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1 ISCRA Istituto Modenese di Psicoterapia Sistemica e Relazionale (sede di Cesena) IL TERAPEUTA IN UN “MARE” DI PREGIUDIZI ED EMOZIONI Tesina finale 2° anno Didatti: Allieva: Dott. Mariotti Mauro Dott.ssa Pepoli Francesca Dott.ssa Severi Rita Dott.ssa Venturi Lucia Dott.ssa Severi Silvia Anno Accademico 2009

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ISCRA Istituto Modenese di Psicoterapia Sistemica e Relazionale

(sede di Cesena)

IL TERAPEUTA IN UN “MARE” DI PREGIUDIZI ED

EMOZIONI

Tesina finale 2° anno

Didatti: Allieva:

Dott. Mariotti Mauro Dott.ssa Pepoli Francesca

Dott.ssa Severi Rita

Dott.ssa Venturi Lucia

Dott.ssa Severi Silvia

Anno Accademico 2009

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INDICE

INTRODUZIONE pag.3

1. TERAPIA E PREGIUDIZI pag.6

1.1 Il pregiudizio nelle scienze sociali pag.6

1.2 Un po’ di storia pag.8

1.3 Il terapeuta e i suoi pregiudizi pag.10

2. TERAPIA ED EMOZIONI pag.17

2.1 Il terapeuta e le sue emozioni pag.19

3. RIFLESSIONI CONCLUSIVE pag.23

BIBLIOGRAFIA pag.26

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INTRODUZIONE

Durante il corso dell’anno sono state affrontate molteplici tematiche che hanno stimolato la

discussione nel gruppo, nonché una riflessione individuale.

Personalmente ho trovato molto interessante e pregnante il pensiero del maestro Gianfranco

Cecchin, in particolare relativamente al concetto di pregiudizio (legato indissolubilmente a quelli di

curiosità e irriverenza), così come l’attenzione posta sulle emozioni, elementi basilari e fondanti la

psicoterapia, che hanno avuto spazio nel corso dell’evoluzione del pensiero sistemico nel passaggio

dalla prima alla seconda cibernetica.

Penso sia interessante pensare a come si sia sviluppato il pensiero sistemico in questo senso,

dall’iniziale distacco e rifiuto, alla riappropriazione dei sentimenti e delle emozioni come parte

integrante e costituente la persona e, conseguentemente, il sistema terapeutico.

In questo breve elaborato mi piacerebbe prendere in esame queste tematiche e mettere in evidenza

l’importanza del lavoro sul terapeuta, a partire da un’analisi attenta e curata del proprio vissuto

emotivo, nonché del proprio pregiudizio, come elementi irrinunciabili per la costituzione di un

setting terapeutico e di una relazione empatica.

Un’esperienza che mi ha colpito in particolar modo e mi ha fatto riflettere maggiormente su queste

tematiche, sulla terapia come percorso emotivo e difficile (da entrambe le parti), come un viaggio

volto all’abbattimento delle certezze e delle verità assolute, è sicuramente quella in barca, fatta

insieme al gruppo. È stata un’esperienza illuminante che mi ha fatto riscoprire aspetti sconosciuti e

punteggiature diverse (rispetto alla mia storia personale), attraverso l’utilizzo della metafora.

Un’esperienza del genere esemplifica, secondo me, quanto sia importante il lavoro e il contatto con

le proprie emozioni di terapeuta prima di ogni cosa, perché penso che sia solo attraverso il contatto

con noi stessi in prima istanza, che possiamo onestamente relazionarci all’Altro e, nonostante i

nostri limiti, poterlo aiutare.

Questa esperienza emozionale di gruppo, ma allo stesso tempo anche individuale, può essere

metaforicamente affiliata all’esperienza del viaggio terapeutico; anche Gianfranco Cecchin (1992)

descriveva quelle della terapia familiare come “acque agitate e insidiose” e colui che intende

dedicarsi a questo viaggio “si imbarca in un avventura piena di rischi sia che si tratti di un

principiante alle prime armi o di un esperto navigato”.

La barca naviga in mezzo ad un mare insidioso che a volte può apparire tranquillo, facile da

affrontare: all’apparenza l’imbarcazione non necessita di troppa vela, ma improvvisamente il vento

aumenta, le correnti fanno resistenza, le onde si alzano; a quel punto il navigante deve mettere in

atto delle strategie correttive per poter equilibrare la barca in funzione della forza del vento e dello

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stato del mare e se le difficoltà superano le possibilità della barca, si necessita di cambiare rotta,

anche se solo temporaneamente.

Il concetto di flessibilità è tanto importante in navigazione come lo è in psicoterapia: mettersi

costantemente in discussione e porre il dubbio come punto di riferimento, lasciarsi alle spalle

preconcetti e certezze ed abbandonarsi all’incertezza e curiosità.

Il mare diventa allora una bellissima metafora di vita, rappresenta un’esperienza di apertura, un

opportunità di visione allargata. Durante questa esperienza mi sono trovata a contatto con me stessa,

la mia storia personale e una nuova da costruire: in quell’istante ero lì come una futura terapeuta

che tentava, grazie alla condivisione con il gruppo, di affrontare le difficoltà che, metaforicamente,

a volte possono essere i pregiudizi nei confronti dei pazienti e delle loro situazioni, o altre volte i

propri sentimenti ed emozioni che riecheggiano nelle storie degli altri.

A proposito di emozioni: l’esperienza in barca mi ha improvvisamente riportato indietro nel tempo,

al mio rapporto di amore e odio con la barca, passione viscerale e genuina di mio padre, che fin da

quando ero piccola ha tentato di condividere con me qualcosa che per lui rappresentava, e

rappresenta tutt’ora libertà, sfida, gioia, tristezza, malinconia, pace, tranquillità (un contenitore di

emozioni pure). In età adolescenziale ho sempre vissuto questa sua passione come una costrizione

che puntualmente rifiutavo, con grande dispiacere di mio padre. Solo da pochi anni ho saputo

ritrovare in questa sua passione, una possibilità di poter vivere e condividere qualcosa di speciale

con lui, ma non solo: mi sono resa conto che il contatto con il mare, con la tranquillità, ma anche

l’irrequietezza che può dare, riesce a portarmi in un mondo parallelo, un’altra dimensione, in cui si

possono abbandonare le zavorre giornaliere e liberare maggiormente le parti più nascoste di sé; in

mare sei a tu per tu con te stesso. E in quel momento, a parte l’entusiasmo per l’esperienza che

stavo vivendo con il gruppo come futura terapeuta, allo stesso tempo albergavano in me sentimenti

di gioia, ma anche di malinconia e nostalgia.

Penso che riflettere sul ruolo dei pregiudizi all’interno della relazione terapeutica, così come

approccio generale di osservazione degli eventi naturali della vita, diventi fondamentale: ritengo sia

utile avere la consapevolezza che le proprie premesse implicite, influenzano inevitabilmente la

relazione, sia positivamente, sia negativamente. L’autoriflessività sui propri pregiudizi, ma anche su

quelli di coloro che vengono a chiederci aiuto, può aiutare a riformulare molte idee che ognuno di

noi ha nei confronti della professione clinica: per esempio una delle premesse implicite da cui si

parte è quella di dover necessariamente incontrare famiglie, bambini, adulti bisognosi del nostro

aiuto. L’incontro con le famiglie sicuramente aiuta a scalzare tale pregiudizio conducendo il clinico

a riconoscere le risorse interne presenti in ogni famiglia o individuo.

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Ritornando all’esperienza in mare posso affermare, anche alla luce delle riflessioni fatte, che

inizialmente mi sono approcciata all’attività carica di pregiudizi, primo fra tutti il pensiero che per

me, cresciuta con un padre appassionato di barca a vela e abituata al mare, questa esperienza non

sarebbe stata particolarmente toccante o interessante. Posso dire che ho dovuto fare dieci passi

indietro non appena il gruppo si è costituito e abbiamo mollato gli ormeggi. Mi sono accorta di non

avere avuto un atteggiamento flessibile, curioso e aperto. Proprio come un terapeuta che si trova di

fronte a situazioni già viste, che appaiono scontate e non si pone il dubbio che possano invece

raccontargli e regalargli aspetti inaspettati e incredibili.

Pensando alla metafora della barca ed anche alla cooperazione che deve avvenire tra equipaggio e

skipper, mi viene in mente il concetto di “paziente esperto” (Anderson e Goolishian, 1998): per

ottenere una conversazione terapeutica e tentare di esplorare i problemi attraverso il dialogo,

bisogna esserci insieme, co-costruire una relazione in cui terapeuta e paziente partecipano al co-

evolvere di nuovi significati, nuove realtà e nuove narrative. Mentre il dialogo evolve, una nuova

narrativa, storie non ancora dette vengono mutualmente create.

Per ottenere tutto ciò il terapeuta potrebbe adottare una posizione di “non esperto” caratterizzata da

un atteggiamento di curiosità: il terapeuta vuole sapere cosa il paziente gli vuole raccontare, invece

di farsi offuscare le idee da opinioni e aspettative preconcette sul paziente, su quello che è il

problema, su come va affrontato.

Così facendo il terapeuta non conosce a priori la situazione e si lascia guidare dal punto di vista del

cliente: attraverso la curiosità nei confronti dell’Altro, il terapeuta si avvicina al paziente e lo prende

in considerazione nella sua storia.

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1. TERAPIA E PREGIUDIZI

Denis Diderot, filosofo e scrittore francese (1713-1734) scriveva che “l’ignoranza è meno lontana

dalla verità del pregiudizio”.

Hugo Von Hoffmannsthal (1874-1929) scriveva che “ i più pericolosi dei nostri pregiudizi regnano

in noi contro noi stessi, dissiparli è genialità”.

1.1 IL PREGIUDIZIO NELLE SCIENZE SOCIALI

Il termine pregiudizio (dal latino "prae", prima e "iudicium", giudizio) può assumere diversi

significati, tutti in qualche modo collegati alla nozione di "giudizio prematuro", cioè parziale e

basato su argomenti insufficienti e su una loro non completa o indiretta conoscenza. Questo

concetto è stato oggetto di studio nelle scienze sociali.

In psicologia sociale si intende per pregiudizio, quindi, l’opinione preconcetta concepita non per

conoscenza diretta di un fatto, di una persona o di un gruppo sociale, ma in base alle opinioni

comuni o alle voci: i pregiudizi rappresentano posizioni di favore o sfavore che hanno per oggetto

un gruppo, si formano nelle relazioni intergruppo e risultano largamente condivise. In questa

disciplina ci si è interessati soprattutto dei pregiudizi negativi; ma ne esistono anche di positivi e di

neutrali.

Il pregiudizio può essere analizzato da un punto di vista antropologico perché nasce dal comune

modo di approcciarsi verso la realtà. Fa parte quindi del senso comune, che è quella forma di

pensiero e di ragionamento che appartiene a una cultura e ne plasma la produzione culturale in

modo inconsapevole.

Si può dire anche che i pregiudizi sono culturali nel senso che variano da cultura a cultura. Ad

esempio gli europei hanno determinati pregiudizi nei confronti delle qualità fisiche e psicologiche

della razza nera. Molte tribù africane, all'opposto, pensano che gli europei siano portatori di

stregoneria nella loro terra.

Inoltre vi sono anche basi psicologiche in quanto è un pensiero che si basa sulle paure e le fobie del

singolo individuo e della collettività. Ad esempio, un pregiudizio può portare al razzismo, perché si

ha paura dell'altro, dell'altra cultura, e questo avviene soprattutto nei casi in cui la si conosce poco.

Si può dire allora che l'ignoranza in un determinato campo porta al pregiudizio.

Un pregiudizio è generalmente basato su una predilezione immotivata per un particolare punto di

vista o una particolare ideologia. Un tale pregiudizio può ad esempio condurre ad accettare o

rifiutare la verità di una dichiarazione non in base alla forza degli argomenti a supporto della

dichiarazione stessa, ma in base alla corrispondenza alle proprie idee preconcette. Il pregiudizio non

ammette quindi alcuna riflessione; ciò non significa che sia necessario, prima di affrontare qualsiasi

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questione, liberarsi da ogni pregiudizio, ma solo che di ogni proprio pregiudizio vada assunta piena

consapevolezza, al fine di relativizzarne il peso e di abbandonare ogni insostenibile pretesa di verità

a priori. Solo così è possibile instaurare un dialogo tra religioni, popoli, parti politiche diverse, nel

quale gli interlocutori non debbano rinunciare alle proprie più genuine e marcate posizioni: il

dialogo è possibile proprio perché nessuno crede che la propria verità renda menzogna quella

dell’altro.

G.W. Allport nel 1954 (Palmonari, Cavazza, Rubini, 2002) sosteneva che un concetto errato (che è

sempre possibile) si trasforma in pregiudizio quando rimane irreversibile anche di fronte a nuovi

dati conoscitivi. Il modo di pensare che sta alla base del pregiudizio comporta il ricorso allo

stereotipo: lo stereotipo non viene sottoposto alla verifica della realtà e non viene modificato dalle

esperienze che ne contraddicono la natura stessa.

L’irreversibilità si ritrova facilmente nella logica della "eccezione" che viene utilizzata in questo

tipo di pensiero: se si ritiene, pregiudizialmente, che ad un dato gruppo di persone ben si attagli

l’etichetta di "ladri" (per esempio i rom), ben difficilmente si cambierà opinione di fronte a persone

che in tutta evidenza si comportano in modo difforme dal nostro pregiudizio. E se non si riesce a

reggere la dissonanza cognitiva generata da un comportamento non previsto (ad esempio un ragazzo

rom che ci insegue per restituirci il portafoglio perso o la borsa dimenticata) si può fare ricorso alla

logica dell’eccezione che, al solito, conferma la regola: i nomadi sono ladruncoli e ciò che mi è

accaduto è una eccezione che conferma l’assunto di fondo, anziché partire da questo fatto per

mettere in dubbio la propria convinzione originaria.

Il filosofo Hans-George Gadamer (1986) ha riletto i pregiudizi in modo diverso indicando come da

essi sia impossibile prescindere e sottolineando la necessità perenne di fare i conti con i propri

pregiudizi rimettendoli in discussione ed evitando di cristallizzarli in forme irreversibili.

Gadamer sottolineava che il rapporto con tutto ciò che noi riceviamo come tramandato non implica

necessariamente una sua assunzione acritica della tradizione ma, al contrario, richiede un confronto

problematico ed innovativo. Solo la consapevolezza delle forza della tradizione e della persistenza

dei pregiudizi rende possibile al pensiero un intervento critico di differenziazione.

Gadamer affermava che quando ciascuno emette un giudizio è influenzato dalla propria visione del

mondo, che tuttavia non costituisce un inconveniente, bensì una condizione fondamentale del

processo cognitivo. Egli affermava, a partire da questi presupposti teorici, che per pregiudizio si

intende solo un giudizio che viene pronunciato prima di un esame completo e definitivo di tutti gli

elementi obiettivamente rilevanti. Secondo questo punto di vista, il pregiudizio non va eliminato,

ma abitato con una certa phrónesis ("saggezza", o "prudenza", che a sua volta richiama il latino pro-

videre ovvero la capacità di "guardarsi (se videre) intorno” (pro)).

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1.2 UN PO’ DI STORIA

Appare opportuno definire nei passaggi più essenziali, senza entrare troppo nello specifico, il

contesto teorico-culturale in cui si inserisce il lavoro di Cecchin, Boscolo e collaboratori.

Secondo la cibernetica di primo ordine i pregiudizi che il terapeuta portava in seduta erano

irrilevanti: la terapia familiare mirava ad evidenziare i modelli di interazione al’interno della

famiglia, tralasciando la cosiddetta “black box”, e ad interromperli se considerati non funzionali,

attraverso interventi di tipo strategico. Parliamo della fine degli anni Sessanta e dell’approccio

rivoluzionario alla terapia familiare della Scuola di Palo Alto (MRI).

All’inizio il gruppo di Milano costituito da Boscolo, Cecchin, Selvini Palazzoli e Prata sviluppò un

orientamento che partiva dalle idee di base della cibernetica di primo ordine sviluppata al MRI di

Palo Alto, ma che adottava come metodo i concetti di neutralità, ipotizzazione e connotazione

positiva. Ci si focalizzava sulla comprensione della storia dell’intera famiglia, ma comunque tutto

ciò che riguardava il terapeuta, i suoi pregiudizi e le sue reazioni emotive veniva messo in secondo

piano.

Successivamente è avvenuto un cambiamento: l’attenzione non veniva più posta sulla pragmatica,

ma sulla semantica; l’interesse veniva posto sui significati che le persone danno agli avvenimenti e

sulla costruzione della realtà di ogni individuo.

L’idea di un terapeuta distaccato diventava sempre meno accettabile, quindi da una cibernetica di

primo ordine definita “dei sistemi osservati”, si passava attorno agli anni Ottanta alla cibernetica di

secondo ordine, in cui l’idea basilare era di concepire i sistemi come osservanti, cioè capaci di

guardare se stessi, di osservare le proprie osservazioni. È una cibernetica dell’autoriflessività, in cui

il fulcro dell’interesse è proprio l’osservatore stesso che, con i suoi pregiudizi, teorie e sensibilità

costruisce e descrive la realtà osservata.

Von Foester (1982) affermava che l’osservatore entra nella descrizione di ciò che è osservato, così

che l’obbiettività non è possibile. La conoscenza è prodotta da un rapporto attivo con il mondo e

l’osservatore è colui che ordina e organizza il mondo costruito dalla sua stessa esperienza.

L’osservatore diventa parte del sistema che osserva e diventa impossibile trascurare la sua incidenza

nel co-costruire la realtà. Egli sottolineava che è la nostra epistemologia a determinare cosa

vediamo e come lo vediamo e che la introduzione dell’osservatore all’interno del sistema, con la

conseguente perdita della neutralità, è fondamentale per un’epistemologia dei sistemi viventi.

Da queste premesse nacque il movimento del costruttivismo: l’osservatore non viene più

considerato come elemento esterno al processo di conoscenza, ma partecipa attivamente a costruire

il sistema osservato. Il termine costruttivismo presuppone che la realtà conosciuta non è pre-data

alla conoscenza, ma viene a qualche livello costruita dal soggetto conoscente. La realtà dunque non

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è qualcosa di univocamente e oggettivamente dato, ma è connessa al soggetto conoscente. Per i

costruttivisti, non si può parlare di realtà oggettiva, nel senso di inerente all’oggetto di osservazione,

poiché secondo l’epistemologia costruttivista il sapere non esiste indipendentemente dal soggetto

che conosce. Ne consegue che l’osservazione della realtà non può essere una fotografica e oggettiva

rappresentazione di essa, piuttosto si tratta di una costruzione soggettiva di significato, a partire da

una complessa rielaborazione interna di sensazioni, conoscenze, credenze ed emozioni, sulle quali

si orienta la nostra attenzione. Come afferma Maturana (1980) “tutto ciò che è detto è detto da un

osservatore” e questo evidenzia la posizione secondo la quale non è possibile fare riferimento a

realtà oggettive o verità assolute per scegliere una descrizione piuttosto che un’altra. Perciò non si

può fare altro che basarsi sulle molteplicità delle realtà (multiversi) che vengono costruite mediante

il linguaggio, attraverso il consenso (ci sono tante realtà, quanti sono i linguaggi, per questo noi

viviamo in un multiverso).

Allora il terapeuta non è più colui che fotografa una realtà, ma la costruisce mentre la conosce:

attraverso le mappe (le ipotesi e le teorie) che non sono mai definitive ma provvisorie, diviene

importante l’ascolto dell’individuo, della famiglia, così come l’attenzione alle loro premesse e alle

nostre.

Il costruzionismo sociale successivamente, in linea con il costruttivismo, sostiene che non esiste

una realtà oggettiva, suscettibile di essere scoperta da un osservatore esterno e neutrale, piuttosto

essa è frutto di una costruzione condivisa da diversi soggetti, appartenenti alla medesima comunità

culturale, in interazione tra loro. Questo approccio, a differenza del costruttivismo, sostiene che la

realtà non è conosciuta da un singolo soggetto, ma da una collettività di soggetti in interazione, la

cui cultura e i cui processi comunicativi determinano non soltanto le modalità con cui la realtà viene

conosciuta, ma la costruzione stessa della realtà.

A partire da qui si è sviluppato il movimento narrativo di cui i maggiori esponenti sono Goolishian,

Anderson, Andersen e Hoffmann. Questo approccio enfatizza la storia degli individui cercando di

evitare la posizione di esperto da parte del terapeuta, ipoteticamente vissuta come forma e abuso di

potere. Il terapeuta dovrebbe essere un ascoltatore attivo; la relazione terapeutica si basa sulla co-

costruzione di storie meglio formate attraverso un dialogo vivace tra pazienti e terapeuta teso a

difendere il sistema familiare dai pregiudizi dello stesso che potessero inficiare il setting. Il

terapeuta non dovrebbe imporre alcun punto di vista al cliente, con un atteggiamento di non autorità

e di rispetto per l’altro e ridimensionamento dei pregiudizi del terapeuta. Mentre l’approccio

narrativo ha alimentato un interesse crescente per la terapia come creazione di storie e una tensione

verso l’arte di non interferire con le proprie idee nella costruzione di storie da parte delle persone,

Cecchin ha elaborato l’idea dell’impossibilità di neutralizzare il proprio punto di vista, individuando

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il cuore della terapia proprio nella relazione tra pregiudizi della persona e del terapeuta. Si potrebbe

dire che Cecchin abbia posto l’attenzione sui mattoni che terapeuti e persone utilizzano per co-

costruire le storie. L’approccio narrativo e quello proposto da Cecchin e Boscolo condividono la

medesima intenzionalità di riconoscere i limiti del terapeuta e rispettare la libertà delle persone nella

loro storia.

Cecchin e collaboratori partirono da qui dichiarando l’impossibilità, pur nel tentativo, di adottare la

posizione di non-esperto; Cecchin (1997) dichiarava di trovarsi impacciato perché qualsiasi sforzo

per controllare i propri pregiudizi e le proprie opinioni era inefficace, e affermava l’impossibilità di

neutralizzare il punto di vista del terapeuta.

1.3 IL TERAPEUTA E I SUOI PREGIUDIZI

La riflessione sui pregiudizi, insieme all’elaborazione del concetto di irriverenza e curiosità, si

possono definire come una peculiarità che contraddistingue il lavoro e il pensiero di Gianfranco

Cecchin nell’ambito della terapia familiare. Egli attraverso questa riflessione ha voluto mettere in

evidenza che, anche se solitamente i pregiudizi hanno una connotazione negativa, sono presenti

nella relazione terapeutica, come in ogni altro tipo di relazione umana. Dunque, egli proponeva ai

terapeuti di esaminarli, discuterne e introdurli nella conversazione terapeutica.

Cecchin (1997) affermava che quando parliamo di pregiudizi intendiamo “ogni serie di fantasie,

idee, verità accettate, presentimenti, preconcetti, nozioni, ipotesi, modelli, teorie, sentimenti

personali, stati d’animo e convinzioni nascoste: di fatto, ogni pensiero preesistente che contribuisca,

in un incontro con gli altri esseri umani, alla formazione del proprio punto di vista, delle proprie

percezioni, delle proprie azioni”.

I pregiudizi umani sono inevitabili e si manifestano attraverso il linguaggio: “tutti gli esseri umani

portano con sé una serie di parole che usano per giustificare le loro azioni, opinioni ed

esistenze…Sono le parole con cui raccontiamo, talvolta guardando al futuro e talvolta rivolgendoci

al passato, la storia delle nostre vite” (Rorty, 1989, in Cecchin, Lane, Ray, 1997).

Cecchin dichiarava, in accordo con il già citato filosofo Gadamer, che la nozione di pregiudizio non

è in sé e per sé negativa. I pregiudizi determinano la direzione verso cui si orienta tutta la nostra

capacità di esperire. Per mezzo dei nostri pregiudizi noi conosciamo il mondo, effettuiamo le

esperienze e ci imbattiamo in qualcosa che ha per noi un significato.

Questo non significa che siamo chiusi dentro un muro che non ci permette di conoscere le novità.

Al contrario le nostre idee, i nostri preconcetti ci permettono di aprire le porte alla curiosità verso

qualcosa di nuovo.

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Pur considerando i pregiudizi anche da un punto di vista positivo, Cecchin riconosceva la loro

pericolosità nelle relazioni tra terapeuta e cliente, o tra osservatore e oggetto di osservazione,

allorché non ci si renda consapevoli di esserne influenzati e si crea l’occasione in tal modo di essere

agiti da loro.

Non è possibile prescindere da tali preconcetti. Lo stesso Cecchin (1997) sosteneva che è

impossibile non utilizzare i pregiudizi personali nella terapia: egli consigliava che il migliore

utilizzo dei pregiudizi fosse l’esserne acutamente consapevoli, piuttosto che impegnarsi in

un’inutile tentativo di scrollarseli di dosso.

È importante da parte del terapeuta prendere coscienza dei propri pregiudizi, assumersene la

responsabilità e utilizzarli in modo costruttivo all’interno della terapia, questa capacità, secondo

l’autore, corrisponde ad un atteggiamento di irriverenza e coraggio.

Sempre Cecchin raccomandava (Soderlund,1999) di cercare di capire la famiglia che si ha di fronte,

prima di applicarle il nostro pregiudizio, perché altrimenti il rischio è di rimanere ciecamente

attaccati a quei pregiudizi tanto che non mancheremo di ritrovare nella famiglia il difetto che

cerchiamo; secondo l’autore il pregiudizio alternativo potrebbe essere quello di chiedersi cosa

funziona in quella famiglia, come è giunta fino ad ora, con quali risorse, in quanto anche nella storia

più orribile, si può scoprire qualcosa di interessante.

Secondo l’autore la terapia avviene nell’incontro tra i pregiudizi del terapeuta e del paziente:

avviene uno scambio tra i due per cui le idee, le azioni, i pensieri di uno vengono influenzate da

quelle dell’altro in un’ottica circolare di interdipendenza.

Il terapeuta solitamente per cercare di essere il più possibile neutrale e distaccato, si sottopone a

psicoterapia individuale oppure si avvale dello sguardo di altri attraverso la supervisione. Secondo

Cecchin (1997) neppure questi accorgimenti possono servire ad evitare che le nostre idee e le nostre

premesse trapelino nelle nostre azioni. Ma aggiungeva che non solo ciò è inevitabile ma non è

neppure negativo purché però il terapeuta sia consapevole che le sue opinioni e le sue azioni, non

costituiscono l’unica realtà possibile e quindi le presenti al cliente come costruzioni personali.

Già Kelly nel 1954 (Kelly, 2004) affermava che la realtà non è considerata come un dato oggettivo,

ma ciò che si conosce è inestricabilmente connesso al soggetto conoscente .

Dunque l’uomo “osserva il mondo attraverso lenti o schemi (patterns) che egli stesso crea e che

cerca di adattare alle diverse realtà”. Sono proprio questi schemi che Kelly definisce costrutti.

Afferma inoltre che tali patterns servono a costruire la realtà e consentono di dare un senso a ciò che

si sperimenta. Potremmo allora affermare che la realtà stessa che noi abbiamo in mente è un

costrutto.

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Secondo Cecchin (Soderlund,1999) è un pregiudizio pensare che la realtà esista: ciò che vediamo

non è realmente lì, ma lo stiamo creando noi, lo stiamo cercando in quello stesso istante.

Egli ha definito i modelli terapeutici, descrivendoli come le “lenti” con cui i terapeuti guardano la

realtà (Soderlund,1999).

Ognuno può osservare le cose attraverso le lenti della teoria alla quale si sente più legato, che sia

quella sistemica, quella psicanalitica o quella del costruzionismo sociale. “I vetri decidono la tua

realtà”. L’importante è conoscere il genere di lenti che si stanno indossando. Dovremmo essere

consapevoli di quali vetri indossiamo tutto il tempo, quali di quelli che ci piacciono sono i migliori.

Tutti i terapeuti sono in qualche modo condizionati da pregiudizi e premesse personali che

influenzano il modello di terapia che viene adottato. “Tutte le persone e tutti gli (altri) inventori di

modelli terapeutici sono stati abili maestri, capaci di creare approcci eleganti ed efficaci partendo da

qualche pregiudizio presente nel contesto culturale in cui operavano. Il contesto culturale nel quale

siamo inseriti è uno degli aspetti che influenza le nostre opinioni” (Cecchin, Lane, Ray,1992). Ogni

osservazione deve tener conto tutti questi fattori, di cui i processi culturali sullo sfondo hanno una

notevole importanza. E si suggerisce inoltre di tenere in considerazione anche la mano che sorregge

la lente che l’osservatore utilizza per esaminare gli eventi o gli individui. La mano dunque

rappresenta il soggetto che osserva, il quale stabilisce il focus dell’analisi, ovvero ciò che scegliamo

di esaminare.

La distinzione tra cosa viene messo in primo piano nell’osservazione e cosa resta sullo sfondo si

limita alla nostra analisi, e non è assunta per principio. Ogni aspetto di un fenomeno non è separato

dall’altro. Si può aggiungere che ciò che l’osservatore decide di mettere in primo piano dipende dai

suoi pregiudizi.

A questo punto possiamo considerare i pregiudizi, oltre che inevitabili, anche indispensabili in

quanto hanno il compito di stabilire quale aspetto della realtà osservare. Cecchin (Suderlund, 1999)

sottolineava che dobbiamo avere pregiudizi proprio per guardare la realtà (paradossalmente in un

certo senso quindi noi necessitiamo dei pregiudizi per vivere); ma in più aggiungeva che

l’importante è essere consapevoli che sono pregiudizi. E’ pericoloso, nel momento in cui le cose

non funzionano, diventare troppo fedeli al proprio pregiudizio, perché potrebbe trasformarsi in

fanatismo. L’autore voleva intendere che c’è il rischio di credere così tanto al proprio pregiudizio,

da non considerarlo più come tale. In tal senso i pregiudizi se non riconosciuti secondo la propria

reale identità e funzione, possono facilmente diventare l’infrastruttura teorica di pensieri

totalitaristici e distruttivi. E’ il caso di Hitler e del suo nazifascismo. Il rischio dunque non è nel

pregiudizio, ma nella rigidità della propria idea e nel non credere alla possibilità di cambiamento.

Capita così, secondo il pregiudizio comune che un individuo deve essere fermo e coerente, che si

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creda che una persona sia seria se rimane sempre fedele alla stessa idea, anche se fa morire tutti. E

ci si trasforma così in un Hitler che crede così fortemente e ciecamente in quella idea anche sé è

distruttiva e non funziona. Si diventa così bloccati a quell’idea che si continua a ripeterla in modo

peggiore fino a che non diventa così autodistruttiva.

Tornando alla psicoterapia, poiché esiste una stretta relazione tra osservatore e oggetto di

osservazione dobbiamo essere in grado “di accorgerci dei nostri pregiudizi e di come essi entrano in

gioco nella relazione con i clienti altrimenti ci troveremo involontariamente a iniziare un processo

di escalation in cui ciò che vogliamo correggere peggiorerà nella misura in cui cercheremo di

cambiarlo” (Cecchin, Lane, Ray, 1997). Per evitare tale escalation, che si può creare tra pregiudizi

del terapeuta e del cliente (che lottano alla ricerca di quello “giusto”), e che impedisce il

cambiamento, Cecchin sottolineava l’importanza del team di osservazione. I pericoli cui incorre un

terapeuta, soprattutto inesperto, sono molti, ma in particolar modo vi è la tendenza a divenire

eccessivamente fanatici nei confronti di un modello (pregiudizio di saper leggere la “realtà”

attraverso le lenti giuste): l’autore e i suoi collaboratori spingono il terapeuta ad accettare la

possibilità di dubitare delle proprie idee, e di convivere con questo dubbio (essere irriverenti e

curiosi).

Uno dei preconcetti più rischiosi nella pratica terapeutica, secondo l’autore, consiste nel pensare

idealmente a come le persone dovrebbero essere. Questo porta a sviluppare progetti determinati

dalle proprie aspettative, piuttosto che dalla considerazione di quanto funziona nel sistema. Il

terapeuta sistemico è chiamato (attraverso il lavoro d’équipe, l’ipotizzazione, la riflessività, la

consulenza e la supervisione) a interrogarsi continuamente sulle proprie premesse epistemologiche,

sui pregiudizi che porta nell’incontro con la famiglia e che ne strutturano gli esiti. Inoltre deve avere

la capacità di osservare e di ascoltare per comprendere la logica che mantiene quel sistema.

Qualsiasi perturbazione che avverrà dall’esterno, diventerà informativa e trasformativa per la

famiglia solo se e quando essa riuscirà a darle senso, a partire dalle proprie premesse. Cecchin

(1997) a tale proposito sosteneva che prima di pensare alle riforme occorre riflettere sui propri

pregiudizi in relazione a quelli altrui, in modo che ogni terapeuta “cerchi di rendersi conto di come

contribuisce a mantenere il sistema attuale come è”.

Infatti, in linea con questo pensiero, l’autore affermava che prima di cambiare il mondo bisogna

cercare di capire perché è quello che è, volendo intendere di assumersi la responsabilità dei propri

pregiudizi (Cecchin, Lane, Ray, 1997).

Egli sottolineava la possibilità di soffermarsi non tanto sul contenuto dei pregiudizi del terapeuta,

ma sulla relazione che si crea tra i pregiudizi di questo e del paziente all’interno del setting

terapeutico. Il centro dell’interesse del terapeuta diventano appunto le storie di entrambi che si

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incontrano e lo stesso autore aggiungeva che anche il solo processo di messa in discussione dei

pregiudizi del terapeuta e di quelli del cliente può già essere un fattore terapeutico. Egli sottolineava

che ogni preconcetto merita di essere esaminato all’interno del suo contesto di appartenenza: nel

momento in cui un pregiudizio viene decontestualizzato perde di significato.

Il terapeuta (e io aggiungerei ognuno di noi, nella vita quotidiana) dovrebbe rendersi conto che le

sue idee non sono verità assolute ma pregiudizi derivanti dalla sua esperienza e quindi opinabili e

vulnerabili al cambiamento. Un atteggiamento del genere pone il terapeuta nella posizione di

considerare le proprie ipotesi e i propri modelli come contestabili e quindi permettere una relazione

con il paziente che si allontana da un atteggiamento di tipo istruttivo. Secondo Cecchin questo è un

atteggiamento che sta alla base di una buona relazione terapeutica, perché egli stesso affermava che

considerare il cliente come un povero inesperto che soffre, bisognoso della compassione o

addirittura di un didatta che lo istruisca a vivere meglio, risulta essere irrispettoso e “se trattiamo le

persone con rispetto, esse sono più facilmente in grado di mettere in discussione i propri pregiudizi;

se li accusiamo di sbagliare, la maggior parte sentirà di dover difendere la propria visione del

mondo” (Cecchin, Lane, Ray 1997). Essere irriverenti nei confronti dei propri preconcetti è

sinonimo di umiltà nei confronti dell’altro e quindi di rispetto.

È interessante l’analisi che Cecchin e collaboratori (1997) hanno proposto sul pregiudizio dei

terapeuti rispetto a quale significato e scopo abbia la psicoterapia: hanno identificato il terapeuta

“missionario” (siccome nell’infanzia non ha sofferto, crede di sapere come una famiglia dovrebbe

essere) e il terapeuta “ferito” (nell’infanzia è stato in un qualche modo maltrattato e vuole offrire

aiuto a chi soffre). Si sottolinea ancora l’importanza di rendersi consapevoli dei propri preconcetti

per non cadere in queste categorie ed evitare di entrare, all’interno della relazione terapeutica, in

processi che tendono a perpetuarsi senza portare ad alcuna soluzione funzionale.

Ciò che affermava Cecchin mi sembra “giusto” (la verità è sempre relativa) e interessante, ma di

sicuro non è affatto semplice passare dall’affascinante teoria alla pratica. Appena ho letto questi

capitoli in cui l’autore dichiarava il suo pensiero, innanzitutto mi sono entusiasmata (e questo, alla

luce delle riflessioni che si stanno facendo, può essere considerato “pericoloso”) perché sono

concetti che condivido e che credo debbano entrare nella riflessione di ciascuno di noi, a

prescindere dal fatto che uno faccia lo psicoterapeuta o l’operaio, piuttosto che l’ingegnere o il

medico; subito mi sono proiettata nella mia vita quotidiana e ho iniziato a riflettere rispetto alla

possibilità di avere dei pregiudizi. La cosa più eclatante è che io, erroneamente e anche

presuntuosamente, mi sono sempre dichiarata una persona priva di ogni pregiudizio, aperta

mentalmente e flessibile. Anzi, ho sempre discusso e rimproverato le situazioni che facevano

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presagire un atteggiamento a mio parere rigido, professando la necessità di essere liberi da ogni

preconcetto. Pensando in questi termini mi sono resa conto che questo era, ed è tutt’ora, il mio

grande pregiudizio, perché non è affatto possibile e pensabile, proprio per la natura umana,

osservare e costruire una realtà “purificata” dalle proprie premesse.

E subito mi sono resa conto che tutta la mia quotidianità è permeata e modellata da pregiudizi: noi

viviamo nel pregiudizio, tutto quello che pensiamo, come agiamo, come ci relazioniamo, quello che

osserviamo e come lo osserviamo, è veicolato da tutta una serie di preconcetti derivanti, o dalla

nostra esperienza di vita diretta, o indirettamente passati attraverso la cultura familiare e sociale,

attraverso una storia che, essendo passata naturalmente, attraverso i non detti, gli atteggiamenti, i

valori, i miti, le credenze, ha la pretesa in sé di essere l’essenza della verità assoluta.

Mi sono ritrovata ad auto-osservarmi, a riflettere sui miei atteggiamenti nei confronti degli altri, di

certe tematiche, nel mio ruolo di futura psicoterapeuta, ma anche di persona “normale” che si

relaziona agli altri e agisce nella quotidianità sul il mondo; osservando tutti i pregiudizi che Cecchin

e collaboratori (1997) hanno elencato come i più frequenti, mi sono ritrovata in molti di essi e mi

sono resa conto di come non ci si possa relazionare all’Altro dimenticandosi di se stessi e delle

proprie premesse. Noi vediamo l’Altro in base ai nostri costrutti personali.

Mi viene alla mente una situazione clinica che ho seguito insieme alla mia tutor nel corso del

tirocinio che effettuo all’interno di un Centro di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

Una bambina di sette anni è stata portata in consultazione dalla madre e dal padre (che in realtà

risulterà sempre latitante) per un problema riguardante l’alimentazione (nello specifico presentava

una alimentazione selettiva, contornata da aspetti fobici nei confronti del cibo). A parte la prima

volta in cui erano presenti tutti e tre, i colloqui si sono svolti con la madre e la bambina, insieme e

individualmente.

La signora era una bella donna, giovane, che ha avuto tre figli (una di 8, una di 7 e l’ultimo di 4) e

mandava avanti la casa praticamente da sola. Fin da subito l’atteggiamento della signora (insieme al

marito) è stato di grande attacco e sfida, mosso secondo noi dal preconcetto che questa consulenza

la provavano, ma in fin dei conti non credevano potesse essere utile: c’era la pretesa di avere subito

dei risultati. Dall’altra parte io mi sono subito posta in forte contrapposizione alla signora perché la

ritenevo estremamente esigente nei confronti della figlia, soprattutto riguardo la scuola e l’idea su

cui mi ero fissata era che lei, casalinga frustrata che ha dovuto lasciare e perdere tutte le sue

passioni per mandare avanti la famiglia, riversasse tutte le sue aspettative su questa bambina che

caratterialmente era più simile a lei, ma anche lontana (c’era un grande rapporto conflittuale fra le

due). Questo carico faceva tanto arrabbiare la piccola, che rifiutava tutto ciò che lei cucinava,

quanto me; ho provato rabbia, fastidio, soprattutto nei momenti in cui sentivo che la signora

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disconfermava tutto, il nostro lavoro e quello della bambina. Il lavoro effettuato con loro nel tempo

ha scalzato questi primi screzi emotivi, la signora si è molto affidata a noi e si è aperta molto (pur

mantenendo di fondo un atteggiamento di pretesa). La donna non aveva fatto molte cose che

avrebbe voluto, ma comunque era felice, la routine familiare le piaceva e anche il fatto di essere il

pilastro di tutto la caricava molto sotto il punto di vista della propria autostima. Parlando di queste

mie reazioni emotive con la mia tutor mi sono resa conto che inizialmente mi ero fatta accecare da

un pregiudizio che ha origini nella mia cultura familiare: la donna casalinga, non attiva

professionalmente, è frustrata perché non è possibile essere felici nel fare solo e soltanto una vita

domestica. Nella concezione delle donne della mia famiglia la donna casalinga è infelice, in quanto

per essere felici bisogna gratificarsi socialmente e lavorativamente; soprattutto si deve rifiutare il

ruolo e l’etichetta stereotipata per cui la donna non si possa realizzare professionalmente e debba

essere rinchiusa entro ruoli predefiniti. Forse in questa situazione vedevo nella scelta della donna

una sua debolezza di fronte al marito, vedevo una donna che non aveva avuto il coraggio di vivere

come avrebbe voluto, ma che ha fatto decidere altri al suo posto. Per me la riuscita professionale

corrisponde alla libertà e quindi alla forza di carattere. Chi non ha ambizioni (che riguardano

esclusivamente l’aspetto lavorativo-professionale) non ha carattere, è debole. Questo era un

pensiero che mi è sempre scattato inconsciamente e non avevo mai avuto modo, prima d’ora

(proprio perché naturale e implicito al mio modo di pensare), di soffermarmi a riflettere su questa

mia lettura della realtà.

Questo mi sembra un piccolo esempio calzante di come i pregiudizi costituiscano la nostra vita

quotidiana e di come sia importante, al fine di instaurare una relazione di curiosità con l’altra

persona, essere irriverenti nei loro confronti e metterli in continua discussione; parlare con la mia

tutor di tutto quello che mi provocava dentro questa situazione e avere il suo punto di vista

alternativo e diverso, mi ha fatto riflettere molto e mi ha aperto mentalmente: sono riuscita a vedere

in quella signora una mamma affettuosa, forse troppo, che si era legata a questa figlia tanto simile a

lei forse anche per una mancanza affettiva e fisica del marito, sempre fuori per lavoro. Durante i

colloqui effettuati con la donna la terapeuta ha puntato molto sulla sua vita da casalinga, sui suoi

sogni e desideri mai realizzati, ma si è lavorato molto anche sugli aspetti positivi e i bei regali che

questa vita le ha dato e le continuava a dare: la donna si era realizzata nella sua vita, anche se questo

escludeva una vita lavorativa fuori casa. Di sicuro se non avessi riflettuto su quel mio pregiudizio,

mi sarei posta in maniera fortemente giudicante nei confronti della signora, portandola forse anche

ad abbandonare la relazione che invece ha portato, successivamente, soprattutto con sedute

individuali insieme alla bambina, ad un effettivo miglioramento del comportamento di questa nei

confronti del cibo e anche nei confronti della madre e degli altri membri della famiglia.

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2. TERAPIA ED EMOZIONI

A questo punto vorrei collegarmi ad un altro tema secondo me strettamente connesso al pregiudizio

e al lavoro di auto-osservazione che il terapeuta deve fare, per poter maggiormente rispettare chi ha

di fronte e chiede il suo aiuto: il pregiudizio, e quindi l’operazione di osservazione e messa in

discussione di questo, porta con sé tutta una serie di emozioni e sentimenti (come è emerso anche

dall’esempio riportato) che è bene che il terapeuta riconosca e sappia gestire e utilizzare per meglio

sintonizzarsi con la famiglia o l’individuo.

Già nei capitoli precedenti, ripercorrendo a grandi linee il paradigma sistemico e relazionale, si è

accennato al grande e rivoluzionario passaggio dalla prima alla seconda cibernetica, per cui si è

passati da un rifiuto di tutto ciò che poteva ricollegarsi anche solo lontanamente al paradigma

psicoanalitico, alla necessità di riappropriarsi dei sentimenti e delle emozioni. Molte sono le

riflessioni che emergono da quando si è cominciato a parlare, nelle stanze di terapia, di sentimenti e

di emozioni.

Ci si potrebbe chiedere se prendere in considerazione i sentimenti possa essere davvero considerata

una novità o, come spesso succede, si tratta di disvelare qualcosa di già presente, inesistente per la

semplice ragione che non vi erano occhi capaci di coglierlo adeguatamente.

Ripensando ad un certo modo di fare terapia (la strategica) pare di poter osservare che, per la sola

ragione di professare che ogni cosa discende e trae significato dal comportamento esibito, i

sentimenti non solo perdessero d'interesse, ma potessero addirittura essere considerati una sorta

intralcio al lavoro con le famiglie.

Come già detto, la consapevole esclusione degli aspetti emotivi dell'interazione per focalizzarsi

sugli effetti pragmatici dei comportamenti e dei sintomi, è da ricondursi all'esigenza di

differenziarsi (e, per certi aspetti, individuarsi) dalla psicoanalisi, disciplina che in misura maggiore

si è occupata del campo emozionale.

Tuttavia, nel momento in cui l'intervista non è unicamente centrata sui comportamenti, ma

emergono e vengono presi in considerazione anche i vissuti emotivi e le connessioni storico-

cronologiche, si assiste ad una serie di modificazioni: l'attenzione viene focalizzata anche

sull'individuo, non più inteso nel suo ruolo di componente di un tutto, ma come sistema di per sé e

ciò legittima anche interventi che si avvalgono di colloqui individuali (Boscolo e Bertrando, 1996).

Quindi, rispetto al procedere terapeutico precedente, considerare la sfera emozionale non modifica

solo il modo di condurre la seduta ma permette anche di mettere da parte quelle tecniche di chiaro

stampo strategico finalizzate principalmente alla remissione del sintomo, come per esempio le

prescrizioni paradossali del sintomo.

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Di sicuro l'incontro tra due o più persone, tra terapeuta e paziente/i, determina un contesto a forte

valenza emotiva in cui è data la possibilità che sentimenti e bisogni personali emergano e che si

costituisca, nel tempo, un campo emotivo. Questo campo emotivo è caratterizzato da molteplici

manifestazioni e da diverse intensità, a seconda che si tratti di un rapporto con una famiglia o con

un solo individuo, ma comunque esistente e vincolante per ambo le parti.

I terapeuti sistemici si trovano così a raccogliere, discutere e rileggere, oltre che gli aspetti

relazionali dei comportamenti, ciò che le persone provano nei contesti per loro significativi, nei

momenti cruciali della loro vita. Diventa utile ed importante aiutare a cogliere ciò che sta dietro a

certi comportamenti, a certe sensazioni dai contorni imprecisi.

Attualmente l’intervento terapeutico nella logica socio-costruzionista e narrativa avviene, come già

accennato, attraverso l’incontro tra i sistemi emotivi di significato e le narrazioni dei pazienti e dei

terapeuti i quali, nella conversazione, stimolano la ricerca di connessioni, significati, chiave di

lettura alternative sollecitando la costruzione di un quadro narrativo rappresentativo dal punto di

vista dei contenuti e dal punto di vista emotivo.

Nel contempo i terapeuti sistemici stanno imparando a riconoscere le proprie emozioni, in passato

arginate e allontanate da una idea di neutralità terapeutica che rischiava, se portata ad oltranza, di

tradursi in una inaccettabile etica del distacco terapeutico che risulta innaturale. Senza dubbio

ascoltare emozioni evoca emozioni. La psicoterapia è il luogo in cui le emozioni emergono,

rivivono, cambiano colore. Il terapeuta è dunque coinvolto nel processo terapeutico al pari del

paziente, sebbene le parti siano caratterizzate da competenze differenti.

L'esperienza emozionale in psicoterapia può risiedere, non certo e non solo nella storia del percorso

di vita del paziente, così come ci viene raccontata, o nelle sollecitazioni portate dal terapeuta, che

queste stesse storie ridisegnano, quanto piuttosto tra paziente e terapeuta, in questo incontro che

vivifica una nuova storia, è nella relazione che si generano le emozioni.

Il processo terapeutico è essenzialmente un contesto di incontro e di costruzione comune di

esperienza (di co-costruzione). Certamente, la relazione con un unico paziente favorisce un grado

maggiore di coinvolgimento emotivo tra le parti in causa, ma ciò non significa che questo non

accada nell'interazione con le persone di una famiglia.

Il terapeuta può condividere l'esperienza emozionale scaturita dall'incontro diretto con la famiglia o

l’individuo con chi, pur essendo parte del sistema osservato ne è diviso fisicamente da uno specchio

e ne è meno emotivamente coinvolto: cioè il gruppo di osservazione.

L'équipe terapeutica può avere una funzione di contenimento delle emozioni provate dal terapeuta,

che gli consenta, tra le altre cose, di poterle riconoscere ed utilizzare all’interno del processo

terapeutico in atto.

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L'équipe terapeutica, allora, sembra assolvere ad una importante funzione, fino ad oggi sottovalutata

(forse perché troppo vicino ad un procedere di taglio psicodinamico): rappresenta il luogo di

esplicitazione, partecipazione e proiezione delle emozioni del terapeuta.

Questo avviene in quanto anche l'équipe é luogo di incontro relazionale e, perciò, emozionale.

La funzione di rappresentazione dei propri vissuti emotivi, attraverso l'équipe che si fa "cassa di

risonanza", permette al terapeuta, quindi, di far emergere contenuti emotivi inespressi.

In una équipe sistemica tutto ciò avviene in tempo reale e questo appare uno degli aspetti più

significativi per quanto riguarda il potenziamento della operatività del terapeuta nella pratica

clinica.

Se il terapeuta è colui che conosce attraverso la relazione, non è possibile darsi una teoria che non

tenga conto degli aspetti emozionali. Dunque, il funzionamento dell'équipe sistemica si basa non

solo su una supervisione tecnica, ossia relativa alle strategie di conduzione, agli spunti da cogliere,

da indagare ed esplicitare, ma anche sulla supervisione che fornisce al terapeuta la possibilità di

esplicitare, elaborare, confrontare i suoi vissuti emotivi con quelli dell'équipe.

Questo risulta più evidente ed opportuno in situazioni molto cariche di valenza emotiva.

2.1 IL TERAPEUTA E LE SUE EMOZIONI

I primi anni di lavoro sistemico, come più volte accennato, evidenziavano uno scarso

coinvolgimento emotivo del terapeuta che sembrava poco interessato ai temi dell’empatia, del

transfert e controtransfert. Boscolo riferisce che “nel modello Milanese la centralità

dell’ipotizzazione e della circolarità da parte del terapeuta e dell’equipe, aveva avuto l’effetto di

concentrare l’attenzione sulle idee più che sulle emozioni…il sottoscritto avendo una formazione

psicoanalitica, compensava tale squilibrio con l’osservazione e la registrazione attenta del

linguaggio analogico dei clienti e delle emozioni suscitate in me stesso. Con l’avvento del

costruttivismo e della cibernetica di secondo ordine, è stato posto in primo piano l’osservatore, il

suo mondo esterno, le sue emozioni e l’autoriflessività. Come conseguenza di questo si è aperto un

vivace dibattito sulle emozioni che non può non avere un notevole effetto positivo sullo sviluppo

del modello sistemico-relazionale, facendolo uscire dalle secche del riduzionismo verso una visione

di maggiore complessità”. Anche M.Selvini Palazzoli sottolineava che il modello sistemico

inizialmente è derivato da scienze non umane (ecologia, biologia, astrofisica), ma che noi non

siamo paragonabili a stelle o cellule: ciò che ci contraddistingue sono le emozioni. Nel nostro

lavoro ci è impossibile fare dicotomie perché ogni conoscenza è imbricata nell’emozione e ogni

emozione nella conoscenza (in Maieutica 2003-2004).

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Sempre Boscolo (1996) sottolinea che grazie alla cibernetica di secondo ordine si è posta in primo

piano l’autoriflessività e l’attenzione sull’individuo, sui suoi pregiudizi, premesse ed emozioni.

L’interesse si è rivolto non solo verso le relazioni dell’individuo con il mondo esterno, ma anche

con il suo mondo interno. Questo vale sia per il paziente che per il terapeuta. Il concetto

dell’autoriflessività esprime la necessità naturale di un dialogo interno dell’individuo con se stesso e

la presa di coscienza dei propri pregiudizi e delle proprie teorie come lenti attraverso cui osservare e

comprendere l’altro.

È umano che un terapeuta, proprio perché non è esterno né neutrale, reagisca emotivamente alla

famiglia o ad alcuni dei suoi membri, con coinvolgimenti o antagonismi, simpatia o antipatia,

rabbia o compassione, in quanto entrano in risonanza con aspetti e vicende della propria storia

personale. Questi vissuti emozionali entrano a loro volta in risonanza con aspetti delle vicende e

delle storie delle famiglie e con le emozioni che le accompagnano creano ponti comunicativi che

strutturano la relazione terapeutica e possono portare a conoscenza e cambiamento. Onnis (1996)

afferma infatti che “ i modelli non hanno emozioni, mentre i terapeuti e le famiglie con cui essi

lavorano sì!”.

Molte sono le riflessioni e i campi di discussione su questo tema, sul fatto che si rischi di

avvicinarsi molto al concetto psicoanalitico di controtransfert, sul fatto che sia giusto o sbagliato

tenere sotto controllo le proprie emozioni piuttosto che utilizzarle in maniera attiva, seppur sempre

con coscienza. All’interno di un quadro teorico che considera il terapeuta partecipe del processo di

costruzione interpersonale che ha luogo nel setting terapeutico, che colloca le emozioni in un

ambito relazionale e considera la relazione fra terapeuta e paziente come una relazione reale fra due

o più persone che si incontrano in un tempo e spazio definito, appare opportuno che le emozioni del

terapeuta vengano considerate come indicatori della relazione che si è instaurata e vengano

utilizzate all’interno della relazione che costituiscono (Fruggeri, 1992). Sempre l’autrice afferma

che le emozioni del terapeuta non sono né una reazione ad uno stimolo esterno né riflesso delle

emozioni altrui, né proiezione di istanze fantasmatiche (teorie a stampo chiaramente dinamico):

rappresentano degli indicatori del modo in cui egli partecipa attraverso le proprie mappe, sistemi di

credenze e di significato alla costruzione della relazione. Viene comunque sempre evidenziata

l’importanza di essere consapevoli di se stessi e delle proprie reazioni nel qui ed ora della relazione

che si sta costituendo. Le emozioni quindi diventano uno strumento più che oggetto dell’auto-

osservazione, diventano strumento per monitorare la funzione terapeutica in quella specifica

situazione e in quel determinato tempo. La presa d’atto da parte del terapeuta della propria

esperienza emotiva, gli permette di riflettere su come contribuisce a costruire la relazione con i

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membri della famiglia e a promuovere così cambiamento. L’auto-osservazione viene intesa come

una funzione riflessiva in quanto si osserva se stessi mentre si osserva la famiglia.

Onnis (1996) sottolinea che l’autoriflessività del terapeuta rispetto le proprie emozioni, e io

aggiungerei anche verso i pregiudizi, non rappresenta solo il riconoscimento della sua inevitabile

appartenenza al setting terapeutico, ma è anche la condizione fondamentale per cui queste emozioni

diventino strumento di conoscenza e così una risorsa trasformativa e non, al contrario, pericolose

per l’andamento della relazione. Si pone in evidenza anche la relazione tre emozioni e conoscenza,

in quanto le emozioni provate dal terapeuta possono portare conoscenza e questa a sua volta

produrre altre emozioni, anche sui membri della famiglia. Il terapeuta stabilisce delle relazioni con

il paziente in cui l’espressione delle emozioni è inevitabile e necessaria, in quanto nell’incontro

psicoterapeutico, così come nella vita, le emozioni sono ciò che conta, in quanto da una parte ci

dicono come ci sentiamo in relazione con noi stessi e con l’Altro mentre partecipiamo e in più

determinano la relazione.

Il professore Camillo Loriedo, in un seminario dal titolo “Emozioni e fantasie in psicoterapia” (in

Maieutica 2003-2004), sottolinea che è la capacità di cambiare del terapeuta che può permettere alla

famiglia di trasformarsi, sottolineando che il fattore chiave che rende tale un terapeuta è la sua

capacità di imparare dalla propria storia, ri-narrandola, ri-costruendola, insieme alla famiglia. Il

cambiamento avviene nella relazione ed è sempre bilaterale. Egli sottolinea ancora che prima di

tutto il terapeuta deve imparare ad osservarsi per poter monitorare mano a mano la propria

posizione all’interno della relazione terapeutica, sapendo osservare e dare significato anche alle

reazioni fisiche e somato-visverali. Mediante l’ascolto delle emozioni e delle sensazioni che il

terapeuta vive all’interno della relazione egli costruisce un modello che gli può essere utile per

migliorare e monitorare il proprio lavoro.

Il terapeuta durante l’incontro con la famiglia (o l’individuo) e le sue emozioni viene toccato anche

in parti che pensava di non avere o ha dimenticato e nascosto perché troppo dolorose e fastidiose; a

questo proposito Rodolfo de Bernart (Chiti, 2009) afferma che “ciò che bisogna fare è riuscire a

rendere il terapeuta più capace di utilizzare quelle parti di sé che lui ha deciso di lasciare fuori

perché ritiene inappropriate come terapeuta”; questa capacità di riutilizzare diverse parti di sé

nell’interezza della propria persona, permette di entrare in modo genuino in contatto con l’Altro e

permette altresì il processo di cambiamento ed evoluzione.

Virginia Satir (Haber, 2002) affermava l’importanza della sintonia tra sé e gli altri che deriva prima

di tutto da una armonia che si ha con se stessi: “lascia che il tuo Io entri intimamente in

comunicazione con tutte le tue parti. Liberati, per poter avere delle possibilità e per usare queste

possibilità liberamente e creativamente. Per sapere che qualunque cosa sia stata nel passato, è stata

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il meglio che potevamo fare. Poiché essa rappresentava il meglio della nostra coscienza. Man mano

che la nostra conoscenza si amplia, e noi diventiamo più consapevoli, entriamo anche più in

sintonia con noi stessi. E entrando in sintonia con noi stessi, possiamo entrare in sintonia con gli

altri”. Secondo l’autrice le competenze tecniche da sole non bastano e non possono sostituire

l’importanza della partecipazione emotiva che mette in sintonia terapeuta e paziente, perché chi usa

solo la tecnica rischia di dimenticare il cuore e l’anima delle persone coinvolte.

Boscolo (1996) afferma che il “non detto” si connette con il nostro cosciente influenzando il modo

del terapeuta di porsi in terapia. L’autore si rifà al concetto batesoniano (e sottolinea che Bateson

non aveva dimenticato nelle sue riflessioni l’individuo) di inconscio che viene definito come

costituito da abitudini e dall’insieme delle premesse individuali formatesi attraverso un processo di

deutero-apprendimento. Sempre secondo l’autore la conoscenza del Sé del terapeuta diventa la

conoscenza delle sue premesse e diventa una conoscenza irraggiungibile difficilmente conoscibile

nella sua pienezza (“le premesse sono come le piante dei piedi; siccome ci si poggia sopra è

impossibile guardarle”). Il terapeuta però ha tanti strumenti grazie ai quali può esplorare e

riconoscere tutte le parti nascoste e mai affrontate del Sé: di sicuro il ruolo del supervisore e del

gruppo sono fondamentali per restituire al terapeuta una maggiore consapevolezza di sé, un punto di

vista esterno delle sue emozioni, dei pregiudizi e delle modalità che egli porta all’interno del

sistema di terapia; l’èquipe ha il compito di generare ipotesi anche sul terapeuta e i suoi pensieri,

emozioni in relazione ai pazienti; in questo modo l’interazione fra i terapeuti e i pazienti viene

esaminata da una o più persone che apporta un secondo livello di riflessività che si aggiunge a

quella del terapeuta, contaminata in parte dai suoi pregiudizi. Si punta sul fatto che un terapeuta che

non voglia essere ingenuo dovrebbe acquisire maggiore consapevolezza delle proprie premesse,

cioè degli assunti di base che lo guidano nell’azione: pregiudizi sociali e culturali, le premesse della

famiglia e come si incontrano nella relazione terapeutica.

Vorrei sottolineare un pregiudizio legato alle emozioni che il terapeuta dovrebbe provare, un

pregiudizio moralistico per cui quelle che hanno un valore terapeutico sono le emozioni positive,

mentre le negative sono di ostacolo. Di sicuro sono di ostacolo se non vengono riconosciute e non

vengono utilizzate con consapevolezza: a volte si può rischiare di pensare che se un terapeuta prova

emozioni negative le deve negare o deve concludere di non essere bravo. Cecchin (1988) stesso

definiva come emozioni il calore, la simpatia, l’empatia, ma anche la noia, il fastidio, la rabbia,

l’indignazione ecc… (ricordiamo che le emozioni hanno diversi colori e questa è una delle

peculiarità meravigliose dell’essere umani) e sottolineava che ciò che interessa non è di sapere

quale sia l’emozione giusta da provare o quella più terapeutica, ma come utilizzare in terapia le

emozioni che sorgono spontaneamente in una relazione umana (così come i pregiudizi).

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L’auto-osservazione è importante anche nel momento in cui sentiamo emotivamente che le cose

non evolvono, il terapeuta dovrebbe continuamente interrogarsi su come si sente in relazione a

quella particolare famiglia e alle loro storie: come mi trovo? Incontro volentieri queste persone? Li

so trovare simpatici sotto certi aspetti? Sento che posso imparare qualcosa da loro? La loro storia mi

appassiona? Sono curioso di sapere? Cosa sento? Da che parte mi fanno andare le mie emozioni?

Il professore Carmine Saccu, nel seminario a cui ho partecipato il 17 ottobre 2009 (dal titolo “Il

corpo, la famiglia, la psicoterapia”), ha sottolineato l’importanza, prima di tutto, di riconoscere, nel

momento in cui si incontra l’Altro, il colore delle emozioni che scaturiscono da quell’incontro e di

saperne dare la connotazione; egli ha affermato che nel momento in cui sentiamo di aver dato una

connotazione negativa bisogna capire come possiamo utilizzarla, perché se la neghiamo e facciamo

finta di niente, quell’emozione negativa riuscirà in un modo o nell’altro ad emergere ed influire poi

negativamente sull’esito della relazione. Il professore ha consigliato di iniziare a cercare qualcosa di

positivo in quella persona o situazione che ci dà emozioni negative per riuscire così ad avvicinarci e

a scoprire parti che sono per noi più accettabili e meno negative: non bisogna fermarsi al

pregiudizio iniziale che, siccome quell’individuo o alcuni membri di quella famiglia ci rimandano

un’emozione per noi negativa, debbano essere esclusi dalla nostra curiosità a conoscerli. Si nota

come emozioni e pregiudizi siano indissolubilmente connessi. Sempre Saccu esorta gli aspiranti

terapeuti a commentare ciò che vivono e vedono con l’emisfero destro, quello delle emozioni, e a

tenere sempre in considerazione il fatto che il terapeuta è un uomo e come umano è costituito da

testa, cuore, stomaco e pancia. Le emozioni coinvolgono le ultime parti, la testa ci aiuta a gestirle e

a saperle connotare.

Il lavoro di autoriflessione sulle emozioni e sensazioni, capire il colore che hanno e la connotazione

che gli diamo, va fatto innanzitutto su noi stessi affinché si possa sentire, emotivamente parlando,

l’incontro con l’Altro (come diceva Virginia Satir) e provare per lui quell’interesse e quella

curiosità che contraddistinguono il procedere terapeutico e, quindi, promuovere un atteggiamento

empatico che si sviluppa nel momento in cui il terapeuta è in grado di comprendere i drammi e le

ferite dei pazienti senza assumerne un atteggiamento giudicante.

3. RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Mi piacerebbe concludere questo mio elaborato ricollegandomi, ancora una volta, alla metafora del

mare e della barca a vela, grazie alla quale ho incominciato le mie riflessioni.

Il terapeuta nel momento in cui prende in carico una famiglia o un individuo, inizia un viaggio che a

volte può essere burrascoso, altre volte più gestibile, altre ancora calmo, proprio come lo skipper

che deve comandare una nave e gestirne la rotta. Come ho anche espresso nella relazione

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sull’outdoor, la barca può rappresentare e diventare metaforicamente un sistema, così come il mare,

il vento, le onde, e le correnti; sono sistemi che si incontrano e si perturbano, l’azione di uno

determina il cambiamento negli altri. L’intero equipaggio può essere paragonato ad una famiglia

problematica che nel bel mezzo delle proprie difficoltà (il mare in tempesta) viene guidata dall’aiuto

del terapeuta (lo skipper) al raggiungimento dell’obiettivo. L’equipaggio collabora e lavora insieme

per raggiungere uno scopo comune, e allo stesso modo la famiglia collabora con il terapeuta, co-

costruisce insieme a lui una storia meglio formata, acquisisce in maniera attiva gli strumenti per

poter arrivare alla metà finale, cioè lo star meglio.

Per poter uscire dai momenti d’impasses il terapeuta, così come lo skipper, deve in continuazione

correggere il tiro, usare gli strumenti e le conoscenze di cui è in possesso per poter risolvere il

problema, insieme all’aiuto della famiglia uno e dell’intero equipaggio l’altro.

Come già ricordato, questa esperienza ha evidenziato, secondo me, quanto sia importante la

flessibilità del terapeuta e la sua capacità di mettersi in discussione non sposando una teoria in

termini assoluti, in quanto la terapia e il rapporto terapeutico si co-costruiscono in itinere.

Sempre riprendendo le riflessioni fatte nella mia relazione, vorrei sottolineare come il mare possa

rappresentare l’apertura mentale e quella flessibilità, e aggiungerei anche la curiosità e l’irriverenza,

che tanto Cecchin riteneva come indispensabili per un approccio terapeutico.

In mare non hai certezze, anzi devi sempre porre il dubbio su te stesso come skipper e sulle tue

capacità di navigazione; si è esperti e inesperti allo stesso tempo, e in continua evoluzione e

cambiamento, in concomitanza degli eventi climatici con cui ci si potrà scontrare. Il mare ti mette in

condizioni di porti di fronte alle tue emozioni senza poterne sfuggire, emozioni di libertà, gioia,

tristezza e anche paura: ritrovarsi in mare per l’uomo può significare avvicinarsi anche alle

profondità della sua stessa anima e prendere contatto con le proprie emozioni più vere, in quanto il

mare potrebbe anche in un certo senso simboleggiare l’inconscio: il mare è spazio ignoto, è

imprevedibile, mostra una superficie ma ha profondità vitali ma anche inquietanti e misteriose.

L’incontro con il mare può stimolare a vari livelli (cognitivi, emotivi e corporei) e può portarci

all’utilizzo di energie costruttive interiori e di risorse proprie che forse non si sapeva neanche di

possedere.

Lo psicologo e psicoterapeuta Antonio Lo Iacono (esperto in velaterapia) pone a riguardo delle

riflessioni interessanti: egli sottolinea che entrare in contatto con le emozioni significa

comprenderle e per quanto riguarda la paura, superarla. La barca e le attività di manovra a bordo,

aiutano moltissimo in questo. Quando si è in mezzo al mare è bello lasciarsi andare, abbandonarsi,

lasciarsi trascinare, sbattere e farsi sbattere. Secondo lui questo vuol dire, in qualche modo, lottare e

arrendersi e rappresenta, secondo me, anche una metafora della vita: nella vita, tante volte, lotti e

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poi ti lasci andare. Il mare è uno spazio aperto che può allo stesso tempo contenere desideri di varia

natura come il desiderio di vivere e combattere, ma anche quello di morire e di lasciarsi andare.

Il mare è un’entità naturale immensa che sovrasta l’uomo e questo lo rende infinito e lo confronta

con la propria fine. Vivere la vita significa confrontarsi con ciò che è più grande di noi, per sfidarlo,

ma allo stesso tempo anche per autolimitarsi, per venire a conoscenza dei propri limiti, per sapere

realmente chi si è, quanto si pesa. Il mare è un contenitore grande e dà la possibilità infinita di

proiettarvi dentro un po’ di tutto e c’è, quindi, anche la possibilità di rendersi conto dei propri

confini. Il contatto con il mare ci fa percepire la nostra finitezza, identità e consapevolezza, così

come il contatto e l’incontro con l’Altro.

Secondo me l’esperienza in barca, insieme al gruppo, può avere una valenza significativa nella

formazione di futuri psicoterapeuti, proprio per la possibilità che dà di poter abbandonare tutte le

difese che lo specializzando porta con sé durante la vita quotidiana e poter, quindi, confrontarsi con

più parti di sé, quelle parti che in terapia devono essere scovate, riconosciute e gestite.

Ma soprattutto offre grandi spunti di riflessione a livello teorico perché diventa, vissuta con queste

premesse all’interno del training di formazione, una meravigliosa metafora della psicoterapia e può

avere la funzione di aiutare l’allievo a riflettere, dubitare, collegare, ridefinire concetti fondamentali

e, come è successo in parte a me, portare a rileggere storie già esistenti con una lente diversa e

alternativa, riuscendo a punteggiare diversamente.

L’utilizzo della metafora è molto efficace, in quanto la metafora è il linguaggio dell’emisfero

destro, quello che comprende le emozioni e il linguaggio del non verbale. La metafora cattura

l’immaginazione e arriva dritto al cuore e al profondo della persona che soggettivamente la coglie

nei suoi vari aspetti. Grazie alla sua caratteristica di parlare il linguaggio delle emozioni, eludendo

anche le difese e le barriere che può erigere la ragione, può mettere in moto processi di

identificazione, nonché di apprendimento ed elaborazione dei concetti.

Vorrei concludere evidenziando ancora una volta quanto per me sia stata utile questa esperienza

vissuta insieme al gruppo: come sottolinea Boscolo (1996) l’apprendimento in gruppo svolge la

funzione di formare il terapeuta anche da un punto di vista personale; è possibile all’interno del

gruppo fare un lavoro su se stessi che avviene nel qui ed ora della formazione. Tali attività

permettono la costruzione di una “mente collettiva” che elabora il lavoro teorico e la pratica clinica

connettendoli in modo circolare.

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Il dipinto in copertina è di Turner e Constable: “Inizio della tempesta” (Impressionismo).