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INTERVENTI DELLA GIUSTIZIA
MINORILE E DI COMUNITÀ
A cura di Jada Fantasia
Giulia Lotti
Angela Pugliese
Monica Rosati
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Un ringraziamento speciale all’Assistente Sociale Minorile
Enza Elena Gatto, che con la sua passione, professionalità,
competenza e pazienza ci ha indirizzato in questa tematica,
e le cui parole non saranno dimenticate.
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INDICE
1- INTRODUZIONE……………………………….........pag. 4
2- IL QUADRO NORMATIVO………………………. ..pag.6
3- LA REALTÀ ALL’INTERNO DELLE COMUNITÀ PER
MINORI ……………………………………………pag. 24
4- DALL’ACCOGLIENZA
ALL’AUTONOMIA………………pag.43
5- DATI STATISTICI: SERVIZI DELLA GIUSTIZIA
MINORILE………………………………………pag.59
6- CONCLUSIONE……………………………………pag. 78
7- BIBLIOGRAFIA……………………………………pag.79
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INTRODUZIONE
A cura di Monica Rosati e Jada Fantasia
La Comunità Educativa è un servizio residenziale che accoglie
temporaneamente il minore qualora il nucleo familiare sia impossibilitato o
incapace di assolvere il proprio compito.
Offre ai minori un contesto educativo di sostegno nella gestione giornaliera
dei vari aspetti della vita ed è vissuta come luogo di socializzazione con tempi
e modalità simili allo stile familiare. L’obiettivo primario è il Benessere fisico,
psichico e sociale del minore ponendo al centro dell’intervento educativo la
relazione come stimolo alla scoperta e allo sviluppo delle potenzialità
individuali verso un percorso di autonomia.
La tutela dei bambini e degli adolescenti fuori dalla propria famiglia di
origine costituisce una delle sfide fondamentali accolte dall’Autorità garante
per l’infanzia e l’adolescenza. La condizione dei minorenni che vivono
un’esperienza di allontanamento necessita, invero, di particolare attenzione e
sostegno sia nella scelta della risposta più conforme al bisogno specifico di
ciascun minorenne, sia nella fase dell’eventuale reinserimento all’interno
della dimensione sociale. La comunità educativa per minori si propone come
luogo fisico e relazionale caratterizzato da un clima familiare, nel quale il
minore possa rielaborare i propri sentimenti e le proprie esperienze, offrendo
un affiancamento affettivo ed educativo che consenta al minore stesso di
sviluppare una nuova identità. La comunità per minori è un servizio
educativo - assistenziale che ha il compito di accogliere il minore durante il
giorno, qualora il nucleo famigliare sia impossibilitato o incapace a garantire
il benessere e i bisogni, anche primari, del ragazzo. Essa si rivolge quindi a
minori in situazioni di disagio sociale, familiare e personale non
particolarmente grave, ma in condizioni di precarietà e fragilità affettiva e
relazionale, tali da compromettere un'evoluzione personale, equilibrata ed
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armonica. La comunità per minori è luogo di vita quotidiana; è alternativa
all’affidamento; è lavoro di rete tra operatori, genitori e ragazzi; è una nuova
casa e famiglia per i minori; è luogo d’incontro e di scontro; è ambiente di
rieducazione e di ascolto; è un insieme di emozioni, affetti e storie di vita
differenti ma che s’intrecciano creando un sentire comune e un sentimento di
accettazione reciproca. Questo servizio pone al centro il minore e lo vede
come persona inserita in un contesto relazionale sia interno sia esterno dal
luogo di ospitalità. Da ciò si può evincere che il modello teorico di
riferimento delle comunità è quello sistemico - relazionale poiché si
considera il singolo come persona unica inserita in diversi sistemi di
relazione; la comunità è quindi un sistema aperto, che scambia informazioni
con l’ambiente circostante e con tutti gli altri servizi di cui il minore
quotidianamente usufruisce. C’è da aggiungere cha la comunità, oltre ad
essere un luogo “protetto” perché assicura al minore protezione e tutela, è
anche un luogo “esposto” a rischio poiché è inserito in un contesto
rappresentato dalle aspettative dei soggetti in gioco. In questo
approfondimento il tema degli “interventi della giustizia e comunità
minorile” viene affrontato sotto la sfera giuridica e sociale con particolare
attenzione all’aspetto inclusivo dei minori nella società e al quadro dei dati
statistici più recenti.
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IL QUADRO NORMATIVO
A cura di Angela Pugliese
Il maltrattamento dei minori è sempre esistito, ma viene percepito come un
fenomeno a se stante, e come problema sociale e medico, verso la seconda
metà del Novecento, ed è definito socialmente come la soglia posta per
indicare se un minore sia o meno vittima di abusi; esso cambia in virtù delle
violazioni alle pratiche di allevamento, alla centralità dell’infanzia e della
famiglia nel contesto culturale nonché sulla base dei criteri morali e legali
che governano la vita della collettività.
Il concetto di abbandono, nel diritto come nella vita sociale, si radica sul
riconoscimento che vi è, da una parte, una persona che non è in grado di
badare adeguatamente a se stessa per insufficienze fisiche, mentali o di
sviluppo e, dall’altra, qualcuno che, pur avendone il dovere morale, omette
di prendersi cura di lei in alcuni casi. L’abbandono, fisiologicamente, mette a
repentaglio la stessa vita e l’integrità fisica del soggetto incapace; in altri
casi, può compromettere gravemente il suo sviluppo umano quando vengono
a mancare quegli apporti indispensabili per strutturarsi o per vivere.
Dalle situazioni di maltrattamento e abbandono si sviluppano percorsi che
portano all’allontanamento del minore dalla propria famiglia, percorsi di
competenza civile, atti alla protezione e tutela del minore.
Vi sono altri casi, e altri percorsi, quello amministrativo o penale, che
riguardano l’allontanamento del minore dalla famiglia, percorsi che negli
anni sono stati oggetti di modifiche ed evoluzione.
L’allontanamento del minore, all’interno di questi processi, può condurre al
suo inserimento all’interno di una comunità minorile, o alla sua
adozione/affidamento da parte di una famiglia nel caso di competenza civile.
Per quanto riguarda la competenza civile, le disposizioni che consentono
all'autorità pubblica e all'autorità giudiziaria di allontanare un minore dalla
propria famiglia d'origine sono contenute nel codice civile quanto nella legge
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sulle adozioni, n. 184/1983. Quest’ultima è stata modificata dalla legge
476/98, la quale introduce nel nostro sistema la normativa relativa alla
convenzione internazionale dell’Aja in materia di tutela dei minori, firmata
dallo stato italiano nel maggio del 1993. Gli scopi che la Convenzione
intende raggiungere sono molteplici. Il principale è quello di stabilire delle
garanzie affinché le adozioni internazionali si facciano nell'interesse del
minore e nel rispetto dei diritti fondamentali che gli sono riconosciuti dal
diritto internazionale. Nel Preambolo della Convenzione si specifica però,
che ogni Stato dovrebbe adottare, con criterio di priorità, misure appropriate
per consentire la permanenza del minore nella famiglia d'origine e che quindi
l'adozione internazionale può offrire un'opportunità solo a favore dei bambini
per i quali non può essere trovata una famiglia idonea nel loro Stato di
origine. Le norme presenti nella Convenzione sono finalizzate anche a creare
un sistema di cooperazione fra gli Stati contraenti, che assicuri il pieno
riconoscimento delle adozioni realizzate in conformità alla Convenzione.
In seguito, la legge di riforma n°149/2001 sancisce il “diritto del minore a
una famiglia”, introducendo così molte innovazioni nell’iter delle pratiche di
adozione, oltre ad aver modificato nettamente i ruoli all’interno dei servizi
socio-sanitari. Il legislatore con la nuova legge ha inteso dettare misure tali
da rendere pienamente operativo il diritto del minore ad una propria famiglia,
da intendersi sia quella naturale d’origine sia quella cui sia eventualmente
affidato a causa delle difficoltà della stessa.
Le novità riguardanti le funzioni dei servizi socio-assistenziali degli enti
locali che sono contenute nella stessa all’articolo 29-bis, comma 4:
“I servizi socio-assistenziali degli enti locali singoli o associati, anche
avvalendosi per quanto di competenza delle aziende sanitarie locali e
ospedaliere, svolgono le seguenti attività:
a) informazione sull'adozione internazionale e sulle relative procedure,
sugli enti autorizzati e sulle altre forme di solidarietà nei confronti dei
minori in difficoltà, anche in collaborazione con gli enti autorizzati di cui
all'articolo 39-ter;
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b) preparazione degli aspiranti all'adozione, anche in collaborazione con i
predetti enti;
c) acquisizione di elementi sulla situazione personale, familiare e sanitaria
degli aspiranti genitori adottivi, sul loro ambiente sociale, sulle motivazioni
che li determinano, sulla loro attitudine a farsi carico di un'adozione
internazionale, sulla loro capacità di rispondere in modo adeguato alle
esigenze di più minori o di uno solo, sulle eventuali caratteristiche
particolari dei minori che essi sarebbero in grado di accogliere, nonché
acquisizione di ogni altro elemento utile per la valutazione da parte del
tribunale per i minorenni della loro idoneità all'adozione.”
A questo punto i servizi trasmettono al tribunale per i minorenni, in esito
all’attività svolta, una relazione completa di tutti gli elementi indicati entro i
quattro mesi successivi alla trasmissione della dichiarazione di disponibilità.
La nuova normativa demanda ai servizi socio-assistenziali ed ai loro
operatori, nuovi e importanti compiti:
1- INFORMAZIONE SULL’ADOZIONE INTERNAZIONALE:
2- INFORMAZIONE SULLE PROCEDURE DELL’ ADOZIONE
INTERNAZIONALE;
3- L’INFORMAZIONE SUGLI ENTI AUTORIZZATI;
4- L’INFORMAZIONE SULLE ALTRE FORME DI SOLIDARIETA’
NEI CONFRONTI DEI MINORI IN DIFFICOLTA’;
5- LA PREPARAZIONE ALL’ADOZIONE.
Per queste nuove competenze gli operatori necessitano di acquisire nozioni
aggiornate, nonché attivare una collaborazione con gli esperti del settore e
con gli enti autorizzati.
Tra le competenze degli operatori del settore è importante la preparazione
delle coppie. Questo perché è stato colto il bisogno espresso dagli aspiranti
genitori adottivi di un iter che non sia finalizzato soltanto ad una valutazione,
seppur necessaria, al conseguimento dell’idoneità, ma ad un’azione più
completa e precisa di un percorso di accompagnamento verso l’adozione.
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Quando un minore, nonostante la presenza di entrambi i genitori, è
adottabile?
Bisogna innanzi tutto sapere che nella fisiologia della complessa vicenda
familiare, vi sono i due diritti di pari dignità sotto il profilo della tutela
giuridica, quello dei genitori ad istruire, mantenere ed educare la prole, e
quello dei figli a crescere armonicamente nella famiglia di origine
coincidono.
Nelle relazioni familiare è contemplato il diritto dei genitori alla genitorialità,
che fisiologicamente garantisce, per l’ordinamento, quello del minore ad un
armonico sviluppo psico-fisico, affinché, si tuteli al contempo, il diritto
fondamentale del bambino a crescere nel nucleo di provenienza.
Nel momento in cui tale diritto non viene rispettato, la patologia
normalmente emerge, in maniera più o meno esplicita, attraverso alcuni
indicatori quali deperimento psico-fisico, difficoltà di apprendimento o
scarso rendimento a scuola, frequenza scolastica irregolare, ritardo psico-
motorio, frequenti ricoveri ospedalieri, e altro.
In presenza di suddetti indicatori, e laddove vi sia il consenso, ovvero la
disponibilità dei genitori esercenti la podestà, a collaborare con i servizi
socio-sanitari di zona a seguire le indicazioni, l’intervento delle istituzioni
sarà unicamente di tipo amministrativo-assistenziale. A volte, purtroppo, le
situazioni familiari sono talmente compromesse e deteriorate (grave
dipendenza da stupefacenti, da alcool, gravi malattie psichiatriche, …) da
non consentire, o comunque, rendere incompatibile che il minore stia con la
famiglia d’origine.
L’intervento del giudice si rende necessario, laddove vi sia un’opposizione
dei genitori a seguire le indicazioni del servizi socio-sanitari di zona, e vi sia
la necessità di limitare la podestà genitoriale degli stessi.
Infatti l'art. 330 del codice civile disciplina le ipotesi di allontanamento del
minore per decadenza dalla responsabilità genitoriale, mentre l’articolo 333
del codice civile giustifica comunque la misura dell'allontanamento a seguito
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di un comportamento pregiudizievole del genitore ai figli, ipotesi meno
grave ma più frequente rispetto a quella descritta dall’articolo 330 c.c.
Articolo 330
Decadenza della responsabilità genitoriale sui figli
Il giudice può pronunziare la decadenza della responsabilità genitoriale
quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei
relativi poteri con grave pregiudizio del figlio.
Articolo 333
Condotta del genitore pregiudizievole al figlio
Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare
luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall’articolo 330, ma appare
comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può
adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre
l’allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento
del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore.
Tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento.
Il contenuto dei provvedimenti che il giudice può adottare non è indicato
dalla legge, ma è rimesso al suo apprezzamento, che si configura come
strumento di protezione del minore contro le violazioni dei genitori. Il
giudice è chiamato a verificare la sussistenza dei presupposti dello stato di
abbandono, ed è poi chiamato ad esprimersi circa la necessità di recidere, in
modo totale e perpetuo, ogni legame tra il minore e la sua famiglia d’origine.
All’intervento giudiziale, vengono comunque posti dei limiti: perseguimento
dell'interesse del minore, proporzione con la gravità del pregiudizio per
quest'ultimo, limitazione al campo dei rapporti relativi alla persona, rispetto
dell'autonomia dei genitori. La legge n. 149 del 2001, già citata
precedentemente, ha modificato gli articoli 330 e 333 c.c., prevedendo che il
giudice possa disporre l'allontanamento dalla casa familiare del genitore o
del convivente, che maltratta o abusa del minore. Questo provvedimento può
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adottarsi in via immediata e provvisoria a norma dell'articolo 336.3 c.c., che
permette di risparmiare alla vittima di un abuso in famiglia, il danno ulteriore
di subire egli stesso l'allontanamento da casa.
Articolo 336
I provvedimenti indicati negli articoli precedenti sono adottati su ricordo
dell’altro genitore, dei parenti o del pubblico ministero e, quando si tratta
di revocare deliberazioni anteriori, anche del genitore interessato.
Il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sentito
il pubblico ministero; dispone, inoltre, l’ascolto del figlio minore che abbia
compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di
discernimento. Nei casi in cui il provvedimento è richiesto contro il
genitore, questi deve essere sentito.
In caso di urgente necessità il tribunale può adottare, anche d’ufficio,
provvedimenti temporanei nell’interesse del figlio.
L’articolo 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile al Tribunale
per i Minorenni regola riguardo la domanda di limitazione o decadenza della
potestà genitoriale. Quando però tali procedimenti si inseriscono nell'ambito
di un giudizio di separazione o divorzio, la competenza passa al tribunale
ordinario.
La Corte di Cassazione ha da ultimo precisato che la competenza a conoscere
della domanda di limitazione o decadenza dalla potestà dei genitori, rimane
radicata presso il tribunale per i minorenni, anche se, nel corso del giudizio,
sia stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di separazione
personale dei coniugi o di divorzio, in ossequio al principio della perpetuatio
jurisdictionis e a ragioni di economia processuale, che trovano fondamento
anche nelle disposizioni costituzionali (art. 111 Cost.) e sovranazionali (art. 8
CEDU e art.24 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea).
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Articolo 8 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo
Diritto al rispetto della vita privata e familiare
Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del
proprio domicilio e della propria corrispondenza.
Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale
diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una
misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza
nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla
difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o
della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
Articolo 24 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
Diritti del bambino
I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro
benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa
viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione
della loro età e della loro maturità.
In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche
o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere
considerato preminente. Ogni bambino ha diritto di intrattenere
regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo
qualora ciò sia contrario al suo interesse.
Il codice civile, all’articolo 403, regola anche l’intervento della pubblica
autorità a favore dei minori quand’essi siano moralmente o materialmente
abbandonati, quando siano allevati in locali insalubri o pericolosi, oppure
quando un genitore, o il loro tutore, è incapace di provvedere all’educazione
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del minore. La pubblica autorità alla quale si fa riferimento coincide con i
servizi sociali locali, vale a dire con quello stesso organo competente per
l'affidamento familiare, fermo restando che il servizio sociale dovrà poi
segnalare l'abbandono al tribunale per i minorenni quando riscontri
l'esistenza di una situazione di questo tipo, o altrimenti provvedere
all'affidamento familiare nei modi previsti dalla legge. Questa disposizione,
originariamente, valeva come principio generale, con il quale si riconosceva
l’intervento dell’autorità a favore dell’infanzia abbandonata. Oggi è la
Costituzione, tramite gli articoli 30.2 e 31, la fonte del principio da cui deriva
il generale dovere della pubblica autorità, e dello stesso legislatore ordinario,
di provvedere agli interessi dei minori abbandonati.
Nel sistema vigente, il Tribunale per i Minorenni ha una competenza di
carattere generale, che si estende ad ogni tipo di situazione tale da esigere il
collocamento coattivo del minore in luogo diverso da quello in cui si trova:
l'art. 403 c.c., prevedendo l'intervento di altra autorità, ha funzione residuale.
La norma assicura la protezione dei minori anche quando un tempestivo
provvedimento del giudice non sia possibile: trovando applicazione solo
nelle ipotesi di urgente necessità, e quindi procedendo al collocamento, si
conciliano le esigenze di non lasciare privo di protezione alcuno dei minori
che ne abbiano bisogno, con il principio secondo cui il compito di
provvedervi spetti, di regola, ad un organo giudiziario.
Il collocamento costituisce un provvedimento provvisorio, destinato ad aver
effetto soltanto finché la competente autorità emetta quello definitivo. Un
intervento diverso dall’autorità del giudice, è consentita solo quando vi sia il
pericolo che lo stesso non possa provvedere tempestivamente; per cui la
concorrente competenza di più organi è giustificata dall’urgenza. Si
garantisce così che almeno uno degli organi provveda in modo tempestivo. Il
collocamento implica l'affidamento del minore a chi, almeno
temporaneamente, possa proteggerlo.
La forza di riferimento normativo di fondo della giustizia minorile resta, il
d.P.R n 448/1988, che ha innovato la procedura penale minorile. Il sistema
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processuale minorile e le istituzioni sociali in tale contesto coinvolte
protendono verso il recupero dell’individuo di minore età, a vario titolo
entrato nel circuito giudiziario. L’intero apparato normativo, sostanziale e
processuale mira, in particolare, ad evitare che la risposta penale possa
lasciare segni evidenti nell’evoluzione del giovane. Il d.P.R n.448/1988 e le
norme di attuazione contenute nel decreto legislativo n.272/1989, approvano
un sistema di giustizia penale diversificato, dove il passaggio più
significativo è costituito dallo spostamento dell’attenzione al minore da
oggetto di protezione e tutela a soggetto titolare di diritti. Si configura un
sistema penale adeguato alla capacità del soggetto adolescente di valutare la
portata della trasgressione e di sopportare il peso della sanzione. Il testo
normativo sollecita provvedimenti che consentano la rapida chiusura del
processo, la riduzione di risposte limitative della libertà personale e la
riduzione del danno che l’impatto con la giustizia può produrre sul piano
educativo. Per la fuoriuscita dal circuito penale, la norma traccia percorsi
diversificati che valorizzano interventi di aiuto e sostegno attuabili attraverso
il livello del caso individuale, e il livello territoriale, con il coinvolgimento
delle risorse presenti nel contesto per una lettura/risposta a fenomeno della
devianza, nella realtà in cui si origina e sviluppa.
I principi cardine del d.p.R n.448/1988 sono:
- PRINCIPIO DI ADEGUATEZZA: il processo penale minorile deve
adeguarsi alla personalità del minore e alle sue esigenze educative, in
quanto deve essere teso alla reintegrazione del minore nella società. Il
processo penale, quindi, deve restituire il minore alla normalità della
vita sociale, evitando gli interventi che possano destrutturarne la
personalità.
- PRINCIPIO DI MINIMA OFFENSIVITÀ: con tale principio viene
evidenziata l’esigenza di tenere in considerazione come il contatto del
minore con il sistema penale possa creare rischi allo sviluppo
armonico della sua personalità e compromettere l’immagine, anche
sociale. Ciò comporta il vincolo, per giudici e operatori, di
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preoccuparsi nelle loro decisioni di non interrompere i processi
educativi in atto evitando il più possibile l’ingresso del minore nel
circuito penale consentendogli, per quanto possibile, di usufruire di
strumenti alternativi. Quest’ultimi possono essere: il perdono
giudiziale, non luogo a procedere per irrilevanza del fatto,
prescrizioni, permanenza in casa/, sospensione del processo e messa
alla prova, tutti previsti dal d.P.R n. 488/1988.
- PRINCIPIO DI DE-STIGMATIZZAZIONE: sempre al fine di evitare
al minore il pregiudizio nel confronti della sua immagine che può
derivargli dal contatto col processo penale, l’ordinamento tende a
garantire la tutela della riservatezza e dell’anonimato rispetto alla
società esterna.
- PRINCIPIO DI RESIDUALITÀ DELLA DETENZIONE: secondo tale
principio l’ordinamento prevede strumenti adeguati affinché la
carcerazione sia l’ultima e residuale opzione da applicarsi. Questa
trova applicazione in misure quali il collocamento in comunità,
misura cautelare di livello intermedio tra la permanenza in casa e la
custodia in carcere.
- PROCESSO DI AUTO SELETTIVITÀ DEL PROCESSO PENALE:
tale principio tende a garantire il primato delle esperienze educative
del minore sulla stessa prosecuzione del processo penale che viene
pertanto ad “autoeliminarsi”.
Determinante nell’ambito del sistema penale minorile è il concetto di
imputabilità: affinché si possa procedere penalmente nei confronti di un
minore è necessario che questi sia imputabile. L’imputabilità è
determinata dall’età del soggetto, la quale deve essere superiore ai
quattordici anni.
Ai soggetti non imputabili che siano resi responsabili di un reato,
possono essere applicate sia misure amministrative sia di sicurezza.
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Le misure di sicurezza si rivolgono a persone, ritenute pericolose
socialmente, che abbiano commesso un reato, al fine di impedirne la
recidiva. La pericolosità sociale si desume dal reato e dalla probabilità di
commissione di nuovi reati, in base alle circostanze individuate
dall’articolo 133 del codice penale, ossia la gravità del reato e la capacità
a delinquere.
Articolo 133
Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena
Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente , il
giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta:
1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e
da ogni altra modalità dell'azione;
2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal
reato;
3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa.
Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del
colpevole, desunta:
1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;
2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita
del reo, antecedenti al reato;
3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;
4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.
Le misure di sicurezza sono a tempo indeterminato: la legge fissa una data
minima al cui termine vi sarà il riesame della pericolosità; se dall’esame
viene meno la pericolosità, la misura cessa, altrimenti si procede a un nuovo
esame. Le misure di sicurezza possono essere di due tipi: non detentive, la
libertà vigilata, e detentive, il riformatorio giudiziario con la modalità del
collocamento in comunità. Affinché si possa affermare la pericolosità sociale
del minore bisogna fare riferimento all’articolo 37.2 del d.P.R n. 448/1988,
secondo cui è possibile applicare una misura di sicurezza in via provvisoria
se “ricorrono le condizioni previste dall’articolo 224 del codice penale e
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quando, per le specifiche modalità e circostanze del fatto e per la
personalità dell’imputato, sussiste il concreto pericolo che questi commetta
delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro
la sicurezza collettiva o l’ordine costituzionale ovvero gravi delitti di
criminalità organizzata”.
Nei confronti dei minorenni la libertà vigilata è eseguita nelle forme previste
dagli articoli 20 e 21 del d.P.R n.488/1988 e la misura del riformatorio
giudiziario è applicata soltanto per i delitti previsti dall’articolo 23 ed è
eseguita nelle forme dell’articolo 22 del d.P.R n.488/1988, ossia del
collocamento in comunità.
La competenza amministrativa concerne gli interventi e le misure
applicabili ai minori di anni 18 che diano manifeste prove di irregolarità
della condotta e del carattere. Si concretizza in misure amministrative, o
definite anche rieducative, che hanno lo scopo di prevenire la commissione
di reati, in situazioni di evidente rischio, e quindi di evitare che il minore
possa incorrere nella giustizia penale. “Possono essere definite
provvedimenti di natura non penale, consistenti in trattamenti risocializzati,
educativi o terapeutici, con funzione di prevenzione speciale ante
delictum1”. È possibile che siano comunque applicate nei confronti di minori
che abbiano commesso reati, se infraquattordicenni o incapaci di intendere e
di volere.
A seguito di segnalazione il Tribunale dei Minori esplica approfondite
indagini sulla personalità del minore e dispone, se necessario, con
decreto motivato una delle seguenti misure:
- Affidamento al servizio sociale. Precedentemente al d.P.R n.
616/1977 il servizio sociale titolare di questa misura era il servizio
sociale del Ministero della giustizia; dal 1977 in poi, a seguito del
decentramento delle competenze agli enti locali, tale misura compete
al servizio sociale del Comune;
1 RICCIORRI R., La giustizia penale minorile, Cedam, Milano, 2007.
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- Collocamento in strutture residenziali ossia Comunità educative
pubbliche o convenzionate con gli enti locali. Anche in questo caso
bisogna fare riferimento al d.P.R n. 616/1977 e al relativo passaggio
di competenza nella gestione della misura all’ente locale.
Precedentemente a tal data esisteva il collocamento in casa di
rieducazione o in un istituto medico-psico-pedagogico, strutture del
Ministero di grazia e giustizia, attualmente soppresse.
La competenza amministrativa nel nostro sistema si è connotata con un
approccio di tipo para-penale e con evidenti caratteristiche di controllo
sociale che hanno caricato le cosiddette misure rieducative di notevoli
ambiguità e contraddizioni.
La condotta irregolare del ragazzo che non sfocia in violazioni della legge
penale, più che di risposte di tipo para-penale, necessita di un sistema
articolato di interventi forse più di natura civile a sostegno e aiuto al minore
e alla famiglia.
Tali interventi non sono stati garantiti dal semplice trasferimento della
titolarità dei servizi della giustizia minorile ai servizi territoriali con il d.P.R
n. 616/1977.
La discrezionalità degli enti locali ha, infatti, comportato una risposta molto
differenziata sul territorio nazionale, nell’offerta di servizi e politiche a
favore della condizione giovanile. Il che, di fatto, ha prodotto, sulla base di
variabili di contesto socio-economico diverse, una realtà sperequata
nell’offerta di opportunità, che non ha garantito, in certe aree, alcun tipo di
servizio, o il subentro nell’intervento del servizio sociale della giustizia
minorile, su esplicita richiesta dell’Autorità Garante
Minorile.
Il codice di procedura penale minorile ha posto le basi per una
trasformazione culturale che trova fondamento nel riconoscere il soggetto
minorenne come titolare di diritti peculiari e individuo meritevole di
particolare tutela.
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Negli ultimi decenni, anche a livello internazionale e comunitario ci sono
stati degli sviluppi nell’ambito della giustizia e della tutela minorile.
In particolare, d.P.R 448/1988 anticipa di un anno la Convenzione ONU sui
Diritti del Fanciullo del 1989, ratificata dall’Italia con la legge 27 maggio
1991, n. 176. I diritti sanciti dalla convenzione rappresentano il simbolo di
come tutti i dispositivi giuridici debbano porsi al servizio dei diritti dei
minori, che si fondano sul principio paritario de “il miglior interesse”. Tali
diritti valgono anche qualora un minore sia autore di reato: l’articolo 40 della
convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia chiarisce questo aspetto e
stabilisce “il diritto del minore sospettato, accusato o riconosciuto
colpevole di aver commesso un reato, ad un trattamento tale da favorire il
suo senso della dignità e del valore personale, che rafforzi il suo rispetto
per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali e che tenga conto della sua
età nonché della necessità di facilitare il suo reinserimento nella società e
di fargli svolgere un ruolo costruttivo in seno a quest’ultima”.
Centrale è il tema del benessere del minore che chiama in causa un intero
sistema di diritti di cui esso è titolare, di cui quattro coincidono con quelli
che l’ordinamento penitenziario chiama “elementi del trattamento”,
intendendo il trattamento non come imposizione di comportamenti e valori in
vista di modificazioni soggettive, ma offerta di opportunità e disponibilità
che rendano possibile una scelta di vita aderente ai valori della legalità e
della civile convivenza.
Tali elementi, inoltre, se, da una parte, sono quelli che, più di altri, possono
essere considerati quali strumenti per la realizzazione della personalità e il
cui mancato esercizio può compromettere gravemente l’equilibrio psico-
fisico dei soggetti entrati in conflitto con la giustizia, da un’altra, sono quelli
che forse meglio rendono l’idea di una “responsabilità” condivisa, di una
collaborazione come condizione necessaria per un positivo reinserimento
sociale che si consegue, non solo attraverso l’adozione del Ministero della
giustizia per il tramite delle sue strutture e del suo personale, ma attraverso
20
l’assunzione di responsabilità, in questo processo, da parte di queste quelle
agenzie deputate alla presa in carico del minore. Tali diritti sono:
- DIRITTO ALLA PROTEZIONE: implica la tutela del benessere
generale e della salvaguardia della condizione psicofisica del
soggetto, al fine di promuovere la crescita e lo sviluppo armonioso
del minore. La limitazione della libertà di un minorenne è lecita
unicamente allo scopo di sorvegliare la sua educazione.
- DIRITTO ALLA SALUTE: la giustizia minorile e i servizi del sistema
di salute pubblica collaborano al fine di assicurare la tutela della
salute del minore, in virtù di quanto stabilito dai cambiamenti
normativi previsti dal d.P.C.M del 1 aprile 2008, che ha trasferito al
Servizio sanitario nazionale le funzioni sanitarie e le relative risorse
finanziarie, umane e strumentali afferenti la medicina penitenziaria. Il
minore è sempre sottoposto a verifica medica, fisica e psicologica.
- DIRITTO ALL’ISTRUZIONE E ALLA FORMAZIONE: sono garantiti
l’istruzione e il proseguimento degli studi. La scuola si impegna a:
organizzare percorsi di istruzione e formazione diretti a favorire
l’acquisizione e il recupero delle abilità e competenze individuali. In
accordo con diverse aziende, il sistema di giustizia minorile opera per
la formazione e l’inserimento lavorativo, come opportunità di
crescita, autorealizzazione e opportunità per la persona di operare
attivamente nella società.
- DIRITTO ALLO SVAGO: come la salute, l’alloggio, il lavoro, il
riposo, l’educazione, lo svago è indispensabile alla dignità e allo
sviluppo della persona, ancorché del soggetto minorenne. Le pratiche
sportive, culturali, artistiche, formative, di rilassamento o di
divertimento costituiscono importanti fattori non solo per un
armonico sviluppo della personalità, ma anche ai fini di una positiva
integrazione sociale. Rappresentando il reinserimento nel contesto
sociale, il momento topico dell’intervento della giustizia minorile, è
21
evidente come l’efficacia dell’intervento non possa non passare per
una proficua collaborazione da parte del sistema della giustizia
minorile con quelle realtà che, a livello locale, presiedono servizi
deputato allo svago.
Gioca anche a favore della necessità della tutela della condizione del minore
che entra nel circuito penale la direttiva 2016/800/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2016, sulle garanzie procedurali per i
minori indagati o imputati nei procedimenti penali, che dovrà essere recepita
dagli stati membri entro tre anni. Si tratta del primo strumento normativo
dell’Unione volto a disciplinare i procedimenti penali che vedono coinvolti
minori tenendo conto delle specificità di quest’ultimi.
Circa un milione di minori ogni anno in Europa entra formalmente in
contatto con le forze dell’ordine e con la giustizia penale. Sono molti: il 12%
del totale della popolazione coinvolta in procedimenti penali. E come tutti i
minori, ma ancor di più, proprio perché in conflitto con la legge, sono
particolarmente fragili e vulnerabili, specie nel contesto di una vicenda, il
processo, che hanno difficoltà a comprendere e decifrare. Per questo motivo,
come l’esperienza italiana ha dimostrato, un sistema giudiziario a misura di
minore è, nella maggior parte dei casi, la condizione indispensabile per il
reinserimento sociale dei ragazzi autori di reati e, quindi, ora la prevenzione
delle recidive. Una necessità, questa, alla quale l’Unione Europea ha risposto
con la nuova direttiva sulle garanzie procedurali per i minori penalmente
indagati o imputati, ponendo fine così a una diffusa disarmonia tra le
normative nazionali in questo settore. È la nascita del giusto processo penale
minorile europeo: per la prima volta viene introdotta una disciplina specifica
dei procedimenti penali nei confronti dei minori. Un grande risultato, nel
quale si riflette in buona parte il modello italiano.
La direttiva è un catalogo di diritti e garanzie procedurali elevate che colma
le distanze tra gli ordinamenti nazionali delineando un modello condiviso in
cui poter bilanciare l’esigenza di accertare i fatti di reato, con le relative
responsabilità, e quella di tenere nella dovuta considerazione gli specifici
22
bisogni dei minori.
Il superiore interesse del minore è posto al centro del sistema. Sono fissati
importanti punti fermi tra i quali, innanzitutto, la necessaria assistenza di un
difensore, finora non sempre riconosciuta dalle legislazioni interne, il
principio della detenzione separata rispetto agli adulti e, ancora, la
formazione specialistica sia dei magistrati che degli altri operatori coinvolti
nel procedimento, fin qui prevista solo in sei stati membri.
La direttiva afferma anche il diritto del minore a una valutazione individuale,
il cui esito va documentato e messo a disposizione dell’autorità procedente
affinché abbia informazioni sulla personalità del minore, sulla sua
condizione familiare e socio-economica così come su tutti gli altri elementi
utili per capire quale grado di consapevolezza del reato abbia avuto, quale
misura cautelare sia più opportuna, quali siano le prospettive di rieducazione.
A tutti i minori ai quali venga applicata una qualunque restrizione della
libertà personale dovranno essere inoltre assicurati l’assistenza medica
necessaria e il diritto di incontrare prima possibile il titolare della
responsabilità genitoriale.
I governi nazionali dovranno garantire al minore anche la possibilità di
essere informato sui propri diritti e di partecipare attivamente al
procedimento. Altro elemento essenziale è l’obbligo, a carico degli stati
membri, di assicurare ai minori detenuti l’educazione, la formazione e il
regolare esercizio delle relazioni familiari, il tutto nel pieno rispetto della
libertà religiosa e di pensiero. La direttiva sul giusto processo minorile
rappresenta anche un importante passo verso l’ampliamento dello spazio
europeo di giustizia, che favorirà il mutuo riconoscimento delle decisioni
giurisdizionali tra i Paesi membri dell’Unione. Gli stati membri avranno
adesso 36 mesi di tempo, a decorrere dalla pubblicazione della direttiva in
Gazzetta ufficiale, per uniformare la normativa interna.
23
LA REALTÀ ALL’INTERNO DELLE COMUNITÀ PER
MINORI
A cura di Giulia Lotti
Che cos’è la comunità per minori?
La comunità educativa per minori si propone come luogo fisico e relazionale
caratterizzato da un clima familiare, nel quale il minore possa rielaborare i
propri sentimenti e le proprie esperienze, offrendo un affiancamento affettivo
ed educativo che consenta al minore stesso di sviluppare una nuova identità.
La comunità per minori è un servizio educativo - assistenziale che ha il
compito di accogliere il minore, qualora il nucleo famigliare sia
impossibilitato o incapace a garantire il benessere e i bisogni, anche primari,
del ragazzo. Essa si rivolge quindi a minori in situazioni di disagio sociale,
familiare e personale, in condizioni di precarietà e fragilità affettiva e
relazionale, tali da compromettere un'evoluzione personale equilibrata ed
armonica. La comunità, oltre ad essere un luogo “protetto”, in quanto
assicura al minore protezione e tutela, è anche un luogo “esposto” a rischio
poiché è inserito in un contesto rappresentato dalle aspettative dei soggetti in
gioco. Primi fra tutti i bambini, che molto spesso formulano delle idee non
positive sulla comunità in cui sono inseriti, individuandola come luogo di
punizione.
Poi ci sono i genitori: alcuni si mostrano favorevoli alle comunità e le
vedono come luoghi di aiuto non solo per i figli, ma anche per loro stessi;
altri invece le considerano come luoghi negativi e inappropriati specie
quando ad essere intaccata è la loro capacità genitoriale.
Non ultimi ci sono gli operatori: educatori, psicologi, assistenti sociali,
giudici, neopsichiatri che devono affrontare quotidianamente delle serie di
problematiche relazionali, burocratiche ed educative.
24
Nelle Comunità si assicura l’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità
giudiziaria nei confronti di minorenni autori di reato, ai sensi degli artt. 18, 18-
bis, 22, 36 e 37 del d.P.R 448/88. I principi fondamentali su cui si basa il lavoro
delle Comunità ministeriali sono la promozione delle risorse personali,
familiari e sociali del minore, la necessità di limitare il più possibile la
permanenza del minore all’interno della struttura e l’importanza di favorire
attività formative, ricreative, ecc., in ambienti esterni alla struttura. Alla luce
di tali principi, gli obiettivi fondamentali del collocamento presso le Comunità
sono:
• stabilire un programma educativo destinato al minore che tenga presente
tanto delle sue esigenze quanto delle sue risorse personali, familiari e sociali;
• favorire la responsabilizzazione e la consapevolezza del minore rispetto alla
misura restrittiva della libertà personale;
• individuare e valorizzare le risorse del minore;
• offrire al giudice informazioni che contribuiscano ad una scelta conforme il
più possibile alle esigenze educative del ragazzo;
• preparare le dimissioni del minore dalla Comunità e curarne l’eventuale invio
ad altre strutture;
• restituire il minore al suo contesto sociale.
Secondo quando affermato dal d.lgs. 272, 1989, le Comunità devono rispettare
i seguenti criteri fondamentali relativi alla gestione:
• organizzazione di tipo familiare, che preveda anche la presenza di minorenni
non sottoposti a procedimento penale (con capienza di massimo dieci unità,
limite che facilita e garantisce una conduzione e un clima educativamente
significativi);
25
• presenza di operatori professionali specializzati in diverse discipline
(assistenti sociali, mediatori culturali, ecc.), che accompagnino e sostengano
il minore durante il proprio percorso;
• capacità di collaborazione di tutte le istituzioni interessate e utilizzo delle
risorse del territorio;
• Attuazione di progetti educativi individualizzati (PEI).
I criteri per l’individuazione della struttura sono:
- Le indicazioni dell’Autorità Giudiziaria;
- La residenza del nucleo familiare (territorialità);
- La continuità del trattamento;
- Le caratteristiche del minore e della struttura;
- La disponibilità dei posti nelle strutture
L’ingresso del minore in comunità è obbligatoriamente accompagnato da una
documentazione che attesta la sua precedente esperienza al fine di garantire
una certa continuità del percorso all’interno del circuito penale.
L’inserimento del ragazzo è seguito dalla definizione di un “Progetto
Educativo Individualizzato” (P.E.I.): si tratta di un piano educativo che viene
stilato prestando attenzione alla personalità del minore e alla valorizzazione
dei processi di responsabilizzazione e risocializzazione del ragazzo, nonché
nel rispetto della garanzia dei suoi diritti ed esigenze educative. Il progetto,
elaborato dopo un’attenta osservazione del minore nella sua globalità, dovrà
indicare:
• gli obiettivi che il minore deve raggiungere
• le attività che dovrà svolgere
• le indicazioni sulle modalità di svolgimento delle attività
26
• le modalità di verifica, utili all’Autorità giudiziaria.
Attualmente le comunità del privato sociale accolgono la maggior parte dei
giovani sottoposti a misure penali minorili, con particolare riferimento alle
misure cautelari e alle messe alla prova, connotandosi sempre più come un
servizio funzionale ai bisogni dei ragazzi e della magistratura minorile. Le
comunità del privato sociale riflettono inevitabilmente una forte articolazione
legata alla specificità dei contesti territoriali e alla diversità valoriale e/o
organizzativa delle stesse che genera una forte differenziazione nel territorio.
Allo scopo di offrire una corretta visuale del lavoro occorre preliminarmente
porre in evidenza una delle criticità insite nel settore dell’accoglienza dei
minorenni in comunità che sono emerse nel corso dell’osservazione del
fenomeno.
Con riferimento alla diversa denominazione che le strutture di accoglienza
per i minorenni ricevono sul territorio nazionale, si rileva che l’articolo 2
della legge n. 184 del 1983, individua un’unica tipologia di presidio idonea
ad accogliere i minorenni, qualificata come “comunità di tipo familiare”,
caratterizzata da un’organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a
quelli di una famiglia.
Articolo 2 legge n. 184/1983
1. Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo,
nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti ai sensi dell'articolo 1,
è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una
persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l'educazione,
l'istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno.
2. Ove non sia possibile l'affidamento nei termini di cui al comma 1, è
consentito l'inserimento del minore in una comunità di tipo familiare o, in
mancanza, in un istituto di assistenza pubblico o privato, che abbia sede
27
preferibilmente nel luogo più vicino a quello in cui stabilmente risiede il
nucleo familiare di provenienza. Per i minori di età inferiore a sei anni
l'inserimento può avvenire solo presso una comunità di tipo familiare.
3. In caso di necessità e urgenza l'affidamento può essere disposto anche
senza porre in essere gli interventi di cui all'articolo 1, commi 2 e 3.
4. Il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre 2006
mediante affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile,
mediante inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da
organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una
famiglia.
5. Le regioni, nell'àmbito delle proprie competenze e sulla base di criteri
stabiliti dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni
e le province autonome di Trento e di Bolzano, definiscono gli standard
minimi dei servizi e dell'assistenza che devono essere forniti dalle comunità
di tipo familiare e dagli istituti e verificano periodicamente il rispetto dei
medesimi
Tuttavia, a fronte di questa unica e generica classificazione, si rinvengono, in
atti normativi, sia nazionali che regionali, altre tipologie di strutture, il più
delle volte prive di una correlata univoca definizione. Ciò si verifica, ad
esempio, per i “gruppi appartamento” richiamati, insieme alle “comunità di
tipo familiare”, nel decreto del Ministero per la solidarietà sociale n. 308, del
21 maggio 2001, ove trovano menzione anche le “strutture a carattere
comunitario”.
Un importante tentativo di catalogazione delle strutture residenziali è
rappresentato dal “Nomenclatore interregionale degli interventi e servizi
sociali”, realizzato nel 2009 e giunto, nel 2013 alla sua seconda versione.
Tuttavia, sebbene tale strumento classifichi le diverse tipologie di presidi
28
“familiari”, non si è ancora giunti alla unificazione delle definizioni adottate
nei diversi ambiti territoriali e, in particolare, anche con riferimento alla più
diffusa dicitura di “casa famiglia”, si registra tuttora la mancanza di una
definizione univoca e della sua menzione nel citato nomenclatore.
Prescindendo delle differenti nomenclature è comunque utile, a fini pratici,
ricondurre le tipologie di strutture di accoglienza esistenti a tre macro-
tipologie di comunità di accoglienza residenziale, in ragione delle
caratteristiche strutturali che le connotano. Una simile attività è stata
intentata dal Gruppo di lavoro sulle comunità di tipo familiare, istituito
nell’ambito della Consulta delle associazioni e delle organizzazioni,
presieduta dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, nel cui
contesto è stata proposta la seguente classificazione:
– COMUNITÀ FAMILIARI/CASA FAMIGLIA: caratterizzate dalla presenza
stabile di adulti residenti (famiglia, coppie, educatori residenti) – comunità
educative/socio-educative, caratterizzate da operatori/educatori che non
abitano in comunità ma che sono presenti con modalità “a rotazione”
–COMUNITÀ SOCIO-SANITARIE: siano esse comunità familiari/case
famiglia o comunità educative, caratterizzate dalla complementarietà delle
funzioni socio-educative e terapeutiche assunte da operatori professionali e a
titolarità compartecipata tra la competenza sociale e sanitaria.
I soggetti destinatari del servizio educativo
Quando si parla delle comunità per minori, i primi soggetti destinatari del
lavoro educativo sono i minori stessi. In realtà, il servizio di comunità non si
rivolge unicamente ai minori, ma si interessa anche alle loro famiglie e ai
genitori.
29
È da questa premessa che possiamo dividere i destinatari di questi servizi
educativi in soggetti diretti e indiretti.
Chiameremo diretti i minori che sono interamente coinvolti nelle attività
quotidiane delle comunità, che passano la maggior parte del tempo
all’interno di questi servizi o che vi vivono stabilmente.
I soggetti indiretti, invece, possono essere individuati nei genitori e nelle
famiglie di questi ragazzi, in quanto, gli operatori ed educatori non hanno
rapporti quotidiani con loro, ma periodicamente hanno degli incontri
finalizzati all’obbiettivo educativo, per le comunità in cui i minori sono
inseriti temporaneamente, di ristabilire un legame solito e “sano” tra genitori
e figli che permetta una continuità della crescita armonica del ragazzo. In
quest’ottica, le strutture di servizio possono assumere, nei riguardi delle
famiglie, diversi tipi di atteggiamento:
a) Il rapporto con le famiglie può essere inesistente: gli operatori del servizio
guardano, in questo caso, agli utenti, i minori, come soggetti avulsi da un
contesto relazionale familiare; si punta unicamente all’aspetto tecnico, cioè a
garantire determinate prestazioni, prescindendo dai legami affettivi dei
bambini. Questo può determinare o una rigidità del servizio, contrassegnato
in certi casi da una progettualità che non tiene minimamente conto della vita
reale degli utenti, oppure, al contrario, uno svuotamento dei contenuti degli
interventi attuati dal servizio, conseguenza della deresponsabilizzazione di
quest’ultimo dall’assoluta mancanza di un confronto con la famiglia.
b) Il rapporto con le famiglie può essere poco influente: in questo caso alla
famiglia viene riconosciuto nei confronti del bambino un ruolo significativo,
ma operante in un ambito diverso e parallelo rispetto a quello sociale,
cosicché il servizio concepisce il proprio intervento come aggiuntivo rispetto
a quello della famiglia; un rapporto in cui ognuno fa la sua parte.
In questa prospettiva alla famiglia viene restituita una funzione e può esservi
30
una relazione con il servizio, ma si esclude l’idea di un dialogo costruttivo
tra i due contesti.
c) Un rapporto di interazione tra famiglia e servizio è quello che meglio
può garantire un percorso di crescita e di autonomia del bambino e della
bambina. Secondo quest’ottica ogni intervento non si esaurisce in se stesso,
ma è sempre parte di un più ampio sistema di relazioni. Così come nella
“vita sociale” i bambini portano se stessi con tutti i legami per loro più
significativi, allo stesso modo, nel ritornare in famiglia essi determineranno
in quell’ambiente delle trasformazioni, dovute al fatto che la loro crescente
autonomia, per le esperienze vissute all’esterno, solleciterà i familiari a
modificare i propri comportamenti.
Il servizio sarà allora spinto a progettare interventi non semplicemente sulla
base di ciò che si ritiene utile per l’utente, ma anche sulla base dei messaggi
che arrivano dalla famiglia. In questo senso la consapevolezza che un
servizio offerto ad un individuo abbia una ripercussione non indifferente
sulla sua storia familiare dovrebbe essere per gli operatori un incentivo ad
operare con maggiore senso di responsabilità e, contemporaneamente, ad
avere uno sguardo più ampio, un atteggiamento meno burocratico e più
aperto alle diverse esigenze legate alla sensibilità infantile
Creare dei progetti su una base di maggiore flessibilità senza compromettere
la professionalità non è sempre facile: è più semplice puntare sulle “cose da
fare” e sulle tecniche da adoperare, piuttosto che curare le relazione umane,
che impongono in molti casi di rimettere in gioco i propri schemi operativi.
Chi lavora quotidianamente con bambini sa quanto l’attenzione e la
disponibilità data alle famiglie si rifletta positivamente non solo sulla “salute”
del bambino, ma anche sull’andamento delle attività e sul clima complessivo
31
La giustizia minorile: le professionalità al lavoro.
Negli anni, il sistema di Giustizia minorile è andato consolidando un
approccio che può essere descritto come multidisciplinare e
multidimensionale: una modalità di lavoro che prevede un’interazione
dinamica tra tutti gli attori coinvolti e pone al centro il progetto rieducativo
del ragazzo nel cui ambito, l’organizzazione e i diversi compiti di tutti gli
attori, compresa la polizia penitenziaria, devono essere funzionali alla
realizzazione di percorsi pedagogici nei quali sono incluse le dimensioni
individuali, socio familiari, psicologiche, riparative e di sicurezza per
realizzare le finalità del trattamento. La circolare Dipartimentale “Modello
d’intervento e revisione dell’organizzazione e dell’operatività del Sistema
dei Servizi Minorili della Giustizia” (n. 1 del 18 marzo 2013) ha colto
pienamente tale vocazione ad un sapere cooperativo della Giustizia minorile
e intende rafforzare questo approccio valorizzando un modello d’intervento
dinamico integrato, focalizzato sulla costruzione di reti e sulla sicurezza
dinamica includente tutte le informazioni e le professionalità a disposizione
del sistema nell’ambito del programma di recupero del minore.
Polizia penitenziaria, educatori, assistenti sociali hanno imparato a
condividere gli obiettivi del progetto socio-educativo, gli stili di lavoro e la
responsabilità educativa. Inoltre, viene valorizzata e implementata l’alta
capacità di interazione/integrazione tra servizi e operatori, con il supporto di
programmi di ricerca e percorsi formativi.
Profili Professionali
- Per quanto riguarda i profili professionali ovunque ed in qualsiasi
struttura è prevista la figura del coordinatore (anche nelle case
famiglia); probabilmente un elemento scontato, ma che comunque
segnala come più che in altre unità di offerta una garanzia di qualità,
32
non solo per chi ci lavora, ma anche per chi viene accolto e per il
contesto abitativo e territoriale in cui si colloca.
- Per quanto riguarda il personale impiegato ovunque e in qualsiasi
struttura è prevista la figura dell’educatore con titolo (generalmente
laurea triennale in Scienze dell’educazione ed equipollenti) ad
eccezione della Lombardia dove è prevista la presenza di “operatori
socio-educativi” che posseggano alternativamente diploma di laurea o
diploma superiore con esperienza educativa quinquennale.
- Per quanto riguarda le Case Famiglia si segnala che accanto alla coppia
residente (solo in alcune regioni sono previsti “2 adulti”) più che
l’educatore sono previste figure di supporto o collaboratori generici.
- Sono inoltre previsti in maniera diversamente diffusa altri profili
professionali e volontari.
In particolare, il Servizio Sociale nell’area minori e famiglie si avvale
di tre principali competenze professionali:
• assistenti sociali;
• psicologi;
• educatori professionali.
Gli operatori operano attraverso un lavoro d’équipe interdisciplinare
in cui per ogni situazione familiare il progetto di intervento viene
definito, monitorato e valutato dall’intera équipe con l’apporto delle
varie professionalità. Il servizio sociale che in alcune realtà fa capo
all’Assessorato ai Servizi Sociali del Comune e in altre all’Azienda
Sul, svolge, quindi, due funzioni principali strettamente integrate fra
loro:
• funzioni di assistenza, di sostegno e di aiuto nella genitorialità alle
famiglie ed ai minori;
• funzioni relative alla vigilanza, protezione e tutela dei minori di
fronte a difficoltà e carenze nella gestione del ruolo genitoriale, che
33
devono essere attivate in presenza di fattori di rischio evolutivo del
minore anche in assenza di una richiesta diretta della famiglia.
Queste due principali competenze e funzioni del servizio sociale, che
tecnicamente vengono definite «di aiuto e di controllo», si svolgono
in maniera integrata in quanto l’indirizzo al quale devono attenersi è
quello di tendere ad aiutare la famiglia ad attuare processi di
cambiamento, operare per favorire la responsabilizzazione dei
genitori, rimuovere, per quanto possibile, le cause del disagio e
sostenere i genitori a svolgere adeguatamente i propri compiti al fine
di garantire al minore il diritto di crescere serenamente nella propria
famiglia. In base a tali funzioni vengono poi definite diverse aree di
intervento specifiche:
• interventi di assistenza alle famiglie e ai minori e di sostegno alla
genitorialità. In essi sono compresi tutti quegli interventi richiesti
direttamente dalle famiglie, di carattere assistenziale, educativo, di
aiuto e di sostegno, che hanno l’obiettivo di favorire il diritto del
minore di vivere e crescere nella propria famiglia d’origine;
• interventi di vigilanza e protezione dei minori. Il servizio sociale
può venire a conoscenza, attraverso segnalazioni di altri soggetti
(scuole, servizi sanitari, volontariato, vigili urbani, vicinato, etc.), che
un minore potrebbe trovarsi in una situazione di sofferenza o di
rischio evolutivo. Altre volte è la Magistratura minorile che invia al
servizio sociale la richiesta di verificare le condizioni di vita e
familiari di un minore che presenta segnali di disagio. Di fronte a tali
segnalazioni da qualsiasi parte arrivino, gli operatori psico-sociali si
attivano per una verifica della situazione segnalata e per formulare un
progetto di intervento a tutela del minore;
• inserimento in comunità educative residenziali.
L’inserimento in comunità viene attuato dal servizio sociale, in
presenza di un provvedimento del Tribunale dei Minori di
34
collocamento extra-familiare, quando la situazione familiare risulta
altamente pregiudizievole per la crescita del minore e non sia
possibile un affido familiare. Il collocamento in comunità
residenziale a volte è temporaneo in attesa di definire un progetto che
possa prevedere o il rientro nella famiglia d’origine, o il
collocamento in affido familiare
• interventi relativi ai minori denunciati ai sensi del D.P.R. 448/88.
Questa attività riguarda i minori segnalati dalla magistratura minorile
a seguito di reati commessi di varia natura. L’intervento del servizio
sociale riguarda l’indagine psico-sociale richieste dalla Procura
minorile per costruire percorsi educativi alternativi a quelli penali
Gli operatori hanno il compito di svolgere una indagine psico-sociale
sui genitori, sul minore e sulla relazione genitori-figlio. Al termine
dell’indagine gli operatori inviano una relazione contente una
valutazione psico-sociale della situazione familiare al giudice che
l’ha richiesta per gli interventi di competenza.
Numero operatori/ rapporto minori
Per quanto riguarda il rapporto operatori/ minori il dato previsto, ove
individuato, è variegato ma tendenzialmente adeguato per quanto
riguarda la fascia diurna (in media 1:4 – 1:5). In alcuni casi (Toscana)
non si prevede rapporto specifico, ma si individua a priori monte ore
per ciascun profilo, in un meccanismo complesso ed articolato che
prevede regimi differenti per comunità avviate in tempi diversi.
Una specifica a parte meritano i Gruppi Appartamento dove
tendenzialmente non è prevista la permanenza notturna dell’educatore
(salvo che ci siano minori inseriti nella struttura) e dove, comunque,
gli incarichi sono tendenzialmente part-time a sottolineare
l’intenzionalità educativa “verso l’autonomia”.
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La supervisione si realizza in modi diversi, in base all’impostazione
teorica e metodologica che la comunità si è data. Per supervisione si
intende un momento di discussione e confronto, tra tutte le differenti
figure professionali della struttura, condotto da una figura esterna alla
comunità, con chiara esperienza nel campo del lavoro in comunità e
con i minori (di solito psicologo o psichiatra).
36
Esempi di comunità minorili in Italia
IT.C.A. BORGO AMIGÒ
Comunità di Padre Gaetano – Roma
Struttura
Situata nel quartiere Casalotti nella periferia di Roma, la comunità “Borgo
Amigò” nasce nel 1995 su iniziativa di Padre Gaetano Greco e ospita minori
e giovani adulti sottoposti a misure alternative alla detenzione, minori
stranieri non accompagnati e minori sottoposti a provvedimenti civili. La
comunità è divisa in due strutture, una destinata al pernottamento dei
minorenni e una destinata al pernottamento dei maggiorenni, ma tutte le
attività vengono svolte in comune senza alcuna divisione per età.
Ragazzi
La comunità ospita in media 15-20 ragazzi fra i 14 e i 25 anni italiani e
stranieri in diverse situazioni: in misura alternativa alla detenzione, in messa
alla prova o per un provvedimento amministrativo segnalato dai Servizi
Sociali nel Territorio.
L’ingresso degli ospiti avviene solitamente in modo graduale attraverso
diversi incontri con gli operatori e visite alla comunità in giornata in modo
che i ragazzi abbiano una visione della realtà in cui saranno inseriti e che
comprendano il percorso che intraprenderanno. In casi urgenti questo
percorso conoscitivo non può avvenire prima dell’ingresso del ragazzo nella
comunità.
I ragazzi di maggiore età che vengono dall’area civile e gli stranieri non
accompagnati che hanno già compiuto una buona parte del loro percorso,
vengono inseriti in un appartamento di autonomia. I ragazzi, che lavorano o
37
studiano, coprono le spese del vitto, dell’alloggio e delle utenze e riescono a
mettere da parte qualcosa per potersi trovare una sistemazione autonoma.
Scuola, lavoro e attività
All’interno della struttura non vengono realizzate attività specifiche poiché si
cerca di incentivare l’integrazione sociale dei ragazzi al di fuori della
comunità. Proprio allo scopo di evitare la loro ghettizzazione, si cerca di
integrare i ragazzi in strutture (scolastiche, sportive ecc.) che non siano
dedicate a coloro che provengono dall’area penale. A seconda di ciascun
progetto individuale, i ragazzi frequentano la scuola, istituti superiori e corsi
di formazione professionale. I ragazzi hanno anche accesso a tirocini
lavorativi che vengono svolti esternamente alla struttura ma a cui la
comunità partecipa come ente promotore. Vengono poi attivate numerose
attività lavorative, ricreative e sportive estive e invernali che portano a
contatto i ragazzi della comunità con altri ragazzi e volontari provenienti
dall’esterno. Altre attività sono rivolte non soltanto ai ragazzi ospiti della
struttura, ma anche a bambini e ragazzi che, pur vivendo all’esterno della
struttura, si trovano in diverse situazioni di disagio economico o sociale.
Durante queste attività, l’equipe è affiancata dai ragazzi della struttura e da
altri operatori provenienti dall’esterno per far fronte alle problematiche di
ogni ragazzo e alle dinamiche di gruppo.
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LA COMUNITA’ EDUCATIVA PER MINORI ADOLESCENTI
“CONTINA CASCINA” - MLANO
All’interno della Comunità Cascina Contina, e quindi nell’ambito delle Unità
d’Offerta della Contina Cooperativa Sociale, dall’ottobre 2008 è sorta la
nuova “Casa Minori”, un nucleo abitativo dedicato unicamente agli ospiti
minorenni della Comunità. La Casa Minori è nata, dopo lungo tempo,
dall’esigenza di creare degli spazi specifici per l’accoglienza dei minori
adolescenti ed è collocata lungo l’ala ovest della Casa Padronale della
Cascina Contina: dispone di stanze, servizi, cucina, sala da pranzo e sala
giochi autonome, ma comunicanti con le altre aree della Cascina. Ciò che la
contraddistingue rispetto al passato è la presenza, oltre che di un nucleo
abitativo specifico, di un’equipe di operatori che si occupa di accompagnare
in modo più ravvicinato i ragazzi e sostenerli lungo il loro percorso in
Comunità. Questa maggiore autonomia rispetto al passato non impedisce
comunque lo scambio continuo con la realtà più complessa (quale è descritta
dettagliatamente sulla Carta dei Servizi della Contina Cooperativa sociale) in
cui la casa è collocata e con la quale il confronto e la condivisione vengono
quotidianamente stimolati.
Chi accogliamo
La Comunità educativa per minori accoglie fino a 10 giovani adolescenti di
età compresa tra i 15 e i 21 anni, inviati dai Servizi Sociali con
provvedimenti amministrativi o penali. Sulla base delle risorse presenti in
ciascuno, delle caratteristiche legate al contesto di provenienza e delle
richieste dei Servizi Sociali invianti, viene costruito un progetto educativo
individualizzato per ogni ragazzo.
Per poter garantire a ciascuno di svolgere al meglio il proprio percorso
attraverso opportunità formative e terapeutiche, la comunità si avvale di vari
strumenti, che si sono consolidati nel corso degli anni.
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Scuola
All’interno della Casa Minori della Comunità Cascina Contina è presente
un’attività scolastica pomeridiana durante il periodo tradizionale dell’anno
scolastico, organizzata dagli educatori e dai volontari della Comunità per
supportare i ragazzi che stanno svolgendo il proprio iter formativo nelle medie
inferiori o superiori, per l’alfabetizzazione dei giovani extracomunitari e per il
conseguimento della terza media da parte di chi ha superato l’età dell’obbligo
scolastico. La Casa dispone di supporti informatici, che vengono utilizzati
anche durante il tempo libero dagli ospiti.
Lavoro
Per venire incontro alle ovvie differenti inclinazioni degli ospiti, le attività
lavorative offerte sono molteplici e comunque tutte orientate al recupero di
mestieri manuali che, pur se ormai negletti in un panorama di lavoro sempre
più immateriale, rappresentano concrete e sempre più ricercate occasioni di
occupazione di buon livello qualitativo. In ogni laboratorio è prevista la
presenza di un “maestro d’arte”, vale a dire di un operatore competente nel
settore specifico. Quando il giovane ha mostrato affidabilità e senso di
responsabilità all’interno del laboratorio e ha intrapreso una relazione di
fiducia con gli educatori, l’attività lavorativa può incominciare ad essere
svolta all’esterno presso artigiani o aziende del territorio. La nostra realtà
dispone delle seguenti attività:
Falegnameria e restauro mobili.
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Sono presenti 2 laboratori, uno nella sede di Tainate ed uno presso la Cascina
Contina, attrezzati con macchine per la lavorazione del legno ed utensili per
svolgere le attività di falegnameria e di restauro.
Nella sede di Tainate è presente anche un’area espositiva dei mobili restaurati
di circa 400 m2.
2) Officina meccanica e restauro di moto d’epoca
Presso la Comunità Cascina Contina di Rosate è presente un laboratorio per la
riparazione di moto, motorini e automobili; in esso vengono inoltre
collezionate “restaurate” moto d’epoca con partecipazione a motoraduni e
mercati specializzati. Attraverso questa attività, che di solito appassiona molto
i minori, si insegnano agli ospiti lavori di meccanico, motorista, elettrauto,
gommista, lattoneria, verniciatura, lucidatura, sabbiatura.
3) Attività agricola
Pur se più sviluppata presso la Cascina Contina, si realizza in entrambe le sedi
attraverso la cura dell'orto con relative serre invernali, del frutteto e
nell'allevamento di animali domestici, quali conigli, galline e polli
ornamentali, oche, anatre, ovini, bovini e maiali.
Attività di gruppo
Cultura
Vi sono serate dedicate a temi culturali generali: dalla visione e discussione
di un film, all’incontro con alcune personalità che provengono da altre
esperienze e talvolta da altri paesi e che, in visita alla comunità, raccontano e
si confrontano sulla loro esperienza. La Cooperativa, poi, in quanto
impegnata anche sul versante della prevenzione, promuove incontri
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informativi e formativi, tavole rotonde e attività teatrali, aperti anche al
territorio, su tematiche pertinenti la tossicodipendenza, il disagio giovanile e
l’infezione da HIV.
2) Tempo libero
Dopo l'attività lavorativa, prima e dopo la cena, e dal sabato pomeriggio alla
domenica sera, il tempo viene occupato in attività ricreative e sportive,
animate ed organizzate dagli ospiti insieme ad operatori e/o volontari.Il
sabato e la domenica si organizzano anche uscite di gruppo con la presenza
di operatori (necessari, in particolare, per affiancare coloro che si trovano in
comunità in regime di misura cautelare).
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DALL’ACCOGLIENZA ALL’AUTONOMIA
A cura di Jada Fantasia
"In contrasto con le transizioni estese fatte dalla maggior parte dei giovani,
il percorso verso l'età adulta per molti ragazzi in uscita da percorsi di
sostegno sociale è più breve, più "ripido" e spesso più rischioso. E malgrado
tutto, contro tutti i pronostici, alcuni di questi giovani ce la fanno" (Mike
Stein, 2005).
Crescere
Diventare grandi, diventare adulti non è facile per alcun giovane. Si tratta
certamente di un compito più arduo per quegli adolescenti che hanno alle
spalle una famiglia carente, vulnerabile, maltrattante e che, per questo
motivo, hanno trascorso una parte della propria adolescenza e magari anche
dell'infanzia, all'interno di un percorso di tutela, seguito da un servizio
sociale, e di un collocamento in una struttura di accoglienza residenziale per
minori, accompagnato da figure educative. Tante e troppo taciute sono le
storie personali tragiche, complicate, difficili dei ragazzi affidati ai servizi,
che crescono in comunità o in affido, creano i loro legami affettivi – con
adulti e con coetanei – e che vivono l’attesa della maggiore età, non come
l’inizio di qualcosa di nuovo e bello, come accade per la maggior parte dei
loro coetanei che vivono in famiglia, ma come una fine, a fine del periodo di
accoglienza.
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"In contrasto con le transizioni estese fatte dalla maggior parte dei giovani,
il percorso verso l'età adulta per molti ragazzi in uscita da percorsi di
sostegno sociale è più breve, più "ripido" e spesso più rischioso. E malgrado
tutto, contro tutti i pronostici, alcuni di questi giovani ce la fanno" (Mike
Stein, 2005).
L’obiettivo dell’autonomia economica e sociale non va considerato una
semplice espressione di competenze esterne. L’autonomia è innanzitutto uno
stato interno, è un’acquisizione su sé, è una narrazione su chi sono e su ciò
che posso fare, è una rappresentazione di sé e del proprio funzionamento
prima di manifestarsi come un esito concreto. L’autonomia, in estrema
sintesi, può essere interpretata come l’esito di un basilare diritto relazionale,
diritto che accomuna tutti gli esseri umani, ma che diventa l’esito di un
processo di responsabilità collettiva sociale per chi è stato affidato alla tutela
pubblica. È in questo senso allora che occorre evidenziare, in una prospettiva
decisamente relazionale, quali processi protettivi vanno messi in atto per
contrastare le condizioni di rischio che minacciano i percorsi di autonomia
dei giovani che lasciano le comunità per minori, per affrontare nuove sfide
evolutive che la loro condizione di adulti forzati a 18 anni impone.
Per una giusta tutela
Il passaggio all’autonomia rappresenta un percorso, a volte lungo e tortuoso,
di molti giovani che, raggiunta la maggiore età, non hanno la possibilità di
poter contare su una famiglia, su un appoggio economico, su un’abitazione,
su qualcuno che possa accompagnarli ancora un po’ nel cammino della vita.
Un percorso fuori dalla famiglia di origine che, dopo aver previsto anche
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molti anni di accoglienza in comunità, casa famiglia o in famiglia affidataria,
pone la questione del “dopo”, quel “territorio” di preoccupazione che riflette
l’assenza di efficaci e armonici progetti di tutela. Una tutela necessaria e
imprescindibile, che deve però riflettere su quanto la progettazione a opera
dei servizi sociali e la giurisprudenza a opera dei tribunali, debba mettere al
centro la dimensione integrale e integrata di futuro che può configurarsi
dentro a una storia. Come deve riflettere anche su quanto gli enti locali
debbano attrezzarsi con sufficienti risorse per meglio finalizzare la
complessa realtà dei processi di allontanamento e di accoglienza etero-
familiare. Nasce il bisogno di contesti in cui la progettazione educativa deve
trasformarsi, per riflettere e valorizzare quanto di positivo è stato fatto
durante la minore età e affiancare – anziché sostituirsi – per poter costruire
un’indipendenza non solo formale ma sostanziale. Il nostro Paese, a oggi,
non si è mai occupato in modo significativo della valutazione qualitativa
degli esiti dei percorsi di accoglienza “fuori famiglia”. Non è pertanto
possibile avanzare una riflessione avvalorata da informazioni e dati esaustivi
e appropriati in merito al vissuto dei ragazzi rispetto alla conclusione
dell’accoglienza e alle azioni – pre e post – messe in campo dal sistema dei
servizi sociali e dei soggetti accoglienti. Se non è possibile farlo in ambito
nazionale, può però essere utile fare riferimento ad alcune evidenze offerte
dalla ricerca in ambito internazionale.
Mike Stein (2012), il più autorevole esperto internazionale di percorsi di
uscita dalla tutela, attraverso una meta-analisi di ricerche di esito
sull’assistenza residenziale in 16 Paesi, ha rintracciato e definito tre
principali categorie di giovani care leavers: chi esce con successo, chi
sopravvive, chi sta ancora lottando.
Il primo gruppo è caratterizzato da giovani che hanno avuto la possibilità di
sperimentare una relazione significativa con almeno un adulto; questo ha
permesso loro di creare una visione di sé positiva e un buon livello di
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autoefficacia, ottenendo buoni risultati scolastici prima di lasciare il contesto
residenziale. La loro preparazione alla vita autonoma è stata graduale e
introdotta un po’ alla volta, fin dal periodo di accoglienza etero-familiare.
Questi ragazzi sono riusciti a mantenere contatti con ex educatori o genitori
affidatari con i quali avevano avuto legami positivi e con il loro sostegno
sono stati capaci di emanciparsi dall’aiuto dei servizi, con la capacità e la
possibilità però di richiedere aiuto in caso di necessità.
Il secondo gruppo, i sopravvissuti, ha sperimentato maggiore instabilità di
percorso durante la tutela rispetto al primo gruppo. Questi ragazzi, al termine
della tutela, hanno affrontato problemi quali il non avere una casa, fare lavori
saltuari con scarsa retribuzione e di breve durata, insoddisfacente capacità
lavorativa e conseguente disoccupazione. Forte è anche la possibilità che
avessero problemi nelle relazioni interpersonali e professionali.
Il terzo gruppo di giovani è quello con più difficoltà. Questi ragazzi hanno
subìto i danni maggiori relativamente alle esperienze familiari prima di
essere presi in carico dai servizi, e gli stessi, nel complesso, non sono stati in
grado di aiutarli a superare le conseguenze dei traumi passati. Difficoltà già
presenti prima dell’allontanamento relative, per esempio, all’ambito emotivo,
scolastico e comportamentale, hanno continuato a manifestarsi anche durante
l’accoglienza. Nei contesti in cui sono stati inseriti è stato difficile instaurare
una relazione significativa con un operatore e dopo la tutela si è verificata
una maggiore probabilità di avere difficoltà nel reperire un alloggio o di
trovare un lavoro. L’effetto più rilevante per loro è stato quello di rimanere
soli e isolati.
Gli esiti nei tre gruppi sono così differenti poiché associati alla qualità dei
servizi che ricevono, alla natura degli stessi dopo l’uscita dall’accoglienza e
al supporto affettivo che ricevono e percepiscono, fattori determinanti nel
definire una buona riuscita della presa in carico residenziale di un
minorenne.
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Risulta da molte indagini che i collocamenti esterni alla famiglia hanno
maggiori possibilità di buon esito solo grazie alla presenza di alcuni fattori
centrali e tra di essi vi è il fatto che ci sia un progetto di continuità di
supporto a quei giovani che, una volta concluso il percorso di tutela, non
rientrano più nella loro famiglia d’origine.
Sempre in ambito internazionale, altri autori (Calheiros, Garrido, Rodrigues
2009; Stein, Munro 2008; Dixon 2008; Barbarotto, Zanuso 2010) hanno
evidenziato che normalmente i giovani che sperimentano il passaggio dai
servizi residenziali all’età adulta mostrano un livello inferiore alla media di
istruzione, salute, benessere, inserimento lavorativo e capacità di far fronte
alla spese personali rispetto ai coetanei. Tali fattori comportano diversi rischi
quali l’esclusione sociale, la devianza, la delinquenza, la disoccupazione, la
non fissa dimora, lo sviluppo di svariate forme di psicopatologia, la
tossicodipendenza e la precoce genitorialità. Le cause del presentarsi di tali
fattori possono essere riconducibili, oltre che alle esperienze relazionali
traumatiche e disfunzionali precedenti l’inserimento nel contesto, anche alle
lacune dell’intervento residenziale e alle carenti, o assenti, risorse sociali ed
economiche messe in campo dopo il compimento della maggiore età e
l’uscita dai percorsi residenziali. A partire da riflessioni sociologiche e di
esito, sia nazionali che internazionali, è possibile avere un’idea
sufficientemente esauriente di quali sono le condizioni di questi ragazzi.
Tanti di loro escono dopo moltissimi anni trascorsi nell’accoglienza, in
affidamento familiare o in comunità. Alcuni, pochi, rientrano, a volte
bruscamente, nel contesto familiare di origine, altri devono costruirsi un
futuro in autonomia in un tempo limitato e ancora molto giovani. Alcuni di
loro ce la fanno. Altri arrancano e faticano a trovare serenità e benessere.
Altri ancora sono troppo fragili e faticano a trovare un equilibrio e un senso
alla propria storia, al proprio presente e soprattutto al proprio futuro. Uscire
dal circuito assistenziale dovrebbe essere un processo simile a quello di un
giovane qualunque che diventa un adulto. Il compimento del 18° anno –
tranne che per casi, ormai residuali, di prosieguo amministrativo – è il
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momento in cui decade l'obbligo da parte dei servizi sociali di sostenere i
percorsi di protezione nei loro confronti, col conseguente rischio di
esclusione sociale, povertà, devianza. L’aspetto più drammatico deriva
dall’assenza di soluzioni abitative sostitutive della comunità e della casa
famiglia e dalla crescente carenza di risorse per l’avvio al lavoro di questi
giovani. I dati della disoccupazione giovanile, se per i giovani con una
famiglia alle spalle e un “tetto”, destano enormi preoccupazioni, per coloro
che sono senza il supporto della famiglia d’origine causano gravi
ripercussioni per il loro presente e per il loro futuro, già in parte
compromesso dai vissuti traumatici e turbolenti della minore età. È inoltre
assente la certezza di una formazione opportuna e finalizzabile, in particolare
per quanto riguarda gli studi universitari. È importante e cruciale garantire
una “genitorialità sociale” a questi ragazzi, anche per un periodo successivo
al compimento della maggiore età, sufficiente per offrire loro tutto il
supporto necessario per divenire realmente autonomi e capaci di svolgere
una cittadinanza responsabile e attiva. Tale deve essere pertanto il
riferimento al quale il sistema dei servizi deve orientarsi fin dalla minore età,
fin dal momento dell’allontanamento. Un dopo che non inizia a 18 anni ma
che si situa lungo un continuum, delineato all’interno del progetto quadro.
Sarebbe auspicabile facilitare alcuni accorgimenti fondamentali all’interno
del panorama dei servizi sociali:
- l’accompagnamento all’autonomia inizia fin dalla prima fase di accoglienza
e pertanto occorre formare gli operatori a tal riguardo, affinché siano definiti
dei progetti individualizzati capaci di “leggere” la realtà e programmare il
futuro in funzione di quello che succederà dopo l’uscita, in particolare
predisponendo progetti di semi-autonomia caratterizzati da un utilizzo più
diffuso di appartamenti dedicati a tale scopo;
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- la promozione, lo sviluppo e il consolidamento di reti sociali positive
attente ai bisogni di giovani adulti che non vivono in famiglia può avere un
ruolo strategico in funzione dell’accompagnamento all’autonomia di questi
ragazzi/e; - accanto al lavoro fatto con il minorenne durante il periodo di
accoglienza – laddove possibile – è fondamentale sostenere le famiglie e
facilitare la costruzione di percorsi graduali di riavvicinamento costruttivo;
- i minori stranieri non accompagnati, anche a partire dalla legge Zampa,
devono poter disporre di un tempo necessario per poter raggiungere il loro
obiettivo di integrazione e di autonomia e, pertanto, lo scadere del
diciottesimo anno non può rappresentare la fine del percorso di sostegno. In
conclusione, appaiono fondamentali degli interventi legislativi a livello
centrale e locale in grado di far fronte alle carenze del sistema di accoglienza
nella fase di transizione all’età adulta. Ma sembra proprio che qualcosa stia
cambiando, poiché la legge di bilancio 2018, appena approvata in via
definitiva, prevede, per la prima volta nel nostro Paese, un Fondo nazionale
sperimentale e triennale di 5 milioni di euro a favore di giovani in uscita
dall’accoglienza con età compresa tra 18 e 21 anni. Svolta storica per questi
giovani e compito importante per tutti coloro che lavorano con i ragazzi e per
le istituzioni che lo dovranno implementare, affinché possa poi diventare
strutturale e aumentare nella sua entità, per ora certamente non sufficiente. Il
lavoro in contesti residenziali con neomaggiorenni “fuori famiglia”
presuppone un intervento differente da quello che viene realizzato all’interno
dei contesti residenziali per minorenni, quali le comunità e le case famiglia.
Ciò deriva principalmente dalla considerazione della intrinseca natura
dell’intervento, che passa dalla dimensione della protezione e della cura,
quali aspetti specifici delle comunità per minori e dei contesti similari, alla
dimensione della promozione della cittadinanza attiva e delle autonomie
personali, considerati costrutti più adatti a soggetti che devono orientarsi
verso una risoluta indipendenza. Si tratta di uno spostamento da un approccio
clinico/terapeutico a un approccio di empowerment, teso alla promozione e
valorizzazione delle risorse del singolo, che ormai si appresta alla vita
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autonoma. Ecco, quindi, che la presenza calorosa e significativa degli
educatori durante 24 ore giornaliere, tesa a favorire percorsi di superamento
delle rappresentazioni di adulto inaffidabile e assente e a garantire la
prevedibilità e la ripetitività del quotidiano, nei gruppi appartamento per
neomaggiorenni gradualmente decade, per lasciare lo spazio a processi,
azioni e interventi differenti: si passa dall’intensità relazionale alla bassa
presenza educativa, per cui l’intensità dell’intervento diminuisce in modo
considerevole.
Empowerment, resilienza, intraprendenza, lungimiranza sono le
caratteristiche da rintracciare, promuovere e sviluppare nel lavoro educativo
con questi ragazzi, anche se sembrano dimensioni assenti o molto carenti. I
giovani neomaggiorenni più vulnerabili, invece, poiché ancora fragili,
necessiterebbero di percorsi ad hoc, in contesti residenziali più
specificatamente orientati a offrire risposte più intensive con presenza
educativa sulle 12/24 ore.
I progetti residenziali
L’esperienza residenziale di accoglienza in comunità o casa-famiglia
produce risultati che necessitano di azioni di consolidamento che andrebbero
sviluppate anche dopo la dimissione, attraverso un accompagnamento
graduale finalizzato a “proteggere” i risultati stessi. Questo è l’obiettivo
principale dei progetti residenziali di sostegno all’autonomia. Percorsi
necessari che devono assicurare a questi giovani delle “certezze”, facendo in
modo che essi possano rappresentarsi l’immediato futuro con sicurezze e
garanzie rispetto alle più immediate necessità personali quali la casa,
l’autosufficienza economica, l’appartenenza a reti sociali e/o amicali in
grado di non far sentire l’angoscia della solitudine. Sono opportunità che
devono permettere loro di “sentire” e “vedere” di fronte a sé immagini
50
positive di futuro. “Accompagnare” significa non lasciare soli. Non lasciare
soli quando si è in cerca di una stanza o di un appartamento, quando si entra
nella propria nuova casa, quando si fa il primo contratto per le utenze,
quando si fa il primo compleanno “fuori”, quando si perde il lavoro, quando
si viene lasciati dalla ragazza, quando il rientro a casa alla sera è colmo di
fallimenti, insicurezze, preoccupazioni, solitudine.
Uscire dal circuito assistenziale dovrebbe essere un processo simile a quello
di un giovane qualunque che diventa un adulto. I giovani che sperimentano
un tale percorso sostenuti e accompagnati adeguatamente, sono quelli che
con maggiore probabilità si realizzano nella loro vita professionale e
personale e che superano alcuni degli esiti negativi derivanti dalle difficoltà,
dagli abusi o dalle trascuratezze vissuti in famiglia (Stein, 2012).
È importante e cruciale garantire una “genitorialità sociale” a questi ragazzi,
anche per un periodo successivo al compimento della maggiore età,
sufficiente per offrire loro tutto il supporto necessario per divenire realmente
autonomi e capaci di svolgere una cittadinanza responsabile e attiva.
Tale deve essere pertanto il riferimento al quale il sistema dei servizi deve
orientarsi fin dalla minore età, fin dal momento dell’allontanamento. Un
dopo che non inizia a 18 anni ma che si situa lungo un continuum, delineato
all’interno del progetto quadro, in cui la consapevolezza sul presente e lo
sguardo consapevole sul passato “viaggiano” insieme a un sentimento
positivo di futuro.
Opportunità per il futuro
Per i ragazzi e le ragazze prossimi alla conclusione del loro percorso è
fondamentale offrire l’idea che un futuro dignitoso è possibile e che il nuovo
cammino, se pur ricco di insidie, può essere colto nel suo essere un
passaggio verso una trasformazione in chiave positiva della propria
condizione di svantaggio. Per farlo è necessario creare le condizioni a diversi
51
livelli, in cui ogni componente della rete e ogni aspetto influente sui processi
in campo, possano essere facilitati in funzione dell’obiettivo.
Quali opportunità offrire per garantire futuro ai ragazzi accolti:
1.Formazione agli educatori, agli operatori e ai genitori affidatari sul tema
del passaggio all’autonomia:
Quando i servizi prendono in carico un adolescente, dovrebbero fornirgli un
progetto che prenda in considerazione una valutazione completa dei suoi
bisogni, una futura collocazione abitativa stabile di qualità, che per i soggetti
più vulnerabili può includere anche la permanenza in comunità o in
affidamento familiare, anche per alcuni anni dopo la maggiore età.
2. La dimensione partecipativa: favorire il coinvolgimento attivo favorisce
l’autonomia:
La partecipazione del minorenne nelle questioni che lo riguardano. È invece
uno degli aspetti che può determinare maggiori effetti positivi nel percorso di
avvicinamento all’età adulta, soprattutto per un adolescente che deve
intraprendere presto un percorso di autonomia. La partecipazione può essere
concettualizzata come la possibilità di rendere concreti i diritti tra cui quello
di essere informati, di esprimere la propria opinione, di cittadinanza
attraverso il protagonismo diretto e l’assunzione di responsabilità. Perciò
occorre adottare un approccio che metta i ragazzi in primo piano come attivi
co progettatori degli interventi a loro dedicati e che promuova la capacità di
riconoscere i propri punti di forza in funzione della costruzione di percorsi
pro-attivi e generativi.
3. Le relazioni tra pari come mutuo aiuto e dimensione collettiva del gruppo
ragazzi in comunità:
Nei processi comunitari si pone l’attenzione sugli esiti dei percorsi
individuali poiché il mandato è individuale; i servizi sociali, infatti, affidano
alla comunità il compito di rispondere ai bisogni di protezione e cura del
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singolo minorenne in carico e le valutazioni che ne conseguono rimandano al
singolo ragazzo. Questi però, vive quotidianamente la dimensione del gruppo
e da questo è influenzato; tale convivenza e micro cultura dei pari costruisce
scenari che inevitabilmente si riflettono su di lui. Le relazioni tra i ragazzi in
comunità possono essere lasciate alla loro spontaneità oppure possono essere
messe in campo strategie, attività e routine, utili per valorizzare e far
emergere le potenzialità del gruppo e i particolari legami positivi che si
innescano spontaneamente tra i suoi componenti.
La sperimentazione di una costruzione collettiva di significati, di attività, di
progettualità, di regole e di routine del quotidiano in comunità può
determinare l’aumento della conoscenza di sé, l’aumento della propria
autonomia, l’acquisizione della consapevolezza di poter costruire qualcosa di
positivo con l’altro e di poter funzionare nel mondo, in discontinuità con la
propria esperienza personale, più o meno disfunzionale, sperimentata in
precedenza. Il gruppo dei pari in comunità può inoltre avere un ruolo
significativo nella rivisitazione delle esperienze familiari permettendo, a
partire da vissuti talvolta molto simili, una modificazione delle
rappresentazioni che è in grado di costruire nuovi significati che mutano le
personali idee su di sé e sulla propria condizione e riducono l’influenza
ansiogena e a volte angosciante dei vissuti e dei “fantasmi” del passato.
4. Creazione di una rete attorno al ragazzo:
Aiutare i neomaggiorenni a trovare e mantenere un alloggio e un lavoro può
essere essenziale per la loro salute e benessere psicologici e per il
raggiungimento della loro autonomia. Anche le reti di famiglie, così come i
parenti e gli amici, possono dare un contributo, laddove tali relazioni
possono poggiare su esperienze positive precedenti. Nel complesso, e nel
corso del tempo, una combinazione virtuosa di reti di aiuto formali e
informali può aiutarli ad “andare avanti con successo”. Il ruolo dei servizi,
delle reti formali e informali, degli amici, delle associazioni dedicate è molto
importante. I giovani che sperimentano un tale percorso, sostenuti e
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accompagnati adeguatamente, sono quelli che con maggiore probabilità si
realizzano nella loro vita professionale e personale.
Ricevendo un intervento di buona qualità, una buona preparazione e un
sostegno nel loro percorso verso l’autonomia, sono in grado di acquisire
maggiore indipendenza. Questo, non attraverso l’isolamento o il distacco
emotivo difensivo, ma “voltando pagina” con successo e raggiungendo
un’identità compiuta ed equilibrata, in cui la rete svolge quel necessario
ruolo di “genitorialità sociale”, che va poi progressivamente e
necessariamente dissolvendosi con l’accrescere dell’indipendenza e
dell’emancipazione personali del giovane.
5. I progetti di accompagnamento all’autonomia e i gruppi appartamento:
Con i neomaggiorenni “fuori famiglia” occorre un intervento differente da
quello che viene realizzato all’interno dei contesti residenziali per minorenni,
quali le comunità e le case-famiglia. Ciò deriva principalmente dalla
considerazione della intrinseca natura dell’intervento di autonomia, che passa
dalla dimensione della protezione e della cura (aspetti specifici delle
comunità per minorenni e dei contesti similari) alla dimensione della
promozione della cittadinanza attiva e delle autonomie personali (costrutti
più adatti a soggetti che devono orientarsi verso una risoluta indipendenza).
Si tratta di uno spostamento da un approccio clinico/terapeutico a un
approccio di empowerment, teso alla promozione e valorizzazione delle
risorse del singolo, che ormai si appresta alla vita autonoma.
6. I percorsi dell’affido e la maggiore età: quando si analizzano i processi di
transizione all’autonomia occorre però fare una distinzione tra i percorsi in
comunità e casa famiglia e i percorsi di affidamento familiare. Esistono
differenze, per certi aspetti sostanziali, le quali influiscono a volte in modo
determinante sul percorso di transizione all’età adulta.
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Come evidenziato da una ricerca dell’Università di Padova e della Regione
Veneto di Valerio Belotti e Paola Milani, il tema del sostegno nella fase di
avvio all’autonomia assume connotati differenti i quali possono essere
sintetizzati nel seguente modo:
‒ nelle famiglie affidatarie la conclusione formale del percorso non coincide
con la reale conclusione del sostegno al ragazzo poiché spesso viene offerta
un prosieguo dell’ospitalità e, quindi, una continuità relazionale;
‒ come rilevato da Ius e Milani in una ricerca da loro condotta, i genitori
affidatari sembrano fungere da figure relazionali significative sulle quali i
ragazzi possono contare anche dopo l’uscita dalla loro casa. Le diverse
relazioni avviate durante l’affido e l’influenza che hanno avuto sull’identità
emergono come punti fermi importantissimi nel racconto delle persone
relativamente al periodo post-affido. Essi sembrano ridefinire il loro modo di
stare in relazione con i “figli” affidatari non con una conclusione del rapporto
una volta usciti ma dentro una cornice di continuità. L’80% degli intervistati
ha dichiarato di essere sempre in contatto con la famiglia affidataria.
Diversamente, nei percorsi di accoglienza in comunità, per ovvi motivi dovuti
al numero elevato di ospiti rispetto a una famiglia affidataria, alla necessaria
dimensione professionale dell’intervento, che differisce dall’accoglienza in
famiglie affidatarie che si connota come dichiaratamente volontaria e
all’impostazione delle relazioni differente che ne deriva, risulta più difficile
favorire percorsi di continuità e di mantenimento dei rapporti in un’ottica di
supporto. Nonostante questo, diverse sono le esperienze di ragazzi che, una
volta usciti dalla comunità, hanno potuto contare sulla comunità come punto
di riferimento e/o su un educatore come relazione stabile di supporto e poi di
amicizia. Come, allo stesso modo, sono molti i casi di conclusione del percorso
di affido intorno alla maggiore età, sia per scelte di uno o dell’altro, sia per
mancanza di sostegno da parte dei servizi. Un sostegno che sarebbe invece
importante per offrire risposte concrete alle necessità di costruzione del
proprio futuro per i ragazzi affidati, attraverso l’offerta, ad esempio, di
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percorsi di inserimento lavorativo o facilitazioni per l’università così da
sostenere virtuosamente la scelta reciproca di continuare una convivenza.
7. Riassestamenti nelle famiglie d’origine nella fase di transizione all’età
adulta: l’intervento di tutela fuori dalla famiglia d’origine dovrebbe essere
affiancato da un percorso di sostegno alla famiglia d’origine (qualora
possibile) affinché il progetto di rientro del giovane possa avvenire all’interno
di un contesto reso migliore e soprattutto “preparato” a riaccogliere il figlio.
Un contesto in cui possa esservi consapevolezza dei cambiamenti del figlio
(ora tardo adolescente, ora diverso e più consapevole rispetto a prima), dei
suoi bisogni come ad esempio la conclusione della scuola piuttosto che l’inizio
o il mantenimento di un percorso lavorativo, e delle sue aspettative di una
famiglia più attenta e matura, di un luogo più sereno e meno caotico. Un rientro
che possa rappresentare per il giovane non l’unica soluzione possibile, ma una
scelta fatta alla luce dei cambiamenti e delle evoluzioni positive, proprie e
della famiglia. Tutto ciò significa “preparare” al futuro, sostenere adeguati
processi di rielaborazione e di consapevolezza di sé, facilitare l’evolversi della
persona verso un’identità integrata e con un appropriato orientamento
all’emancipazione personale e alla cura di sé.
Alla luce di tali considerazioni, occorre tener conto di alcuni accorgimenti
fondamentali:
‒ l’accompagnamento all’autonomia inizia fin dalla prima fase di accoglienza
e pertanto occorre formare gli operatori a tal riguardo;
‒ i giovani in uscita dall’assistenza residenziale possono essere sostenuti anche
in funzione di una loro più decisa partecipazione e protagonismo attivi;
‒ la promozione della solidarietà e del mutuo aiuto può rappresentare
un’utilissima fonte di supporto, integrativa e, a volte, sostitutiva degli
interventi specialistici e tradizionali;
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‒ la promozione, lo sviluppo e il consolidamento di reti sociali positive attente
ai bisogni di giovani adulti che non vivono in famiglia può avere un ruolo
strategico in funzione dell’accompagnamento all’autonomia di questi
ragazzi/e;
‒ l’affido familiare può rappresentare una risorsa in più per la fase di
transizione all’età adulta ma è opportuno creare condizioni facilitanti a favore
delle famiglie stesse e dei ragazzi ospiti;
‒ accanto al lavoro fatto con il minorenne durante il periodo di accoglienza è
fondamentale (laddove possibile) sostenere le famiglie e facilitare la
costruzione di percorsi graduali di riavvicinamento costruttivo. La
recentissima approvazione della legge di bilancio che prevede il Fondo per la
crescita e l'assistenza dei giovani fuori famiglia rappresenta un evento storico
per il nostro Paese. Grazie all’impegno e alla tenacia di alcune organizzazioni
che da alcuni anni stanno portando avanti un lavoro costante di
sensibilizzazione e collaborazione con la politica centrale, e anche grazie al
dialogo avviato tra istituzioni e giovani care leavers si è aperto concretamente
un varco per i percorsi di autonomia di tanti giovani fuori dalla famiglia
d’origine all’interno delle politiche a favore delle persone a rischio povertà ed
esclusione sociale.
Un fondo che sancisce a livello nazionale un diritto che, di fatto, potenzia e
“finanzia” – anche se per ora solo in piccola parte e in fase sperimentale –
l’istituto del prosieguo amministrativo permettendo ai ragazzi dai 18 ai 21 anni
di poter contare su risorse loro dedicate e garantite per legge. In questo
scenario, gli appartamenti rappresentano quello spazio e quel tempo, reali e
simbolici, di transito e avvicinamento a un futuro indipendente, resiliente e
positivo per migliaia di ragazzi nel nostro Paese, soprattutto se sapremo
capitalizzare al meglio l’opportunità offerta da tale Fondo, affinché possa
divenire strutturale e di entità adeguata.
57
La speranza è che tale aumento di attenzione possa essere d’auspicio per
rendere le proposte delle reali opportunità.
Qualcosa è stato fatto, molto c’è ancora da fare.
58
INTRODUZIONE DATI STATISTICI
(Servizi della Giustizia minorile)
a cura di Monica Rosati
Questi grafici ci forniscono un quadro sintetico e aggiornato dei minorenni e
giovani adulti (fino ai venticinque anni) che per provvedimenti di natura
penale sono presenti nei servizi minorili residenziali o in carico ai servizi
sociali per i minorenni.
I numeri dell’accoglienza in comunità dei minori allontanati dalla propria
famiglia d’origine mostrano complessivamente la tendenza in aumento.
Si è infatti passati dai 14.744 del 2007 ai 21.848 del 2016 con un incremento
del 67,48 %.
Gli Uffici di Servizio Sociale per i minorenni (USSM) intervengono in ogni
stato e grado del procedimento penale.
I Servizi minorili residenziali sono:
I Centri di prima accoglienza (CPA), accolgono temporaneamente i
minorenni fermati, accompagnati o arrestati in flagranza di reato dalle forze
dell’ordine su disposizione del Procuratore della Repubblica per i minorenni.
Le Comunità, ministeriali e del privato sociale, che hanno dimensioni
strutturali e organizzative connotate da una forte apertura all’ambiente esterno,
in cui sono collocati i minori sottoposti alla misura cautelare prevista
dall’art.22 del D.P.R.448/88 (collocamento in comunità);
59
Gli Istituti penali per i minorenni (IPM), in cui sono eseguite la misura della
custodia cautelare e la pena detentiva; gli IPM sono concepiti strutturalmente
attraverso anche ad equipe specializzate in modo da fornire risposte adeguate
alla particolarità della giovane utenza ed alle esigenze connesse all’esecuzione
dei provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria.
In questa ottica l’Amministrazione gestisce, inoltre i Centri diurni
polifunzionali (CDP), Servizi minorili non residenziali per l’accoglienza
diurna dei minori dell’area penale e di minori in situazione di disagio sociale
e a rischio, anche se non sottoposti a procedimento penale; i CDP offrono
attività educative, di studio, di formazione-lavoro, nonché ludico-ricreative e
sportive.
Sono molteplici le ragioni che portano all’ingresso di una persona minore
di età in una comunità. Si va dalle difficoltà educative della famiglia di
origine legate a uno stato precario di salute psico-fisica, ai bambini e
ragazzi vittime di abusi o maltrattamenti a quelli entrati nel circuito
penale, senza tralasciare i minori che fuggono da guerre e povertà,
giungendo nel nostro paese privi di adulti di riferimento e in condizioni di
particolare fragilità.
I bisogni di tutela che ruotano attorno all’accoglienza nelle comunità non si
esauriscono nelle difficoltà che determinano l’ingresso nella struttura ma
riguardano anche la fase di uscita dal percorso di accoglienza dei ragazzi
divenuti maggiorenni: ancora una volta la Garante ha ricordato come sia
necessario «impegnarci affinché il giorno del diciottesimo compleanno per
questi ragazzi sia una data da festeggiare e non da temere in vista del rientro
in una famiglia di origine che, il più delle volte non ha ancora colmato le
riscontrate carenze, o di un repentino salto verso la dimensione di autonomia
60
propria della vita adulta che, spesso, non si è ancora in grado di affrontare da
soli».
Nell’analisi dei dati è utile ricordare che l’età è calcolata all’inizio dell’anno
per i soggetti in carico da periodi precedenti, alla presa in carico per i nuovi
soggetti.
Minorenni e giovani adulti in carico ai Servizi della Giustizia Minorile
Dati di riepilogo - Situazione al 15 ottobre 2017
Servizi minorili
Sesso
Totale
Maschi
Femmine
Presenti nei Servizi residenziali
Centri di prima accoglienza 8 4 12
Istituti penali per i minorenni 416 37 453
Comunità ministeriali 20 0 20
Comunità private 897 68 965
Totale 1.341 109 1.450
In carico agli Uffici di servizio sociale per i minorenni
(1)
In messa alla prova (2) 1.601 126 1.727
61
In misura alternativa, sostitutiva, di sicurezza, cautelare
(Prescrizioni e permanenza in casa) (3) 362 50 412
Per indagini sociali e progetti trattamentali 3.664 483 4.147
Totale 5.627 659 6.286
In altra situazione (4) 4.835 661 5.496
Frequentanti i Centri diurni polifunzionali
N. minori 141 7 148
Note:
(1) I dati sono riferiti ai soli soggetti in carico per:
• L’esecuzione di un provvedimento,
• Indagini sociali e progetti trattamentali.
Non sono conteggiati i soggetti che, pur in carico all’Ufficio di Servizio
Sociale, sono presenti nei Servizi residenziali indicati sopra.
I dati sono acquisiti dal Sistema Informativo dei Servizi Minorili (SISM) e
sono riferiti alla situazione alla data del 15 ottobre 2017; l’elaborazione è
stata effettuata in data 17 ottobre 2017.
UFFICI DI SERVIZIO SOCIALE PER I MINORENNI
DATI DI FLUSSO
Il 48% degli ospiti presenti nelle comunità è di origine straniera, un dato in
crescita rispetto al 42,8% del 31 dicembre 2016.
Il 67% di essi, ossia ben più della metà, è rappresentato da minorenni non
accompagnati.
62
Tabella 1 – Minorenni e giovani adulti in carico agli Uffici di servizio
sociale per i minorenni, secondo il periodo di presa in carico, la nazionalità e
il sesso. Anno 2017 - fino al 15 ottobre.
Periodo di presa in
carico
Italiani Stranieri Totale
M F Mf M F
Mf M F Mf
In carico all’inizio
dell’anno da periodi
precedenti 8.824 998 9.822 3.045 489 3.534 11.869 1.487 13.356
Presi in carico per la
prima volta nel 2017 3.531 528 4.059 1.224 170 1.394 4.755 698 5.453
Totale 12.355 1.526 13.881 4.269 659 4.928 16.624 2.185 18.809
63
Tabella 2a - Minorenni e giovani adulti in carico agli Uffici di servizio sociale
per i minorenni, secondo l’età alla prima presa in carico, la nazionalità e il
sesso. Anno 2017 - fino al 15 ottobre.
Età alla
prima Italiani Stranieri Totale
presa in
carico M F Mf M F Mf M F Mf
Meno di 14
anni 62 12 74 19 4 23 81 16 97
14 anni 873 141 1.014 273 95 368 1.146 236 1.382
15 anni 2.130 286 2.416 635 141 776 2.765 427 3.192
16 anni 3.139 394 3.533 964 131 1.095 4.103 525 4.628
17 anni 3.363 389 3.752 1.362 153 1.515 4.725 542 5.267
Giovani
adulti 2.788 304 3.092 1.016 135 1.151 3.804 439 4.243
Totale 12.355 1.526 13.881 4.269 659 4.928 16.624 2.185 18.809
Tabella 2b - Minorenni e giovani adulti in carico agli Uffici di servizio sociale
per i minorenni, secondo l’età nel periodo considerato, la nazionalità e il
sesso. Anno 2017 - fino al 15 ottobre.
Età nel
periodo Italiani Stranieri Totale
Considerat
o M F Mf M F Mf M F Mf
Meno di 14
anni 30 6 36 9 0 9 39 6 45
14 anni 269 71 340 72 24 96 341 95 436
15 anni 993 169 1.162 267 67 334 1.260 236 1.496
16 anni 1.973 324 2.297 556 87 643 2.529 411 2.940
17 anni 2.697 348 3.045 1.019 128 1.147 3.716 476 4.192
64
Giovani
adulti 6.393 608 7.001 2.346 353 2.699 8.739 961 9.700
Totale 12.355 1.526 13.881 4.269 659 4.928 16.624 2.185 18.809
I dati sono acquisiti dal Sistema Informativo dei Servizi Minorili (SISM) e
sono riferiti alla situazione alla data del 15 ottobre 2017; l’elaborazione è stata
effettuata in data 17 ottobre 2017
Distribuzione in base al genere
L’utenza dei Servizi minorili vede la prevalenza di maschi mentre le ragazze
sono soprattutto di nazionalità straniera e provengono dai Paesi dell’area
dell’ex Jugoslavia e dalla Romania.
La presenza degli stranieri è maggiormente evidente nei Servizi residenziali;
i dati sulle provenienze evidenziano che negli ultimi anni alle nazionalità
tipiche della criminalità minorile, quali il Marocco, la Romania, e i Paesi
dell’ex Jugoslavia, tutt’ora prevalenti, si sono affiancate altre nazionalità,
singolarmente poco rilevanti in termini numerici, ma che hanno contribuito a
rendere sempre più multietnico e complesso il quadro complessivo
dell’utenza.
Tabella 3 - Minorenni e giovani adulti in carico agli Uffici di servizio sociale
per i minorenni, secondo la provenienza e il sesso. Anno 2017 - fino al 15
ottobre.
Paesi di provenienza Sesso Totale
65
Maschi
Femmine
Italia 12.355 1.526 13.881
Paesi dell'Unione Europea 901 287 1.188
Di cui: Croazia 58 77 135
Romania 718 193 911
Altri Paesi europei 966 223 1.189
Di cui: Albania 469 22 491
Bosnia-Erzegovina 85 103 188
Kosovo 65 7 72
Macedonia 61 11 72
Moldova 86 10 96
Serbia 96 51 147
Ucraina 59 8 67
Africa 1.929 95 2.024
Di cui: Costa d'Avorio 44 6 50
Egitto 273 3 276
Gambia 205 0 205
Ghana 55 2 57
Marocco 718 54 772
Nigeria 82 9 91
Senegal 146 6 152
Tunisia 204 7 211
America 269 44 313
Di cui: Brasile 53 9 62
Ecuador 62 5 67
66
Asia 200 10 210
Apolidi 4 0 4
Totale 16.624 2.185 18.809
La tabella riporta il dettaglio dei Paesi per i quali il numero di minori è
risultato pari o superiore a 50.
Distribuzione per area geografica
Spostando l’attenzione alla distribuzione sul territorio nazionale dal seguente
grafico si osserva che, al 31 dicembre 2015, più di un terzo dei minorenni
non accompagnati accolti in comunità si concentra nelle strutture dell’Italia
insulare (35%) e, in particolare, in Sicilia nel cui territorio ha luogo il 33,9%
della complessiva accoglienza in comunità dei minori non accompagnati.
Ciò deriva dalla circostanza che ben 8 dei 15 porti italiani maggiormente
interessati nel corso del 2015 dagli arrivi di migranti sono situati sulle coste
siciliane tra i quali, in particolare, spicca il primato dei porti di Lampedusa e
di Augusta. Dai dati rilevati, invece, dall’Autorità garante è possibile
valutare la concentrazione per regione degli ospiti di genere maschile, da cui
67
si evince che la componente maschile risulta preponderante in Sicilia e
Campania, ossia nelle regioni maggiormente interessate dalla presenza di
minorenni non accompagnati. Inoltre in base alle rilevazioni del Ministero
del lavoro e delle politiche sociali, risultano in prevalenza (81% del totale) di
età compresa tra i 16 e i 17 anni.
Una conferma, seppur indiretta, della prevalenza tra i minorenni non
accompagnati di ragazzi prossimi al compimento della maggiore età da cui
risulta che il 31% degli ospiti di età compresa tra i 14 e i 17 anni si trova nelle
comunità dell’Italia insulare, di cui il 28,6% nella sola Sicilia.
Tabella 4 – Minorenni e giovani adulti in carico agli Uffici di servizio
sociale per i minorenni negli anni dal 2007 al 2016 secondo la nazionalità e il
sesso.
Anni
Italiani Stranieri Totale
M F Mf M
F
Mf M F Mf
2007 10.689 1.083 11.772 2.516 456 2.972 13.205 1.539 14.744
2008 13.015 1.382 14.397 2.944 473 3.417 15.959 1.855 17.814
2009 14.023 1.457 15.480 2.981 424 3.405 17.004 1.881 18.885
2010 14.335 1.337 15.672 2.387 304 2.691 16.722 1.641 18.363
2011 15.260 1.624 16.884 2.870 403 3.273 18.130 2.027 20.157
2012 14.885 1.745 16.630 3.322 455 3.777 18.207 2.200 20.407
2013 14.509 1.713 16.222 3.469 522 3.991 17.978 2.235 20.213
2014 14.192 1.748 15.940 3.661 594 4.255 17.853 2.342 20.195
2015 14.136 1.777 15.913 3.937 688 4.625 18.073 2.465 20.538
2016 14.492 1.871 16.363 4.691 794 5.485 19.183 2.665 21.848
68
Grafico 1 – Minorenni e giovani adulti in carico agli Uffici di servizio sociale
Per i minorenni negli anni dal 2007 al 2016 secondo la nazionalità.
Grafico 2 – Minorenni e giovani adulti in carico agli Uffici di servizio sociale
per i minorenni nell’anno 2016 secondo il periodo di presa in carico.
69
CENTRI DI PRIMA ACCOGLIENZA
i Centri di prima accoglienza (CPA), che accolgono temporaneamente i
minorenni fermati, accompagnati o arrestati in flagranza di reato dalle
forze dell’ordine su disposizione del Procuratore della Repubblica per i
minorenni; il minore permane nel Centro di prima accoglienza fino
all’udienza di convalida, per un tempo massimo di novantasei ore; nel
corso dell’udienza di convalida il giudice (GIP) valuta se esistono elementi
sufficienti per convalidare l’arresto o il fermo e decide sull’eventuale
applicazione di una delle quattro possibili misure cautelari previste per i
minorenni (prescrizioni, permanenza in casa, collocamento in comunità,
custodia cautelare);
Tabella 5 - Ingressi nei Centri di prima accoglienza negli anni dal 2007 al 2016
secondo la nazionalità e il sesso.
Anni
Italiani Stranieri Totale
M F Mf M F Mf M F Mf
2007 1.469 76 1.545 1.236 604 1.840 2.705 680 3.385
2008 1.462 85 1.547 1.021 340 1.361 2.483 425 2.908
2009 1.443 51 1.494 704 224 928 2.147 275 2.422
2010 1.355 68 1.423 616 214 830 1.971 282 2.253
2011 1.337 75 1.412 696 235 931 2.033 310 2.343
2012 1.191 65 1.256 668 269 937 1.859 334 2.193
2013 951 67 1.018 690 312 1.002 1.641 379 2.020
2014 689 38 727 565 256 821 1.254 294 1.548
2015 613 40 653 579 206 785 1.192 246 1.438
70
2016 658 48 706 517 158 675 1.175 206 1.381
Grafico 3 - Ingressi nei Centri di prima accoglienza negli anni dal 2007 al
2016, secondo la nazionalità.
Il Centro di accoglienza lavora sempre in situazioni molto delicate, in bilico, si parla
sempre di persone che scappano dal loro paese, costretti e rimettono in gioco tutta
la loro vita, a volte la loro stessa identità. D’altra parte, però, essere a contatto con
culture così diverse tra di loro porta un grande arricchimento.
A ciò si associano molte difficoltà dovute spesso, inizialmente all’individuazione
di strumenti comunicativi non parlando la stessa lingua, dovuti alle loro paure
nell’affidarsi e nel tentare di costruire un rapporto di fiducia. A volte ci possono
essere molte incomprensioni causate dalla differenza culturale, come può essere ad
esempio il cibo oppure i percorsi legali per l’ottenimento del permesso di soggiorno.
Costruire un percorso di integrazione che riguarda proprio riuscire a creare
integrazione tra culture così differenti è la parte più delicata riservata al Centro di
Accoglienza.
I numeri ci indicano che il 48,8 % è di origine straniera.
COMUNITA’
71
Il 43,5% degli ospiti presenti nelle comunità è di origine straniera, un dato in
equilibrio rispetto del 31 dicembre 2016.
Il 67% di essi, ossia ben più della metà, è rappresentato da minorenni non
accompagnati.
Distribuzione per area geografica
Un quarto di tutti i minori accolti in comunità sta nell’Italia Insulare (24%) e
in particolare in Sicilia, che ha il 21,5% dei minori in comunità. Segue a
notevole distanza dalla Lombardia (12,1%) e la Campania (10%). Questi numeri
vanno correlati alla forte presenza in Sicilia di minori non accompagnati che hanno
necessità di accoglienza: il 33,9% della complessiva accoglienza in comunità di
MNA avviene infatti nella sola Sicilia.
Fonte: Procura della Repubblica
Origine dell’inserimento in comunità
Sulla base dei dati raccolti si evince che l’inserimento dei minorenni nelle strutture
di accoglienza avviene, nella maggioranza dei casi (57,8%), a seguito di
provvedimento dell’autorità giudiziaria, segnando una netta prevalenza rispetto
alla percentuale di collocamenti di cui è stata espressamente dichiarata la natura
72
consensuale (13,7%). L’elevata percentuale di inserimenti di origine giudiziale
riscontrata pone, invero, la necessità di interrogarsi in merito all’effettivo numero
di ingressi in comunità disposti sin dal principio dall’autorità giudiziaria, a causa
di gravi situazioni tali da rendere ineludibile l’allontanamento, nonché circa la
correlativa incidenza delle ipotesi di collocamenti di tipo consensuale divenuti poi
giudiziali solo in ragione dell’avvenuto superamento del periodo massimo di 24
mesi previsto dalla legge.
Tabella 6 - Collocamenti in Comunità secondo la provenienza e il sesso. Anno
2017 - fino al 15 ottobre.
Paesi di provenienza
Sesso
Totale
Maschi
Femmine
Italia 801 55 856
Altri Paesi dell'Unione Europea 82 22 104
Di cui: Croazia 12 7 19
Romania 63 13 76
Altri Paesi europei 81 45 126
Di cui: Albania 27 3 30
Bosnia-Erzegovina 13 30 43
Serbia 19 9 28
Africa 267 7 274
Di cui: Algeria 19 3 22
Egitto 41 0 41
Gambia 37 0 37
Marocco 88 4 92
73
Senegal 22 0 22
Tunisia 32 0 32
America 31 1 32
Asia 13 1 14
Apolide 1 0 1
Totale 1.276 131 1.407
La tabella riporta il dettaglio dei Paesi per i quali il numero di minori è risultato
pari o superiore a 10. I dati sono acquisiti dal Sistema Informativo dei Servizi
Minorili (SISM) e sono riferiti alla situazione alla data del 15 ottobre 2017;
l’elaborazione è stata effettuata in data 17 ottobre 2017
Come può osservarsi è, altresì, elevata la percentuale dei collocamenti di cui le
comunità non hanno fornito alle procure alcuna precisa indicazione circa la
tipologia di inserimento (28,5%). Risulta, invero, plausibile la circostanza che,
nell’ambito degli inserimenti in comunità di cui risulta omessa la modalità di
ingresso, si collochino anche ipotesi di allontanamento d’urgenza realizzati ai
sensi dell’art. 403 del codice civile. Trattandosi, come detto, di provvedimenti di
natura propriamente amministrativa e emergenziale, è più alto il rischio che, in
alcuni casi, tali decisioni siano sintomatiche della difficoltà, spesso connessa alla
carenza di risorse disponibili per il sistema di welfare, degli organi deputati
all’assistenza e alla protezione dell’infanzia a intervenire prima che sopraggiunga
un grave e pericoloso disagio per il minore.
Tabella 7 – Collocamenti in Comunità negli anni dal 2007 al 2016 secondo la
nazionalità e il sesso.
Anni Italiani Stranieri Totale
M F Mf M F Mf M F Mf
74
2007 1.056 46 1.102 667 127 794 1.723 173 1.896
2008 1.130 65 1.195 651 119 770 1.781 184 1.965
2009 1.160 52 1.212 542 71 613 1.702 123 1.825
2010 1.189 59 1.248 490 83 573 1.679 142 1.821
2011 1.222 75 1.297 540 89 629 1.762 164 1.926
2012 1.225 60 1.285 631 122 753 1.856 182 2.038
2013 1.119 70 1.189 594 111 705 1.713 181 1.894
2014 929 50 979 583 154 737 1.512 204 1.716
2015 864 56 920 623 145 768 1.487 201 1.688
2016 965 64 1.029 691 103 794 1.656 167 1.823
Grafico 4 – Collocamenti in Comunità negli anni dal 2007 al 2016, secondo la
nazionalità.
75
Tempo di permanenza
Fonte: Procura della Repubblica
La percentuale di minorenni presenti in comunità da più dei 24 mesi previsti dalla
legge passa dal 26,5% rilevato al 31 dicembre 2015 al 23% del 31 dicembre 2016.
Il restante 77% degli ospiti di minore età si trova in comunità,
al 31 dicembre 2015, da meno di 24 mesi.
76
Arrivo in comunità
La modalità di arrivo, soprattutto dall’Africa, in gommoni e barche fatiscenti fa sì
che molti giovani pur essendo minorenni e non avendo alcun documento si
dichiarino maggiorenni per continuare il loro viaggio oltre i confini Italiani.
Oxfam, nel rapporto “Grandi speranze alla deriva” denuncia che, ogni giorno, in
Italia spariscono 28 minori stranieri non accompagnati. Migliaia di persone sparite
nel nulla ed esposte al rischio di sfruttamento e violenza. Mentre chi resta può
avere le tutele previste dal servizio di accoglienza.
Usciti dalla comunità
Secondo la normativa il MNA una volta raggiunta la maggiore età può ottenere un
permesso di soggiorno (se almeno tre anni e due nella Comunità in Italia) o per
“non luogo a provvedere al rimpatrio” o chi è stato affidato a una famiglia (Legge
184/83) o ha la protezione umanitaria in quanto rifugiato.
Tuttavia la maggioranza dei ragazzi non ha il primo requisito (se almeno tre anni
e due nella Comunità in Italia) e il neo-maggiorenne si trova senza una casa, senza
la rete che l’ha circondato fino a poco prima. Passa quindi dalla certezza alla
clandestinità e il percorso faticosamente costruito svanisce nel nulla.
In molti Comuni Italiani si sono avviati progetti per dare ospitalità, cibo e
contribuire a uno inserimento nel mondo del lavoro.
In Italia “Save the Children” ha promosso un disegno di legge che cerchi di
armonizzare il vero nodo legislativo che è quello di aiutare il “piccolo” a muoversi
più in fretta e a stimolare il “grande” ad adeguarsi.
77
CONCLUSIONE
Lo scopo di questo approfondimento è cercare di creare un’occasione per pensare
alla comunità per minori in termini diversi dalla concezione comune che molte
persone hanno, al fine di evidenziare le potenzialità che questa struttura può offrire
rispetto ai bisogni evolutivi dei minori. Con questo lavoro si vuole dimostrare come
i servizi per minori siano quasi essenziali all’interno di una società fatta di famiglie
che si trovano sempre più in difficoltà e di genitori che non riescono a prendersi
cura dei propri figli e che non assicurano loro la giusta “dose” di affettività e di
educazione, lasciandoli a loro stessi. Da questo si può capire come le strutture per
minori siano utili per tutelare bambini e ragazzi che non hanno una famiglia “alle
spalle” e che altrimenti sarebbero soli nella crescita. All’interno delle comunità un
minore può trovare dei punti di riferimento stabili, quali sono gli educatori, che lo
aiutano a svilupparsi e a “combattere” gli aspetti negativi della sua personalità;
educatori su cui possono contare anche in un futuro fuori dalle strutture e nei
momenti più difficili della vita.
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