labirinti - Digressioni

43
Digressioni ARTE - LETTERATURA - POESIA - CINEMA - FILOSOFIA FOTOGRAFIA - MUSICA - SCIENZA - STORIA - TEATRO Trimestrale # 09 | GEN - MAR 2019 Machiavelli contro Batman John Coltrane Borges: specchi, bussole ed enciclopedie I giardini di Versailles Racconti | Poesie Illustrazioni | Fotografie | Fumetti LABIRINTI

Transcript of labirinti - Digressioni

DigressioniARTE - LETTERATURA - POESIA - CINEMA - FILOSOFIA FOTOGRAFIA - MUSICA - SCIENZA - STORIA - TEATRO

Trimestrale # 09 | GEN - MAR 2019

Machiavelli contro BatmanJohn ColtraneBorges: specchi, bussole ed enciclopedieI giardini di Versailles

Racconti | PoesieIllustrazioni | Fotografie | Fumetti

labirinti

“Digressioni” - trimestrale cartaceo di cultura | # 09- Numero 9 anno 2019 www.digressioni.com - [email protected]

Registrazione: Tribunale di Udine n. 19/16Un progetto ideato da Davide De Lucca e Christina Lee Direttore responsabile: Cinzia Agrizzi

Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta senza il consenso scritto da parte di “Digressioni” (per informazoni: [email protected]). Tutte le immagini originali e i testi sono di proprietà dei rispettivi autori.

Per informazioni e richieste di abbonamento: [email protected]

Digressioni

Digressioni è una rivista cartacea indipendente a uscita trimestrale. Contiene articoli di approfondimento culturale, racconti, poesie, fotografie, illustrazioni, fumetti e opere d’arte.

Digressioni n. 9 - Labirinti

18

34

30

08

38

14

Editoriale Fotografie di Giovanni FantasiaIl gomitolo perdutoNessun interno: nessun esternoIl labirinto e la bussolaNegli angoli più buiNiccolò a Gotham CityLungo i corridoi dell’ambiguo Geometrie di un labirintoNei labirinti della quarta dimensioneOpere di Ba AbatNel labirinto di WeimarIl labirinto invisibileIllustrazioni di Corinne ZanetteFebeFiasco & Flop - La pizza del MinotauroElegia per un cantiereGuardrailCartoline dal nullaPoesie

0405081418222630343842444952545760646874

EditorialeLabirinti

Digressioni entra nel suo terzo anno con una nuo-va grafica per dare maggiore risalto ai testi e alle im-magini originali dei nostri collaboratori. La parola “labirinto” è quella che ci guiderà in questo numero, ma possiamo uscirne con calma perché sarà bello perdersi in molti luoghi e molti modi.

Tra i tanti itinerari possibili, reali o immaginari, possiamo partire da quelli storici come Weimar con gli scritti di Carl Sch-mitt (p. 44) o dal labirinto della reggia di Versailles, realizzato per educare il futuro re Luigi XV (p. 8), e giungere a Gotham City (p. 26) per riflet-tere su come le teorie politiche di Niccolò Machiavelli trovino (virtuale) applicazione nella città di Bruce Wayne; possiamo perderci nei numerosi percorsi letterari che offre Venezia (p. 34), nell’ipnosi dei corridoi de L’an-no scorso a Marienbad (p. 30) o lungo i silenzi riflessivi delle architetture dei chiostri dei monasteri (p. 49). Svoltando gli angoli, facciamo attenzione perché incontreremo dei giganti: John Coltrane (p. 14) e Jorge Luis Borges (p. 18); assisteremo a una seduta spiritica in compagnia di Giacomo Balla (p. 38) e scopriremo il cinema di Lorenzo Bianchini (p. 22).

Tra i contributi visivi originali, le fotografie di Giovanni Fantasia (p. 5) con i loro colori decisi ci mostrano angoli della via Emilia ai limiti dell’astratto, mentre le intriganti opere di Ba Abat compaiono nelle pagine come punti di sutura, specchi, frammenti. Se dovessimo sentirci un po’ soli e un po’ perduti, c’è un’illustrazione di Corinne Zanette (p. 53) a rincuo-rarci e a portarci verso la sezione dei racconti (p. 54) – firmati in questo numero da Enrico Losso, Diego Tonini e Alessandro Mambelli – e del fu-metto di Fiasco & Flop (p. 57), che tenteranno di consegnare una pizza nel labirinto per eccellenza. Molto spazio alle poesie: riceviamo delle cartoline (p. 68), sono estratti di Gian Pietro Barbieri dalla sua ultima raccolta, con illustrazioni di Marco Fintina; chiudono il numero i versi di Carlo Selan ed Enrico Giacomini.

In un labirinto sono molte le strade che si possono seguire e lo stesso vale per questo numero, quindi, se siete in dubbio e non sapete da dove iniziare, partite dalla fine e fate un giochino (p. 82): finirete in un luogo, in una pagina, e da lì potrete continuare.

6

Ci sono dei punti, sulla via Emilia notturna, dove la luce si incaglia e rimane; è una luce artificiale, ha densità che non ti aspetti, definisce in modo ambiguo dei tasselli di paesaggio. Stai andando da una parte, anzi da tutt’altra parte.

Giovanni Fantasia | (Sassuolo, 1980) ha scritto le raccolte di poesia “Introduzione alle Città” (Zanichelli, 2007), “Superfici di passaggio” (Italic, 2018) e i romanzi “Santi, negri e scarafaggi” (Quarup, 2009), “Le pratiche del niente” (Incontri, 2014). Dal 2015 al 2017 ha curato su Concretamente Sassuolo la rubrica di interviste fotografiche “Land\Slide”. Fotografa luoghi e persone dal 2011.

8 9

“Ritratto di Luigi XV”, Rosalba Carriera, 1720 (Gemäldegalerie - Dresda)

ARTE

Il gomitolo perdutoRosalba Carriera dipinge “Ritratto di Luigi XV” (1720)

di Annarosa Maria Tonin

“Ritratto di Maria Leszczynska”, Jean-Marc Nattier, 1748 (Reggia di Versailles)

RUBRICA: Ritratti del potere n.4

“Pianta del labirinto di Versailles”, ideato da Charles Perrault, 1669

Cupido: Sì, ora posso chiudere i miei occhi e ridere; con questo gomitolo di filo troverò la mia vita.

Esopo: Cupido, quel gomitolo potrebbe essere la tua perdizione; il più piccolo colpo potrebbe romperlo.

Nell’anno del Signore 1669, passeggiando nei giar-dini della reggia di Versailles insieme al re di Francia Luigi XIV (1643-1715), il Sovrintendente alla Fab-brica Reale Charles Perrault (1628-1703) suggerisce al sovrano di rimodellare il labirinto a sud della reg-gia, Le Labyrinthe de Versailles, perché diventi per il Delfino di Francia luogo di educazione alla lettura e alla scrittura, ispirato alle favole di Esopo.

Certo, l’idea è ambiziosa e per questo re Luigi la accoglie volentieri, curioso dell’esito finale.

Come trasformare un libro di favole in un labirin-to? Come sorprendere, divertire, educare e ammoni-re il figlio del re?

Che siano scolpiti trentanove gruppi scultorei, raffiguranti gli animali protagonisti delle favole, e sia fatta uscire l’acqua dalle loro bocche così che le sculture diventino fontane parlanti! Il gatto e il topo, L’aquila e la volpe, Il pavone e il corvo, La volpe e la gru, insieme alle loro compagne, esprimano passioni e paure e indichino a Monsignore il Delfino la giusta strada da percorrere per un lungo e prospero regno!

Insomma, Perrault la pensa proprio bella, poiché non solo chiede al poeta Isaac de Benserade (1613-1691) di incidere in quartine dorate su lastre di mar-mo alla base di ogni gruppo di statue il riassunto del-la favola raffigurata, ma immagina anche di divertire il piccolo principe, coglierlo di sorpresa, mentre si inoltra fra le fontane, circondato da siepi alte fino a cinque metri!

La realizzazione del Labirinto di Versailles richie-de cinque anni, dal 1672 al 1677.

Tra il 1675 e il 1677 è pubblicato un piccolo libro

10 11

“L’ingresso del Labirinto con le statue di Esopo e Amore”, Sébastien Leclerc, 1675-77 (da “Le Labyrinthe de Versailles” di Jacques Bailly)

“La favola della Volpe e del Corvo”, Sébastien Leclerc, 1675-77 (da “Le Labyrinthe de Versailles” di Jacques Bailly)

rivestito in marocchino rosso con stampe e decorazioni in oro. Questo gioiello è l’unica testimonianza che ci resta per immaginare e comprendere come il Labirinto si snodi agli occhi di un visitatore del Settecento. Un luogo così suggestivo, pur essendo progettato per l’educazione del Delfino, ospita, infatti, anche i cortigiani che risiedono stabilmente a Versailles e i viaggiatori di passaggio. La prima edizione de Le Labyrinthe de Versailles, datata 1675, è decorata da Jacques Bailly (1629-1679) e presenta una det-tagliata descrizione del percorso, scritta da Perrault; l’edizione successiva del 1677 è arricchita dalle illustrazioni di Sébastien Leclerc (1637-1714).

Il significato del Labirinto si può trarre dal dialogo, citato in apertura, tra Esopo e Cupido, le cui statue si trovano all’ingresso. Esopo tiene fra le mani una pergamena e Cupido, invece, un gomitolo di filo, metafora dei problemi, tortuosi come labirinti, che il suo consiglio porta in dote agli uomini; è bene, dunque, non seguire lui, ma gli insegnamenti delle favole di Esopo.

Quale lezione trae, dunque, Luigi di Borbone, duca d’Angiò, succedu-to a soli cinque anni al bisnonno Luigi XIV?

Non ci resta che entrare nel labirinto della sua vita, una favola iniziata sotto i migliori auspici e terminata come peggio non si poteva...

Nel 1715, alla morte del bisnonno, preceduta da una lunga serie di morti precoci degli eredi diretti, causate in gran parte dal vaiolo, Luigi, orfano di entrambi i genitori, diventa re con il nome di Luigi XV (1710-1774).

In attesa di raggiungere l’età per governare, dal 1710 al 1717 viene affi-dato alle cure di Charlotte de La Motte Houdancourt, duchessa di Venta-dour (1654-1744), gouvernante des enfants royaux, come la madre.

La riconoscenza di Luigi nei confronti di Madame sarà eterna, poiché lo ha salvato dai salassi dei medici di corte. Un bel giorno, infatti, la du-chessa chiude a chiave gli appartamenti in cui vive con Luigi e, insieme a tre bambinaie, lo accudisce fino alla guarigione dal vaiolo.

A sette anni, come di regola per i principi francesi, al re fanciullo ven-gono affiancate altre figure fondamentali per la sua educazione, la più im-portante delle quali è il cardinale André Hercule de Fleury (1653-1743).

Nel frattempo, il cugino Filippo, del ramo cadetto degli Orléans, assu-me la reggenza e trasferisce la sua corte a Parigi.

Da bambino, grazie al Labirinto di Versailles, Luigi impara a leggere e scrivere, si interessa già in età precoce a ogni ramo del sapere ed è un lettore molto avido.

È proprio in questo periodo (aprile 1720 - marzo 1721) che alla corte di Francia giunge una visitatrice davvero speciale: la pittrice veneziana Rosal-

ba Carriera (1675-1757).

Ospite del collezionista Pierre Crozat (1665-1740), ha modo di frequentare la corte e ritrarne le eminenti personalità.

Ritratto di Luigi XV, dipinto nel 1720, quando il pronipote del Re Sole ha dieci anni, riassume per-fettamente la tecnica pittorica del tutto personale, maturata dalla pittrice veneziana. Forte della forma-zione come disegnatrice di modelli per merletti, lane e sete, precisa nel disegno a matita e nel dare con-sistenza alle forme, prima miniaturista a utilizzare l’avorio per ottenere maggiore lucentezza e splendore dei colori, anche nei ritratti di maggiori dimensioni esalta la luce con rapidi tocchi di bianco sopra gli al-tri colori, concentra l’attenzione dell’osservatore sulla postura elegante del committente, i drappeggi degli abiti e i particolari, non lasciando in secondo piano il cuore dell’arte ritrattistica, vale a dire il realismo del volto rappresentato. Di certo, è agevolata dalla indi-scutibile bellezza e grazia del giovane re...

Tuttavia, Rosalba Carriera ha una personalità for-te, una solida formazione culturale, è poliglotta, in grado di rapportarsi alla committenza senza bisogno di intermediari. Dai diari della pittrice sappiamo che il re in persona le commissiona ritratti delle persone a lui più vicine. Rosalba Carriera consolida la sua fama alla corte di Versailles, una sorta di luogo dei luoghi, che in quel momento storico rappresenta non solo «la svaporata delicatezza di un’epoca», come scrive il critico Roberto Longhi1, ma è anche il centro della cultura europea.

Nel 1722 Luigi XV è ufficialmente incoronato re di Francia e tre anni dopo sposa Maria Leszczyńska (1703-1768). Marie, come sarà chiamata, è scelta da Fleury fra altre novantanove principesse (se non è una favola questa...).

Figlia di Stanislao Leszczyński (1677-1766), de-posto re di Polonia, ha sette anni più di Luigi. Dal matrimonio nascono dieci figli e a tutti il sovrano af-

12 13

fida nomignoli degni di una favola. La ricca aneddotica del regno di Luigi XV ci ricorda, per esempio, l’amore che il re nutre per le prime due figlie, due gemelle, Élisabeth e Henriette – la prima, unica delle otto figlie a spo-sarsi, diventerà duchessa di Parma; le ingenti spese per il mantenimento delle cinque figlie in età adulta rimaste nubili; il triste destino del Delfino Louis Ferdinand, mai divenuto re di Francia, deceduto nel 1765, ancora vivente il padre, e padre a sua volta di tre re (Luigi XVI, Luigi XVIII e Carlo X).

Tutti i figli di Luigi e Marie trascorrono l’infanzia nell’Ala dei Principi, che si affaccia sul Parterre du Midi, vicino all’Orangerie e al Labirinto, di cui imparano a conoscere i segreti, mentre la regina Marie accoglie una nutrita cerchia di amici, per i quali ama organizzare concerti, invitando, fra gli altri, Farinelli e Mozart. Dal punto di vista politico, la regina si attiva, insieme al principe di Condé, affinché Fleury venga allontanato dalla corte e dal governo della Francia. In un simile contesto, il matrimonio reale si incrina per non ricomporsi più.

A differenza del re, però, Marie manterrà inalterata la sua popolarità: le buone maniere, la grazia e la pietà, frutto della devozione cattolica, il con-tegno e la dignità che la contraddistinguono negli anni in cui saranno alla ribalta le amanti del re, ne fanno un modello di riferimento per il popolo.

Come re Luigi sia riuscito a inimicarsi l’amore dei francesi è una favola senza lieto fine difficile da ricostruire in sintesi. Tuttavia, non lasciamoci intimorire ed entriamo impavidi nel Labirinto della Storia per seguire i suoi intricati percorsi!

Fin dall’inizio del suo regno, pur essendo uomo di vasta cultura e un profondo analista, Luigi XV dimostra di non volere contatti diretti con il potere, delegando ogni decisione ai ministri. Incertezza e insicurezza lo caratterizzano, anche se egli desidera conoscere la verità delle cose e delle persone, facendo controllare il governo, servendosi di una rete diplomatica e di spionaggio molto fitta.

Fino agli anni intorno al 1745 è il Beneamato e in lui si auspica un fu-turo di pace e prosperità; nei trent’anni successivi l’appellativo si trasforma in il Maleamato, a tal punto da costringere chi di dovere a modificare il cerimoniale di corte in occasione del funerale reale, nel 1774. Le esequie saranno celebrate di nascosto per evitare la vergogna pubblica.

Nel corso dell’esistenza umana le luci e le ombre si creano lo spazio di sopravvivenza per apparire ai posteri l’una più importante dell’altra.

Le luci di Luigi XV sono state la grande espansione economica, grazie alle manifatture e al commercio marittimo, la trasformazione delle città in centri moderni con piazze e palazzi pubblici, il clima di equilibrio nella vita

sociale, fino alla grande popolarità, quando il re si mette alla testa delle truppe durante la guerra di successione austriaca (1740-1748), viene ferito, dato per morto per poi guarire.

Il suo rammarico più grande, espresso da uomo ormai maturo, che ha abbandonato la reggia e il Labirinto per Le Tuileries, è quello di non aver saputo fermare i fautori della partecipazione francese alla guerra. Le vie della pace, dell’equilibrio e dell’armonia sociale, al perseguimen-to delle quali le fontane parlanti lo avevano educato, sono state abban-donate. Ormai la via verso la guerra è tracciata. Il gomitolo del regno di Francia sarà inghiottito dalla guerra dei Sette Anni (1756-1763), combattuta anche nelle colonie.

Ad essa andranno ad aggiungersi altre ombre come l’abbandono del progetto del Controllore generale delle Finanze Jean-Baptiste de Machault d’Arnouville (1701-1794) di tassare i redditi di tutti i france-si (il re cederà alle pressioni ecclesiastiche negli anni 1749-51), la con-ferma della revoca dell’Editto di Nantes, che costringerà gli Ugonotti a una nuova emigrazione, proprio nel momento di maggiore sviluppo economico della Francia (1752).

Nel 1774 il filo di Arianna destinato a Luigi XV termina i suoi giorni nella sfiducia e nel dileggio; il re fanciullo ritratto da Rosalba Carriera è stato incapace di far compiere alle favole di Esopo un’ul-teriore metamorfosi, rendendo le fontane parlanti fatto storico, prassi politica da tramandare davvero ai suoi eredi.

Che siano rimosse!, ordina il nuovo re Luigi XVI (1774-1792). A lui non piacciono nemmeno Esopo e la sua pergamena, Cupido e il suo gomitolo e perfino le siepi alte cinque metri.

Quattro anni dopo la morte del nonno, egli decreta che i suoi tre figli giochino in un bel giardino all’inglese...

Ventuno anni dopo, il Labirinto della Storia verrà a rompere anche quel gomitolo, spezzato dai colpi della Rivoluzione.

1 R. Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, Sansoni, 1946, p. 36

Annarosa Maria Tonin | autrice di racconti e romanzi, ha pubblicato di recente la raccolta di racconti “Le visitatrici” (Edizioni La Gru).

14 15

Nessun interno: nessun esternoIl labirinto di Cnosso e l ’ultimo grande Coltrane

di Michele Saran

MUSICA

L’intrico del labirinto cretese di Cnosso è, per definizione, il luogo in cui non c’è scampo. In esso vive la rappresentazione ferrea del rito la cui vittima deve giungere inesorabilmente al centro, la meta fatale, dove sarà sacrificata. Storicamente ne esistono diverse versioni. Anche in quelle più estreme, a più elevata densità di antri, ambagi e meandri, la logica di trap-pola ricorsiva non fa che amplificarsi. La fuga si fa desiderata e impossibile: la stessa strada si rivela un ineluttabile imbuto allorché si va verso il centro; ma non appena si tenti di allontanarsene si rifrange in mille vicoli ciechi, ognuno dei quali può diventare la trappola conclusiva, l’angolo oscuro del colpo di grazia. Ciò vuol dire che il labirinto in origine non aveva una mappa, perché le aveva tutte e nessuna, perché era uno spazio instabile e proliferante, suscettibile di infiniti percorsi e di nessuno, coincidendo con la fine di qualsivoglia percorso.

A compiere una delle più monumentali, solenni e sfinenti traiettorie sacrificali-labirintiche è la tarda parte di carriera del massimo sassofonista jazz di sempre, John William Coltrane. Assume le fattezze di un Teseo al

contempo eroe e vittima: alla corte di Egeo (Miles Davis) ha edificato edi-fici miliari, il jazz modale, e poi, da solo, il jazz spirituale di A Love Supreme (1964). Indi salpa alla volta di Creta, proiettandosi verso la sua avventura più ambiziosa, la ricerca radicale della libera improvvisazione. Lo aiuta la sua Arianna, la moglie Alice gli dona quel filo rosso che rappresenta la vi-sione, la pianificazione del labirinto, qualcosa che Coltrane possiede invece dalla nascita come status ascritti ma di cui poi si disfarà, preferendo immo-larsi e sublimarsi nell’edificio-musica. Uccide il Minotauro, vale a dire le precedenti evoluzioni del jazz, dal bebop e, in generale, l’idea di struttura e tonalità. Infine libera definitivamente gli infanti, le future vittime labirinti-che volute da Minosse per compensare lo smacco della moglie Pasifae, cioè libera i futuri jazzisti del free (Archie Shepp in primis) e, in senso ancor più archetipico, sprigiona la potente forza sia corporea che misticheggiante della negritudine.

Questa, in estrema sintesi, un’interpretazione dell’ultima opera di Col-trane, musica d’ascolto labirintico per definizione, alla luce del mito di Cnosso. Si può però ampliare la questione. Assai prima che un luogo, il labirinto cretese è un campo di forze. Esso è dominato dal contrasto fra dentro e fuori, nonché dal passaggio tra questi due estremi, e a risultarne è una duplice irreversibilità: nel labirinto si entra per non uscirne mai più oppure, viceversa, si esce per restarne definitivamente al di fuori. Il suo percorso fatale spinge in una direzione o nell’altra, come la morte e come la nascita. Con gran fulgore, Coltrane trova un primo movimento nel giu-gno del 1965: dopo alcuni momenti di transizione che ancora annoverano il quartetto classico con McCoy Tyner, Jim Garrison e Elvin Jones (Vigil, Dusk Dawn e, nomen omen, Transition), il sassofonista vi aggiunge altri sette musicisti e, sempre nello stesso mese, incide i quaranta minuti di Ascension. Se matrice è il Free Jazz (1961) di Ornette Coleman, il lavoro di Coltra-ne sublima tanto improvvisazione scomposta quanto un’organizzazione di ritornello, impagina le baraonde, i flussi di coscienza e le radicalizzazioni timbriche degli strumenti, in pannelli in vertiginosa sequenza. A ogni mo-mento liberatorio di sovversione delle regole armoniche, si ritorna sempre a una trafila di accordi a tonalità crescente, perpetua ascensione. Il percorso labirintico di Coltrane trova, così, tanto un inusitato potere sciamanico quanto una precisa volontà catartica.

Dopo un ritorno, l’ultimo, al quartetto (Sun Ship, agosto 1965), tra set-tembre e ottobre di quell’anno il sassofonista registra altri tre capolavori, Evolution, Cosmos e Om (ma va ricordato anche un Untitled Original). Col-

16 17

Michele Saran | trevigiano, classe ’79, scrive per ondarock.it e altre testate online, è anche giurato per Arezzowave Veneto, è stato speaker per Radio Base Popolare Network, ora dispone di un piccolo blog personale. Battezzato dalla musica classica e dal jazz, fu unto dal sacro ascolto compulsivo fin dalla più tenera età.

trane ha rapidamente dismesso la big-band estremista di Ascension, come ad affermare che quella non era che la sua prima mossa della ricerca in pectore, ma ne fa salvo Pharoah Sanders, altro genius di sassofonista con cui sente profonda affinità. Attorniato solamente di pochi consorti, Coltrane scopre il suo metodo ormai davvero ultraterreno di tecnica strumentale e gestione degli assoli: i suoi sheets of sound degli esordi divengono autentiche pagine astrali, scritture automatiche di cifrari alchemici. Nella propria, per-sonale Cnosso Coltrane non si reca allora soltanto all’interno del labirinto, ma reca anche il labirinto dentro di sé, inizia a interiorizzare un sacrificio che dovrà far proprio, per morire e poi rinascere. In queste tre pagine di ca-cofonie zampillanti, stridori a getto continuo e sfaceli di ritmi avviluppati in sé stessi, ma anche in quelle di metà ottobre (Kulu Sé Mama, Selflessness), persiste una volontà ancor più radicalmente, impazientemente proiettata alla ricerca di un ὁδός (hodós) di pienezza salvifica.

Nel novembre del 1965 assolda un secondo batterista, Rashied Ali, che diverrà un nuovo importante tassello del suo ultimo suono e con cui conce-pisce The Father the Son and the Holy Ghost, Love e Consequences, cioè i pezzi fondativi dell’album Meditations (1966). L’organizzazione del suono è sta-volta meno urticante e quasi trattenuta, come se ci fosse una nuova proget-tazione in atto, e maggiormente democratica, condiscendente nei confronti dei labirintici compari di viaggio. Si può saggiare questa dimensione sul finale di Consequences, una splendida divagazione di Tyner che quasi ruba la scena al pandemonio che lo precede, e nell’apertura basata sul tutti di The Father, così imponente e solenne, tra ostinato, i fraseggi in maniacali legato di Sanders e le nervose articolazioni dei due batteristi, a sovrastare il sax del leader. E affida l’intera introduzione di Love soltanto al canto spiegato del contrabbasso di Garrison, seme germinale da cui nasce sinuosamente l’intera concertazione, incredibilmente suadente se comparata al tumulto delle creazioni antecedenti.

Buona parte del 1966 è per Coltrane devota all’attività dal vivo, cui si aggiunge la sua Arianna, Alice, al piano in sostituzione di Tyner. Il sasso-fonista ha comunque modo di espandere la ricerca in versioni ampliate di brani già noti, come una Peace on Earth incisa originariamente a febbraio e poi reinterpretata a luglio come vasta e incandescente meditazione (inclusa in Concert in Japan, 1973). Coltrane si avvicina, metaforicamente e fisica-mente, al labirinto in assoluto più antico, cioè quello di una massa scatenata colta nella sua crisi oggettuale, in un salvifico raffronto con la ritualità, un percorso che non ha più interno, un interno da cui cerca di scappare e non può, e che quindi non ha più esterno, in quanto ricacciata verso le viscere

del centro, verso l’esecuzione finale. Nel febbraio del 1967, incide To Be, di nuovo assieme ai cinque rodati dal vivo, ma anche i quattro pianeti di In-terstellar Space (1974) soltanto affiancato dalle percussioni di Ali. Di marzo sono le ultime incisioni di studio: Offering e Number One. Morirà qualche mese dopo, appena quarantenne.

Esiste un labirinto che si espande nello spazio. Ma dentro le sue varie forme e variazioni esiste un labirinto che si sviluppa nel tempo, e che ogni sua versione raccontata preserva e trasmette in quanto ne è risultato. A questa condizione, esso acquista un valore di archetipo e dunque permet-te una comprensione della forza, altrimenti sovrumanamente imperscru-tabile, delle ultimissime registrazioni coltraniane. Secondo una delle più arcaiche simbologie, il λαβύρινθος (labýrinthos) cretese è il luogo oscuro al cui centro si accende una luce, un fuoco rituale il cui simbolismo luminoso viene a significare il verificarsi della ierofania: la manifestazione misteriosa del sacro che si colloca alla fonte di tutte le religioni dell’umanità. Coltrane si immola, vittima sacra, e rinasce come puro archetipo. Non sarà possibile imitarlo, ma solo assorbirne nelle maniere più eterogenee l’influenza. In attesa del nuovo Teseo.

18 19

Il labirinto e la bussolaPanoramica su specchi ed enciclopedie nella narrativa di Jorge Luis Borges

di Matteo Pernini

Nel racconto Abenjacàn il Bojarí, ucciso nel suo labirinto (Abenjacán el Bojarí, muerto en su laberinto)1 l’universo è detto un mistero, ma dello stes-so ordine della lettera rubata di Edgar Allan Poe o della stanza chiusa di Israel Zangwill, ossia: un racconto a enigma, una tortuosità dell’intelletto, un paradosso.

Gilbert K. Chesterton – al quale Borges dovette le migliori ore del suo piacere letterario – rivendicò, come è noto, il proprio cattolicesimo per via di paradossi: in un racconto, un generale prussiano fallisce l’obiettivo per la troppa obbedienza dei propri soldati, in altri si danno uomini troppo alti per essere visti o, ancora, anarchici salvati dal rispetto per le tradizioni. Tut-tavia per Chesterton il paradosso non è semplicemente una «verità messa a testa in giù per attirare l’attenzione»,2 quanto un ordine del mondo, un modo di essere che partecipa della struttura stessa delle cose. Per lo scet-tico Borges, che seppe volgere argomenti filosofici e scritture religiose in motivi estetici, il paradosso è solo il termine di una serie logica, il cui esito è il disordine. Che a ciò si giunga per via di una narrazione di straordinaria compattezza e solidità è uno tra i più sbalorditivi risultati della sua opera.

Da una letteratura votata a farsi specchio di una cosmologia caotica tutto ci attenderemmo meno che uno sviluppo breve, un intreccio lineare e una chiusura organica. Penseremmo, forse, più volentieri alla congerie di voci sovrapposte, che, come in una seduta spiritica, abitano l’Ulisse (Ulysses, 1922) di James Joyce, o al gioco combinatorio che precipita il protagonista di Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) nel suo incubo filologico, piuttosto che al periodare preciso e misurato del curatore della bibliote-ca di Babele. Precisione e misura sono gli strumenti dell’arte borgesiana del racconto, come rivela la disarmante apertura di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius: «Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e un’enciclopedia».3 Scrive Harold Bloom:

All’immaginaria terra di Uqbar potete sostituire uno qualsiasi dei luoghi, delle cose e delle persone presenti nella narrativa borgesiana; contengono tutti uno spec-chio e un’enciclopedia, perché, secondo l’autore, qualsiasi enciclopedia, esistente o presunta è, insieme, un labirinto e una bussola.4

Esistono, però, labirinti che confondono il nostro orientamento – tale è quello del Minotauro – e altri in cui ci è nota la posizione, ma non l’uscita. Quelli di Borges sono del secondo tipo e seguono un’immagine primaria: la linea retta di Zenone Eleatico.

Sebbene il più celebre dei molti labirinti progettati dall’argentino sia quello descritto ne Il giardino dei sentieri che si biforcano (El jardín de sende-ros que se bifurcan, 1941), il migliore è, forse, La morte e la bussola (La muerte y la brújula, 1942), entrambi raccolti nel volume Finzioni (Ficciones, 1944); di detti labirinti uno è nel racconto, l’altro è il racconto. Nel primo ci si deve perdere (o non si può non perdersi), nel secondo, abominevole assurdità, si trova sempre l’uscita a patto di assumere una logica impossibile, quella per cui bandito e investigatore, tentando ciascuno di prevedere le mosse dell’avversario, vengono, infine, al medesimo risultato.

L’idea per Il giardino dei sentieri che si biforcano viene dal lavoro dello scrittore irlandese Herbert Quain, autore del romanzo poliziesco The God of the Labyrinth, in cui «v’è un indecifrabile assassinio nelle pagine inizia-li, una lenta discussione nelle intermedie, una soluzione nelle ultime. Poi, risolto ormai l’enigma, v’è un paragrafo vasto e retrospettivo che contiene questa frase: “Tutti credettero che l’incontro dei due giocatori di scacchi fosse stato casuale”. Questa frase lascia capire che la soluzione è erronea. Il lettore, inquieto, rivede i capitoli sospetti e scopre un’altra soluzione, la vera».5 Tre anni dopo, nel 1936, Quain dà alle stampe April March, opera «regressiva e ramificata» divisa in tredici capitoli, di cui «il primo riferisce

LETTERATURA

20 21

l’ambiguo dialogo di alcuni sconosciuti su una banchina. Il secondo rife-risce gli avvenimenti della vigilia del primo. Il terzo, anch’esso retrogrado, riferisce gli avvenimenti di un’altra possibile vigilia del primo; il quarto, quelli di un’altra».6 Di entrambi i romanzi, Borges fornisce una dettagliata analisi nel suo Esame dell ’opera di Herbert Quain, un racconto contenuto nella raccolta Finzioni. Come già Pierre Menard, che vuole riscrivere il Don Chisciotte, anche Quain è un’invenzione borgesiana, nella quale, però, con sublime sfrontatezza, Borges proietta se stesso e le proprie ambizio-ni letterarie. Autore – reale e fittizio – del racconto e al contempo suo argomento, lo scrittore argentino coniugò successivamente The God of the Labyrinth e April March – ossia l’idea di un lettore chiamato a scoprire nuove direzioni di un racconto e quella del proliferare infinito dei mondi narrativi – ne Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941), che contribuì alla sua affermazione in patria.

A dispetto della fama – in ciò, forse, superato dalla ricchezza allusiva di Tlön e dalle infinite gallerie esagonali della Biblioteca di Babele – il rac-conto di Borges che preferiamo rimane La morte e la bussola, il più simile a un labirinto. In esso il detective Erik Lönnrot indaga su una serie di delitti, che paiono seguire uno schema cabalistico. Abile ragionatore alla maniera del Dupin di Poe, si convince, per abduzione, che l’ultimo crimine avrà luogo nella villa abbandonata di Triste-le-Roy in un preciso giorno del mese e lì si reca ad attendere il colpevole. Lo trova, ma al contempo scopre l’orribile piano perpetrato ai suoi danni: anticipando le mosse di Lönnrot, il bandito Red Scharlach ha seminato indizi per convincere l’investigatore che quelli sarebbero stati il luogo e il giorno dell’ultimo crimine. Ora, l’as-sassino può consumare la sua vendetta contro l’odiato nemico, non prima di avergli rivelato gli strumenti di cui si è servito per confondere la sua mente: gli specchi, la bussola e il labirinto in cui è stato rinchiuso.

Mentre ci delizia con un intrigo poliziesco, che, come suggerisce Blo-om, non sarebbe dispiaciuto a Isaac Babel, La morte e la bussola ci ricorda come ogni cosa, in Borges, sia un possibile labirinto: una villa abbandonata, una geografia, un libro, una biblioteca. Parimenti vi scorgiamo un principio che non dubitiamo di poter estendere alle più avvincenti fantasmagorie dell’argentino: chiuso nel labirinto, il protagonista borgesiano sdegna la cautela delle congetture locali – ossia rifiuta di domandarsi, a ogni incro-cio, quale via sia più prudente imboccare – e mira subito all’algoritmo, alla mappa che gli consentirà di prevedere la svolta susseguente. Dovendosi orientare nel dedalo per lui ordito dal suo doppio Red Scharlach, il ragio-natore Lönnrot ne immagina i corridoi, gli angoli, le tortuosità, lo proietta nello spazio della mente come lo sguardo in plongée verticale che Stanley

Kubrick getta, in Shining (1980), sul labirinto dell’Overlook Hotel. Da qui il malinteso tra il detective e il redattore della Yiddische Zeitung: «Costui voleva parlare dell’ucciso; Lönnrot preferì parlare dei diversi nomi di Dio». Individuata la traccia cabalistica, Lönnrot si disinteressa del singolo delitto, per inseguire il suo sogno di un labirinto che è un’unica linea retta, ma nel mondo di Borges pensare correttamente significa pensare secondo le leggi della Biblioteca, negli orizzonti di quello che Umberto Eco ha definito un «universo spinoziano malato».7

Nel gesto di anticipare e guidare la lettura che Lönnrot darà degli indi-zi opportunamente seminati, Red Scharlach diviene il narratore della sua storia, lasciandoci la lezione che in ogni lettura si celi, a ben vedere, una riscrittura, come già aveva presentito Pierre Menard. Così è per Borges, la cui pratica letteraria consiste nella più attenta riscrittura possibile dei suoi predecessori – da Poe a Thomas De Quincey – in una vertigine di influenze tutte tese a realizzare il suo vigoroso progetto: fare a brani il reale per poi ricomporlo nelle forme di un’enciclopedia.

1 J. L. Borges, L’Aleph, Feltrinelli, 2010 2 G. K. Chesterton, I paradossi del signor Pond, Lindau, 2016 3 J. L. Borges, Finzioni, Einaudi, 1995, p. 7 4 H. Bloom, Il Canone occidentale, BUR, 2012, p. 500 5 J. L. Borges, Finzioni, Einaudi, 1995, p. 64 6 J. L. Borges, Finzioni, Einaudi, 1995, p. 65 7 U. Eco, Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, 2004

Matteo Pernini | nato negli anni Novanta tra le nebbie della val Padana, frequenta la facoltà di Fisica presso l’Università di Padova. Tra le sue passioni: il tennis e il cinema. Dal 2012 collabora con la webzine di critica cinematografica Ondacinema.

22 23

Negli angoli più buiIl labirinto della mente per Lorenzo Bianchini

di Matteo Zucchi

Se cerchiamo qualcosa, il labirinto è il luogo più adatto per la ricerca. Orson Welles [attribuita]

Sono rarissimi i casi in cui un autore, tanto più se esordiente e privo di una corposa formazione estetica e teorica, dimostra di essere capace di mostrare la sua idea di cinema fin dall’incipit del suo primo film (Lidrîs cuadrade di trê, Radice quadrata di tre, 2001). L’eccezionalità del cinema di Lorenzo Bianchini, (ri)sprofondato nell’oblio dopo un’effimera e campani-listica fama tra 2001 e 2004, è quindi palese ai pochi che hanno avuto la fortuna di approfondirlo fin da quegli sfocati fotogrammi in digitale che mostrano il modellino roteante di un cervello, mentre una musica ipnoti-ca e delle scritte componenti una sorta di poesia fungono da commento all’immagine e ne esplicano il senso: la ragione umana, intrappolata nella ripetizione, può facilmente sprofondare nell’auto-annientamento. Sorte che, pur non volendo fare spoiler, è palese che attenda i giovani prota-gonisti pluri-ripetenti che si smarriscono negli enormi corridoi dell’ITIS Malignani di Udine, dopo esservi penetrati una notte col fine di sostituire dei compiti di matematica andati male. Fra panoramiche dall’alto che en-fatizzano l’andamento tentacolare dei corridoi e grezze carrellate a seguire lungo i sotterranei, lo spazio della scuola, luogo di sapere e quindi di ra-gione, si disarticola e ricompone in una labirintica trappola per i giovani agnelli sacrificali.

Il fatto che tale sacrificio prenda l’effettiva forma di rituali satanici po-trebbe introdurre un’altra delle tematiche centrali del corpus bianchiniano, ovvero la tendenza al parossismo che demistifica una volontà di pathos che i poverissimi mezzi che il regista sa di avere finirebbero per guastare del tutto, se non esorcizzata e mantenuta sottotraccia. Ma il topos da svi-scerare (termine non casuale, ovviamente) è il labirinto e quindi si deve tornare fino ai due cortometraggi d’esordio, ovvero Paura dentro (1997) e Smoke Allucination (1998), i quali mettono in scena lo smarrimento dei personaggi principali (costante narrativa principale di tutta la produzione di Bianchini) in uno spazio che è sia concreto che astratto. Difatti il bo-sco dell’esordio e la cantina/sotterraneo della seconda opera sottolineano la loro natura (e in primis origine) cerebrale, e quindi la capacità di farsi proiezione dell’inconscio dei protagonisti, i quali non possono far altro che venire a patti con sé stessi o soccombere. Agli eroi bianchiniani delle pellicole (sic) successive, compreso il mediometraggio a tema licantropico I dincj de lune (I denti della luna, 1999), non viene data questa scelta, col progressivo sprofondare nell’orrore (inteso in primo luogo come genere) che esse mettono in scena.

Ma il genere al quale il cinema di Bianchini viene solitamente correlato comincia a raggiungere nuovi livelli di astrazione già a partire dal secondo lungometraggio, Custodes Bestiae (2004), opera che permette di ottenere al cineasta la massima attenzione facendo parlare a sproposito alcuni, per l’ennesima volta, di presunta rinascita della produzione di genere italiana. Pur privato dell’importanza storica che ne sarebbe derivata, il film può dir-si un concreto passo verso la maturazione per il giovane regista, un italian giallo che omaggia soprattutto La casa dalle finestre che ridono (Pupi Avati, 1974) e l’horror lovecraftiano, da cui riprende minacce secolari nascoste nelle profondità della provincia e l’interesse per la deformità e il perturban-te. Custodes Bestiae non si esime da riprendere il topos del labirinto, ricon-dotto stavolta all’originale mito del Minotauro e del sacrificio per un bene superiore, come ha fatto saggiamente notare Mauro F. Giorgio in un suo intervento sulla pellicola,1 venendo ancora una volta astratto nella struttura tentacolare dell’investigazione, la quale ha infine la meglio sull’improvvisa-to detective Max e lo conduce alla follia proprio dopo essere disceso (an-cora) in un abisso sotterraneo. Dopo esservi stati, anche il mondo esterno pare come una realtà imperscrutabile e senza possibilità di scampo.

Dal thriller al noir il passo è breve e così il ritorno. Questo spiega i due progetti successivi di Lorenzo Bianchini, lo sfacciatamente amatoriale

CINEMA

“Custodes Bestiae” (2004) di Lorenzo Bianchini

24

Film sporco (2005), una sorta di viaggio notturno nei sobborghi udinesi filtrato attraverso uno stile che risente fin troppo di Tarantino e del Lynch tra anni ‘80 e ‘90, e lo ieratico e ben più ambizioso giallo Occhi (2010), diversissimo dal predecessore e apparentatogli palesemente solo dal nome del regista e dalla sfortuna critica che impedisce loro di godere almeno della velleitaria celebrità dei predecessori. Eppure, ritornano tutti i temi più cari al regista friulano: la crisi della ragione ordinatrice, le parabole autodistruttive degli eroi, il mistero come dimensione essenziale della vita provinciale, il passato come infinita riserva di orrori, nonché il labirinto. Cosa sono altrimenti i viali di Udine lungo i quali i protagonisti di Film Sporco vagano incessantemente (e il condominio in cui alcuni di loro si per-dono prima della resa dei conti) e la derelitta villa di campagna che assorbe completamente il restauratore al centro di Occhi (così come la narrazione), tanto da spingerlo a confondere passato e presente e a smarrirsi in varie identità, nei suoi corridoi.

Si può dire che infine il vero labirinto sia il cinema stesso di Bianchini, un ammasso di oggetti audiovisivi di diverso formato e genere, una rappre-sentazione tentacolare dei mali di un’umanità di confine. In tal caso non risulta eccessivo voler vedere in Across the River (Oltre il guado, 2013) una sorta di filo di Arianna per trovare finalmente un’uscita da questo caos. In effetti l’equilibrio fra essenzialità e pathos che raggiunge il racconto della sopravvivenza dell’etologo Marco Contrada in un villaggio abbandonato delle Valli del Natisone infestato da strane presenze, e la trasparenza con cui tutti i topoi del corpus bianchiniano vengono alla luce, permette di par-larne quasi come di un compimento del suo percorso. Fino a che non ci si rende conto che come gli spettri dei mali del Secolo Breve girano in tondo, al centro di una foresta che è ancora un labirinto, così facevano i ragazzi in fuga di Radice quadrata di tre, dimostrando la coerenza tematica di un mi-sconosciuto regista della porta accanto e la natura di elevamento a potenza del proprio cinema che è Across the River. In attesa di entrare un’altra volta ancora nella casa di Asterione.

1 M. F. Giorgio, Custodire la Bestia. Orrore e folklore nel cinema di Lorenzo Bianchini, dal booklet del DVD Custodes Bestiae

Matteo Zucchi | classe ‘95. Si barcamena tra borghi medievali dispersi tra i colli friulani e Bologna, ove al momento frequenta il DAMS. Collabora con la webzine Ondacinema e con Digressioni. Delle molte altre cose che fa, o tenta di fare, preferisce tacere.

“UnderLying”, Ba Abat, 2016

26 27

Niccolò a Gotham City Virtù, corruzione, libertà: Batman nel labirinto di Machiavelli

di Francesco Zanolla

“Ritratto di Niccolò Machiavelli”, Santi di Tito, seconda metà del XVI sec. (Palazzo Vecchio - Firenze)

FILOSOFIA

Può un apparente vizio rivelarsi una virtù? È possibile redimere una comunità politica scivolata nella corruzione? E, soprattutto, queste due questioni, che per secoli hanno tormentato

filosofi, moralisti e uomini di stato, hanno effettivamente qualcosa a che fare con il terzo e ultimo capitolo della saga di Batman firmata da Chri-stopher Nolan, vale a dire Il cavaliere oscuro - Il ritorno (The Dark Knight Rises, 2012)?

Ovviamente, chi scrive pensa di sì: si tratta infatti di due interrogativi chiave per interpretare alcuni dei conflitti e delle dinamiche drammatur-giche del film e le risposte che emergono dallo sviluppo della narrazione appaiono affini, e per molti versi consonanti, a quelle articolate 500 anni fa da Niccolò Machiavelli.

E dunque, ecco che all’inizio del film ritroviamo una Gotham City che da otto anni prospera, sicura e libera dal crimine organizzato, su quella che (come spettatori che hanno visto il precedente film ne siamo più che consapevoli) è a tutti gli effetti una menzogna.

Facendo assumere a Batman le colpe di Harvey Dent/Due Facce, il

commissario James Gordon e Bruce Wayne, volevano infatti evitare di sopire il genuino risveglio dello spirito civico e della fiducia nella giustizia e nelle istituzioni messo in moto dall’azione e dal carisma del procuratore Dent prima della sua catastrofica mutazione, anche se questo comportava a tutti gli effetti una drastica negazione della realtà, vale a dire un atto solitamente oggetto di biasimo e deprecazione morale.

A simili dilemmi Machiavelli ha dedicato corpose, complesse e ambi-valenti riflessioni, incardinandole tutte su di una concezione, per la sensi-bilità della sua epoca non poco scandalosa, riassunta magistralmente nel consiglio elargito agli uomini di stato ne Il principe (1532), al capitolo XV par. 3, e che pare adattarsi benissimo all’operato di Gordon e Wayne:

Et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quei vizi senza quali possa dif-ficilmente salvare lo stato; perché, se si considererà bene tutto, si troverà qualcosa che parrà virtù e seguendola sarebbe la ruina sua e qualcosa altra che parrà vizio, e seguendola ne riesce la securtà ed il benessere suo.

Come ci insegna una lunga tradizione interpretativa in Machiavelli è netta l’intenzione di troncare definitivamente i residui legami tra morale religiosa e politica, che viene così ad acquisire una dignità ed una razionali-tà proprie, collegate alla spregiudicata osservazione della «verità effettuale»; inoltre, dato più importante per il nostro esame, abbiamo esplicitato il proposito di edificare una nuova tipologia di virtù, totalmente aliena da contaminazioni religiose e organicamente collegata alla sfera della comu-nità politica dove l’essere umano come cittadino attivo e partecipe della vita della repubblica raggiunge e realizza la pienezza della sua essenza.

Diventa così possibile considerare sotto una nuova luce le massime che percorrono la seconda parte de Il principe e numerosi capitoli dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1531), dalle quali ha avuto origine l’ada-gio proverbialmente a lui attribuito, ma in realtà mai enunciato testual-mente, sul “fine che giustifica i mezzi”, e che acquista un valore nuovo se lo si reinterpreta tenendo conto l’operazione complessiva di rinnovamento delle categorie della riflessione politica che Machiavelli sta tentando di attuare.

Ecco che allora non tutti i mezzi sono giustificati da tutti i fini. Ed ecco allora che nel nostro caso, violare l’ordine delle categorie mo-

rali canoniche tacendo la verità per diffondere e perpetrare una menzogna, diventa non solo possibile, ma doveroso, se il non farlo significa mettere in gioco la possibilità per la comunità di continuare a prosperare libera e ordinata, esponendola nuovamente alle brame del crimine organizzato.

28 29

Per il cittadino virtuoso «non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né di ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né di ignomignoso; anzi posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le (si tratta della patria/comunità politica, n.d.a.) salvi la vita e mantenghile la libertà». (Discorsi III, 43, 5)

Nel tumultuoso cosmo politico machiavelliano la virtù assume dunque un ruolo assolutamente centrale, essendo lo strumento fondamentale per tenere a freno e limitare la corruzione, ovvero il disfacimento della comu-nità politica segnato dal progressivo venir meno dell’ordine garantito da leggi, dal prevalere degli interessi particolari di uomini che «più presto vo-gliono i favori che il bene dell’universale» (Discorsi II, 22, 33) e infine dalla trasformazione della repubblica stessa in una tirannia vera e propria.

Questa polarità, tipica di tutto il pensiero repubblicano classico e mo-derno, riportata al film di Nolan, consente innanzitutto di far piazza puli-ta delle critiche di alcuni commentatori, tra cui Slavoj Žižek,1 che hanno tacciato il film di conservatorismo e di celebrare il capitalismo come unico sistema sociale possibile, dipingendo Batman come un difensore a oltranza dello status quo, contro i rivoluzionari guidati da Bane, che vorrebbero invece rivoluzionare l’ordine borghese-capitalistico di Gotham City.

Quel che pare chiaro invece è che la parabola di Gotham City traduca in maniera piuttosto precisa la dinamica della corruzione così come gli scrittori repubblicani in generale e Machiavelli in particolare la descrivo-no.

A dare il là alla corruzione della città è infatti la cupidigia e la rapacità del tycoon John Daggett, quindi di un elemento interno e organico alla comunità di Gotham che, desideroso di fare le scarpe alle Wayne Enter-prises, assolda Bane e il suo esercito di mercenari.

È quindi la cupidigia delle oligarchie possidenti, quella che Machiavelli definisce in più passaggi «l’ambitione» e «l’avarizia de’ Grandi» ad avviare ciò che è possibile davvero leggere come un “dramma repubblicano”. Una volta scatenate, infatti, le forze della corruzione prendono il sopravvento su chi le aveva evocate pensando di potersene servire soltanto per ridefinire a proprio vantaggio gli equilibri di potere interni all’ordine costituito, e procedono invece a rovesciarlo e stravolgerlo.

La libertà regolata da leggi, uno dei cardini del pensiero repubblicano, lascia sempre più il posto alla «licenza», e la repubblica diviene preda della volontà di un Tiranno che, proprio come nel film, ha la facoltà di uccidere, rubare, inscenare processi farsa e far prevalere il sopruso e l’arbitrio sui principi di giustizia del «vivere civile e politico».

Per contrastare tale processo Machiavelli non vede grandi alternative.Quando anche gli «ordini», vale a dire gli assetti istituzionali e costitu-

zionali vacillano e crollano sotto i colpi della corruzione e di una Fortuna cinica e capricciosa, non resta che ricorrere ancora una volta alla virtù. La virtù dei capi e degli uomini straordinari, può, se le circostanze sono ade-guate, sortire grandi effetti. Innanzitutto attraverso l’influenza esercitata sui cittadini meno dotati con l’ispirazione e l’esempio, poiché le imprese dei grandi uomini della repubblica «sono di tale riputazione e di tanto esemplo che gli uomini buoni desiderano imitarle e gli uomini cattivi si vergognano a tenere vita contraria a quelli» (Discorsi III, 1, 27). E poi at-traverso l’azione diretta, che richiede accortezza, prudenza (cioè quell’avve-dutezza ponderata frutto di un’attenta analisi della situazione), ma anche risolutezza, veemenza e coraggio.

Proprio lo stesso coraggio che nel finale del film occorre al manipolo di “eroi repubblicani” guidati da Batman per affrontare una milizia di taglia-gole praticamente a mani nude e giocare a nascondino con un camion che trasporta un testata nucleare per le vie di Gotham City. Lo stesso coraggio che ci vuole per volare verso il mare aperto con la stessa testata agganciata sotto le ali e il timer della detonazione avviato verso il countdown finale.

È quindi ancora l’ideale civico a risuonare, assieme alla prevalenza di una dimensione etica che è anche di per sé stessa “politica”, e all’idea-le classico-rinascimentale della “Gloria”, dell’azione individuale grande e magnanima proiettata costantemente sulla scena “pubblica” e collettiva.

Soltanto alimentandolo in continuazione, ci dice Machiavelli, possia-mo sperare di salvare dalle spire della corruzione e della tirannide sempre in agguato il «vivere politico e civile», la forma di vita associata che gli uomini si danno per coesistere pacificamente secondo giustizia.

E allora, fortunato quel paese, come scriveva Brecht, che non ha biso-gno di eroi. Ma molto più fortunato quello, ci sentiamo di chiosare, che nei momenti più tragici può contare su virtuosi (e machiavelliani) supereroi.

1 Cfr S. Žižek, Problemi in paradiso, Ponte alle grazie, 2015, pp. 215-227

Francesco Zanolla | nato a Venezia, vive in provincia di Treviso. Laureato in scienze politiche a Padova, consegue presso lo stesso ateneo un master in “Integrazione europea e sistemi locali” Oltre che di teoria e storia del pensiero politico, si interessa di letteratura, teatro, cinema e scrittura creativa.

30 31

Lungo i corridoi dell’ambiguoLa memoria fluida e l ’ipnosi eterna di Marienbad

di Davide De Lucca

“L’anno scorso a Marienbad” (“L’année dernière à Marienbad”, 1961) di Alain Resnais

Cos’è accaduto lo scorso anno a Marienbad?Non è accaduto niente lo scorso anno a Marienbad.O forse sì. È vero, forse lo scorso anno a Marienbad è accaduto tutto,

tutto quello che poteva accadere dall’inizio alla fine del tempo.No, invece, non è accaduto niente lo scorso anno a Marienbad.Certamente sì, e continua ad accadere e a ripetersi all’infinito.

Alain Resnais ha già raccontato la fuggente persistenza del ricordo due anni prima in Hiroshima mon amour (1959) e il discorso lì intrapreso con Marguerite Duras, autrice della sceneggiatura, si radicalizza ne L’anno scorso a Marienbad (L’année dernière à Marienbad, 1961), scritto invece da Alain Robbe-Grillet, anche se paradossalmente risulterà il più durasiano dei film della stessa Duras – le eco si avvertiranno in Inda Song (1975) e in altre opere della scrittrice/regista. Ma mentre a Hiroshima le immagini-ricordo rispondevano a una certa linearità, a Marienbad tutto è più intrica-to; si potranno avanzare ipotesi, ma resteranno insoddisfacenti.

Il costruttivismo ci dice che la realtà che percepiamo è risultato della nostra convinzione di averla scoperta; ciò che sperimentiamo è costituito con gli elementi che abbiamo a disposizione e spiegato in base ad essi; «ciò che viviamo, conosciamo e sappiamo è costruito necessariamente dai nostri propri elementi di costruzione e si spiega soltanto in base al tipo della nostra costruzione»;1 «[…] la continuità nell’esistenza di un oggetto individuale è sempre il prodotto di un’operazione eseguita dal soggetto conoscente e non può mai essere spiegata come un dato della realtà oggettiva».2 Il Nouveau Roman sembra farsi carico anche di questa concezione: la realtà è descritta minuziosamente e il rapporto tra osservatore/narratore si fa ambiguo: è inaccettabile che l’autore (o chi racconta) conosca una verità inconfutabile da imporre. Robbe-Grillet è uno degli esponenti simbolo di questa cor-rente, che si muove «in un continuo rapporto dialettico tra realtà esterna, pratica, della percezione dell’oggetto e integrazione dell’artista nell’opacità delle cose»,3 e si pone soprattutto il problema della forma e del linguaggio, obbligando lo spettatore a organizzare nuovamente l’opera. Raccontare da una parte e interpretare dall’altra quelle cose che stanno lì, autosufficienti rispetto a noi, dove la condizione dell’uomo è di starci in mezzo.

Un recitativo reiterato, cantilenante, ipnotico, affidato alla voce di Giorgio Albertazzi, ci accoglie lungo i titoli di testa. Stava andando avanti da prima, da molto tempo – o da molto poco? Ci introduce, con i travel-ling della macchina da presa, lungo i corridoi infiniti di stanze tutte uguali, con gli stucchi, i soffitti dell’enorme palazzo elegante, dove lui è già stato – o forse no. Ma smettiamo subito questo giochino: l’ambiguità pervade il film, il film esiste perché esiste l’ambiguo.

Il cinema è la forma d’arte migliore per assemblare menzogna e certez-za, convinzione e sogno, per aderire ai processi mentali nel loro divenire frantumando spazio e tempo. Nel film, immagine e colonna sonora spesso non coincidono: la musica che sentiamo non è quella dell’orchestrina che vediamo, la voce off e la scena mostrata divergono, i dialoghi continuano in tempi e luoghi diversi, ecc. Perché quindi confidare che le parole del personaggio siano sue, siano autentiche, e che quello a cui assistiamo stia accadendo davvero nella finzione, e non sia invece la fantasia di uno dei personaggi, l’immaginazione di un dio annoiato? Quello che la mente “re-gistra” differisce dall’occhio umano e da quello meccanico della macchina da presa. Ma è la cinepresa/autore a modellare il materiale, a costruire la realtà (una delle tante realtà possibili), o il personaggio plasma autonoma-mente il ricordo, genera la storia con il suo recitativo?

L’uomo era davvero con la donna a Marienbad, o in un posto simile,

CINEMA

32 33

l’anno scorso? Lei non ricorda o finge di non ricordare? Se ne andran-no davvero insieme questa volta? Marienbad è vertigine infinita di mondi paralleli, inferno frustrante dove tutto è destinato ad accadere di nuovo, ossessione che risponde alla mente generatrice, paranoia senza confini. La circolarità è necessaria: durante un attacco di panico è bene ricordare a noi stessi chi siamo e che siamo vivi. Gli scenari sono sospesi in un sogno popolato di fantasmi, automi, manichini metafisici, persone o androidi, che sono lì e basta senza un prima e un dopo; la sola realtà che conoscono è quella di stare sullo schermo e venire proiettati. Macchine della società borghese, simulacri di realtà virtuale, passanti in questo mondo fugace; non anime elette, ma fagotti inautentici di una società conformista che consumiamo a nostra volta. Possiamo sforzarci di capire, almeno porci do-mande, anche se tutto dovesse rivelarsi vano.

Marienbad è un processo artistico applicato a una questione irrisolvi-bile, un onanismo elegante della mente, tentativo ambizioso e angosciante di «avvicinarsi ai meccanismi del pensiero, alla verità vissuta dallo spirito, la sola che conosciamo».4 Frammenti e macerie di una storia, sulle quali non ha nemmeno senso tentare di stabilire se l’anno scorso sia successo qualcosa oppure no, o se qualcosa stia effettivamente succedendo in questo momento. La memoria è spazio fluido e problematico che si interseca su vari piani e l’immagine del cinema porta con sé un peccato originale, quello di essere sempre al presente e simultaneamente un tempo altro dal nostro, artificiale – come quell’abbraccio ripetuto più volte, in diversi universi.

Entriamo con un respiro profondo in questo vortice che avrebbe potu-to dipingere un Maurits Escher disorientato, perché l’anno scorso è «tut-ti gli anni a venire che sono già stati, sempre identici, sempre immobili in quell’hotel eletto a museo, muto depositario di tutta la memoria del mondo».5 Nei corridoi, nelle stanze, tra i tavoli da gioco, i muri, pannelli e tappeti, marmi e soffitti, il giardino, le siepi, il teatro, i volumi e le ge-ometrie, Resnais prende commiato da Robbe-Grillet, le parole di carta diventano cellulosa, il testo ridonda in prospettive vertiginose con la «vo-lontà di rendere mediante lo stesso uso della macchina un equivalente del tono e della struttura labirintica dell’opera.»6 Il tempo si curva confluendo nello spazio dell’hotel-labirinto, in un unico grumo rinchiuso in un atomo vorticante e inafferrabile, nella mente dello spettatore.

Resnais ci affida questo capolavoro come gioco raffinato di cinema puro, mise en abyme dell’invenzione del ricordo, ma forse è una trappola: noi, come il protagonista, possiamo giusto «provare a uscire dal labirinto,

se non fosse che l’uscita dal labirinto comporta solo un breve istante di lucidità, trascorso il quale si profila l’ipnosi di un nuovo labirinto».7

L’anno scorso a Marienbad è allora un film dell’orrore. Orrore esisten-ziale di sapersi vivi con infinite ipotesi, cosa posizionata in mezzo ad altre, comuni passanti, risultato di un ricordo, di un sogno, di un’allucinazione. La maledizione di essere consapevoli di avere il potere di immaginare e ingannare anche noi stessi, in un gioco di specchi dove a perdersi basta un attimo, ci era già capitato (forse) l’anno scorso e non ce lo ricordiamo.

1 E. von Graserfeld, Introduzione al costruttivismo radicale, in P. Watzlawick (a cura di), La realtà inventata, Feltrinelli, 2010, p. 332 Ivi, p. 31, il corsivo è mio3 P. Bertetto, Alain Resnais, Il Castoro cinema, 1976, p. 574 P. Bertetto, op. cit., p. 615 S. Arecco, Alain Resnais o la persistenza della memoria, Le mani, 1997, p. 816 P. Bertetto, op. cit., p. 667 S. Arecco, op. cit., p. 87

Davide De Lucca | nato in provincia di Treviso nel 1982, ha pubblicato i romanzi “Altri castighi” (2011), “Cerchi nel tempo” (2014) e “Le nebbie di Valville” (2015).

34 35

Geometrie di un labirintoL’immaginario (in)visibile di Venezia

di Cinzia Agrizzi

La città esiste tramite l’immaginario che da essa scaturisce e ad essa ritorna, quell’immagina-rio che essa alimenta e di cui si nutre, che da lei è generato e che le dà una nuova esistenza.

Marc Augé

La geometria del labirinto si riflette fedelmente nel reticolo veneziano, uno spazio pluridimensionale e plurisensoriale, un gioco di specchi che seduce e inganna, traducendosi nella «perdita completa dell’individuo nel mare delle cose».1

È questo il ritratto di Venezia che tanta letteratura ci offre: un luogo-simbolo, un archetipo immaginativo, la cui decifrazione permette di acce-dere a un immaginario collettivo – letterario e urbano – che si colloca tra realtà e utopia ed è fortemente legato al tempo, ai sensi e alla morte.

[…] la città manteneva nel Canal Grande la sua splendida esibizione di vita, ma la morte stava a sonnecchiare in qualsiasi rio confinante, ceneri ostruivano ca-nali di morta laguna, ratti pazientemente si moltiplicavano, lui lo sapeva.2

Epicentro del conflitto tra pulsione di vita e pulsione di morte, il labi-

rinto veneziano è costruito su opposizioni binarie racchiudibili nell’espres-sione calviniana “la città in uno specchio”, dove l’acqua è elemento impre-scindibile, tale da rendere impossibile il raffigurarsi una Venezia asciutta. Il modello lagunare, infatti, è quello della «città acquatica […] come strut-tura che risponde a bisogni antropologici fondamentali»3 e, grazie alla sua capacità riflettente, riproduce (e distorce) lo stato d’animo di chi si smarri-sce al suo interno, svelando il doppio volto del capoluogo: splendido e mo-rente, onesto e mercificato, immobile e molteplice, «cristallo e fiamma».4 Vi riconosciamo facilmente Le città invisibili (1972), dove «mondo ideale e inferno sono compresenti e si mescolano senza che li si possa separare».5 Ma questa è anche la Venezia dell’Anonimo Veneziano (1971) di Giuseppe Berto, spazio della storia e proiezione dell’immaginario, dal quale scaturi-sce un’immagine della città che è sedimentata nel tempo. In un’atmosfera sospesa, percorrendo una rete di ricordi che riproduce il labirinto lagunare – che è labirinto psichico –, il personaggio dell’Anonimo cerca di vivificare il sogno, di afferrare il passato e di manovrare il futuro, prigioniero di un luogo che determina «un particolare clima mentale […] una geometria speciale […] non euclidea che scatena la nostra immaginazione per vie inconsuete».6 Costretto in un presente che non può cambiare, egli affonda lo sguardo nella Venezia di ieri ed esplora i luoghi del passato proprio come il Marco Polo calviniano, che a Tamara «percorre le vie come pagine scritte»,7 mentre a Zora si imbatte in un «reticolo nelle cui caselle ognuno può disporre le cose che vuole ricordare».8 Sulla stessa scia Iosif Brodskij, in Fondamenta degli incurabili (Watermark, 1989), osserva che «mentre ti aggiri per questi labirinti, non sai mai se insegui uno scopo o fuggi da te stesso, se sei il cacciatore o la sua preda».9 Mentre Von Aschenbach, per inseguire l’amato Tadzio, si perde:

Sulle tracce del bel fanciullo, un pomeriggio Aschenbach si era smarrito nell’intrico della città ammalata. Incapace di orientarsi, perché calli, canali, ponti e piazzette di quel labirinto si somigliavano troppo […].10

Nel tortuoso percorso del protagonista del romanzo di Thomas Mann si dispiega il tema della discesa, o della caduta: «[…] l’eroe e l’eroina “di-scendenti” calano in un oscuro mondo labirintico di caverne e di ombre che sta inoltre a rappresentare sia gli intestini sia il ventre di un mostro della terra, o il grembo di una terra-madre o entrambi».11 Venezia-labirinto ac-quista così le caratteristiche del locus horridus, una selva oscura intricata e impenetrabile, una città che nasconde un’altra città, o il suo volto segreto, mostruoso, teriomorfo e nictomorfo:12 l’odore putrido della laguna ren-

LETTERATURA

36

de l’aria irrespirabile per Aschenbach, i ratti si moltiplicano nella Venezia dell’Anonimo, «creature da incubo»13 adornano gli ingressi ed escono dai muri delle calli descritte da Brodskij.

Se vi sia una via d’uscita non lo sappiamo: come afferma il Gran Khan, l’imperatore a cui Marco Polo dedica i suoi resoconti di viaggio, la città è una scacchiera fatta di tasselli di legno piallati che descrivono l’esistenza, è una partita a scacchi di cui è impossibile conoscere tutte le regole e scorge-re l’ordine invisibile, è un non-luogo, simbolo dell’assenza di identità del soggetto. Non a caso l’antieroe di Berto si dirà convito che «tutti noi, in fondo, siamo anonimi veneziani»,14 una folla senza nome risucchiata dalla città, dove Anonimo Veneziano diventa il modello di tante storie possibili, in quanto – direbbe Polo – sono molte le cose che si possono leggere «in un pezzetto di legno liscio e vuoto».15

1 I. Calvino, La sfida al labirinto, in Saggi, voi I, Mondadori, «I Meridiani», a cura di M. Barenghi, 1995, p. 1182 G. Berto, Anonimo Veneziano, Bur, 2008, p. 563 I. Calvino, Venezia: archetipo e utopia della città acquatica (1974), in Saggi, op. cit., vol. II, pp. 2691-26924 Cfr. I. Calvino, Lezioni americane (1988), Mondadori, 2012, pp. 78-885 R. Donnarumma, Letteratura come antropologia immaginaria, in Da lontano. Calvino, la semiologia, lo strutturalismo, Palumbo, 2008, p. 626 I. Calvino, Venezia: archetipo e utopia…, op. cit., p. 26897 I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, 2011, p. 148 Ivi, p. 159 I. Brodskij, Fondamenta degli incurabili, Adelphi, 1991, p. 7010 T. Mann, La morte a Venezia (Der Tod in Venedig, 1912), in Romanzi brevi, Newton Com-pton, 1992, p. 18211 N. Frye, La scrittura secolare (The Secular Scripture, 1976), Il Mulino, p. 12212 G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario (Les Structures anthropologiques de l’imaginaire, 1960), Edizioni Dedalo, 2013, p. 73 e sgg.13 I. Brodskij, op. cit., p. 6814 G. Berto, op. cit., p. 11515 I. Calvino, Le città invisibili, op. cit., pp. 133-134

Cinzia Agrizzi | nata a Vittorio Veneto nel 1981, si è laureata in Scienze della Comunicazione e in Lettere a Trieste. Per diverso tempo si è occupata di comunicazione e nuovi media, senza tralasciare le sue passioni: il teatro, il cinema e la letteratura per l’infanzia. Attualmente insegna Scienze Umane e Semiotica.

“Mirroring”, Ba Abat, 2017

38 39

Roma, un salotto dell’alta borghesia nei pressi della scalinata di Trinità dei Monti, una sera d’inverno agli albori del XX secolo. Alcuni uomini e alcune donne siedono attorno a un piccolo tavolo rotondo di mogano, le mani appoggiate sul piano e i mignoli che si sfiorano per conferire più forza al medium che è fra loro. Trascorrono minuti in cui non si verifica nulla, a parte il lieve scricchiolare della casa. In un istante di silenzio tuttavia si ode un fruscio e un filo di aria gelida attraversa il gabinetto medianico. Ancora pochi attimi e il tavolino a tre piedi si solleverà a mezz’aria, sfidando ogni principio di gravità.

Scene analoghe, se non del tutto identiche, devono aver avuto come protagonisti personaggi storici dell’Italia prebellica, noti, come Cesare

Nei labirinti della quarta dimensioneGli infiniti e ramificati fili dell ’universo di Giacomo Balla

di Laura Cuzzubbo

“Mercurio passa davanti al sole”, Giacomo Balla, 1914 (Centro Pompidou - Parigi)

ARTE

Lombroso, Rudolf Steiner ed Eusapia Paladino, e meno noti, come il generale Carlo Ballatore (1839 – 1920).1 Quest’ultimo, presidente del Gruppo teosofico di Roma, fondato nel 1897 e riconosciuto ufficialmente come associazione dalla Società Teosofica nel 1907, è autore di articoli sulla quarta dimensione e sulla radioattività e le aure che circondano il corpo umano. Ballatore incontra gli altri membri del gruppo, fra cui il già citato Steiner e Annie Besant, nella sede di via Gregoriana 5, non distante appunto da Trinità dei Monti: qui discutono di spiritismo e teosofia che, pur legati alle ricerche matematiche e scientifiche del tempo (di Charles Howard Hinton, ad esempio), nel 1919 vengono condannati dal Sant’Uffizio. I resoconti di questi incontri confluiscono nella rivista Ultra, il periodico dell’associazione teosofica romana attivo fino al 1930.

Oggi si potrebbero reputare teorie teosofiche e sedute spiritiche come futili eccentricità, se non addirittura come bizzarri anacronismi, e tali potremmo immaginare che apparissero agli occhi dei cultori del mito della velocità e dell’automobile, dei grandi detrattori della tradizione, i poliedrici esponenti dell’avanguardia futurista. Eppure in quegli anni a Roma, nell’orbita di Ballatore gravitano figure vicine al futurismo: Ardengo Soffici, Julius Evola e, soprattutto, Giacomo Balla che, a sentire i ricordi della figlia, pare abbia preso parte a sedute medianiche proprio in compagnia del generale.2 L’attrazione verso l’esistenza di mondi possibili oltre quello tangibile ha prodotto esiti non indifferenti sulle opere di questi artisti.

Soffermiamoci dunque su un anno critico per la produzione artistica di Balla, il 1910: nel mese di febbraio egli firma il Manifesto dei pittori futuristi, aderendo con entusiasmo ai nuovi principi estetici, ma inizia per lui un’ansiosa fase di attività intermittente (pochi sono i dipinti eseguiti tra il 1910 e il 1913) e soprattutto di riflessione e studio di un personale linguaggio pittorico d’avanguardia, distante dall’abituale visione naturalistica del reale. È in effetti l’epoca della caduta delle certezze positivistiche e in cui la teoria dell’inconscio di Freud e la relatività di Einstein aprono lo sguardo a una realtà che va oltre il dato puramente sensibile, risultando alquanto più confusa e aggrovigliata: l’idea di spazio e tempo lineari cede il passo alla quarta dimensione, dentro l’essere umano si svela un multiforme e sconfinato mondo interiore; conseguentemente la pittura e gli altri linguaggi espressivi non possono più essere una semplice registrazione di oggetti percepibili a occhio nudo. In un clima di così urgente sperimentazione e novità, Balla, il quale intuisce dalle conoscenze teosofiche e spiritualiste che non tutta la realtà coincide con il visibile, avverte l’esigenza di espandere la propria sensibilità verso l’universo che lo

40 41

circonda, come un moderno Teseo che, con il filo d’Arianna dell’audacia e della curiosità, esplora e domina il misterioso labirinto della realtà.3 Si spinge così a osservare uomini e oggetti, animali e fenomeni, come a un universo intricato di forze, la cui comprensione porta al centro, all’essenza della verità.

Un’opera balliana del 1911 testimonia un embrionale passaggio alla raffigurazione dell’invisibile. È la Lampada ad arco, in cui oltre a un chiaro riferimento al proposito tutto futurista di “uccidere il chiaro di luna”, è evidente, in una rappresentazione ancora legata al dato realistico (intravediamo distintamente un lampione e una falce di luna), l’intento di rendere il propagarsi della luce, scomponendola, con tecnica divisionista, in una miriade di triangoli aperti. I loro vertici si rivolgono verso il basso (la materia), così come verso l’alto (lo spirito), e si irradiano da un centro costituito da un noto simbolo teosofico.4 Il poligono a tre lati è difatti la figura dinamica per eccellenza, la forma della compenetrazione spaziale. Il pittore si sta qui avvicinando a un linguaggio che vuole cogliere ed esprimere «i dinamismi più segreti e costitutivi dell’universo, quelli che si celano dietro la realtà».5

Già dai mesi seguenti, tale linguaggio sembra essere giunto a una piena maturazione, che probabilmente lo soddisfa tanto da fargli riprendere la sua usuale operosità. Non è un caso poi che i dipinti di Balla a partire dal 1912 sembrino tradurre in immagine parole riportate dal generale Ballatore nei suoi scritti teosofici: termini come “fluidità”, “elasticità”, “compenetrazione”, “linee di forza”, presenti nei testi del militare, si ritrovano identici nei titoli delle opere del pittore, dalla serie, iniziata nel 1912, delle Compenetrazioni iridescenti a dipinti come le Linee di forza di paesaggio + sensazione di ametista (1918). E addirittura, alcuni passi sembrano descrivere esattamente i quadri balliani. Citando un esempio, Ballatore afferma che l’universo appare alla nostra mente come «l’immagine di un infinito involucro intricato da cui infinità di fili intrecciantesi in ogni guisa e ramificantesi»:6 è l’idea teosofica, avallata dalla scienza, di un mondo da cui si irradiano energie che si compenetrano, proprio come si osserva in Mercurio passa davanti al sole, dipinto in più versioni da Balla nel 1914, in cui ambagi di forme geometriche e di filamenti di colore riproducono la propagazione della luce in uno spazio etereo a più dimensioni.7

Le basi per una pittura proiettata verso un immaginario che oltrepassa i limiti dei sensi sono gettate, tanto che, nel 1915, Arnaldo Ginna, futurista anch’egli e ideatore di un’arte denominata “Pittura Occulta”, scrive: «Il pensiero e il sentimento umano sono vibrazioni che non sono certamente delimitate dal nostro corpo fisico, ma è evidente e sperimentale che

sono una forza simile all’elettricità od all’onda hertziana che si propaga indefinitamente nell’etere».8 L’arte appare così disposta ad appropriarsi del tortuoso invisibile intorno a noi, di cui è archetipo il millenario segno del labirinto.

1 Per un approfondimento su Carlo Ballatore e i suoi scritti teosofici cfr. F. Benzi, Giacomo Balla. Genio futurista, Electa, 2007, pp. 119 e sgg.2 Il rapporto tra Balla e i principi magico-teosofici è stato individuato a partire dagli anni ‘60 da Maurizio Calvesi in M. Calvesi, Il Futurismo, in Mensili d’arte, Fratelli Fabbri Editori, 1967, e poi approfondito da F. Matitti, Balla e la teosofia in Giacomo Balla. Verso il futurismo, catalogo della mostra a cura di M. Fagiolo dell’Arco, Padova, Palazzo Zabarella, Marsilio, 1998 e da Fabio Benzi in F. Benzi, Ivi., pp. 118-1433 Sul labirinto contemporaneo cfr. A. B. Oliva, Labirinto, Uni Editrice, 19794 Cfr. A. Besant, C. W. Leadbeater, Le forme-pensiero, Società Teosofica Italiana, 1991, p. 625 F. Benzi, op. cit., p. 786 F. Benzi, Ivi, p. 1257 F. Benzi, Ivi, p. 1338 M. Verdone (a cura di), Pittura dell’avvenire in Manifesti futuristi e scritti teorici di Arnaldo Ginna e Bruno Corra, Longo Editore, 1984, p. 202

Laura Cuzzubbo | nasce nel 1979 a Catania, dove sia laurea con una tesi in Storia dell’arte medievale. Da 10 anni vive e insegna a Treviso. Fotografa con una bridge, grazie al cui generoso zoom trova intrigante fissare dettagli anche impercettibili a occhio nudo.

“Narciso”, Ba Abat, 2018

Circuiti di parole, sovrapporsi di cuciture come punti di sutura, trap-pole di specchi; una frase di Sartre, un diario di Anaïs Nin, miriadi di fili aggrovigliati, uno specchio arrugginito, una fotografia scomposta.I fili bianchi, come specchi, restituiscono immagini dell’artista mai uguali, sempre impenetrabili, mai quiete. Lo specchio rivela insieme la ricerca di un’identità mai unica e il bisogno di liberarsi da essa.Intrecciare fili fino a svuotarsi di ogni energia residua, sottolineare con foga parole e parole ossessivamente riportate, reiterando e im-provvisando ogni azione, come un mantra laico, per scandire il Tem-po e oltrepassarne i confini.La processualità dell’atto creativo è per l’autrice il doloroso filo di Arianna con cui tessere la ricomposizione dell’Io ed emanciparsi dal labirinto dell’ambiguità.Ba Abat realizza progetti artistici che dialogano con la secolare cul-tura femminile del cucito e del tessile, impossessandosi di materie e strumenti che ad essa afferiscono: fili, lane, aghi, uncinetti e macchine da cucire, che tuttavia si amalgamano a materiali contemporanei quali plexiglas e acetato, interrogano in lei incessantemente la dimensione dell’Io e delle sue maschere.

Laura Cuzzubbo

44 45

Nel labirinto di WeimarLegalità, legittimità e crisi della democrazia in Carl Schmitt

di Francesco Zanolla

FILOSOFIA

Quando nel 1932 Carl Schmitt dà alle stampe Legalità e legittimità (Legalität und Legitimität) la breve parabola della Repubblica di Weimar è ormai prossima al suo rovinoso termine.

In essa si sono manifestate le dinamiche che caratterizzano l’instau-razione di istituzioni democratiche in contesti segnati da forte instabilità sociale ed economica e da una cultura politica liberale ancora poco diffusa e interiorizzata in larghi strati della popolazione, come appunto nella Ger-mania uscita sconfitta dalla Grande Guerra.

Avversata da destra e da sinistra da consistenti movimenti sociali e po-litici e investita dal cataclisma economico della Grande Crisi del 1929, la repubblica di Weimar costituisce un esempio quasi unico di regime demo-cratico che si “autodissolve”, consentendo di fatto al Partito Nazionalsocia-lista di prendere il potere legalmente e di smantellarne le strutture dall’in-terno, rappresentando quello che nell’ambito delle scienze storico-sociali e politiche può essere definito un vero e proprio “caso da manuale”.

Ed è infatti innegabile che le osservazioni di Schmitt, pur generate nella contingenza del momento storico, colgano nel segno nell’evidenziare

alcuni “punti ciechi” latenti nel modello democratico parlamentare, pronti ancora oggi a manifestarsi in tutta la loro problematicità in sistemi politici e sociali sempre più complessi in cui si materializzino determinati sintomi, quali la tendenza dei partiti in parlamento a frammentarsi e ad assumere posizioni irresponsabili e marcatamente ideologiche, il venir meno di una cultura politica condivisa e l’emergere di formazioni palesemente anti-sistema.

In tal senso, sotto le spoglie in parte mentite di un’analisi teorico-giu-ridica della costituzione di Weimar, Legalità e legittimità si pone come il culmine di un decennale lavoro di ricerca giuridico-filosofica criticamente orientata alla messa in luce delle debolezze della giovane repubblica, che Schmitt ha esposto in opere di carattere più ampio come La dittatura (Die Diktatur, 1921), Teologia politica (Politische Theologie, 1922), Il concetto di “Politico” (Der Begriff des Politischen, 1928) e Il custode della costituzione (Der Hüter der Verfassung, 1931).

La critica di Schmitt al dettato costituzionale weimariano è partico-larmente corrosiva, radicata a un deciso rifiuto, che è anche e soprattutto ideologico, degli assunti più classici della democrazia liberale e dello stato di diritto, in favore di un modello politico orientato verso un decisionismo autoritario, nel quale gli elementi di partecipazione popolare sono per lo più incanalati in forme referendarie e plebiscitarie.

A fornire propellente alla sua disamina delle aporie della costituzione di Weimar soggiace la convinzione dell’inadeguatezza dei regimi demo-cratico-parlamentari ad affrontare in maniera produttiva le sfide dell’ecce-zione e della crisi, che nella sua ricostruzione teorica costituiscono i mo-menti fondamentali in cui gli ordini politici si generano, si consolidano e assumono i loro tratti essenziali.

Nella teoria schmittiana, infatti, è la decisione di un soggetto, indivi-duale o collettivo, che dà sostanza alle disposizioni costituzionali e orga-nizzative.

Implicita in tale costruzione è l’idea di un potere che detiene di fatto il monopolio della decisione politica e rivela così la sede reale della sovranità. La decisione originaria e sovrana incarna la volontà di un soggetto, che (im)pone l’assetto su cui si sostanzia poi l’ordinamento giuridico nelle sue articolazioni normative, istituzionali e organizzative.

Il sovrano è dunque quel soggetto che effettivamente e concretamente, al di là delle proclamazioni formali e delle norme, «decide sullo stato di eccezione».1

Innanzitutto stabilisce se e quando questo stato effettivamente sussista,

“Explosion”, George Grosz, 1917 (Museum of Modern Art - New York)

46 47

e poi come e con quali misure risolverlo per riaffermare l’ordine costitu-zionale e giuridico preesistente, incarnando la fattispecie della “dittatura commissaria”; oppure interviene per rinnovarlo totalmente, agendo quindi da vero e proprio “potere costituente”, o meglio ancora da “dittatore so-vrano”.

Alla luce di tale schema interpretativo, appare ovvio come la costituzio-ne di Weimar si manifesti agli occhi di Schmitt segnata da una contrad-dizione profonda.

Gli articoli 68 e 76 proclamano, in perfetta consonanza con i dettami della dottrina liberale più classica, la sovranità del Parlamento come orga-no rappresentativo della volontà popolare attraverso il potere di iniziativa e di approvazione delle leggi (art 68) e attraverso il potere di emendare e modificare la costituzione (art 76); d’altro canto, l’articolo 48 dichiara il Presidente della Repubblica, eletto a suffragio universale, abilitato a pren-dere misure straordinarie in casi eccezionali di emergenza, compresa la facoltà di sospendere in toto o in parte i diritti individuali fondamentali della seconda parte della costituzione.

La mancata elaborazione della legge che doveva definire e delimitare le modalità di esercizio di tale prerogativa presidenziale e la progressiva paralisi del parlamento, diviso tra partiti incapaci di collaborare costrutti-vamente per rispondere alle tensioni sociali ed economiche che reinvesti-rono il paese dopo il 1929, fecero sì che i poteri del presidente venissero esercitati con sempre maggiore frequenza e pervasività, restando però a tal punto indeterminati da rendere comune l’uso dell’espressione “dittatura presidenziale” nel riferirsi all’articolo 48, e da far scrivere allo stesso Sch-mitt che «nessuna costituzione della terra come quella di Weimar aveva così facilmente legalizzato il colpo di stato».2

D’altra parte, la trasformazione dello stato tedesco in uno stato legi-slativo parlamentare di diritto, implicata dall’articolo 68 della costituzione, esige un’idea di legge e di diritto “neutrali” rispetto ai contenuti concreti delle norme, che sono quindi di per sé sempre legittime se rispondenti a determinati requisiti (quali ad esempio generalità, astrattezza, determina-tezza) e adottate secondo le corrette procedure costituzionali.

Ma nota a questo proposito Schmitt che:

se si priva il concetto di legge di ogni riferimento contenutistico alla ragione e alla giustizia, e se al tempo stesso si mantiene lo stato legislativo con il suo concetto specifico di legalità, [...] allora ogni disposizione di qualunque genere, ogni coman-do e provvedimento [...] si può emanare in modo legale e conforme al diritto.3

La nozione seminale di legittimità, intesa come quella energia politica

derivante dai contenuti concreti della decisione originaria che instaura un regime politico e ne definisce i soggetti, gli scopi, i valori e i nemici, dan-do poi sostegno all’ordinamento giuridico e alle norme che esso produce, viene equiparata al mero rispetto delle procedure formali di legalità sancite dall’approvazione a maggioranza delle leggi.

In questo modo, scrive Schmitt:

Il 51% dei voti popolari dà la maggioranza in Parlamento; il 51% dei voti par-lamentari dà il diritto e la legalità; il 51% di fiducia del Parlamento al governo dà il governo parlamentare legale.4

Questo significa che il detentore della maggioranza parlamentare viene a essere dotato di una sorta di “plusvalore politico”, un «premio sovralegale per il possesso legale del potere legale e per la conquista della maggioranza» che gli consente di fatto e di diritto di monopolizzare l’esercizio dell’ema-nazione delle norme, le quali sono sempre legittime e legali e immediata-mente eseguibili dagli apparati dello Stato.

Ecco allora che:

Se la maggioranza può disporre ad arbitrio di legalità e illegalità, allora può in primo luogo dichiarare illegali, i suoi concorrenti politici interni ed escluderli così dall’omogeneità democratica del popolo. Chi possiede il 51% potrà rendere legalmente illegale il 49%.5

Tale possibilità, potenzialmente sempre presente, e che nei momenti acuti di crisi e conflitto sociale tende a farsi assolutamente concreta, con-traddice e dissolve dall’interno i dettami della dottrina democratico-liberale sulla tutela dei diritti politici delle minoranze parlamentari, sull’equilibrio dei poteri e sulla funzione “neutrale” dello stato e delle istituzioni, conce-piti come luoghi in cui i conflitti e i contrasti tra i gruppi sociali e i partiti vengono mediati e risolti sul piano negoziale.

D’altra parte, quel che avvenne negli ultimi anni della repubblica di Weimar, a partire dal 1930 fino al 1933, anno della piena presa del potere dei Nazisti, confermò vigorosamente i dubbi espressi da Schmitt sulla na-tura “schizofrenica” della costituzione e sulla sua incapacità di fronteggiare costruttivamente le sfide di un’epoca di forti tensioni e mutamenti epocali sia sul piano interno che su quello internazionale.

Lo sbilanciamento in senso presidenziale e plebiscitario dell’impianto costituzionale da una parte e lo stato di impasse in cui si trovò a dibattersi un parlamento formalmente sovrano, ma incapace di produrre maggio-ranze solide e stabili in grado di legiferare, aprirono lentamente la porta all’affermazione del Partito Nazionalsocialista di Adolf Hitler, il quale ri-

48 49

uscì a imporsi nell’alveo di quella che era la legalità formale-costituzionale vigente, arrivando progressivamente a occupare in maniera totale i gangli vitali del potere, non con le baionette, ma con una combinazione di decreti presidenziali, misure legislative ed esiti di elezioni, che pur segnate da inti-midazioni e tensioni, furono sostanzialmente libere e corrette.

Come ebbe a notare lo stesso Schmitt nel 1958, in una postfazione a una nuova edizione di Legalità e legittimità, la disastrosa parabola di Wei-mar tratteggiò in maniera indelebile «il processo per cui un partito entra dalla porta della legalità per poi richiudersela alle spalle, cioè il prototipo della rivoluzione legale».6

1 Cfr. C. Schmitt, Teologia politica in Le categorie del “politico”, Il Mulino, 1998, p. 332 In G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, 2003, p. 253 C. Schmitt, Legalità e legittimità, Il Mulino, 2018, p. 554 C. Schmitt, op cit., p. 615 C. Schmitt, op. cit., p. 646 C. Schmitt, op. cit., p. 129

Francesco Zanolla | nato a Venezia, vive in provincia di Treviso. Laureato in scienze politiche a Padova, consegue presso lo stesso ateneo un master in “Integrazione europea e sistemi locali” Oltre che di teoria e storia del pensiero politico, si interessa di letteratura, teatro, cinema e scrittura creativa.

Il labirinto invisibileIllazioni sull ’ecologia del chiostro

di Gian Pietro Barbieri

Patio de los Leones, la Alhambra, 1377, Granada

Nell’uomo interiore abita la verità Sant’Agostino

La Natura è un tempio dove incerte parolemormorano pilastri che son vivi,una foresta di simboli che l’uomo

attraversa nel raggio dei loro sguardi familiari.Charles Baudelaire

Natura, specchio e scenario-madre della psiche, riferimento continuo di ogni pensiero ed azione umana. Impossibile non collegarla alla sfera del “divino”, a quella porzione di invisibile che concorre a strutturare la realtà. Ma come renderne l’intrinseca, imprescindibile per l’uomo, fisicità, concretezza, tangibilità? Come traslarla, tradurla in “luogo” circoscritto, definito, visitabile, calpestabile, leggibile? Certo, la Poesia e la Letteratura in generale risultano sempre efficaci, ma incarnano figure incorporee, quasi ologrammi efficacissimi ma sfuggenti; rappresentano indicazioni dislocate lungo un percorso che deve portare da qualche parte. E poi, il bisogno di un ordine sia nel senso di una razionale sequenzialità degli elementi che del rispetto di talune regole, pena lo scivolamento nel continuo rimescolamento, nel turbine mai sopito del “possibile”; ordine che offra un alfabeto, una lingua comprensibile a tutti.

I simboli tangibili, fisici, che rispondono a queste necessità sono i

50 51

ARCHITETTURA

“monumenti”, in genere troppo isolati e statici per aspirare a una corale visione del mondo in quel dato momento storico. Ma ne esistono alcuni, davvero straordinari, che ambiscono a racchiudere in uno spazio dato, visibile e invisibile ma indivisibile, l’infinito, l’aspirazione umana a trascendere, a scalare il cielo per connettersi con il divino.

Ci sono strutture architettoniche che si distinguono da tutte le altre per una loro aura di indefinibile alterità, di sovrapposizione di piani interpretativi e di linguaggi. Uno di questi è sicuramente il chiostro dei monasteri, nucleo simbolico fenomenale che accoglie e intreccia in sé a un tempo i richiami misteriosi della foresta, l’intrico dell’animo umano, la riflessione esistenziale, lo strumento della preghiera e l’aspirazione alla Grazia. Archetipo universale che, attraversando spazi e tempi, si ritrova ad esempio nell’effigie dell’uomo di Myklestad, risalente all’eneolitico norvegese, o nel Patio Dos Leones, nel complesso monumentale berbero-islamico dell’Alhambra in Andalusia, o ancora nei mandala tibetani, o nel logo dell’Associazione Tecnici Medicina Tradizionale Cinese.

Dal vocabolario Treccani, l’etimo di chiostro deriva dal latino Claustrum «serrame, luogo chiuso», nel latino tardo «chiostro», derivato di claudere, chiudere, eppure questo spazio si configura come finestra, come ponte e probabilmente il luogo più aperto che possa esistere. Come una gabbia toracica, la costruzione architettonica ospita il cuore pulsante dei monaci che ivi sono riusciti a racchiudere in uno spazio aperto, in un labirinto invisibile, la Terra e il Cielo, l’Umano e il Divino, in una dimensione temporale sospesa. Il chiostro è un microcosmo di simboli che si fondono gli uni negli altri in maniera armonica, naturale, plasmando la materia, addomesticando l’aria per costruire un “dove” da cui pregare. Labirinto d’orecchio, limpidezza di pupilla circondata dalle ciglia del colonnato, il chiostro è foresta e cattedrale; è immobile orchestra che sprigiona sinfonie di note cristallizzate nella pietra eppure aeree, armoniose, vive. È luogo di trasfigurazione dove il simbolico ingabbiato nella materia, nell’oggettivo, si scioglie nella sua apparenza immota in onde di spiritualità; è sconfinamento, visione reale.

Una sorta di wormhole in cui l’homo faber coincide con l’homo spiritualis in una sospensione storica che si stacca dal divenire collocandosi fuori dal tempo, pur rimanendo totalmente immersa nel Tempo, come un faro, un monte, una stella.

Ma come accade tutto ciò? Come si realizza questo straordinario incanto? In modo semplice, naturale, attribuendo alle azioni umane apparentemente più ordinarie un significato spirituale che diventa motore per vivificare un luogo fatto di spazi e silenzi.

I monaci camminano intorno al chiostro, vagano nello stesso identico

circuito eppure camminano il mondo, la storia, forse le galassie; camminano pregando circondati da colonne che replicano il folto della foresta, luogo oscuro, intricato, pericoloso come l’animo umano; camminano tra fregi, sculture, pietre che racchiudono voci, note, melodie. Come nel caso dei monasteri di San Cugat, Gerona e Ripoll in Catalogna, dove i fregi animaleschi associati ad ogni colonna del chiostro, col richiamo a precise note musicali, vengono a comporre un preciso inno musicale. Cercano se stessi, meditano, pregano, camminano se stessi cercando il contatto, la comunicazione con Dio dal groviglio spesso inestricabile dell’esistenza. Tutte attività umane concentrate in un luogo artificiale dove, riconoscendo la miseria umana, la sua pochezza al di là di ogni illusione, l’uomo realizza un edificio che lo innalza al di sopra della propria esistenza senza staccare i piedi dal cammino; un cammino che porta il monaco a riconciliarsi con se stesso (lato est del chiostro del contemptus sui), con il creato (lato sud, contemptus mundi), con il prossimo (lato ovest dell’amor proximi) e con Dio (lato nord dell’amor Dei)1 – l’uomo finisce nell’infinito. Spesso ho pensato al chiostro come a un labirinto verticale di scale (anche musicali) d’aria, immateriali, invisibili, al suo percorso come a una galleria degli specchi; il suo silenzio ha qualcosa di siderale.

Queste divagazioni assolutamente superficiali, minime e forse ingenue sono dettate solo da una seduzione profonda ispirata da questi luoghi e da alcune letture e vorrebbero rendere testimonianza della mirabile capacità di sintesi “estrusiva” che questi uomini hanno avuto. A distanza di centinaia di anni da questi siti promana, intatta, una forza evocativa di straordinaria potenza e vitalità che ha ancora molto da dire.

1 cfr Ugo di Fouilloi, De Claustro Animae, 1153

BibliografiaC. Baudelaire, I fiori del male, trad. di G. Raboni, FeltrinelliL. Ghizzo, E. Dalla Betta, E. Pederiva, La Cattedrale verde, Amadeus, 1999L. Ghizzo, F. Pederiva, C. Trevisiol, Il chiostro come percorso ecologico di ecologia integrale, Aracne, 2018M. Schneider, Pietre che cantano, SE, 2005J. Hillman, Il codice dell ’anima, Adelphi, 1997

Gian Pietro Barbieri | nato a Treviso nel 1965. Segretario del circolo Legambiente di Maserada sul Piave (TV), si occupa di eventi culturali e conduce studi antropologici. Ha pubblicato i testi poetici “Persistere” (Campanotto, 2004), “Inventario” (Edizioni Del Leone, 2008) e “Ininterrottamente” (Valentina Poesia, 2014).

Corinne Zanette | nasce a Vittorio Veneto nel 1984. Diplomata in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia, lavora nel campo dell’illustrazione, in particolare con la casa editrice francese Les petites bulles éditions. È Atelierista (esperta dei linguaggi espressivi) alla Scuola dell’infanzia San Giuseppe di Prata di Pordenone - www.corinnezanette.com

54 55

RACCONTI

Febedi Enrico Losso

Lo trovi su una panchina del parco.Se ne sta aperto, mostrando ai passanti il suo cuore d’inchiostro. Una

brezza dolce si diverte a sfogliare le pagine, ora lenta, ora spostandole a gruppi. Rimani in piedi a guardarlo, per qualche minuto, come se potesse cederti il posto.

Alla fine ti siedi, un po’ distante, sempre con lo sguardo fisso su di lui. Lo prendi, accarezzi la copertina marrone, ne annusi l’odore.

Un quaderno grosso, di quelli rilegati con la colla, riempito fitto con una grafia esile e precisa.

La curiosità ti fa arricciare il naso. E inizi a leggere. I tuoi occhi del colore del guscio delle noci scorrono rapidi. Ti accorgi che si tratta di una storia che va dalla prima all’ultima pagina.

Dopo averne divorate una ventina di slancio, alzi la testa. Appoggi il quaderno, ti stiracchi. Non sopporti stare ferma troppo a lungo. Ti fa male la schiena, dici.

La realtà è che ti piace camminare. Lo so. E leggere mentre cammini. Riprendi in mano il quaderno, ti dirigi verso il cancello vicino all’albero

secolare.Mi alzo anch’io dalla panchina dove sono seduto. Ti seguo mantenendo

la giusta distanza.Imbocchi la strada con i ciottoli continuando a leggere. Arrivi alla

piazza. Quasi vai a sbattere contro una bicicletta parcheggiata. Attiri su di te qualche sguardo divertito.

Le tue scarpe sfiorano il pavé del centro città. Non ti sei accorta del cielo clamoroso di questo mattino di aprile. Stringi il quaderno come fosse il bastone biforcuto di un rabdomante, sembra che la storia ti trasmetta le vibrazioni della terra. Capita anche a me, a volte.

Il tuo girovagare immersa nella lettura sembra la rotta impazzita di un sommergibile ammutinato e riemergi all’incrocio delle due strade con i nomi così buffi, via del Granchio e via Cammello. Un incrocio fra un

granchio e un cammello, ti fa sorridere questa quest’immagine, lo so, te l’ho sentito dire.

Scegli di fermarti al tavolino di un caffè sgangherato. Posi il quaderno, aperto a metà, esausto. Ordini un succo di frutta alla pera a una cameriera grassa. Ti guardi un po’ attorno.

Incroci lo sguardo di un vecchio seduto a un tavolino alla tua destra, mentre solleva gli occhi stanchi da un giornale. Osserva i tuoi riccioli scuri e il tuo profilo, struggente come i confini di un quartiere in cui si è vissuti da bambini.

La tua mente esita, in un istante di incertezza, nella vana attesa che scatti un circuito di memoria. Il vecchio ti fissa per un po’, finché l’imbarazzo non ha la meglio e allora si strofina le palpebre con le dita sottili.

La tua attenzione scivola via, rincorrendo un vociare di ragazzi, compagni di Università, che passano in bicicletta a due metri.

Si accorgono della tua presenza, pronunciano il tuo nome:“Febe!”Rallentano, si fermano. Scambiano qualche parola con te che rimani

seduta e accavalli le gambe. Sorridi ad una battuta del ragazzo alto e smilzo con la barba lunga, ti si vedono le fossette. Il vecchio, quello seduto alla tua destra, lo osserva con attenzione, studia il suo modo un po’ goffo di farti ridere ancora. Un suo amico dice a voce alta che c’è lezione, che si è fatto tardi. Il ragazzo con la barba indugia, si vede che vorrebbe restare ancora, scambiare con te il numero del cellulare.

Alla fine cede.I ragazzi ti salutano e se ne vanno.Tu riprendi in mano il quaderno, lasci qualche moneta sul tavolo,

decidi di riprendere a camminare.Il vecchio, quello che si alza appena dopo di te e ti segue, cercando di

armonizzare il suo passo al tuo vagolare con la testa china di nuovo sulle pagine, ecco, quel vecchio sono io.

Voglio vedere dove andrai oggi.Passi davanti alla vetrina della libreria all’angolo, quella che assomiglia

alla tana di un grosso animale cartivoro. Lo fai spesso, ti piace leggere i titoli dei libri allineati e ammirare le copertine. Spesso entri, ripromettendoti invano che non acquisterai nulla.

Oggi avresti tirato diritto, se non avessi sentito la voce provenire dall’interno. La tua amica libraia ti ha chiamato. Agiti la mano, le sorridi attraverso il vetro. Poi la raggiungi al bancone.

M’intrufolo anch’io, Febe, a sentire questo odore di inchiostro e parole.

56

Conosco il caos che sonnecchia qui, ci vengo molto spesso: gironzolo fra gli scaffali, mi fermo a leggere una quarta di copertina, molto spesso compro. È un luogo che mi fa sentire in pace con me stesso.

Ti fermi a parlare con la libraia, una donna con una decina di anni più di te e i capelli rossi. Gesticoli, le fai vedere il quaderno che hai trovato.

Lei legge un passo, sgrana gli occhi, gira una pagina. Poi ti indica una pila di libri nella zona centrale.

La raggiungi, chiedi conferma afferrando il romanzo. Il titolo è composto da una sola parola: Mai.

È fra le ultime novità, lo hanno esposto da pochi giorni. Il tuo sguardo si posa sulla copertina che raffigura due profili stilizzati:

una linea che svolazza e crea dal bianco la forma di due corpi, un uomo e una donna che si sfiorano con le dita. Lo apri, cerchi la prima pagina, inizi a leggere. La tue sopracciglia si sollevano. Scuoti piano la testa.

Apri il quaderno, leggi anche quello. Le stesse frasi.Riprendi in mano il libro, fai frusciare le pagine, scruti attenta la

fotografia dell’autore sul retro. Se alzassi i tuoi occhi verdi, adesso, oltre l’orizzonte del bordo, potresti accorgerti che l’uomo dell’immagine ed io siamo la stessa persona.

Invece leggi un altro passo, lo risfogli fino all’inizio. Ti soffermi sulla dedica.

Lo faccio spesso anch’io. Mi piace sapere in nome di chi spunta, cresce e fiorisce una storia.

Sbatti due volte le palpebre, rileggi ancora. Le tue labbra si muovono appena.

A Febe, la figlia che non ho mai conosciuto.Ti starai chiedendo stupita chi possa essere questa ragazza che ha il tuo

stesso, rarissimo nome.Se solo trovassi il coraggio. Se non avessi sbagliato tutto in passato.

Se.

Enrico Losso | nato nel 1974, abita a Ferrara. Lavora a Bologna, dunque fa parte della Grande Famiglia dei Pendolari, dedita all’osservazione della gente nei vagoni dei treni. Da tempo coltiva la passione per la scrittura e ha pubblicato un romanzo, “I disintegrati”, con la casa editrice Panda edizioni nell’aprile 2015. Legge molto e ogni tanto sottolinea.

60 61

Elegia per un cantieredi Diego Tonini

Lo confesso, sono un architetto. Avete ragione, non è il caso di farne una tragedia, anche perché Atene è piena di gente che scrive lagne del genere e non serve che mi lamenti pure io, e di questi tempi se hai un lavoro è meglio tenertelo stretto. Il fatto è che io volevo fare l’archeologo, però mi hanno detto di lasciar perdere perché siamo nell’età del bronzo e se mi mettessi a scavare qua sotto non troverei altro che terra, pietre appuntite e qualche legnetto bruciato.

Allora mio padre, che era re di Atene e un po’ di agganci ce li aveva, mi disse: «Studia, regazzi’, fa’ l’architetto che poi quarche appalto t’o rimedio io, te faccio costrui’ du templi e te sistemi per bene.»

Non aveva mai imparato il greco antico, mio padre, conosceva solo il dialetto.

Non ero entusiasta dell’idea, ma sempre meglio che mettersi i mutandoni di cuoio e partire per qualche guerra; così ascoltai papà, e credetemi, meglio non contraddire un re anche se si è suo figlio, hanno il boia facile, e mi misi a studiare.

Purtroppo a quei tempi la città brulicava di filosofi che non facevano altro che passeggiare e rimuginare su tutto, e secondo loro non era etico che il figlio del re costruisse i templi per la polis. Fecero tanto casino che convinsero tutti i cittadini, e papà dovette dare l’appalto a uno che non fosse suo parente, impresa piuttosto difficile visto quanto si accoppiano gli antichi greci. Così mi ritrovai col mio pezzo di pergamena in mano e senza un lavoro.

«Papà, quasi quasi io faccio il concorso in ferrovia» proposi, ma lui mi spaccò un’urna in testa e gridò: «Ma brutto fijo d’un ciclope, che stai a di’? Primo, la ferrovia non l’hanno ancora inventata, secondo, te pare che er fijo del re vada a fa’ il controllore? E terzo, stamo ad Atene, mica in Magna Grecia, qua pe’ vince i concorsi devi da studia’!»

Stavo per replicare che se ero riuscito a diventare architetto potevo

anche passare un concorso, ma lui mi fece cenno di tacere, mi cinse le spalle col braccio e sussurrò:

«Ce sta n’amico mio che fa er re de Creta, je mando un Filippide e l’avviso che te voi trasferi’, vediamo se te rimedia un lavoretto tanto pe’ comincia’, un tempietto d’un dio che nun se caga nessuno, poi magari na cretina che te sposa la trovi pure.»

«Cretese.»«Che dici?»«Le abitanti di Creta si chiamano cretesi.»«Vabbè, come te pare a te.»

Allargai le braccia, almeno era un modo per andar via di casa. Così, compasso in spalla, partii per Cnosso.

Quando giunsi a palazzo, Re Minosse mi squadrò con occhio torvo.«De chi situ, ti?» proruppe con voce tonante.«Prego, maestà?» balbettai. Il dialetto cretese non mi era familiare.«Di chi sei? Da dove vieni?» ripeté.«Sono Dedalo, maestà.»«De Dolo? No me par che l’abbia ancora fondata, quea città.»Mi inchinai, che di fronte a un re fa sempre bene, e risposi: «No,

maestà, sono Dedalo da Atene, per servirvi.»Il re si colpì la coscia con una mano. «Ma potevi dirlo subito! Sei venuto

per farti mangiare vivo dal Minotauro?»Scoprii così che i rapporti tra Atene e Cnosso non erano così idilliaci

come papà voleva farmi credere.«Se possibile preferirei di no» risposi. Non sembrava convinto. Si grattò la testa, guardò i cortigiani e tornò

a fissarmi. «Eora parché te si qua?»Pensai che probabilmente il messaggero che aveva mandato papà non

era finito molto bene. «Mi ha mandato mio padre a prendere servizio presso di voi, sono un

architetto.» Alzai con cautela lo sguardo verso Minosse che si accarezzava la folta barba.

«Un architetto dici… scolta qua, forse ho un lavoro per ti: me fiol bastardo, Minotauro…»

«Volete che gli costruisca una prigione?» azzardai.Agitò le braccia. «Situ matto? Dopo chi la sente so mama? Voglio che

gli fai na casetta tutta per lui, vicina al palazzo, ma no tanto, che è ora che

RACCONTI

62 63

vada fora dai coioni.»Mi strinsi nelle spalle. Per me era più adatta una prigione, ma i soldi

ce li metteva lui.«Come desiderate» risposi.Minosse scese dal trono e mi mollò una pacca sulla spalla che mi fece

piegare in avanti. «Bravo, toso! Comincia subito, prima che Mino torni, che quando arriva a casa ha sempre fame.»

Non me lo feci ripetere e mi rinchiusi nello studiolo che mi avevano assegnato.

La settimana dopo, di buon mattino, corsi nella sala del trono. «Ecco qui» annunciai, srotolando il progetto.

Minosse sbadigliò e si alzò, borbottando e mugugnando mentre si avvicinava. Chinai il capo e lui mi mollò una manata sulla schiena.

«Bravo, ceo!» esclamò, «no mal, par essar uno de Atene.»Ripresi a respirare giusto in tempo per tossire un «Grazie.»Il re camminò intorno alla piantina, vicino alla piantina, sopra alla

piantina, si sedette sul progetto, allargò le braccia e disse: «Bon, comincia subito a costruire, ti darò i migliori mureri di Creta!»

Ed erano bravi davvero, a parte la tendenza a tracannare anfore su anfore di quella bevanda schiumosa tanto in voga tra gli Egizi, e ad aspirare il fumo di piccoli cilindri di papiro che tenevano sempre in bocca. Parlavano una lingua ancora più strana di quella di Minosse, ma sembrava capissero i miei ordini e lavoravano in fretta; la villa sarebbe stata pronta prima dell’inverno.

E così fu, ma il re non era molto contento del risultato.«E cossa sarìa sta roba?» urlava, mulinando le braccia mentre percorreva

il perimetro della costruzione, «te pare na villa? Non ha finestre, le stanze son tutte incasinae, i corridoi se piega a destra e sinistra, no se capisse niente!»

Osservai il progetto e poi l’edificio: in effetti non erano proprio uguali, qualcosa non era andato come previsto.

Alzai gli occhi verso i muratori che stavano con la schiena appoggiata a un muro appena costruito, parlottando fra loro con i soliti fasci d’erba stretti fra i denti. Cercai i loro sguardi, ma nessuno mi fissò e non provai nemmeno a chiedere qualcosa, tanto non avrei capito la risposta.

Minosse mi strappò il progetto dalle mani. «Allora? Cosa dici?» urlò, puntando il dito che tremava di rabbia contro la pergamena.

«Vedete, maestà, il fatto è che…»«Quale fatto? Qua è tutto storto!» Esclamò con una voce che avrebbe

fatto tremare i vetri, se fossero già stati inventati.«Insomma…» feci.«Insomma un casso! Come hai fatto a combinar sto casin?»Sollevai la testa e indicai dietro di me, verso la folla che assisteva,

confabulando e ridacchiando. «È colpa loro!» strillai, «sono qua da quando abbiamo cominciato a costruire, mi fissano da dietro la rete con le mani dietro la schiena!»

Minosse piegò la testa da un lato. «Quindi?»«Mi rendono nervoso» sbottai, allargando le braccia, «e parlano,

borbottano e scuotono la testa, poi puntano il mento e dicono: “butta meno sabbia, falla più grassa la malta che no tien, tira su dritto il muro, te ga misurà mal, sta tento che no va ben, ocio col filo a piombo…” a un certo punto mi hanno mandato in confusione, non ci ho capito più niente e ho cominciato ad ascoltarli. “Fate voi!” ho detto, ed è venuta fuori sta roba.»

Mi buttai ai piedi del re, sul punto di piangere, e gli abbracciai le caviglie. Lui si liberò e fece due passi indietro.

«Dai, dai, caro, no sta far ste scenate!» disse.Tirai su col naso e mi rimisi in piedi, erano scappati tutti, muratori e

vecchi impiccioni, lasciandomi solo con Minosse, che mi afferrò il retro del collo come una tenaglia.

«Dime, ceo, come la vuoi chiamare sta roba? Scegli un bel nome, perché sarà casa tua per il resto della vita» fece un ghigno.

Piegato in due dalla stretta del re, sussurrai. «Che dite di labirinto, maestà?»

Diego Tonini | scienziato e spacciatore di storie, ha pubblicato i romanzi “Storie di Okkervill”, “Nella Botte piccola ci Sta il Vino Cattivo” e diversi racconti. Assieme ad alcuni amici è co-fondatore del Sad Dog Project, un progetto di editoria indipendente dedicato ai racconti di genere.

64 65

Guardraildi Alessandro Mambelli

Continua attesaRoberto Vecchioni, “Il cielo capovolto”

La donna dall’età indefinibile indossava un cardigan rosso di lana sopra una camicia blu a fiori, una gonna di velluto a coste e delle calze bianche, alte fino al polpaccio, infilate in un paio di ciabatte distrutte; le dita, nodose come rami secchi, erano appoggiate al guardrail su cui sedeva guardando nel vuoto. Dietro al guardrail, oltre la macchia boschiva e il torrente, c’era un vecchio casale ristrutturato a ristorante che aveva creato per i clienti un grande labirinto in mezzo al campo di grano di proprietà; la gente pranzava o cenava e poi, alla luce del sole o con delle vecchie e suggestive lanterne, entrava nei ghirigori gialli e verdi e si perdeva, si perdeva, si perdeva… Una volta, molto tempo prima – prima del miracolo economico, dei film di Fellini e delle balere estive, quando la guerra era appena iniziata –, su quel campo di grano c’era stato un grave incidente: il marito, guidando il trattore, aveva investito e ucciso sua moglie. La donna sul guardrail se lo ricordava bene.

Non tutti quelli che passavano davanti al guardrail notavano la donna, perché era così piccola – contro la strada e la campagna – che molte volte sembrava come sparire, o diventare invisibile; molti altri, però, passandole davanti e notandola di sfuggita, non riuscivano proprio a evitare di farsi un’idea sempre diversa sul motivo a volte semplice e a volte arcano che spingesse una signora di quell’età – ma quel era la sua età? – a starsene seduta su quel pezzo di lamiera gelato.

In paese quei pochi che l’avevano notata e quei pochi che ricordavano di averlo fatto si chiedevano spesso chi fosse e cosa facesse là seduta – spesso parlandone al bar con qualche amico o con il fornaio che credeva di averla incontrata a sera inoltrata –, ma non arrivavano mai da nessuna parte

perché nessuno la conosceva e nessuno ricordava di averla vista in piazza o in compagnia di qualche altra donna – neppure come visitatrice occasionale dalla città. Per il custode del cimitero – che l’aveva incontrata molte più volte di tutti gli altri messi insieme – si trattava di una forestiera che aveva sposato un uomo del paese e che passava i pomeriggi seduta sul guardrail perché non trovava la forza di attraversare la strada, salire i sette gradini, superare il cancello e andare davanti alla tomba del marito; addirittura, il custode sosteneva anche di ricordarla alla testa della processione, confusa fra gli avemaria del prete e gli abitanti del paese incolonnati dietro al carro funebre che camminavano con la testa bassa. La vicina di casa del custode, però – che da quasi vent’anni ogni mattina che il Signore mandava in terra andava al cimitero a trovare suo marito –, riteneva innanzitutto di non aver mai visto quella donna là seduta dove la gente diceva, e in secondo luogo di non averla mai vista a nessun funerale – o quantomeno, in paese tutti ricorderebbero una povera vedova se esistesse davvero, no?, diceva sempre al custode.

La maggior parte delle persone che davvero notavano la donna, però, non erano del paese – dove in effetti questa storia era più una barzelletta –, ma più che altro si trattava di viaggiatori di passaggio che per un motivo o per l’altro capitavano da quelle parti.

Un giorno un piccolo regista che cercava una location campestre ma non rurale per girare la scena di apertura del suo cortometraggio vide distintamente la donna e pensò che stesse aspettando un perduto amore di gioventù – magari un ragazzo dei suoi vent’anni conosciuto dopo la guerra quando il paese ancora fumava per la polvere e per le bombe, e loro due ballando in piazza si erano sfiorati e conosciuti e poi lui le aveva detto su quel ciglio della strada prima di partire per la città e trovare un lavoro tornerò, tornerò, tornerò da te e faremo l’amore e faremo tanti figli e compreremo una grande casa dove costruirò una cuccia per il nostro cane; ma poi lui era andato via e non era più tornato e lei ogni giorno sedeva lì per aspettarlo pensando e soppesando bene cosa dirgli una volta che dall’orizzonte il puntino nero della sua scassatissima Dyane fosse diventata una Dyane vera e propria, indecisa se schiaffeggiarlo come in certi film e poi baciarlo o baciarlo subito o schiaffeggiarlo solo, oppure mandarlo affanculo e basta perché dopo un’attesa di quasi quarant’anni vuoi mettere la goduria?

Un pomeriggio passò un medico – era il giorno di San Silvestro e stava raggiungendo la villa di un vecchio amico del liceo dove avrebbe aiutato l’amico e la moglie a preparare la tavola per la serata, magari preparando un po’ di legna per il camino in attesa degli altri vecchi compagni –, e

RACCONTI

66 67

quando vide la vecchietta la prima cosa che pensò, forse dovuta ad una deformazione professionale – il suo amico del liceo lo prendeva in giro da anni dicendo sul serio che quando facevano l’Università lui e gli altri aspiranti medici non parlavano che di medicina –, la prima cosa che pensò fu che avesse l’Alzheimer e che ora stesse lì seduta senza sapere più dove fosse, cosa stesse facendo o dove dovesse andare – tra l’altro è pure lontana da casa credo perché siamo quasi in campagna, magari mi fermo e le chiedo se ha bisogno d’aiuto.

– Scusi, signora, ha bisogno d’aiuto?– No, grazie. Sto aspettando una persona.– Ah, d’accordo… Buon anno, allora.– Altrettanto a lei.Il medico ripartì chiedendosi chi fosse questa fantomatica persona, ma

poi gli venne in mente che quella sera avrebbero giocato a Monopoly – e che se fosse stato fortunato avrebbe anche scopato con la moglie del suo amico con cui aveva una relazione clandestina da quasi cinque anni alle spalle di tutti e di cosa stavo parlando?, ho parlato con qualcuno poco fa?, un vecchia, tipo? No, no, devo essermelo sognato, nello specchietto retrovisore c’è solo la strada, una curva, un guardrail arrugginito e vecchio e un po’ d’erba, ma non c’è proprio nessuna vecchia…

Una volta un tossico impasticcato passò con l’auto davanti al guardrail ma per poco non uscì di strada, perché seduto là come su un trespolo vide uno scheletro giallastro e grigio con la testa girata all’indietro, e anche quando chiuse brevemente gli occhi per non pensare per dimenticare per non vedere vide un morto che dall’orizzonte nero e sotto un cielo buio camminava lentamente diventando scheletro ad ogni passo e tendendo la mano come a nessuno quel nessuno diventava lentamente qualcuno e quel qualcuno era lo scheletro del guardrail e i due scheletri cominciarono a fare l’amore sotto un cielo nero e su una terra nera e tutto era nero tutto è nero devo aprire gli occhi devo – ecco. Il tossico aprì gli occhi e non c’era più niente, non c’era più lo scheletro, né il morto, né il cielo scuro, né la strada – solo un albero al posto del parabrezza.

Un’altra volta fu una donna a passare per la strada provinciale, e mentre la sua auto sfilava davanti alla vecchietta pensò – meditando sul fatto che amava ancora suo marito nonostante l’avesse tradita e ritenendo che in giornate particolari (in cui il cielo era in un certo modo, la luce in un cert’altro e in generale l’atmosfera si faceva di spleen) fosse malinconica al punto giusto da diventare quasi nostalgica –, pensò che forse la vecchietta si stesse riposando dopo aver camminato dal paese prima di entrare al cimitero. Mentre l’anziana figura scompariva pian piano nello specchietto retrovisore – ma il suo volto e il suo sorriso (sta sorridendo?) erano ancora

distintamente riconoscibili –, la donna pensò a sua nonna ed entrò in un labirinto di falsi ricordi, di epifanie e di vecchi racconti, e rivide il paese nel ’45 quando ancora i tedeschi bombardavano dall’alto con un aereo che la gente aveva soprannominato Pippo, e tutti si chiudevano nelle cantine non pensando che se la casa fosse crollata sarebbero morti comunque ma sepolti vivi; e poi rivide il paese liberato dove suonavano i valzer viennesi dai grammofoni e chi sapeva suonare e aveva uno strumento cominciava ad usarlo e gli americani avevano portato i chewing-gum e gli inglesi il tè e gli italiani avevano costruito le Cinquecento e andavano in vacanza al mare e ballavano nelle balere e la riviera era illuminata come un film di Fellini o la California e tutto era felice e spontaneo e oggi non più, concluse la donna uscendo dai labirinti dei suoi pensieri, oggi non più.

L’atmosfera delle giornate che cominciavano a farsi più corte era ovattata e soporifera, le foglie cadevano flemmatiche dagli alberi come al rallentatore e il rumore dei motori delle auto si sentiva ancora dopo molti chilometri che le auto stesse erano passate – sembrava quasi che tutto il mondo stesse aspettando qualcosa. La donna dall’età indefinita si alzò, si stirò le pieghe della gonna a coste e fece qualche passo in mezzo alla strada; la luce che si rifletteva sul suo cranio spoglio e sporco sembrava quella di una vecchia lanterna – una lanterna come quelle che usavano i clienti del ristorante per orientarsi nel labirinto. La donna, prima di abbandonare per sempre quel guardrail dove aveva aspettato tanto, si chiese dove fosse suo marito, se stesse bene, se si fosse perdonato tante cose – ma tanto già sapeva tutto.

Alessandro Mambelli | nasce a Cesena nel 1997, e dopo aver frequentato il liceo scientifico si iscrive a Lettere Moderne. Nel 2018 pubblica per i tipi di Geekoeditor il suo primo romanzo breve, “Sunset Strip”, e poesie e racconti sulle riviste “Alibi”, “Narrandom”, “Rapsodia”, “Globusmag”, “Spore”, “ROA” e “Schegge”.

68 69

Cartoline dal nulladi Gian Pietro Barbieri

SETTEMBRE17 settembre 2017

Da un complotto di palazzine, da spari di silenzio per le vie strette da prossimi, imminenti crolli; dai rumori d’orina che mi piscia il vicino d’appartamento direttamente nella turca del mio orecchio provengo a questo giorno che sa di grotta e vedo G. che cerca il suo amore per non essere solo, lo cerca con la sua bicicletta ed un fiore come faro ma senza speranza e segue l’acqua forse di fogna che scappa nei tubi e ricompare con una strizzata d’occhi da un tratto scoperto del fosso sepolto.

Estratti dalla raccolta Cartoline dall ’errore di Gian Pietro Barbieri (Dario De Bastiani Editore)Illustrazioni originali di Marco Fintina

Gian Pietro Barbieri | nato a Treviso nel 1965. Segretario del circolo Legambiente di Maserada sul Piave (TV), si occupa di eventi culturali e conduce studi antropologici. Ha pubblicato i testi poetici “Persistere” (Campanotto, 2004), “Inventario” (Edizioni Del Leone, 2008) e “Ininterrottamente” (Valentina Poesia, 2014).

Marco Fintina | Treviso (1973), si occupa di educazione e dal 1995 partecipa come scultore a varie esposizioni. In Sierra Leone un suo Cristo redentore di dimensioni monumentali abbraccia idealmente la città di Freetown - www.marcofintina.com

POESIA

70 71

FAMEFebbraio 2018

C’era una scimmia nel frigo; appena aperto è fuggita con un urlo selvaggio portando con sé l’ultima bottiglia. Un cespo marcescente d’insalata e una cipolla imputridita. Pare un obitorio il mio presepe. Mangiare da solo mi fa sentire un ladro; la mia magrezza è il luogo che cerco per scomparire, l’inappetenza è un paesaggio visto da molto lontano sul quale cammini, solo e leggero come una foglia.

STANOTTE21 settembre 2017

Stanotte ho seguito un Silenzio, un’ombra che andava gelosa di chissachè apparentemente lenta dietro a se stessa, sì, una sera ch’ero solo per sempre come lui, uguale a me e ne ho avuto pietà, ho provato pena e così, per un poco appena, gli ho dato voce ch’è sfumata come una sirena, come una balena s’è rinabissata nel chissadove da dove era venuto ed io sono rimasto, solo con lui, come se…

72 73

ULTIMA CARTOLINAFebbraio 2018

Cercavo un luogo dove sparire: “Saluti dal Nulla”; una farfalla come francobollo e un profumo di mare dalla cassetta rossa. Un paese di chiacchere alle mie spalle; mi allontano da me e mi seguo fino a sparire. I confini sono stecchi allineati dal vento. Sono partito – sono sparito – spartito del silenzio. Sono dimagrito, mi sono assottigliato; il dolore mi ha fatto tagliente. Io sono la cartolina, l’ultima della gita.

GIARDINI5 settembre 2017 (Roncade)

Un nero color dei tigli blatera al cellulare in una lingua incomprensibile che muove le foglie, intorno il tempo sembra immerso in un brodo gelatinoso, la pupilla di un demente; lui continua a blaterare e quando si alza dalla panchina per gettare una lattina da dodici litri di birra ed un sacchettino di pane, dal monumento ai caduti per la Patria si alzano in volo ordinati un miliardo e mezzo di passeri.

74 75

*

Avrai paura, te lo dico chiaro,te lo dico piano, ti dico guardaperché avrai paura, per non confondermimentre ti insegno le misure esatte,quelle che si trovano con le mani,che c’è la luce giusta e la luce offesae un modo nostro per attraversarela stanza senza indossare gli occhiali,a tentoni, cercandosi con calma,facendo differenza tra le formemorbide che ha un corpo e gli spigoliche sono di un armadio

POESIA

*

Ancora e camminare nei fiori,dalle mani ai fili ruvidi dell’erbae stare a guardarsi stare e ridersidi ritornare, dove hai lasciato i passie dove hai ricordato il paese che era lì,dove erano stesi loro a parlarsivestiti di una domenica non si era dettodomani e partire presto, con i piedi di scarpee gli occhi nel sole e il sole nei palmi con voie la memoria di oggi, se ci siamo guardatitrovarsi, tra la sporta e un figlio e una vita,a vivere tra gli uomini in silenzio

Poesiedi Carlo Selan

76 77

*

Hai solo questo ridere ed è cosìpoco, le mani che chiedono, stesea cercare, hai camminato nei fiori,sei trascorso tra i prati e sull’erbabagnata, ti sei seduto a parlarmi,a chiedermi stanco chi è che ringrazio,nessuno che parli, nessuno a staresenza un motivo, cos’è che hai capitodi ieri e di quando vi siete rivisti,ancora non parli, ancora non provineanche a tornare

*

Parte del sogno era la meraviglia,il dono, due dita di bianco euno stelo e il porgersi a mani e manisole, come sussurri o paroledifficili, «caro male», «amicamorte», «resta, o vita, resta!».Non sai se difendere il miracolo,la nascita biologica e il doveredi restare, il ventre cavo della terrae la statuetta di terracottache hai sepolto secoli fa.Parte del sogno era la pretesadi non essere corpo naturale,di non avere bisogno di cornadi cervo o scapole di agnello perchéeri sveglio, e non ricordi piùse era ieri che lui era partito o eraoggi che l’hai visto tornaree hai pianto per parlargli ancorae, con le lacrime sulle guance,trovarlo

78 79

*

Abbiamo dato, anche se a restaresono parole che non si hanno parolee non si ha una misura per viverequesto oggi di altri che chiedono «come eravate, voi»questo umano e quel nulla che poi non rimanee che poi è quel tutto che non ti senti di dire,strano com’è stato ieri strano che ti sei offeso,hai steso le braccia a stare nell’aria e nei ramispenti, aperti, come una gesto racchiusoti sei lasciato cadere

Carlo Selan | (1996), fa parte del collettivo poetico “Let us compare Mythologies” nonché della redazione del blog “Argo”, della rivista “Charta Sporca” e del trimestrale “Digressioni”. Alcuni suoi versi inediti sono apparsi sulla rivista “Digressioni”, nel blog “Laboratoripoesia” e sul sito “Poesia del nostro tempo”.

*

Pochi metri di giardino, rinchiusiin una cura quasi maniacale.

La brina che lo ricopre, troppo fragileper resistere al farsi del giorno;un sottile lenzuolo infantile.

(Cammino e mi penso in questa lucedi forme esauste che è il silenzioa quest’ora. Il gesto che spezzal’abitudine sta tutto nel pesodel mio passo premuto sull’erba, nel contorno di orme che vanno.)

Ho firmato un rettangolo biancoper lasciarvi una traccia- la più fragile - di me.

Questala mia colpa più grande.

Poesiedi Enrico Giacomini

80 81

POESIA

*

È il silenzio la parte più ingombrantedi questa camera. Preme forte le pareti e il mio guardarledal fondo del letto.

La notte oggi arriva puntualenell’abitudine settimanaledei vicini di cedersi al corpo.

Prendo la sigaretta dal pacchettola accendo aspiro quando finalmentesento il ritmo di lui, dei suoi fianchi,entrarle dentro, e filtrato dal muro,sfiorarmi la schiena.

Allora penso a lei,alla sua bellezza raccolta,di quelle timide, da ascensore.La penso mentre afferra gli oggetti, mentre apre la bocca, la pensoseduta, distesa. La penso.

Enrico Giacomini | (1995) nel 2017 ha vinto il premio speciale Miglior poeta Friuli al Concorso di poesia "Pensare Scrivere Amare" di Remanzacco; nel 2018 ha ricevuto una segnalazione nel concorso "Amore ti scrivo" di Zoppola e il Premio speciale della giuria del concorso "I colori dell'anima".

Non parla molto, neanche a letto,forse vorrebbe urlare ma si trattieneo forse le basta un sussurroall’orecchio del marito...

È il silenzio la parte più ingombrantedi questa camera. Preme forte le pareti e il mio guardarledal fondo del letto, dal fondodi un piacere, adesso, quasigoduto.

Hanno scritto: Francesco Zanolla, Annarosa Maria Tonin, Enrico Losso, Diego Tonini, Gian Pietro Barbieri, Cinzia Agrizzi, Davide De Lucca, Michele Saran, Laura Cuzzubbo, Matteo Pernini, Carlo Selan, Enrico Giacomini, Matteo Zucchi, Alessandro Mambelli

All’interno: fotografie di Giovanni Fantasiaillustrazioni di Corinne Zanette e Marco Fintinafumetti di Alberto Dabrilliopere di Ba Abat (fotografie di Laura Cuzzubbo)

In copertina: illustrazione di Corinne Zanette

VENEZIAp. 34

MARIENBADp. 30

GOTHAM CITYp. 26

VERSAILLESp. 8

«Venga con me!» RIPeté K.

«Ora ho visto come è qui, me ne voglio an-dare.» «Lei non ha ancora visto tutto», disse l’usciere in tono molto schietto. «Non voglio vedere tutto», disse K. che del resto comincia-va a sentirsi stanco. «Voglio andar via, dov’è l’uscita?» «Non si sarà mica perso?» chiese stupito l’usciere. «Lei arriva fino all’angolo, poi prende il corridoio a destra e arriva dirit-to alla porta.» «Venga con me», disse K., «mi mostri la strada, altrimenti mi confonderò, ce ne sono tante.» «È l’unica strada», disse l’usciere con aria di rimprovero, «non posso tornare indietro con lei, devo comunicare il mio messaggio e, a causa sua, ho già perso molto tempo.»

Franz Kafka, Il processo

€ 7,50