Il fiume a Nord - Carlotta De Melas

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Mi chiamo Diara. Vivo a Fes, opulenta capitale brulicante di vita e crocevia di scoperte scientifiche e commerci della mia epoca: il futuro remoto. Stamattina ho rubato una mela e per sfuggire ai gendarmi che mi inseguivano mi sono rifugiata sulla Peaceful Willow, una delle navi ormeggiate al porto. Quando mi sono accorta che l’equipaggio si preparava a salpare, ho cercato di scendere ma non ci sono riuscita perché la nave si è alzata in volo! Adesso spio dalla mia tana i marinai della ciurma, sono tutti così strani... quello sulla sedia a rotelle a vapore dev’essere il capitano, e quella bella ragazza che sulla schiena ha una specie di chiave da carillon deve essere sua figlia! Qui di bizzarrie ce ne son tante, mi è sembrato di vedere addirittura un tizio con un braccio di ferro che faceva conversazione con un criceto dall’aria depressa, mentre un cavallo meccanico gli girava intorno...

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Carlotta De Melas

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Capitolo due, in cui Diaria entrò a bordo della Peaceful Willow

Diara non sapeva quale fosse il momento migliore per uscire dall’a-eronave e non si poneva il problema di come avrebbero reagito i pro-prietari trovandola nascosta all’interno della loro proprietà. Sempre se l’avessero vista, perché l’intenzione della ragazza era quella di non farsi scoprire da nessuno. A forza di attendere il momento opportuno per allontanarsi, si acciambellò come un gatto selvatico su una pellic-cia argentata posata a terra e, forse perché la notte prima non aveva dormito, chiuse gli occhi e si addormentò.

Sognò un fiume di latte di mandorla. Sognò cammelli che traina-vano cocchi formati dal guscio di gigantesche conchiglie. Sognò una tavola imbandita solo per lei: alla sua destra frutta fresca dolcissima e pesci dorati, alla sua sinistra una torta a tre piani di marzapane prepa-rata da una simpatica signora con tre teste e quindici occhi dai colori dell’arcobaleno…

Diara venne svegliata da una voce.Si strofinò gli occhi, incredula di essersi realmente addormentata, e

senza farsene accorgere provò a guardare al di là della pila di pellicce. Una di queste le cadde sulla testa.

Si strofinò nuovamente gli occhi.Il primo pensiero che le balenò nella mente fu che la voce apparte-

nesse all’uomo che aveva derubato o alle guardie pronte a catturarla, ma non fu così.

Dopo qualche istante sentì una pressione sulla testa, come se qual-cuno vi stesse camminando sopra.

— Chi sei? — chiese la voce che poco prima l’aveva svegliata.— Chi sei tu? — domandò lei spaventata.

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Avvertì un’altra pressione sulla testa. Si passò una mano fra i capel-li e sentì qualcosa di metallico che vi si era appoggiato sopra.

Emise un urlo soffocato scaraventando l’oggetto che aveva in testa contro una parete.

L’impatto produsse un debole cigolio.Vide che la cosa era un criceto meccanico. La sua schiena si era

aperta mostrando fili e bottoni.“Devo averlo rotto” pensò fra sé e sé Diara, sfiorando il criceto che

al suo tocco si mostrò inerme.“Che faccio… se qualcuno mi scopre all’interno della sua casa vo-

lante, e per di più dopo avergli rotto l’animale domestico, sono proprio in un guaio”.

Non ci pensò molto su. Prese il criceto in mano, maneggiò a caso fra fili e bottoni e gli richiuse la schiena. Il criceto mosse impercetti-bilmente gli occhi.

“Ora me ne vado” stabilì Diara muovendosi verso la porta da cui era entrata. Da lì vide un’altra porta dalla quale scorse delle persone. Tra queste, una ragazza dai lunghi capelli biondi, quasi bianchi, con un innesto sulla schiena simile alla molla che dava la carica al carillon che possedeva sua zia Mali. La sua pelle era di un leggero color perla e gli occhi di un intenso blu, e a Diara ricordarono il cielo notturno, quieto e imperscrutabile. Indossava una camicia marrone, dei panta-loni corti bianchi e ai piedi stivali alti fin sopra le ginocchia; sul capo un cappello da aviatore. Accanto a lei si muoveva un ragazzo con un braccio meccanico, più alto e robusto di tutti gli altri e vestito di co-tone color blu elettrico. C’era poi un’altra ragazza che portava abiti maschili, pantaloni di pelle e una maglia bianca, decisamente grande, di almeno una taglia, o forse più, e un gilet che richiamava i pantaloni. Oltre a indossare abiti maschili, parlava come un uomo, dando ordini e controllando strani oggetti che riponeva ordinatamente su delle men-sole. I capelli erano corti, recisi con un taglio netto sotto le orecchie di colore viola.

— Padre — disse la ragazza riferendosi ad un uomo che Diara dal-la sua posizione non riuscì a vedere, ma che rispose con voce seria e profonda, quasi roca.

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— Marlene dimmi.— Credi che riusciremo a venderlo — chiese indicando una sfera

rotonda. Diara capì immediatamente di trovarsi in una nave mercan-tile, una delle tante che vendeva oggetti tecnologici. A riguardo ave-va sentito svariate storie, molte poco incoraggianti, sui mercanti delle nuove scienze; uomini ritenuti privi di morale, senza rispetto, senza scrupoli, mercenari in grado di vendere qualunque cosa, persino le persone e la loro stessa lingua, nonché gli occhi per utilizzarli come innesti adattabili ai loro esperimenti.

Diara silenziosamente strisciò fino a raggiungere la porta, ma quan-do la raggiunse comprese che il guaio in cui si era cacciata non era grande, ma grandioso. Gigantesco.

L’aeronave aveva preso il volo sorvolando la terra ferma. Chissà da quanto tempo.

“Ora cosa faccio, ora cosa faccio” pensò Diara rannicchiandosi nuovamente nell’angolino in cui inizialmente si era nascosta. Il crice-to era scomparso.

Aveva sentito dire che molti mercanti vendevano armi che ucci-devano a distanza e altri ancora vendevano persino gli uomini come schiavi, o i loro organi interni. Guardò accuratamente i mercanti che aveva davanti e le sembrarono diversi da quelli che, negli ultimi anni, aveva visto in riva al grande fiume. Ma sapeva bene che l’apparenza, spesso, inganna. A Diara accadeva diverse volte. Forse perché per ca-rattere era portata a vedere il bene nelle persone, anche in quelle prive di qualsiasi sentimento affine alla bontà, all’altruismo o alla gentilez-za.

Non si ricordò chi glielo avesse detto, forse il vecchio che costruì una capanna fra le palme, forse il pazzo del villaggio che pellegrina-va depositando bacche rosse sulle lapidi bianche del cimitero simili a lenzuola svolazzanti… Insomma, uno dei due le sussurrò all’orecchio al compimento dei suoi dieci anni: «I buoni di cuore impediranno la distruzione del mondo. Tu da che parte vuoi stare?». Una domanda che le risuonava tuttora, vibrante e precisa come il suono soave di un flauto di corteccia di mandorlo. Non comprese appieno il senso di quella frase, l’unica cosa che pensò è che avrebbe voluto stare dalla

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parte dei buoni, quelli destinati a salvare il mondo. Per questo para-gonava ogni giorno trascorso con la perfida cugina e la terribile zia a una personale vittoria. Riteneva la gentilezza pari a un lusso che pochi avevano l’onore di possedere. Lei si era conquistata uno spazio fra i rari possessori.

Diara avvertì uno strano rumore incalzare dietro le sue spalle, si girò di scatto e vide occhi viola illuminati da una fiammella.

Non poté trattenersi dall’emettere un urlo piccolo.— Cosa sta succedendo? Chi sei? — domandò la ragazza chiamata

dal padre Marlene avvicinandosi. Portava con sé una lampada che illu-minò la stanza, mostrando come gli occhi viola che Diara aveva visto fossero di un cavallo di legno e di rame, con pietre preziose a formare la bocca e fiammelle ardenti a illuminarne il fermo sguardo.

Appollaiato sulla testa del cavallo c’era il criceto, che in modo tea-trale iniziò a parlare: — Chi è lei chiedi, meravigliosa Marlene? Come possiamo noi saperlo, una bambina, da quel che vedo… neanche trop-po bella e per giunta, credo, antipatica. Dire altro io non so… Si deve all’animale non pietà, ma giustizia.

Il criceto in bilico sulla testa del cavallo, con una voce simile a quella di un bambino.

— Dante, ma che ti prende? Che cosa stai dicendo? Non importa, non ora almeno… Veniamo a noi ragazzina. Dimmi chi sei e cosa ci fai sulla nostra aeronave. — Marlene la scrutò con uno sguardo severo.

Diara non trovò una risposta. Sapeva dire il suo nome e conosceva il motivo che l’aveva spinta a intrufolarsi sull’aeronave, ma il timore le impedì di aprire bocca. Il cuore le sembrò come impazzito nel petto. Batteva talmente forte che temeva che da un momento all’altro fuoriu-scisse dalla pelle. Lo immaginò come una molla e lo vide rimbalzare sulle pareti dell’aeronave.

Alle spalle di Marlene apparvero anche gli altri ragazzi e un uomo seduto su una sedia a rotelle, lo stesso che aveva notato sulla sponda del fiume discutere animatamente con altri venditori.

Prese coraggio e blaterò qualche parola.— Mi chiamo Diara… sono qui perché scappavo da un uomo che

mi inseguiva…

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Si pose il problema se dire o non dire che aveva rubato qualcosa a quell’uomo. Decise che fosse meglio non dire.

— Mi sono nascosta qui perché non volevo che mi trovasse. Vi prego non vendetemi come schiava.

Marlene scoppiò a ridere così come gli altri, escluso l’uomo sulla sedia a rotelle che perplesso si strofinò la mano sui folti capelli ricci e bianchi, con lo sguardo coperto da occhiali scuri dalle lenti spesse a forma sferica.

— Siamo mercanti e scienziati, non vendiamo schiavi. Mi chiamo Tangela — rispose la ragazza con la molla sulla schiena, porgendole una mano per aiutarla ad alzarsi. — Lui è Dante, lui è Abel, lei è Mar-lene e lui è il nostro capitano e stimato scienziato Sergej Nobillier. Sei approdata sulla Peaceful Willow. E quello che ti ha spaventata è Mirocleto. — Guardò prima il criceto, poi il ragazzo con il braccio meccanico, la ragazza che indossava abiti maschili, e infine l’uomo seduto sulla sedia a rotelle.

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Capitolo tre, in cui Diara affrontò la sua prima tempesta di sabbia

Diara guardando dall’oblò vide che l’aeronave stava attraversando la gola del Todra: pareti di roccia altissime che scendono a strapiombo e sul cui fondo scorre, tutto l’anno, il fiume omonimo, il fiume che nei suoi sogni a occhi chiusi portava il latte di mandorla a ogni ragazzo goloso. Come lei.

— Hai fame? — domandò Tangela, mente gli altri discutevano ani-matamente su Diara e su cosa ne avrebbero fatto. La sua presenza a bordo non era prevista e tanto meno gradita, ma ora che lei era lì dove-vano prendere una decisione: lasciarla alla prossima città o affidarla ai mercanti diretti a Fes, visto che loro non potevano ritornare indietro?

— Sì. Un po’ — rispose distratta dai discorsi degli altri, nonostante ogni parola a lei riferita venisse sapientemente bisbigliata.

Tangela prese dalle provviste del pane croccante, su cui spalmò una salsa rossa, e lo porse a Diara, che seduta intorno a un tavolo rotondo incominciò a mangiare con gusto, pur ignorando che cosa quella salsa fosse. Aveva uno strano sapore, sia salato che dolce, comunque deli-zioso.

— La tua famiglia sarà preoccupata. Mi dispiace. Vedrai che il no-stro capitano presto risolverà al meglio la tua situazione.

— Io non ho una famiglia. — La zia Mali e la cugina Hamisi non potevano considerarsi tali, neppure per un momento si preoccupò di loro. Se non avesse più fatto ritorno, nessuno sarebbe rimasto turbato dalla sua imprevista e inspiegabile assenza: l’avrebbero considerata un dono divino. Anzi, probabilmente avrebbero organizzato una festa, con tanto di balli e tamburi per festeggiare la sua dipartita.

— Mi trovo a volteggiare su questo mondo in compagnia di donzel-

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le umane, ma si sappia che le menti scadenti sono la regola, le buone l’eccezione, le eminenti rarissime e il genio un miracolo — enunciò il criceto saltellando sul tavolo per ottenere l’attenzione di Diara, incro-ciando le zampe anteriori a formare una x, fino a che lo vide lanciarsi dal tavolo.

Diara non fare caso a quel che dice, da quando ci sei tu è decisa-mente strano — la tranquillizzò Tangela, notando lo sguardo perplesso e allarmato della ragazza. Ignorava i suoi pensieri: “Forse è strano perché sono stata io a romperlo… dovrei dirlo? No… è meglio di no”.

Dante per qualche minuto fece finta di essere morto, poi con ele-ganza si ricompose allontanandosi.

Tangela si mostrò particolarmente gentile con la nostra giovane amica, che la osservava, curiosa di capire che cosa fosse, e a cosa servisse, lo strano innesto che portava sulla schiena. La curiosità di Diara non si limitava a questo. Avrebbe voluto esplorare l’aeronave, visto che la zona in cui era seduta era quella d’entrata. Ma non le fu concesso, non ancora almeno.

Restò al suo posto, educatamente, con mille parole che prendevano forma nella sua mente.

— Come fa a volare? — Diara domandò a Tangela riferendosi all’aeronave.

— Ogni corpo immerso in un fluido riceve una spinta verso l’alto pari al peso del fluido spostato. Volando, immerso nella miscela di gas chiamata aria che avvolge la Terra, avrà una spinta ascensionale pari al peso dell’aria che occupa il suo volume, meno il peso della sua strut-tura e del gas che lo riempie — rispose Tangela come se fosse la cosa più naturale del mondo. Gesticolando con le mani per accompagnare la spiegazione.

Diara non capì un granché di quello che le aveva spiegato, ma tro-vandosi fra mercanti scienziati non volle fare brutta figura e non lo lasciò trapelare. Anzi, annuì come se avesse compreso ogni dettaglio.

— Tangela, porta immediatamente la ragazza nella gondola. Ci sono delle perturbazioni —esclamò Abel serio.

Dante con un balzo riapparve saltando sulla spalla di Tangela, sgra-nocchiandosi nervosamente la zampa sinistra.

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— La gondola? — domandò Diara avvertendo l’aeronave vibrare sotto i piedi. Non aveva ben capito come potesse volare, ma fatto sta che se poteva farlo, avrebbe potuto anche precipitare.

— La gondola è il luogo in cui ci sono i vani per l’equipaggio e il carico. Hai per caso paura? — rispose Tangela per nulla turbata.

Era così palese? Forse sì, visto che da un momento all’altro l’e-spressione di Diara divenne tesa per il terrore.

Quando Marlene aprì la porta che separava l’entrata dal resto dell’ambiente, Diara rimase colpita dalla quantità di oggetti e di strani macchinari. In più, decine di orologi alle pareti e montagne di libri. Libri a perdita d’occhio, ovunque.

Dritta a sé era posizionata la zona di controllo.Marlene si sedette accanto al capitano, suo padre, che con voce

autorevole diede ordini all’equipaggio e a se stesso:— Velocità atmosferica novantotto nodi.— Padre, la vedete anche voi? — Sì. Irregolarità delle correnti atmosferiche a ore dodici. Virare a

tribordo. Mantenere la rotta, angolo di salita a tredici gradi.— Co… co…sa sta succedendo? — domandò Diara, ma nessuno

le rispose. Erano intenti a far sì che l’aeronave non venisse risucchiata dalla tempesta di sabbia a cui stavano andando incontro.

Un vortice di sabbia salì dal basso verso l’alto con potenza mo-struosa, impattando sulla superficie esterna dall’aeronave, facendola oscillare verso sinistra e poi verso destra. Molti oggetti caddero a terra, così come il cavallo Mirocleto. Diara si attaccò alla parete, desiderosa di diventare parte di essa.

— Vieni — Tangela la prese per mano e la trascinò in una stanza, la sua camera personale.

— Aspettami qui e non avere paura. — Prima di chiudersi la porta alle spalle sorrise e Diara non poté che domandarsi come ci riusciva. Sorridere prima di morire? Di rischiare di morire? Le sembrò folle, o forse l’unico, possibile atteggiamento per non impazzire.

L’aeronave continuò a oscillare. Dai piccoli oblò Diara scorgeva la tempesta dorata e il vento perpetuo schiaffeggiò le pareti esterne. Non era abituata a quel movimento, barcollò e quasi cadde a terra. Decise

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di chiudere gli occhi, sedersi in un angolo.Le poche cose che aveva mangiato ripresero vita nella pancia; per-

sino quelle mangiate con la fantasia durante il sonno. Tremando e cer-cando di controllare la nausea che si presentava a intervalli regolari, riconobbe la paura di morire.

Quando Tangela, dopo due lunghissime e infinite ore, rientrò nella cuccetta della gondola, trovò Diara bianca in volto e con gli occhi sbarrati. Cercò di tranquillizzarla, rassicurandola sul fatto che la nau-sea si sarebbe presto attenuata.

La tempesta di sabbia si placò dopo diverse ore.La Peaceful Willow proseguì indenne verso la rotta stabilita.Diara con il supporto di Tangela uscì dalla gondola e si diresse nella

zona comandi, lì l’aspettava il capitano e la figlia Marlene. Fu lei a parlare per prima:

— È probabile che affideremo il tuo ritorno a Fes a dei mercanti di nostra fiducia che si muovono via terra.

Diara rimase in silenzio, consapevole che nessuna delle obiezioni che le venivano in mente avrebbe potuto mutare la situazione. Imma-ginò cammelli con bulloni al posto degli occhi e un cuscino di raso in mezzo alle gobbe, ma lei non si vide seduta lì sopra, bensì legata stret-ta con una fune alle caviglie degli animali e trainata da essi.

— Non potremmo tenerla con noi? — intervenne Tangela.— Perché dovremmo? — domandò seccata Marlene. Una persona

in più a bordo non era prevista, necessitava organizzazione e un riequi-librio delle provviste, nonché del peso complessivo.

Il capitano Sergej Nobillier seguì la conversazione osservando Dia-ra, fissandola dritta negli occhi, come se possedesse il potere di legger-vi attraverso, fino al profondo dell’anima. Avrebbe decifrato i sospiri uniti alla paura, misti al desiderio? Avrebbe compreso i pensieri di Diara?

— Tu cosa vuoi fare piccola passeggera? — Non lo so Capitano. — O forse lo sapeva, ma non ebbe il corag-

gio di dirlo. Si sorprese lei stessa. Voleva restare con loro. Imparare la scienza, vedere il mondo. Sentirsi parte di quell’equipaggio. Qua-

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lunque cosa le appariva migliore di ciò che l’aspettava a terra, nella capanna in cui viveva con la zia e la cugina. Fin da quando il suo papà era morto il suo unico sogno, il sogno più grande, era quello di vivere un’avventura come quelle narrate nei libri che tanto amava leggere di nascosto. Un’avventura che avrebbe reso orgoglioso il suo amato padre.

— Neanche noi lo sappiamo. Non vogliamo essere cattivi, ma non possiamo tenerti a bordo. Ogni cosa ha un suo peso controllato e stu-diato, una sua logica, e tu complichi l’equilibrio prestabilito.

Marlene intervenne, ma Sergej alzò un braccio per bloccare il suo intervento.

— Quanto prima approderemo a Erdouf per fare delle consegne e lì prenderemo una decisione in merito.

Al di là dei confini regna la guerra e non potremmo lasciarti in nes-sun altro luogo.

— Ma potrebbe stare con noi. Erdfourd è molto pericoloso — ribat-té caparbia Tangela.

— Vedremo. — Il capitano si voltò posando le mani sulle ruote della sedia e si allontanò.

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