 1812, il pensiero di Fichte oltrepasserà ulteriormente se stesso (über sich hinausdrängt) nel

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L’essere assoluto rimanda comunque ancora al di là di sé (über sich hinaus), evitando così che la fissazione (Fixierung) penetri nel pensiero (Denken); l’essere assoluto è un essere vivente, racchiude in sé la vita. Fichte rinviene dietro l’essere (hinter dem Sein) un principio ancora più profondo, nel quale l’essere è ulteriormente contenuto: la vita assoluta (das absolute Leben), che non è tanto causa (Grund), quanto piuttosto principio dell’essere (Prinzip des Seins), dal momento che lo penetra completamente, unificando l’essere compreso e l’essere spirituale, il sensibile ed il soprasensibile. La vita (Leben), insieme all’amore (Liebe) ed alla luce (Licht) è ancora un «principio efficace» (Wirkungsprinzip); Fichte si rivolge al «principio dell’essere di ogni realtà» (Seinsgrunde aller Wirklichkeit) e lo individua proprio nella «causa / principio dell’essere assoluto» (Grund des absoluten Seins). La vita come assoluta vita divina non penetra solo più l’intera esistenza (Dasein), ma è in quanto principio di ogni realtà e di possibilità di ogni esistente; è oltrepassamento delle stesse «conoscenze fondamentali» e dei presupposti del pensiero.

Il punto d’arrivo cui perviene la Transzendentalphilosophie fichtiana sin dalla sua Mittelphase è, dunque, descrivibile con l’espressione ossimorica «concepire l’inconcepibile» (Begreifen des Unbegreiflichen)64: l’assoluto è inconcepibile (unbegreiflich) ed invisibile per il concetto, non in quanto avvolto da un’oscurità impenetrabile, ma perché costituisce il fondamento della stessa luce (Grund des Lichtes), ossia il punto più chiaro (das Allerklarste) che si presenta come invisibile proprio a causa della sua infinita ed

tentativo di fondazione (Fundierung) e porrà in maniera ancor più radicale e stringente la domanda sull’assoluto e sulla sua essenza. Cfr. anche la Staatslehre del 1813 e la Wissenschaftslehre des Frühjahr 1813, dove permane in maniera sempre più precisa e puntuale la questione circa l’essenza del principio ultimo. Scrive Drechsler: «Die Caesur, die das Frühjahr 1813 in Fichtes Vorlesungen bedeutet, scheint auch ein Caesur zu sein, die erneut die Frage nach dem Wesen des letzten Grundes stellt» (Ibidem, p. 190).

64 WL 1804/II, IV lezione, p. 34 e p. 36.

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insostenibile luminosità65: la riflessione filosofica giunge, dunque, all’annientamento del concetto (Vernichtung des Begriffs) di fronte all’inconcepibile (Unbegreifliches), annientamento che si configura a sua volta come un concetto, cosicché la stessa filosofia in quanto Wissenschaftslehre è dottrina del sapere alla seconda potenza, ossia del sapere del sapere. Nell’annientamento del concetto è rinvenibile il fondamento di ogni sapere, anche se la stessa filosofia non perde la consapevolezza della propria inadeguatezza di fronte al fondamento ultimo, mai afferrabile in maniera definitiva da parte del concetto66,

65 «La filosofia di Fichte resta sempre nel punto di vista del concetto. Il

concepire l’inconcepibile non è il superamento (Aufhebung) del concetto. Per il concetto l’inconcepibile, l’assoluto non è il limite ultimo. Lo stesso inconcepibile viene concepito, naturalmente come inconcepibile. L’invisibile si mostra attraverso la sua invisibilità come invisibile» (CH. ASMUTH, Das Begreifen des Unbegreiflichen, cit., p. 23). Ad avviso di Asmuth, la concezione del filosofare in quanto «concepire l’inconcepibile» costituisce la soluzione cui perviene la filosofia fichtiana sin dalla cosiddetta Mittelphase del suo sviluppo.

66 A partire dalla Neue Darstellung der Wissenschaftslehre 1801/02 (GA II/6, p. 206 e ss.) la Transzendentalphilosophie di Fichte subisce una profonda trasformazione di ordine terminologico-concettuale: benché non si possa parlare di una vera e propria frattura (Bruch) al suo interno, è tuttavia evidente il passaggio da una prospettiva prevalentemente incentrata sul concetto di io (Ich) verso la Wissenschaftslehre quale sapere assoluto (absolutes Wissen), sapere dell’assoluto (Wissen des / vom Absoluten): la Wissenschaftslehre non più, quindi, come teoria della coscienza, ma come teoria del sapere assoluto, dottrina dell’idea (Ideenlehre) e dottrina di Dio (Gotteslehre). W. JANKE, in Fichte. Sein und Reflexion. Grundlagen der kritischen Vernunft, Berlin, de Gruyter, 1970, sostiene che tale «imperscrutabile svolta» (undurchsichtige Wende) del pensiero critico nell’assoluto consiste in una «inversione della comprensione dell’essere» (Umwendung des Seinsverständnisses): la parola «essere» non sta più a significare un oggetto (Objekt) del pensiero, ossia ciò che si contrappone al soggetto (Subjekt) conoscente, all’io (Ich); l’essere è concepito come vita (Leben), luce (Licht), assoluto (Absolutes), Dio (Gott); l’essere in quanto assolutamente essere è la vita di Dio, dell’assoluto. Janke afferma, inoltre, che tale cambiamento nel concetto dell’essere, configurantesi come qualcosa di inquietante

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né dell’irriducibile «scarto residuale» che sussiste tra l’Assoluto ed il sapere (sua immagine).

Il sapere è, dunque, immagine (Bild) dell’essere: il sapere assoluto non è né l’essere assoluto, né un non-essere negativo, bensì l’essere nella forma della visibilità (Sichtbarkeit); l’essere o Dio non è un in-sé (An-sich), un qualcosa di oggettuale (gegenständliches Etwas), di metafisicamente stabile; l’essere è il non-visibile (das Nicht-Sichtbare). Alla luce di tale nuova concezione dell’essere, la stessa Wissenschaftslehre modificherà la propria valenza, offrendosi come autentica docta ignorantia in senso critico-trascendentale. La certezza ottenuta per mezzo della riflessione costituisce un ostacolo per il coglimento dell’origine: la coscienza, origine della fattualità, non può produrre la verità in senso affermativo, ma solamente per via negativa, allontanando l’apparenza.

Nella misura in cui si astrae dall’immediata stabilità della realtà esterna come mera apparenza (Schein), per intenderla in quanto fenomeno (Erscheinung), ossia autentica e necessaria manifestazione dell’essere, della struttura trascendentale dell’assoluto e delle sue leggi aprioriche (apriorische Gesetze), la verità si apre come il più chiaro e contemporaneamente il più nascosto, luce (Licht) che illumina il vedere ma che non può essere da questo vista; l’assoluto appare come origine (Ursprung), principio (Prinzip) inconcepibile per la coscienza (Bewußtsein), che lo coglie in quanto inconcepibile67.

(Beunruhigendes), è stato interpretato come «rottura» (Bruch) con lo spirito critico e «caduta» (Abfall) nel misticismo. In realtà, tale valutazione si rivela riduttiva in quanto «giudizio avventato», frutto di un cliché che interpreta la filosofia fichtiana come semplice momento negativo all’interno del passaggio dialettico «da Kant ad Hegel».

67 A proposito dei possibili riferimenti alla metafisica platonica e neoplatonica, si rimanda a W. JANKE, op. cit., p. XV e ss. Per quanto riguarda l’appartenenza della filosofia fichtiana alla grande tradizione della mistica speculativa tedesca, che affonda le proprie radici nella dottrina di matrice agostiniana dell’imago Dei, Cfr. E. V. BRACKEN, Meister Eckhart und Fichte, Würzburg, K. Triltsch, 1943.

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L’inesauribilità dell’assoluto, mai completamente afferrabile da parte del sapere, costituisce la cifra suprema di questo, la sua più alta espressione: l’impossibilità di cogliere (begreifen) e di possedere esaustivamente l’assoluto si configura come traccia sempre indiretta e per via negationis della vitalità (Lebendigkeit) intrinseca allo stesso assoluto, ossia del suo essere vita mai fissabile (fixieren) in un oggetto stabile e statico, ma continuo ed ininterrotto permanere dell’essere nel fenomeno. In tal senso, la realtà (Wirklichkeit) è immagine interiore, spirituale e creatrice: Fichte può quindi essere a ragione considerato come il filosofo dell’immagine, dell’essere immagine spirituale (geistiges Bildsein)68.

Il pensiero reale (reales Denken) non «ha» semplicemente un determinato grado di coscienza dell’essere, ma «è» tale coscienza, è l’essere stesso che si manifesta nell’immagine (Bild) di sé proprio attraverso tale pensiero. La coscienza costituisce l’autentica e necessaria rappresentazione dell’essere; il pensiero annulla il proprio essere (Selbstvernichtung), raggiungendo se stesso nell’essenza più intima di coscienza saputa (bewußtes Bewußtsein) dell’essere e insieme autocoscienza (Selbstbewußtsein). Non si deve dire che la coscienza «ha» coscienza dell’essere (affermazione che insinuerebbe ancora un dualismo ontologico fra essere e coscienza), ma che la coscienza «è» da cima a fondo (durch und durch) coscienza dell’essere. 68 Drechsler sottolinea come proprio nella Wissenschaftslehre sia possibile

giungere alla conoscenza della realtà del fenomeno (Erscheinung) nella maniera più penetrante ed immediata. Inoltre, se la dottrina dell’io è stata interpretata come la caratteristica fondamentale della cosiddetta fase jenese della speculazione fichtiana (1794-1798), ad avviso di Drechsler è più corretto leggere tale dottrina solo come punto di partenza (Ausgangspunkt) e non punto di arrivo (Zielpunkt) del pensiero fichtiano: «Il vero Fichte è coglibile solo dalla totalità del suo lavoro e solo qui, se si riesce a raggiungere un punto di partenza di un’analisi più penetrante, che al tempo stesso attraversa l’intera opera. Tale punto di partenza è la dottrina dell’immagine ed essa conserva validità anche al di fuori della dottrina dell’io attraverso l’intero lavoro fichtiano, perché non rimane più mero punto di partenza quanto piuttosto punto di arrivo dell’intero pensiero fichtiano […]» (J. DRECHSLER, op. cit., p. 11).

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La riflessione filosofica giunge qui al suo limite (che è poi il suo apice): l’affermazione dell’assoluto non è possibile tramite l’argomentazione, bensì «[…] per un discorso che allega l’assoluto soltanto come ‘oggetto interno’ dello spirito finito e come garanzia dell’autofondazione della filosofia»69. La Wissenschaftslehre è qui al più alto grado di radicalità, pur nel pieno rispetto dell’esigenza critica, in quanto apre ad un’autentica ontologia pur respingendo ogni tentazione di metafisica oggettiva. Al termine del percorso di autoriflessione, la stessa filosofia «[…] appura la presenza di un residuo irriducibile, che resiste a questa vanificazione dell’oggettività, e che, non essendo né potendo essere oggetto in alcuna maniera, merita il nome di inoggettivabile»70.

Il sapere dello spirito finito tenta di cogliere l’assoluto pur mantenendolo nella sua inoggettivabilità; si svolge come riflessione indiretta, «obliqua», sull’assoluto, ossia tramite un movimento dialettico di sapere e non-sapere, non-essere ed essere, per cui «[…] il sapere, riconoscendosi incapace di originarsi da sé, converte il suo limite nella sua origine, e trova nel suo contrario il proprio fondamento»71. Grazie a tale particolare dialettica, il sapere può cogliere se stesso solamente presupponendo un riconoscimento superiore, ossia un essere realissimo ma non oggettivo, tanto più reale quanto meno oggettivo, di cui può parlare solo come del non-sapere. Il movimento dialettico Wissen / Nicht-Wissen, il Nicht-Sein des Wissen, l’essere Bild des Seins ed in quanto tale non-essere l’essere, l’ineffabilità (in termini concettuali) dell’assoluto, conducono ad un esito mistico, proprio in virtù dell’ineffabilità e dell’inconcepibilità dell’assoluto che è oltre il soggetto finito72.

69 L. PAREYSON, Fichte. Il sistema della libertà, Milano, Mursia, 1950-

19762, p. 411. 70 Ibidem, p. 412. Lo spirito finito in quanto immagine dell’assoluto (Bild

des Absoluten) è coscienza dell’assoluto, che ne costituisce l’oggetto interno, il termine della sua intenzionalità, e non l’oggetto esterno.

71 Ivi. 72 Pareyson ben delinea tale «esito mistico» del criticismo e dell’idealismo

trascendentale: «[…] si tratta naturalmente d’un misticismo lucidissimo,

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L’absolutes Wissen, giunto all’apice – o meglio al limite, che è la sua origine – del proprio percorso, si trasforma in «non sapere» (Nicht-Wissen), in quanto diviene consapevole (ma non può coglierlo) del Sein come sua origine, come l’altro (das Andere). È questo l’esito, il cuore della speculazione fichtiana, che coglie l’essere pur senza uscire dal pensiero e senza che quest’ultimo si risolva – perdendosi – nel primo. L’assoluto viene raggiunto perché il sapere coglie nel suo intimo il proprio fondo (Grund), la profondità che è fondamento (Urgrund), il non essere del sapere che è l’essere nel sapere. L’essere è annientamento del pensiero, per cui il concetto vi attinge solo con la propria autonegazione, con il proprio autosuperamento. Il sapere non esce dal punto di vista del finito, preservando così l’istanza critico-trascendentale, ma coglie l’essere nel proprio non-sapere, ossia come sua contemporanea negazione e posizione. Si fa vero sapere assoluto, che giunge d’un colpo e non tramite la deduzione discorsiva nel momento in cui si dà, negandosi, l’inseparabilità originaria di essere e sapere, di unità e molteplicità.

La Wissenschaftslehre è giunta al punto in cui noi stessi diventiamo luce (Licht), occhio (Auge), «visione della verità»; la coscienza è solamente il fenomeno della realtà (Erscheinung), non la verità in sé, la quale è infatti una (Eine), eterna, per sé stante, prima della conoscenza ed al di là della sua schematica soggetto / oggetto. L’unità del pensiero – divenuto Licht – permette di comprendere la molteplicità del mondo, realizzando in esso l’immagine di Dio (Gottesbild), dell’assoluto, permette ciòè di realizzare nel mondo lo stesso schema della vita divina73.

intellettuale, quasi freddo, che ignora la “passione della notte”, e che del nulla ha solo la profondità, ma non la caligine, accompagnata com’è dalla dialettica più vigile e avveduta» (Ibidem, p. 413).

73 La Wissenschaftslehre fichtiana sfocia dunque in un esito religioso, che oltrepassa il Wissen (apparente) per cogliere in maniera immediata il Sein, il Gott, nel sapere assoluto.

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IL PIÙ NOBILE FIORE DELL’UMANITÀ

RIFLESSIONI SUL GIUDIZIO DI FICHTE SULL’ IFIGENIA IN

TAURIDE DI GOETHE

GIORGIA CECCHINATO

UFPR, Curitiba, Brasil

Abstract

This paper discusses Fichte’s opinion on Goethe’s Iphigenie on Tauris as it is expressed in the writing On the Spirit and the Letter in Philosophy. The concept that permits to focalize the question is that of Humanity: on one hand Goethe characterize its own Drama as «damned human», on the other hand Fichte argues that the Stimmung of this Drama is the noblest flower of the Humanity. After a short focusing on the most important characters of Iphigenie, I will try to discuss the analogies that exist between the representation of the protagonist of Goethes drama and the way in which Fichte described the Scholar. Finally It will be possible to point out the rule that Fichte attributes to the Genius in relation to the infinite progress of the humanity.

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1 – Introduzione

Toante Tu credi che ascolti il rozzo Scita, il barbaro, la voce della verità e della pietà umana, che Atreo, il Greco, non ha ascoltato? Ifigenia Può udirla ognuno, nato sotto il cielo, se la fonte della vita gli fluisce nell’animo pura e senza ostacoli

Questo contributo si propone di analizzare il giudizio che

Fichte esprime sul dramma goethiano Iphigenie in Tauris nel suo scritto Lettere sopra lo spirito e la lettera in filosofia1. Lo scopo non è quello di indagare la vicinanza storica tra Fichte e Goethe, né di documentare il rapporto diretto tra le due personalità o quello indiretto, della conoscenza reciproca del pensiero e dell’opera2. Piuttosto, indagando il contesto e sviluppando le implicazioni e le conseguenze di questo brave passaggio in cui Fichte si esprime sul dramma goethiano verranno messi in luce interessanti aspetti della teoria fichtiana dell’arte e dell’esperienza artistica. Inoltre, inserendosi perfettamente nell’intento programmatico di questa raccolta Leggere Fichte contribuirà a rendere il lettore fichtiano consapevole della ricchezza teorica e della molteplicità di rimandi che si possono trovare anche in un testo non scientifico, pensato per 1 La traduzione italiana delle citazioni e dei titoli delle opere di Gichte

citate è mia. Vedi Sullo spirito e la lettera in filosofia. In una serie di lettere, in GA I/6, pp. 333-361, in particolare p. 357, Fichte si esprime sempre in termini positivi sull’Ifigenia di Goethe anche in GA III/1, p. 134; GA II/1, p. 259; GA I/6, pp. 356-358.

2 Sul rapporto tra Fichte e Goethe vedi S. IOVINO, “Ich ist Nicht-Ich” = “Alles ist Alles”. Goethes als Leser der Wissenschaftslehre. Ein Beitrag zur Geschichte des Verhältnisses Fichte-Goethe, in “Fichte–Studien”, 19, 2002, pp. 55-94; und auch M. DA VEIGA, Selbstdenken und Stil bei J.G. Fichte und Goethe, in “Fichte–Studien”, 19, 2002, pp. 95-108.

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un pubblico di non specialisti, a partire da un’osservazione che sembrerebbe non essere nulla più che l’espressione di un giudizio di gusto personale3.

Il passaggio che si vorrebbe sottoporre all’attenzione del lettore si trova nella terza delle Lettere, Fichte sta descrivendo qui le caratteristiche della vera arte, cioè di quella che è vivificata dallo spirito in contrasto con l’arte meramente meccanica e porta come esempio del primo tipo di arte l’Ifigenia di Goethe4. In quest’opera non è tanto il linguaggio ciò che conta, né la storia in sé, ma piuttosto lo spirito, che in quanto Stimmung impronta e vivifica l’opera. La Stimmung che domina nell’Ifigenia viene definita «il più nobile fiore dell’umanità», che «solo una volta fu prodotto dalla natura sotto il cielo greco e che attraverso uno dei suoi miracoli si è ripetuto nel Nord»5. 3 Lo scritto in forma epistolare Sullo spirito e la lettera in filosofia fu

ideato da Fichte per la rivista Horen di cui Schiller era direttore ma fu rifiutato da Schiller stesso per la sua macchinosità, la scarsa comprensibilità e la non corrispondenza tra il tema trattato e il titolo. Di fatto Schiller aveva inteso l’intento polemico non esplicito ma chiarissimo di Fichte contro le sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, che a loro volta contengono una velata critica all’interpretazione fichtiana, giudicata da Schiller troppo rigoristica, della morale kantiana. Senza entrare nel merito della polemica mi limito a indicare che qui Fichte, contro la teoria Schilleriana dell’impulso al gioco, come mediatore tra l’impulso alla forma e l’impulso alla materia, elabora una teoria della fondamentale unità degli impulsi e indica tre manifestazioni primarie di un unico impulso. Sulla polemica di Fichte e Schiller vedi D. WILDENBURG, “Aneinander vorbei”. Zum Horenstreit zwischen Fichte un Schiller, in “Fichte-Studien”, 12, 1997, pp. 27-41

4 GA I/6, p. 357. In realtà Fichte nomina anche un altro dramma del maestro di Weimar: il Tasso. Per la particolari caratteristiche dell’Ifigenia che verranno messe in luce nel corso di questo contributo e per il fatto che Fichte immediatamente di seguito parla del mondo greco e poi si riferisce di nuovo in una nota all’Ifigenia, il riferimento a questo dramma ci sembra più significativo, perciò si è deciso di considerare esclusivamente quest’ultimo.

5 GA I/6, p. 357.

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Il concetto chiave, che unisce il dramma goethiano e le riflessioni fichtiane è quello di umanità. L’importanza di questo concetto risalta ancora di più se si pensa che fu Goethe stesso in una lettera Schiller del gennaio 1802 a caratterizzare questa sua opera teatrale come «maledettamente umana (ganz vetrteufelt human)»6; Questa autochiosa di Goethe ha fortemente influenzato tutta la seguente letteratura critica, tanto da diventare un topos7. Cercheremo ora di capire in che cosa consista il messaggio di umanità che il dramma comunica e di vedere come questo sia intrinsecamente collegato con la concezione fichtiana dell’arte.

2 – Verità e Umanità

L’intero dramma è costruito su un conflitto fondamentale:

quello tra l’umanità e la barbarie8. Esso appare inizialmente come

6 Lettera a Schiller del 19.01.1802. Citata da K.O. CONRADY, Goethe:

Leben und Werk, in 2 voll., Königstein/Us., 1982, qui vol. I., p. 472 7 Si veda in proposito T.W. ADORNO, Zum Klassizismus von Goethes

Iphigenie, in “Neue Rundschau”, 78, 1967, pp. 586-599. 8 La storia di Ifigenia è nota: figlia di Agamennone, destinata dal padre ad

essere sacrificata in Aulide per far di nuovo soffiare venti favorevoli per le navi dirette a Troia. La giovane si salva rapita da Diana e trasportata in una nuvola in Tauride. Qui viene a svolgere per ordine della dea che l’ha salvata il ruolo di sua sacerdotessa. Tra i compiti della sacerdotessa di Diana vi è anche quello di sacrificare tutti gli stranieri che entrino in Tauride. Questa storia che noi conosciamo è già in Euripide frutto della rielaborazione di un mito antico. Goethe non ha nessun interesse per una ricostruzione archeologica del mito, lo usa per ispirarvisi liberamente. Iphigenie in Tauride è, dal punto di vista formale un dramma chiuso, che si rifà alla tradizione classica e alla sua rivitazione francese. Osserva le tre unità di tempo, spazio e azione. Si divide in cinque atti, il primo die quali è introduttivo, presenta la situazione della protagonista e gli antefatti della storia; i momenti fondamentali dello svolgimento del dramma sono rappresentati nel terzo e nel quinto atto; il secondo e il quarto sono preparativi per i successivi. Per un’ampia analisi del dramma

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lotta tra due culture: quella dei greci e quella dei tauri, ma il conflitto acquisisce sfumature più profonde presentandosi nella coscienza di Ifigenia9 anche come contrasto tra istanze divine: da un lato un culto che prevede sacrifici umani, dall’altro la benevolenza degli dei olimpici. Ifigenia rifiuta la violenza ed è decisa a rompere la catena di vendette e orrori che ricade sui discendenti del titano Tantalo, consapevole che ciò sarà soltanto possibile se lei stessa si sottrarrà a qualunque azione criminosa. Ella sa che soltanto ciò che si accorda con la sua coscienza può essere accettato e fatto valere come regola di comportamento, trova la forza in sé stessa per affermare questo principio e rimane ferma coerente nella sua attuazione. La purezza dell’anima di Ifigenia agisce, per coloro che possono riconoscerla, come stimolo alla purificazione, ciò avviene emblematicamente nel caso della guarigione di Oreste. Egli, ignaro del fatto che la sacerdotessa sia l’amata sorella, non può nascondere la sua identità, come consiglierebbe la prudenza, e come di fatto si era accordato con il fido Pilade. Oreste si mostra dunque coraggioso e parla così alla sacerdotessa di Diana: «non posso soffrire che tu, anima grande,/ sia ingannata da una falsa parola/ [..] fra di noi/ regni la verità»10.

La guarigione di Oreste dalla persecuzione delle Erinni può essere vista come effetto di questo primo, spontaneo atto libero, per cui egli si decide, nonostante sia in gioco la sua stessa vita, per la

vedi Goethe Handbuch (4 voll.), a cura di B. Witte, T. Buck, H.-D. Dahnke, R. Otto, P. Schmitt, Stuttgart- Weimar, 1997, qui vol. 2., Dramen, pp. 195-228. È importante tenere presente come modello per l’Iphigenia, la versione, non finita dell’ Iphigénie en Tauride di Racine, che nel 1747 fu pubblicata come appendice alle sue Mémoire, su questo vedi R. FERTONANI, Introduzione, in G. W. GOETHE, Ifigenia in Tauride, tr. it. R. Fertonani, Garzanti, Milano, 2001. Le citazioni dall’Ifigenia provengono da questa edizione italiana e portano indicato soltanto in numero del verso (V).

9 A partire dal teatro Barocco la presenza degli dei sulla scena viene drasticamente ridotta per favorire la motivazioni psicologiche, cfr. R. FERTONANI, Introduzione, cit., pp. XIX-XX.

10 G. W. GOETHE, Ifigenia in Tauride, cit. V. 1076-81.

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verità. Oreste rifiutando la menzogna si libera dal giogo dei delitti di cui lui stesso e i suoi antenati si sono macchiati.

Il coraggio di decidersi per la verità è anche l’elemento decisivo dell’emozionante atto quinto: Pilade e Oreste hanno già pianificato il furto del simulacro di Diana, che l’oracolo di Delfi sembra pretendere in cambio della sua liberazione dalla persecuzione delle Erinni, e preparato la successiva fuga in Grecia. Dopo difficili momenti di dubbio e di riflessione Ifigenia capisce che non può ingannare il re che da anni la ospita e a cui nonostante tutto è grata, si decide perciò a rivelargli la verità: l’identità del fratello e i suoi piani di furto e di fuga. Ella riconosce nel re dei barbari un uomo, capace di comportarsi come tale, concedendo la libertà a lei e ai fuggiaschi. I fatti le danno ragione perché Toante, dopo un dialogo ricco di tensione emotiva li lascia andare 11.

Goethe rappresenta nel corso del dramma il processo di purificazione che si compie nei tre personaggi principali: Ifigenia, Oreste e Toante. La sacerdotessa si libera in primo luogo dal dovere di eseguire un culto sanguinario, che ripugna la sua coscienza, contribuisce alla liberazione del fratello dalla persecuzione delle Erinni, e dà vita all’umanizzazione della Tauride nella persona del sovrano. Inoltre il suo ritorno in Grecia significa la liberazione della Grecia stessa dal suo passato violento e sanguinario, dalle tracce della saga dei Tantalidi, dalla guerra di Troia e delle sue conseguenze.

L’umanità di Ifigenia, la maledetta umanità di Ifigenia, come da questa breve analisi del dramma deve già essere emerso, non ha nulla a che vedere con quella di un uomo comune, al contrario Goethe rappresenta un ideale perfetto di umanità. Il più grande merito di quest’opera è quello di essere riuscita rendere l’ideale non come un distante oggetto di un vago anelare, ma di avergli dato forza e vita nella la figura di Ifigenia e attraverso questa di averlo reso attivo negli altri personaggi. Le caratteristiche attribuite a Ifigenia: la capacità introspettiva, il coraggio di decidersi, l’amore per la verità, il riconoscimento dell’altro e la coerenza con sé stessa, sono quelle

11 Ibidem, V. 2142-45.

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che idealmente «ognuno, nato sotto ogni cielo12» dovrebbe possedere e che probabilmente hanno impressionato ed entusiasmato Fichte.

3 – Il dotto come sacerdote della verità

Già a partire dal suo primo scritto ai tempi della scuola di

Pforta, Fichte determina lo specifico dell’arte nella capacità di intrattenere, elevare e formare l’animo13. Anche successivamente, nelle sue svariate riflessioni sull’esperienza artistica, continua, in accordo con lo sviluppo del suo pensiero, a considerare l’arte come momento fondamentale per la formazione dell’uomo nel quadro del processo di perfezionamento infinito dell’umanità14. L’uomo, come essere razionale finito, deve creare e mantenere le condizioni che rendono possibile l’imporsi della ragione, ovvero della libertà nel mondo sensibile, anche se la realizzazione perfetta del dominio della ragione non è possibile, ma si dà solamente la possibilità di un avvicinamento all’infinito a questo scopo finale. Il ruolo fondamentale di guida, di figura portante, di questo sviluppo infinito però non è l’artista, ma il dotto.

È interessante notare come le caratteristiche di promotore e custode del processo di perfezionamento infinito dell’umanità che Fichte attribuisce al dotto nelle Lezioni sulla destinazione del dotto, corrispondano ai tratti fondamentali con cui Goethe rappresenta Ifigenia. Il dotto deve innanzitutto essere un esempio morale per i

12 Ibidem, V. 1937-1940. 13 Per una traduzione italiana di questo scritto di Fichte si veda S. BACIN,

Fichte a Schulpforta (1774-1780). Contesto e materiali, Milano, Guerini, 2003. questo lavoro offre anche un ampio commentario del testo e una interessante rappresentazione del contesto storico-culturale della formazione di Fichte.

14 Vedi per esempio GA I/3, p. 51; GA 1/5, p. 307; GA I/6, p. 352. Su questo vedi P. LOHMANN, Die Funktionen der Kunst und des Künstlers in der Philosophie Johann Gottlieb Fichtes, “Fichte-Studien”, 25, pp. 113-133.

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suoi contemporanei e non deve ingannarli in alcun modo15. Particolarmente suggestivo è poi il fatto che il dotto venga denominato come «sacerdote della verità»16. Egli, sostiene Fichte, deve essere sempre veritiero, anche se per questo verrà perseguitato, anche se, nel mantenersi fedele alla verità, rischiasse la sua vita17.

Nel dramma goethiano abbiamo visto che il coraggio dei protagonisti di decidersi per la verità costituiva un elemento chiave nello svolgersi degli eventi, in quanto esso apriva la possibilità di sciogliere i conflitti. Anche nella filosofia di Fichte, specificamente nella sua filosofia pratica, la verità rappresenta un momento fondamentale della moralità, infatti la capacità di rimanere fedeli alla verità caratterizza l’uomo coraggioso che attraverso la sua azione veritiera impone il dominio della ragione fuori di sé, al mondo sensibile, al contrario è il vigliacco, incapace di agire moralmente, che si nasconde dietro a una menzogna18.

A questo proposito, si può aggiungere che nella Dottrina morale del 1798 Fichte si esprime in maniera molto critica contro la così detta menzogna necessaria (Notlüge)19.Questa deve essere rifiutata senza appello perché, secondo Fichte, non vi può essere necessità che giustifichi una menzogna. Porta così il classico esempio di scuola con cui si difende la menzogna necessaria: se si immagina che un innocente si stia nascondendo presso di noi per sfuggire ad un assassino, alla domanda di quest’ultimo di rivelare il nascondiglio del primo, si dovrebbe mentire per salvare una vita innocente. Fichte cerca di mostrare che anche in questo caso mentire significherebbe cedere innanzitutto alla propria vigliaccheria20. Ciò che mi sembra interessante notare è che, come possibile soluzione della situazione esemplificata, il filosofo proponga proprio lo stesso

15 GA I/3, pp. 56-57. 16 Ibidem, p. 58. 17 Ivi. 18 GA I/5, pp. 185-186. 19 Ibidem, pp. 255-259. 20 Ivi.

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schema con cui si conclude il dramma goethiano: l’assunzione del rischio e la confessione, la rinuncia da parte del nemico, colpito dalla correttezza e dall’audacia di chi gli sta di fonte, al suoi intento sanguinario21. Al di là dell’efficacia della soluzione proposta da Fichte, e del fatto che essa sia o non sia stata suggerita dalla conoscenza del dramma goethiano, è interessante notare la consonanza di prospettiva tra alcuni punti importanti della filosofia di Fichte e l’ideale rappresentato dall’opera di Goethe.

4 – Esperienza artistica e destinazione dell’uomo

Al di là di queste osservazioni, certo suggestive, ma che

restano alla superficie dell’interesse fichtiano per il dramma di Goethe, andiamo dunque a vedere com’è da intendere il giudizio del filosofo sull’Ifigenia, in rapporto soprattutto all’esperienza dell’arte e al suo ruolo nello sviluppo dell’umanità. Torniamo dunque al contesto in cui questo giudizio compare, Fichte sta spiegando che benché l’esperienza estetica parta da un oggetto (sia esso un quadro una poesia o una composizione musicale), costruito con determinate regole, con determinati intenti e con un contenuto determinato, non sono le caratteristiche dell’oggetto in sé che sono importanti, ma è piuttosto lo spirito che determina l’essenziale nell’opera d’arte. Lo spirito è definito da Fichte come forza vivificante diretta allo sviluppo dell’interiorità umana che la eleva dal mondo sensibile strappandola da questo22. Non si tratta di un’istanza individuale, ma di una sorta di sostrato eterno e sovraindividuale, che fa dell’uomo ciò che è, o meglio ciò che dovrebbe essere. Lo spirito è facoltà di rappresentazione dell’ideale della ragione, il fondamento della valenza universale e necessaria delle opere che sono prodotte da lui attraverso individui finiti23. Il genio che produce opere di spirito è il

21 Ibidem, p. 257. 22 GA I/6, p. 347. 23 Ibidem, p. 354.

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grado infondere questa vita alla materia, producendo un’opera in cui tutto è teso all’espressione dell’ideale e la resistenza della materia, la parte tecnico-meccanica, diciamo, non conta più in quanto tale24.

Anche se è il rapporto tra spirito e genio in questo testo, non è sempre delineato in maniera chiara, si può dire che il genio è quell’individuo attraverso cui lo spirito si incarna e crea. Perciò le opere del genio sono opere dello spirito e, in questo senso, genio e spirito possono essere usati, come fa Fichte, quasi come sinonimi. Fichte riprende qui le definizioni di genio come favorito della natura e dello spirito come forza vivificante che già Kant aveva esposto e ne ampia il peso e la portata. Il carattere naturale del genio è in realtà il suo carattere spirituale di cui egli non può disporre e di cui non è consapevole. L’ispirazione dell’artista è irrefrenabile, egli la deve seguire così come un animale deve seguire il suo istinto, nel realizzare il suo impulso alla rappresentazione l’artista condivide con il pubblico il profondo della sua anima, in cui riluce un’ideale che egli rappresenta nella sua opera25. E così facendo contribuisce al progresso infinito dell’umanità: l’esperienza artistica presuppone spiritualità e promuove spiritualità. In questo senso il dotto e l’artista, filosofia e arte sono vicinissimi, legati da una comune origine nello spirito e da uno scopo comune, perseguito dal dotto consapevolmente e con volontà, raggiunto dall’artista senza saperlo e senza volerlo.

Ma in che cosa consiste esattamente l’elevazione, la nobilitazione che il fruitore dell’esperienza artistica vive attraverso l’arte del genio? Fichte spiega che l’arte è in primo luogo esperienza di autoattività, che essa mette in moto l’attività della nostra immaginazione, a partire da un opera esterna, in maniera del tutto insolita rispetto all’esperienza comune. Se infatti sia nell’esperienza pratica che in quella conoscitiva lo scopo è quello dell’accordo tra la rappresentazione della cosa e la cosa stessa: da un lato come adeguazione della realtà alla rappresentazione di uno scopo, dall’altra come adeguatezza di un concetto, come rappresentazione,

24 Ibidem, p. 356 25 Ivi.

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con la realtà, dal punto di vista estetico la rappresentazione è libera da qualsivoglia accordo con il mondo esterno26. È l’opera dell’artista, il suo genio che permette di comunicare un contenuto che non è solo trasmesso dall’opera, ma ricreato dal fruitore in sé a partire da sé. In questo senso il fruitore dell’arte è spinto, elevato a un livello di libertà, di spiritualità superiore, e dunque ad un livello successivo di sviluppo e di perfezionamento rispetto a quello che ha raggiunto fino a quel momento. Ciascuno, dice Fichte ha un senso, un istinto per quello che è per lui il prossimo gradino di formazione spirituale (Ausbildung), ed è questo che nella contemplazione artistica si riconosce trovandolo realizzato in sé27.

Anche se, come abbiamo già osservato non è il contenuto di un’opera che ne determina il valore e l’effetto sul pubblico, ma la sua spiritualità che permette di fondere e di adattare perfettamente la materia all’ideale espresso, si deve osservare che nello specifico caso dell’Ifigenia ci troviamo di fronte ad un’opera che in quanto opera del genio deve liberare e nobilitare, d’altra parte essa stessa è una storia di nobilitazione e liberazione. L’umanità di Ifigenia che come una forza contagiosa domina il dramma, agisce sugli gli altri personaggi sortendo lo stesso effetto che l’opera d’arte deve sortire sullo spirito di chi la esperisce.

Al di là di questo, ciò che fa dell’Ifigenia un’opera unica è il fatto che, grazie al genio di Goethe, colui che assiste alla rappresentazione teatrale, non verrà elevato soltanto ad un grado maggiore di libertà e spiritualità, ma al massimo grado del progresso dell’umanità, a quel momento infinitamente lontano in cui sarà raggiunto il più alto grado della libertà del singolo e della società, all’ideale realizzato di una «società i cui membri sono tutti giusti e benevoli»28, al superamento di tutte le scissioni in favore dell’unità. «Al poeta di cui parlo», cioè a Goethe, specifica Fichte, «è dato in sorte di confrontare due epoche della cultura umana con tutte le loro

26 Ibidem, pp. 340-342. 27 Ibid, p. 358. 28 GA I/3, pp. 358-359.

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differenze di grado. Egli prese la sua epoca dall’ultimo grado per porla al primo»29.

Qui emerge lo straordinario potere del genio che è si figlio della sua epoca, ma non è legato a questa anzi, l’artista vero, in quanto tale è libero dalle condizioni sensibili, nel creare egli è libero da ciò che rappresenta il sigillo stesso della nostra finitezza: il tempo. Il genio gioca col tempo anticipando il futuro e presentificando il passato, non solo nel senso che tematizza epoche passate o future, ma nel senso che egli le fa vivere allo spettatore nella loro essenza più vera, provocando sempre quella nobilitazione a cui già abbiamo accennato. Egli, sia esso poeta, pittore, musicista, produce «l’immagine vivente»30 (das lebendige Bild) di un’epoca, è capace di renderne i tratti essenziali in modo tale che essi si adattino all’anima e siano recepiti dallo spettatore non come qualcosa di esteriore. Così che accade con Ifigenia e la cultura greca: attraverso la Stimmung che Goethe trasmette al suo dramma, rivive, secondo Fichte la cultura greca, «il più nobile fiore dell’umanità». Con ciò s’intende che nel dramma di Goethe rivivono, come Bild e non come ricostruzione storica, quell’atteggiamento fermo, la nobiltà e il coraggio dell’uomo contro i ciechi attacchi del destino31. Sembra infatti che, benché egli non lo tematizzi in modo esplicito, per Fichte ciò che caratterizza l’azione drammatica non sia tanto l’epilogo felice o infelice della vicenda, né il fatto che un innocente sia esposto alla violenza del destino32, ma piuttosto l’intervento di un elemento esterno che inizialmente sembra sfuggire al volere dell’eroe e che si ponga contro di lui, la possibilità che qualcosa sfugga al suo volere. Sono gli uomini che hanno dato il nome di destino al loro costitutivo limite, alla possibilità che le loro scelte seguano vie impreviste e

29 GA I/6, p. 358. 30 Ivi. 31 Ibidem, p. 357. 32 Per esempio per Schelling è a partire da qui che si sviluppa il senso del

tragico nelle Philosophischen Briefen über Dogmatismus und Kritizismus (1795). Cfr. F. MOISO, Il tragico nel primo Schelling, in Il tragico a confronto, Milano, 1998, pp. 101-102.

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imprevedibili ed è il dramma che scopre questa finitezza in tutta la sua evidenza33.

Se però nella tragedia greca il fermo e nobile atteggiamento degli eroi significava l’incondizionata accettazione di una forza misteriosa a cui anche gli dei dovevano sottomettersi, l’immagine di essi che vive nel dramma di Goethe e attraverso il quale siamo portati al più alto livello di umanità è costitutivamente pervasa da quella consapevolezza di un livello più alto di libertà che rende possibile le stesse scelte ed è indipendente dalle loro conseguenze. Questa libertà, questa sicurezza dello spirito la si trova solo volgendosi in sé stessi, così come fa Ifigenia, ferma, coerente e coraggiosa, libera dalla paura così come dalle lusinghe del mondo sensibile. Una volta che si é diventati consapevoli di questa libertà i ciechi attacchi del destino perdono il loro aspetto terrificante, essi non possono che essere pensati, come ogni altro ente che si oppone all’io, come un’occasione del manifestarsi della sua libertà. L’eroe, o piuttosto l’uomo che ciascuno dev’essere non può avere paura nemmeno della morte perché lo spirito che lo anima e che pervade di sé l’intera umanità, la libertà eterna e assoluta che egli trova in sé stesso devono dargli la certezza che il progresso dell’umanità a cui egli ha contribuito, a cui egli appartiene, non si fermerà con la sua morte e in questo senso anche la morte viene annullata e lui stesso diventa eterno, nell’eterno processo di liberazione dell’uomo34.

Nell’Ifigenia di Goethe Fichte vede dunque insieme il passato, come lebendiges Bild, il presente e l’eterno, come futuro sempre da realizzare. L’arte nel suo contributo fondamentale all’infinito progresso dell’umanità raggiunge per questo i suoi massimi livelli nell’opera di Goethe. 33 Nelle Jenaer Vorlesungen von Logik und Metaphisik, Fichte parla della

nascita dell’idea di un destino: non appena si è coscienti della propria libertà di scegliere tra diverse opzioni, si diventa anche coscienti della contingenza e dell’insicurezza che affettano il risultato di ogni possibile scelta. La causa di questo viene attribuita ad un destino oscuro «per cui i tragici greci hanno trovato i più terrificanti concetti», vedi GA IV/1, p. 315.

34 GA I/3, p. 50.

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Si possono dunque concludere le nostre osservazioni affermando che per Fichte la potenza del vero genio è tale che grazie alla sua opera l’umanità può fiorire.

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