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LA SCUOLA DI RESINA E I MACCHIAIOLI

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In collaborazione con:ARK LIGHT

Ideazione:Marco di Mauro (Domus Artis LASA 2.0)

Allestimento & Grafica:ARK LIGHTRoberto Bruni, Vittoria Cioni, Giacomo Dolfi.

Promosso da:Comune di Monsummano TermeAssessorato alla Cultura

A cura di:

Marco di Mauro (Domus Artis LASA 2.O)

MAC, NMuseo d'Arte Contemporanea e del Novecento24 giugno - 31 agosto 2016

LA SCUOLA DI RESINA E I MACCHIAIOLI

FotografieTorquato PerissiStampaLito Immagine srl. [email protected]

Si ringraziano:Rinaldo Vanni - Sindaco del Comune di Monsummano TermeElena Sinimberghi - Assessore alla Cultura del Comune di Monsummano TermeMarco Giori - Direttore dei Musei CiviciPaola Cassinelli - Responsabile scientifico del MAC, N Claudia Becarelli - Docente di Storia dell'Arte.

BUFALCIOFFI,DAVINIKERAMOSMADAFPIERI ASSICURAZIONIMADAF YORCK CORPORATION

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Comune di Monsummano TermeAssessorato alla Cultura

Museo d'Arte Contemporanea e del Novecento

Associazione Culturale

Architettura & Ricerca

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Prefazione

Il museo di Arte Contemporanea e del Novecento "Collezione Civica - Il Renatico", istituito nel 2000, nel corso di questi 16 anni di vita è diventato un luogo ideale per mostre d'arte contemporanea, conferenze e seminari di studi, concerti di musica da camera, cinema e teatro all'aperto soprattutto durante la stagione estiva. I progetti che prendono vita nella villa nascono dalla volontà, sempre rinnovata, dell’Amministrazione Comunale di credere e puntare sulla cultura nonostante il periodo di depressione che stiamo vivendo, convinti che solo nella bellezza si possa trovare la forza per arrivare ad escogitare strategie vincenti al superamento di ogni crisi.

Poter quindi ospitare a Villa Renatico Martini un evento così spiritualmente ed artisticamente rilevante, non fa che arricchire la nostra sensibilità e in un certo senso, permette di riportare la villa indietro nel tempo, quando gli eleganti soffitti a cassettoni con tondi di ceramica policroma erano impreziositi proprio dalle opere dei maggiori esponenti di questo movimento pittorico: con i macchiaioli, sappiamo, viene data vita alla ricerca del vero: un vero che svincola l'artista dal disegno.

È la ricerca del reale a muovere l'artista nel senso di una amplificazione di tutti i sensi con cui percepire l'effettivo svestendo l'occhio di sovrastrutture tecniche.Con eventi come questo, allora, si recupera non solo umanità ma si recupera anche un contatto diretto con la vita: l'artista ne coglie l'essenza, ne cura la luce ed il colore e, nel farlo, torna Uomo. Con questa mostra, concludo, si percepisce il virtuosismo del pittore-uomo che, tornando alla vita, ne fotografa l'essenza e la quotidianità.

Un ringraziamento particolare va al curatore della mostra dott. Marco di Mauro e al direttore del Mac,n dott. Marco Giori che hanno lavorato sinergicamente con passione affinché questo evento avesse luogo.

Elena Sinimberghi Assessore alla Cultura Comune di Monsummano Terme

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Associazione Culturale Domus Artis LASA 2.0

Alcuni anni fa nasceva a Napoli, da un gruppo di amici, l’associazione culturale “Domus Artis”, dedita alla promozione dell’arte antica e moderna. Nel 2014, però, due dei soci fondatori lasciavano Napoli per stabilirsi a Montecatini Terme. Il caso ha voluto che incontrassero un altro gruppo di amici, residenti in Valdinievole, che da tempo pensavano di fondare un’associazione denominata “Lasa 2.0”. I due gruppi si sono seduti intorno ad un tavolo, dove i fondatori di “Domus Artis” (Maria Anna Barretta, Marco di Mauro, Augusto Smiraglia, Eugenio Smiraglia, Alberto Smiraglia) e quelli della nascente “Lasa 2.0” (Paola Beretta, Roberto Bruni, Francesco Cavia e Giacomo Dolfi) hanno deciso di comune accordo di unire le proprie forze e cambiare il nome dell'associazione culturale “Domus Artis” in “Domus Artis – Lasa 2.0”.

L’associazione, che ha stabilito la propria sede nel settecentesco Palazzo Colzi di Monsummano Terme, si pone l’obiettivo di promuovere l’arte e la cultura in tutte le sue forme: arti figurative, musica, teatro, danza, cinema, gastronomia e folclore.

Paola Beretta, Roberto Bruni, Francesco Cavia, Marco Di Mauro, Giacomo Dolfi.

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Il vero e la macchia

La corrente artistica della "macchia"ha attratto particolarmente la nostra attenzione, perché trattasi di un movimento prettamente toscano, anti accademico di stampo verista, che gravita intorno alla figura del critico e letterato Diego Martelli. In realtà l'espressione con cui venne definito il gruppo fu coniata da un giornalista in senso dispregiativo, ma, i pittori in oggetto, adottarono tale termine come identificativo delle proprie opere: l'intento della loro produzione era quello di ragionare di luce, ombre e colore, ma anche di relazionare con il quotidiano, la vita semplice e la condizione politica e sociale del tempo, partendo da quella sintesi necessaria per cogliere l'essenza del momento, che va oltre la ricerca del dettaglio, tipico della pittura tradizionale accademica.

Non sfuggono chiaramente da tale studio nemmeno i ritratti, non destinati solo a soggetti aristocratici, ma anche borghesi o popolari, con una particolare attenzione all'espressività dei soggetti, colti in assoluta naturalezza (cfr. Andrea di Positano di Vincenzo Caprile, Ritratto d'uomo di Enrico Gaeta). Il movimento dei macchiaioli in Italia è il corrispettivo del Realismo francese, con echi della Scuola di Barbizon, dalla quale riprende anche le viste paesaggistiche, con una propensione nei confronti dell'orizzontalità delle tele, che ne sottolinea un particolare effetto di sconfinatezza, che travalica il formato della tela, in cui il colore si rende protagonista nei confronti della tradizionale linea di contorno (cfr. Paesaggio costiero di Federico Rossano, La pioppaia di Enrico Gaeta). Anche il "divino" viene talora privato della sua natura prettamente spirituale, per avvicinarsi all'aspetto materico e carnale del quotidiano; è il tipico caso del "Dio che si è fatto uomo" nella Crocifissione d'ignoto napoletano, o della Processione in montagna di Nicola Palizzi.

La domanda che spesso ci poniamo a proposito di tale corrente artistica è in quale contesto di relazioni e di conoscenze sia maturata. La mostra ci offre delle risposte, presentandoci opere di pittori napoletani che utilizzano la stessa tecnica. Sono i pittori della Scuola di Resina (o Repubblica di Portici, secondo la definizione di Domenico Morelli), i quali sostenevano che l'immagine del vero era frutto di un contrasto chiaroscurale tra luci ed ombre e macchie di colore, capace di catturare tutte le vibrazioni e le mutevoli sfumature della luce, una straordinaria correlazione artistica che ha preso avvio fra i tavoli del celebre caffè fiorentino “il Michelangelo”.

Roberto Bruni, Vittoria Cioni, Giacomo Dolfi / ARK LIGHT

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I MACCHIAIOLI E LA SCUOLA DI RESINA

Era il 1863 quando giunse a Napoli da Firenze Adriano Cecioni, vincitore di un pensionato di studio presso l’Accademia di Belle Arti1. Ben presto, l’artista si rese conto che la teoria della macchia, di cui si riteneva portatore, aveva radici anche napoletane, risalendo persino a Giacinto Gigante, sensibile interprete della pittura visionaria di Turner. A Napoli e a Firenze, dunque, si erano svolte ricerche parallele intorno alla rappresentazione del vero, che finalmente si svincolava dal disegno – mera invenzione dell’artista – e trovava una nuova formulazione nella “macchia”, tecnica basata sui contrasti cromatici e tonali. Alla ricerca del vero, quindi, si accompagnava la scoperta del valore strutturale della luce e del colore, non più attenuato dalla tecnica tradizionale a velature. Un ruolo decisivo nello sviluppo della “macchia” si deve al foggiano Saverio Altamura, formatosi all’Accademia di Napoli e approdato a Firenze nel 1855, dopo aver visitato il padiglione realista all’Esposizione universale di Parigi, che ospitava le opere di Corot, Millet, Courbet e della scuola di Barbizon. Fu proprio Altamura a spingere l’ambiente fiorentino ad un rinnovamento pittorico in chiave verista, tendente alla resa immediata e diretta del paesaggio naturale, contro la costruzione idealizzante delle vedute classiche. L’ansia di rinnovamento fu incarnata da L’origine dei guelfi e dei ghibellini, il trittico che Altamura presentò con strepitoso successo alla Promotrice di Firenze del 18582. Nei semplici abbozzi delle figure e nell’uso strutturale della luce, i Macchiaioli videro quella franchezza e quell’immediatezza d’espressione che da tempo ricercavano. Uno dei pannelli del trittico, la scena delle Esequie, fu elogiato da Diego Martelli, che vi lesse la «calma tonalità grigio ferro» che alludeva al ton gris dei francesi3. Lo stesso Altamura fece conoscere ai toscani la pittura di Filippo Palizzi, ammirato per la sua indagine verista, benché la sua tecnica micrografica fosse lontana dall’ideale macchiaiolo. Nel 1861, dopo che Palizzi ebbe clamorosamente rifiutato l’invito all’Esposizione nazionale di Firenze, Altamura gli allestì una mostra nel suo studio4. La ricerca di Altamura fu condivisa da Domenico Morelli, altro napoletano reduce dall’esperienza parigina del 1855. Nella sua Mattinata fiorentina del 1856, Morelli sperimentava una nuova tecnica, in cui la forma non era più definita dal disegno, ma espressivamente rilevata dal colore. Come ricorda Diego Martelli, l’artista napoletano, al suo arrivo a Firenze nel 1856, cominciò a parlare «di tocco, di impressione, di valore e di chiaroscuro», aprendo il dibattito tra la forma e la “macchia”. «Fu detto che la forma non esisteva – ricorda Martelli – e siccome alla luce tutto risulta per colori e per chiaroscuro, così si volle solamente per macchie ossia per colori e per toni ottenere gli effetti del vero»5. Il ruolo chiave dei napoletani nell’apertura del dibattito sulla “macchia” viene ribadito da Eduardo Dalbono6, che sottolinea l’influenza esercitata dalle opere di Gigante e Palizzi.Le relazioni tra Napoli e Firenze si intensificarono dopo la citata Esposizione nazionale del 1861, a cui parteciparono i giovani napoletani Marco De Gregorio e Federico Rossano. I due artisti, ancora legati a un linguaggio tradizionale di matrice accademica, furono colpiti dalle innovazioni dei Macchiaioli toscani, ai quali si accostarono progressivamente. In questo contesto si colloca, due anni più tardi, l’arrivo a Napoli di Cecioni, che impresse una brusca accelerazione al processo di rinnovamento già avviato. Fu allora che i più sensibili artisti napoletani iniziarono a svincolarsi dal romanticismo

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di Domenico Morelli, dal verismo minuzioso di Filippo Palizzi e dalla leziosità della Scuola di Posillipo. I più convinti assertori del rinnovamento anti-accademico furono i giovaniMarco De Gregorio, Federico Rossano e Giuseppe De Nittis, ai quali si unirono Antonino Leto, Eduardo Dalbono, Nicola Palizzi, Francesco Lojacono, Alceste Campriani, Giuseppe Laezza, Vincenzo Caprile ed Enrico Gaeta7. Questi pittori, col fondamentale apporto teorico di Cecioni, diedero vita alla Scuola di Resina8, che i suoi detrattori appellarono “Repubblica di Portici”, ironizzando sullo spirito antagonista che l’animava.Luogo d’incontro del sodalizio fu lo studio di Marco De Gregorio, ubicato all’ultimo piano della Reggia di Portici, al confine tra i comuni di Portici e di Resina (attuale Ercolano). A breve distanza abitava Gonsalvo Carelli, ultimo epigono della Scuola di Posillipo, che possedeva diversi acquerelli di Giacinto Gigante, il quale, come abbiamo visto, può essere considerato un precursore della “macchia”.Le ricerche della Scuola di Resina, allineate con quelle dei Macchiaioli, furono orientate verso un realismo sintetico, interamente giocato sui rapporti di luce e sui contrasti tonali, intesi come rapporti costruttivi. I loro soggetti prediletti non sono i paesaggi ameni del golfo di Napoli o della costiera amalfitana, ma le campagne assolate, i sentieri rurali, le case coloniche, i fienili e le stalle, ripresi “ad occhio nudo”, senza sublimare la realtà, ma offrendola all’osservatore sic et simpliciter, nella sua elementare sostanza. Non è un paesaggio ricercato e ripreso secondo l’angolatura più suggestiva, ma quello che abbiamo sotto gli occhi, quotidianamente, quando lasciamo la città e ci inoltriamo nella campagna. Per dirla con le parole di Giovanna Vittori, il sodalizio nasceva «da un giuramento di fratellanza e da un programma artistico: esercitare un'arte indipendente, puramente veristica e realista tendente alla vera manifestazione semplice del vero nelle sue svariate forme senza orpello e transazioni»9. Nel corso degli anni, il rapporto dei pittori di Resina con i Macchiaioli toscani non si affievolì, anzi si consolidò attraverso la circolazione di opere e di artisti. In particolare, le mostre organizzate annualmente dalla Società Promotrice di Belle Arti di Napoli ospitarono più volte i Macchiaioli toscani: alla Promotrice del 1866 Giuseppe Abbati presentò Interno di un coro con monaco10; alla Promotrice del 1869 Silvestro Lega presentò Gli sposi e La visita, mentre Odoardo Borrani presentò Dopo pranzo; alla Promotrice del 1871 Silvestro Lega espose La pittrice, La passeggiata e La visita alla balia, mentre Giovanni Fattori presentò La fattoria agli avamposti.11 Lega, Borrani e Fattori non presenziarono alle mostre, ma si fecero rappresentare dall’amico Saverio Altamura, in qualità di delegato e garante. A Napoli si recarono, invece, Giovanni Boldini e Cristiano Banti, nel 1866, e Telemaco Signorini nel 1877, in occasione dell’Esposizione nazionale12. Alla memorabile esposizione furono invitati diversi Macchiaioli: Fattori con L’appello dopo la battaglia del 1866; Borrani con In attesa del pittore.13 e Castiglioncello; Cesare Fantacchiotti col gruppo marmoreo Pecoraia con agnello; e Signorini con Borgo di Porta Adriana a Ravenna14, premiato ed acquistato dalla Casa Reale. L’opera di Fattori mostrava senza enfasi e con profondo verismo i reduci italiani dalla rovinosa battaglia di Custoza. Fu proprio il carattere anti-retorico, evidentemente, a suscitare

il disappunto della critica, che accolse Fattori con deprecabile indifferenza. L’opera di Signorini, invece, si connotava per la dilatazione orizzontale del piano, delimitato da edifici moltoscorciati in fuga verso l’orizzonte, soluzione che avrà largo seguito a Napoli. Infine la scultura di Fantacchiotti ci permette di stabilire un dialogo col monumento a Giuseppe Giusti, realizzato dal medesimo autore nel 1878, per la piazza di Monsummano. Accanto ai Macchiaioli toscani, alla Esposizione nazionale di Napoli vi fu una retrospettiva su Marco De Gregorio, promossa e curata dai suoi amici. Altri pittori in rapporti con la Scuola di Resina, presenti all’Esposizione, erano Vincenzo Caprile, Francesco Lojacono ed Enrico Gaeta, che esponeva ben sei opere.

Oltre alle mostre, un ruolo importante per la circolazione delle idee va attribuito alle riviste, soprattutto il Giornale Artistico di Enrico Cecioni, fondato nel 1873. Vi collaborarono nomi illustri della corrente macchiaiola come Adriano Cecioni, fratello di Enrico, Diego Martelli e Telemaco Signorini, nonché pittori napoletani come De Nittis e Rossano. Il Giornale Artistico si schierava in aperta polemica sia contro la pittura accademica, sia contro la politica culturale del governo Minghetti, poco incline a promuovere la ricerca15.L’intensa e straordinaria esperienza della Scuola di Resina – a cui Napoli ha reso omaggio nel 2012 con una piccola ma significativa mostra al Pio Monte di Misericordia – merita di essere conosciuta anche in Toscana, per le intense e reciproche relazioni che stabilì con i pittori macchiaioli.

Marco di Mauro

1 Cfr. P. Ricci, Arte e artisti a Napoli 1800-1943, Napoli 1981.2 C. Farese Sperken, La pittura dell’Ottocento in Puglia. I protagonisti, le opere, i luoghi, Bari 1996, p. 18.3 C. Sisi in Civiltà dell’Ottocento. Le arti figurative, catalogo della mostra a cura di N. Spinosa, Napoli 1997, sch. 17.147 pp. 536-537.4 M. Picone Petrusa, Vittorio Imbriani critico d’arte, in Studi su Vittorio Imbriani, a cura di R. Franzese ed E. Giammattei, Napoli 1990, pp. 98-99.5 D. Martelli, Su l’arte, conferenza del 1877 in Scritti d’arte di Diego Martelli, a cura di A. Boschetto, Firenza 1952, pp. 90-96; ora in P. Barocchi, Testimonianze e polemiche figurative in Italia. L’Ottocento dal bello ideale al Preraffaellismo, Firenze-Messina 1972, p. 236.6 E. Dalbono, Domenico Morelli, in D. Morelli – E. Dalbono, La scuola napoletana di pittura nel secolo decimo nono ed altri scritti d’arte, a cura di B. Croce, Bari 1915, p. 84.7 Cfr. Civiltà dell’Ottocento ... , op. cit., Napoli 1997, pp. 541-556.8 Cfr. La scuola di Resina nella collezione della provincia di Napoli e da raccolte pubbliche e private, catalogo della mostra a cura di L. Martorelli, Napoli 2012.9 G. Vittori, La XXVIII Esposizione della Società di Belle Arti Salvator Rosa, in «Natura ed Arte», cronaca del 26 gennaio 1893.10 Il quadro è attualmente esposto alla Galleria Nazionale di Capodimonte, a Napoli. Cfr. M. Mormone in Civiltà dell’Ottocento …, op. cit., sch. 17.153 p. 541. 11 Cfr. I. Valente, Le arti figurative, la Promotrice e la Provincia. Dinamiche culturali a Napoli dall’Unità alla fine del secolo, in l’altro Ottocento. Dipinti della collezione d’arte della Città Metropolitana di Napoli, catalogo della mostra, Napoli 2016, pp. 15-16.12 Cfr. G. Salvatori, L’Esposizione Nazionale di Belle Arti a Napoli nel 1877: echi di critica nella stampa periodica intorno alle arti applicate, in Gioacchino Di Marzo e la Critica d’Arte nell’Ottocento in Italia, atti del convegno a cura di S. La Barbera, Palermo 2003, pp. 142-156.13 Il dipinto era già stato esposto alla Promotrice di Firenze del 1874.14 T. Signorini, Lettera informativa al Presidente della R. Accademia di Belle Arti, nota autobiografica redatta nel 1892 (pubblicata in E. Somarè, Signorini, Milano 1926, pp. 277-279). 15 B. Sani, “Il GiornaleAartistico” a favore di una nuova utilizzazione statale della scultura e delle arti applicate, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», serie III, vol. 7, n. 3 (1977), pp. 1261-1276.

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I MACCHIAIOLI E LA SCUOLA DI RESINA

Era il 1863 quando giunse a Napoli da Firenze Adriano Cecioni, vincitore di un pensionato di studio presso l’Accademia di Belle Arti1. Ben presto, l’artista si rese conto che la teoria della macchia, di cui si riteneva portatore, aveva radici anche napoletane, risalendo persino a Giacinto Gigante, sensibile interprete della pittura visionaria di Turner. A Napoli e a Firenze, dunque, si erano svolte ricerche parallele intorno alla rappresentazione del vero, che finalmente si svincolava dal disegno – mera invenzione dell’artista – e trovava una nuova formulazione nella “macchia”, tecnica basata sui contrasti cromatici e tonali. Alla ricerca del vero, quindi, si accompagnava la scoperta del valore strutturale della luce e del colore, non più attenuato dalla tecnica tradizionale a velature. Un ruolo decisivo nello sviluppo della “macchia” si deve al foggiano Saverio Altamura, formatosi all’Accademia di Napoli e approdato a Firenze nel 1855, dopo aver visitato il padiglione realista all’Esposizione universale di Parigi, che ospitava le opere di Corot, Millet, Courbet e della scuola di Barbizon. Fu proprio Altamura a spingere l’ambiente fiorentino ad un rinnovamento pittorico in chiave verista, tendente alla resa immediata e diretta del paesaggio naturale, contro la costruzione idealizzante delle vedute classiche. L’ansia di rinnovamento fu incarnata da L’origine dei guelfi e dei ghibellini, il trittico che Altamura presentò con strepitoso successo alla Promotrice di Firenze del 18582. Nei semplici abbozzi delle figure e nell’uso strutturale della luce, i Macchiaioli videro quella franchezza e quell’immediatezza d’espressione che da tempo ricercavano. Uno dei pannelli del trittico, la scena delle Esequie, fu elogiato da Diego Martelli, che vi lesse la «calma tonalità grigio ferro» che alludeva al ton gris dei francesi3. Lo stesso Altamura fece conoscere ai toscani la pittura di Filippo Palizzi, ammirato per la sua indagine verista, benché la sua tecnica micrografica fosse lontana dall’ideale macchiaiolo. Nel 1861, dopo che Palizzi ebbe clamorosamente rifiutato l’invito all’Esposizione nazionale di Firenze, Altamura gli allestì una mostra nel suo studio4. La ricerca di Altamura fu condivisa da Domenico Morelli, altro napoletano reduce dall’esperienza parigina del 1855. Nella sua Mattinata fiorentina del 1856, Morelli sperimentava una nuova tecnica, in cui la forma non era più definita dal disegno, ma espressivamente rilevata dal colore. Come ricorda Diego Martelli, l’artista napoletano, al suo arrivo a Firenze nel 1856, cominciò a parlare «di tocco, di impressione, di valore e di chiaroscuro», aprendo il dibattito tra la forma e la “macchia”. «Fu detto che la forma non esisteva – ricorda Martelli – e siccome alla luce tutto risulta per colori e per chiaroscuro, così si volle solamente per macchie ossia per colori e per toni ottenere gli effetti del vero»5. Il ruolo chiave dei napoletani nell’apertura del dibattito sulla “macchia” viene ribadito da Eduardo Dalbono6, che sottolinea l’influenza esercitata dalle opere di Gigante e Palizzi.Le relazioni tra Napoli e Firenze si intensificarono dopo la citata Esposizione nazionale del 1861, a cui parteciparono i giovani napoletani Marco De Gregorio e Federico Rossano. I due artisti, ancora legati a un linguaggio tradizionale di matrice accademica, furono colpiti dalle innovazioni dei Macchiaioli toscani, ai quali si accostarono progressivamente. In questo contesto si colloca, due anni più tardi, l’arrivo a Napoli di Cecioni, che impresse una brusca accelerazione al processo di rinnovamento già avviato. Fu allora che i più sensibili artisti napoletani iniziarono a svincolarsi dal romanticismo

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Vincenzo CaprileAndrea di Positanotempera grassa su tela, cm 31,5x24,5 provenienza: Collezione privata, Napoli

La tela è firmata «V. Caprile» con dedica ad «Andrea di Positano». Alla fase più intensamente verista dell’artista napoletano, intorno ai primi anni ’80, rinviano i caratteri del dipinto: l’indagine analitica dei soggetti popolari, quale si ritrova in L’acqua zurfegna a Santa Lucia, datato 1884 (Roma, Galleria d’Arte Moderna); la densità delle pennellate, intrise di colori terrosi; e le assonanze stilistiche con i ritratti popolari di Eduardo Dalbono, come la fiera Acquafrescaia di collezione privata.

Andrea di Positano, soggetto di questo splendido ritratto di Vincenzo Caprile, volge all'osservatore uno sguardo intenso da cui traspaiono sicurezza e austerità. Il volto dalla pelle olivastra è di una scarna bellezza: le nere ciocche di capelli ricadono scomposte sulle tempie; i duri zigomi, divisi appena dal crinale del naso, sono bruciati dal sole; i lunghi baffi si stagliano con imponenza sulla bocca, oscurando il labbro superiore; le folte sopracciglia aggrottate accentuano la severitas di uno sguardo vissuto e provato dalla fatica. Al collo pendono un crocifisso e due medaglie, effigianti forse la Madonna di Bonaria o Sant’Anna, patrona dei naviganti, a testimonianza della fede incrollabile dei marinai, che li accompagna nelle lunghe traversate in balia delle onde. Il crocifisso, le medaglie e quel simbolo cucito sulla manica destra della giacca disegnano un’area semantica che allude ai valori essenziali del marinaio, che dai tempi di Ulisse affida il proprio destino a un’entità soprannaturale.

Dal volto di Andrea di Positano, descritto e indagato con tecnica sapiente, si sprigiona un’energia che ben si concilia con i tratti duri e finanche autoritari della sua personalità. Il verismo della resa rimanda non solo alla ritrattistica napoletana di fine ’800, ma finanche ai capolavori della ritrattistica romana, come il rude Ritratto di Patrizio di collezione Torlonia, che vuole testimoniare, nelle profonde rughe e nell’espressione ferma degli occhi, l’orgoglio di aver ottenuto la stima sociale attraverso una dura vita di servizio alla repubblica.

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Franz VervloetLargo di Castello a Napoliolio su tela, cm 57x44provenienza: Collezione privata

Il dipinto, firmato in basso a destra «F. Vervloet 1839», costituisce uno dei soggetti tipici del pittore di Mechelen, che visse a Napoli stabilmente dal 1825 al 1832 e vi tornò diverse volte nel corso della sua vita. Vervloet, che ebbe rapporti anche con Firenze, dove fu premiato all’Esposizione del 1861, rappresenta il superamento del vedutismo neoclassico alla Philipp Hackert con una precoce apertura verso il paesaggio romantico alla Corot, che verosimil-mente conobbe a Napoli nel 18281.Come si rileva in questo dipinto, infatti, l’eredità del vedutismo neoclassico – col suo fare disteso e analitico, che tende ad una rappresentazione cristallizzata del paesaggio – viene temperata e addolcita da una calda resa atmosferica. Il Largo di Castello è inoltre vivificato da deliziose scene di vita popolare, che ci restituiscono un’immagine fedele dell’ambiente napoletano dell’Ottocento, dove la vita di strada prevale su quella domestica.Come acutamente osservò Raffaello Causa2, è evidente il contributo di Vervloet alla fase di formulazione della Scuola di Posillipo e, potremmo aggiungere, agli sviluppi della pittura napoletana dal vero.

1. A testimonianza del soggiorno napoletano di Corot abbiamo capolavori come la Veduta di Napoli da S. Lucia del Langmatt Museum di Baden.2. R. Causa, La Scuola di Posillipo, Milano1967, pp. 17-18.

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Federico Rossano Tramonto a Licolaolio su tela, cm 50x70 provenienza: collezione privata, Napolibibliografia: M. di Mauro, Nuove acquisizioni sull’agro giuglianese, in «Rassegna Storica dei Comuni», n. 144-45, sett.-dic. 2007, p. 14; M. di Mauro, In viaggio. La Campania. Proposte attributive, ricerche archivistiche e bibliografiche, Napoli 2011, p. 125

Il dipinto, non firmato, fu attribuito dallo scrivente alla maturità di Federico Rossano (1835-1912) e identificato come Tramonto a Licola per le stringenti affinità stilistiche con la tela di analogo soggetto nella collezione Sanpaolo Banco di Napoli. Identica è la composizione della scena, che si connota per la dilatazione orizzontale del piano, su cui si stagliano un bue e poche figure di spalle, appena tracciate con macchie di colore; e per la fuga di arbusti stecchiti che tendono all’orizzonte, accentuando la profondità dello spazio. L’effetto dilatativo richiama il Sobborgo di Porta Adriana a Ravenna, presentato da Telemaco Signorini all’Esposizione nazionale di Napoli.

Il paesaggio di Rossano, sobrio ed essenziale, è definito da una piana, omogenea stesura di colore a macchie, memore dei paesaggi maremmani di Giovanni Fattori, ma con una prevalenza di tinte brune o rossastre che rinvia più segnatamente alla scuola di Barbizon. Nello scarno paesaggio, la ricerca del vero convive con un lirismo bucolico, che costituisce una nota costante nella produzione di Rossano, sin dalle opere giovanili come il Campo di grano esposto alla Promotrice del 1863. Il nostro dipinto, però, deve datarsi dopo il 1877, data del primo viaggio di Rossano a Parigi. Lì, a contatto con i barbizonniers, approfondì la sua ricerca sulla scia dell’ultimo Corot, verso il quale lo portava l’amore per le tinte soffuse, indagate in tutte le variazioni tonali.

La parte superiore della tela, con un cielo azzurro opaco, mostra i segni evidenti di un cattivo restauro effettuato probabilmente negli anni ’50.

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Federico RossanoPaesaggio costieroacquerello su cartoncino, cm 10x19.5provenienza: Collezione privata, Castellammare di Stabia

Il piccolo, ma delizioso acquerello costituisce una limpida espressione del nuovo paesaggio realista, depurato dalle tossine folcloristiche della veduta “da cartolina”, come dall’estenuato lirismo e dalle teatrali scenografie in cui andava naufragando la Scuola di Posillipo.

La sobrietà della composizione e l’uso di una ristretta gamma cromatica, tendente al bruno, sono caratteri peculiari della produzione di Rossano intorno agli anni ’70, che risente fortemente della Scuola di Barbizon e in particolare dell'ultimo Corot.

In bilico tra la descrizione veristica e l’interpretazione poetica del paesaggio, l’acquerello può essere letto come rappresentazione interiore, che emana una sensazione di silenzio e di pienezza, di dolcezza e di intimità, ma anche di chiusura, di distanza tra sé e il mondo. Il paesaggio sembra costruito a partire da un’unica tinta: il celeste, che si tinge di rosso e di giallo per assumere le varie colorazioni del mare e delle colline, con l’esito di una controllata e sapiente continuità d’immagine.

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Carmine CiardielloAl pascoloolio su tela, cm 42x53provenienza: Collezione privata

Carmine Ciardiello è noto come pittore di marine e di pescatori, o di scene folcloristiche come la tarantella nel golfo di Napoli. Eppure, nei primi anni di attività, allo scorcio dell’Ottocento, Ciardiello ha prodotto interessanti tele d’impronta marcatamente verista, come quella che qui si presenta. Vi sono rappresentati alcuni buoi al pascolo in aperta campagna. La descrizione dell’ambiente naturale è effettuata in modo rapido e sintetico, con dense macchie di colore che assumono un aspetto materico e pastoso. Il cielo è plumbeo, il paesaggio è spoglio, l’atmosfera è cupa e malinconica. In questo ambiente duro e scarno troverebbe la sua ideale collocazione Sossio, soggetto del più bel ritratto popolare di Ciardiello, transitato ad un'asta Finarte nel 2009.

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Nicola PalizziProcessione in montagnaolio su tela, cm 26x40,5provenienza: Collezione privata, Napoli

Il soggetto del dipinto è una scena campestre, ambientata verosimilmente in Campania, animata da un folto gruppo di persone che attraversa un ponte. Si tratta evidentemente di una processione, legata a qualche evento sacro o cerimonia religiosa.

La tela costituisce, con ogni probabilità, un bozzetto per una composizione di maggiori dimensioni. Il carattere di bozzetto, però, non basta a giustificare la moderna sintesi di pure “macchie” che vi si riscontra, sia nelle figure che nel paesaggio. È la tecnica alla quale Nicola Palizzi approda dopo la cruciale esperienza parigina del 1856, che segna il passaggio da un produzione minutamente illustrativa, evocante le limpide vedute di Salvatore Fergola, ad una produzione completamente nuova, ispirata al realismo dei pittori di Barbizon e dei macchiaioli toscani.

La tela che qui presenta può essere accostata, per tecnica e stile, ad un’opera datata con certezza al 1857: la Rivista militare al Campo di Marte, custodita a Napoli presso il Museo di Capodimonte. Analoghe sono le figurine tracciate con rapidi tocchi di pennello e le nuvole che sfioccano in un cielo denso e materico, il tutto avvolto da una lieve foschia.

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Nicola PalizziAl pascoloolio su tela, cm 54x83provenienza: Collezione privata

La splendida tela rappresenta una mandria di buoi e di pecore al pascolo in un paesaggio che potrebbe collocarsi nell’entroterra campano. La figura umana – una donna che accudisce il proprio bambino – pur essendo un brano intensamente poetico, passa in secondo piano rispetto alla natura, che è la vera protagonista dell’opera. Nicola segue le orme del fratello maggiore Filippo nella costruzione del paesaggio e nella corposità materica della pittura, ma se ne discosta per altri aspetti: alla descrizione micrografica della natura preferisce una rappresentazione più sintetica, vicina alla macchia; al cielo terso e uniformemente luminoso preferisce un cielo nuvoloso che tende ad incupirsi, con ombre che calano sui cespugli e sulle fronde degli alberi.

Nicola è già proiettato verso la Scuola di Barbizon, che lo porta ad interiorizzare il paesaggio, a riconoscervi il proprio stato d’animo. L’influenza dei barbizonniers ci permette di datare il nostro dipinto dopo il soggiorno parigino del 1856, durante il quale dipinse la Foresta di Fontainebleau, attualmente custodita nella Galleria dell’Accademia di Belle Arti di Napoli.

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Replica da Telemaco SignoriniAsinello poppanteolio su tavoletta, cm 17.8x29.6provenienza: Albergo Stabia, Castellammare; Collezione privata

L’opera che qui si presenta, benché sia una replica, offre l’occasione per una precisazione biografica su Telemaco Signorini. Come è noto, intorno al 20 aprile 1877 l’artista si recò a Napoli in compagnia dello scrittore Renato Fucini e del pittore Luigi Busi, e ritornò a Firenze il 14 maggio seguente1. Il viaggio era motivato dalla partecipazione all’Esposizione Nazionale di Napoli, dove Signorini presentò Sobborgo di Porta Adriana a Ravenna2, che fu premiato ed acquistato dalla Casa Reale.

Dal taccuino del Fucini3 si apprende che intorno al 10 maggio, sulla via per Sorrento, i tre amici passarono per Castellammare. La notizia collima con quanto tramandato dagli eredi dell’Albergo Stabia, che ricordano una sosta del pittore presso la nuova sede dell’albergo al Corso Vittorio Emanuele, inaugurata nel 1876. Ne era gestore Francesco Paolo Gaeta, padre del pittore Enrico Gaeta, che abitava nel medesimo stabile e che aveva aderito agli ideali della Scuola di Resina.

Ora, la presenza di una replica da Signorini nella collezione della famiglia Gaeta non può ritenersi casuale. È probabile che sia stata commissionata, o incautamente acquistata, dal titolare dell’albergo per ricordare il soggiorno del pittore.

1 M. Uda, Arte e artisti, vol. II, Teatro di musica / Critica d'Arte, Napoli 1900, p. 51. 2 T. Signorini, Lettera informativa al Presidente della R. Accademia di Belle Arti, nota autobiografica redatta nel 1892 (pubblicata in E. Somarè, Signorini, Milano 1926, pp. 277-279). 3 R. Fucini, Napoli a occhio nudo, Venosa 2013.

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Cesare FantacchiottiBozzetto del monumento a Giuseppe Giustibronzo, h cm 11provenienza: Monsummano Terme, MAC,N.bibliografia: Due secoli di scultura attraverso la bottega Fantacchiotti-Gabrielli, Villa Renatico-Martini, Monsummano 1995; L’opera ritrovata. La bottega Fantacchiotti Gabrielli tra ’800 e ’900, catalogo della mostra, Palazzo Ducale, Massa 1998; M. Bertozzi in Museo di Arte Contemporanea e del Novecento. Collezione Il Renatico, catalogo del museo, Pisa 2013, pp. 104-105.

Nonostante le modeste dimensioni e le forme appena abbozzate, il modello già contiene in nuce una chiara percezione del monumento, che sarà realizzato in marmo nel 1878: la statua eretta del poeta in atto di meditare, appoggiato allo schienale della sua sedia. Tale impostazione ben si addice ad un personaggio che ha saputo indagare ed esprimere, con pungente ironia, la corruzione, la meschinità e l’ipocrisia della società borghese. L’attenzione di Fantacchiotti alla resa del carattere e della personalità si deve alla frequentazione del Caffè Michelangelo, dove strinse legami con Diego Martelli, Silvestro Lega e Telemaco Signorini, a cui si deve, probabilmente, l’invito all’Esposizione Nazionale di Napoli del 1877.Il modello del monumento al Giusti, che si data al 1875, è stato fuso in bronzo nel 1995 e donato al Comune di Monsummano da Leda Gabrielli.

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Enrico GaetaLa pioppaiaolio su tela, cm 25x34provenienza: Collezione privata, Castellammare

Il taglio fotografico della veduta, con la visione angolata di un viale costeggiato da una fila d’alberi svettanti, è molto frequente nella produzione di Gaeta, a partire dal capolavoro I pini, presentato al Salon di Parigi del 18671.

La luce calda e riposante del tramonto ammanta liricamente il paesaggio, investendo anche le due figurine, appena tracciate con la punta del pennello, che si incamminano verso i campi lontani. Il fluire della luce, tuttavia, non maschera le gradazioni tonali ed i contrasti tra luce ed ombra, volume e spazio su cui è giocata l’intera composizione: alle lunghe ombre degli alberi si contrappone la pur lieve luminosità del terreno; al volume dei tronchi si contrappone la limpidità del cielo, appena sfiorato, in profondità, da soffici nubi dorate.

Attraverso la sintesi, Gaeta raggiunge un elevato grado di purificazione formale, che lo pone sulla medesima linea di ricerca dei pittori macchiaioli, in particolare di Signorini, che con ogni probabilità ebbe occasione di incontrare. Nel 1877, infatti, Signorini sostò a Castellammare2 durante il suo tragitto da Napoli a Sorrento e, secondo la testimonianza degli eredi, alloggiò presso l’Albergo Stabia. Qui abitava Enrico Gaeta, figlio del titolare Francesco Paolo.

1 Cfr. R. Caputo, Enrico Gaeta (1840-1887), Napoli 2014.2 R. Fucini, Napoli a occhio nudo, Venosa 2013.

Il dipinto è stato riprodotto in bassorilievo da Giuseppe Renda sulla tomba del pittore, nel cimitero comunale di Castellammare di Stabia.

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Enrico GaetaRitratto d’uomoolio su tela, cm 18x15provenienza: Collezione privata, Castellammare

In questo ritratto, genere molto raro nella produzione di Gaeta, una salda costruzione formale d’impianto classico non preclude la ricerca espressiva. Il pittore stabiese non raggiunge l’acume psicologico dei ritratti di Morelli, cui fu legato da una sincera amicizia, eppure riesce a trasmetterci, nella naturalezza della posa e nella fermezza dello sguardo, vitalità ed energia.

La tecnica adottata è alquanto sommaria, non indugia nella descrizione dei particolari ma è attenta al dosaggio della luce e alla resa dei rapporti chiaroscurali, che sottolineano la lieve rotazione della testa, come la sua attenzione fosse stata richiamata da una voce.

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Enrico GaetaPagliaio olio su tela, cm 22x33provenienza: Collezione privata, Castellammare

In questo dipinto, le cui tinte assumono delicate tonalità di celeste, di ocra e di viola, un sobrio assetto chiaroscurale restituisce le risultanze luminose del paesaggio. Sono i rapporti luce-ombra, infatti, a creare le forme e non viceversa. Minute figure di contadini al lavoro, appena tracciate da macchie di colore, si scorgono in lontananza, quasi uniformate agli elementi naturali. È del tutto irrilevante, come in genere avviene nel paesaggio verista, l’identificazione della località, probabilmente da situarsi nell’entroterra campano.

Nell’interpretazione del soggetto si riconosce l’influenza dei Macchiaioli toscani, maturata sia direttamente, attraverso le esposizioni della Promotrice di Napoli, sia indirettamente, attraverso le esperienze di pittori napoletani come De Gregorio, De Nittis, Rossano e Belliazzi, che si recarono a Firenze nel 1872.

È utile osservare che l’immagine del pagliaio, isolato nei campi, è un topos ricorrente nella pittura macchiaiola, ad esempio nei dipinti murali realizzati da Boldini per la villa Falconer a Collegigliato (oggi a Pistoia, Palazzo dei Vescovi).

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Enrico GaetaCasa colonicaacquerello su carta, cm 25x16provenienza: Collezione privata, Castellammare

Il delizioso dipinto testimonia le brillanti doti di acquarellista di Enrico Gaeta, che sa rendere in maniera magistrale gli effetti chiaroscurali sulle murature e sugli intonaci screpolati. La tecnica di rappresentazione discende da Giacinto Gigante e, più indietro nel tempo, all’inglese Thomas Jones, il quale, con una finissima sensibilità preromantica, dipinse i muri cadenti delle case napoletane.

Enrico Gaeta riprende, sotto l’incalzare della luce meridiana, uno scorcio di casa colonica con le tipiche rampe “a collo d’oca”. La distanza ottica è tale da non offrire spazio alla rappresentazione complessiva del fabbricato, che tuttavia ha i caratteri peculiari dell’architettura rurale dell’entroterra campano. Nella stesura sostanzialmente monocroma, giocata sui toni dell’ocra, spiccano le tinte accese dei teli stesi ad asciugare sul muretto. Una croce sormonta la porta della casa, come segno di fede e di preghiera contro le avversità.

Il taglio compositivo angolare e ribassato ci permette di scrutare all’interno della casa colonica: nel buio si scorgono due figure, appena tracciate con macchie di colore bruno, che svolgono sommessamente le comuni attività domestiche. La scena si carica di poesia e di dolcezza, senza tuttavia rinunciare all’intonazione verista di fondo.

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Ignoto napoletanoCrocifissione olio su tela, cm 61x78provenienza: collezione privata, Napoli

La tela costituisce, probabilmente, un bozzetto per una composizione più ampia. L’adozione della macchia, però, non va attribuita soltanto all’esecuzione sommaria, propria del bozzetto, ma trova una giusta collocazione in quella evoluzione del linguaggio formale che matura a Napoli negli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento, attraverso il confronto diretto o indiretto con la contemporanea pittura francese. Ne sono protagonisti diversi pittori che gravitano nell’orbita di Domenico Morelli e di Michele Cammarano. Utili confronti possono essere stabiliti con due opere di Morelli: il Gesù fra gli ossessi (già Torino, Galleria Sant’Agostino) e la Resurrezione di Lazzaro (già Milano, Sotheby’s), in cui la tecnica della macchia appare funzionale alla concitazione delle scene.L’iconografia del dipinto e la stessa tecnica luministica rinviano a modelli seicenteschi di ambito naturalistico. Ai piedi della Crocifissione compare l’episodio, narrato nel Vangelo di Giovanni, dei quattro soldati che si spartiscono le vesti di Gesù1. La profondità della scena è accentuata, malgrado l’oscurità di fondo, dalla collocazione delle croci in diagonale. Alla destra di Gesù è la croce di Dismas, il Buon Ladrone, che gli volge lo sguardo penitente, mentre sul lato opposto è la croce di Geflas, il Cattivo Ladrone, che gli volge le spalle.

1 Sull’iconografia della spartizione, cfr. B. Daskas, La spartizione delle vesti di Cristo nella scena della Crocifissione e suoi sviluppi iconografici tra Oriente e Occidente (VI-XV secolo), in Il gioco e i giochi nel mondo antico. tra cultura materiale e immateriale, Bari 2013.

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