IL DELISTING DELLE SOCIETÀ QUOTATE
-
Upload
carlonewmann -
Category
Documents
-
view
120 -
download
0
Transcript of IL DELISTING DELLE SOCIETÀ QUOTATE
1
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE E AZIENDALI
“MARCO FANNO”
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN ECONOMIA E
DIREZIONE AZIENDALE
TESI DI LAUREA
“IL DELISTING DELLE SOCIETÀ QUOTATE: ANALISI GENERALE
DEL FENOMENO”
RELATORE:
CH.MA PROF.SSA Elena Sapienza
LAUREANDO: Tommaso Zanon
MATRICOLA N. 1014536
ANNO ACCADEMICO 2012 – 2013
2
INDICE
INTRODUZIONE 1
1. IL DELISTING: ASPETTI GENERALI 5
1.1. DEFINIZIONE, FISIONOMIE E CARATTERI GENERALI DEL DELISTING 5
1.2. IL TRADE OFF TRA I COSTI E I BENEFICI DEL GOING PUBLIC: I PRESUPPOSTI PER
IL DELISTING 19
1.3. EARNINGS MANAGEMENT E DELISTING 25
1.4. DAL DELISTING AL GOING DARK 29
1.5. FOREIGN LISTING E FOREIGN DELISTING
33
2. DELISTING INVOLONTARIO E DELISTING VOLONTARIO: DUE
DIVERSE TIPOLOGIE DI USCITA DAL MERCATO REGOLAMENTATO 49
2.1. IL DELISTING INVOLONTARIO: UN FENOMENO TIPICO DEL MERCATO USA 50
2.2. IL DELISTING VOLONTARIO E LE OPERAZIONI DI GOING PRIVATE
60
3. IL PROFILO GIURIDICO DEL DELISTING: INQUADRAMENTO
DEL FENOMENO NELLE DIVERSE NORMATIVE
77
3.1. QUADRO NORMATIVO GENERALE DEL DELISTING NEGLI USA 77
3.2. IL REGIME LEGALE DI DELISTING NEI MERCATI REGOLAMENTATI EMERGENTI 85
3.3. IL DELISTING NELLA NORMATIVA ITALIANA 93
CONCLUSIONI 103
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 109
3
INTRODUZIONE
Il delisting, una manifestazione per molto tempo percepita come complessa e lontana tipica
dei mercati regolamentati statunitensi, ha conosciuto una significativa diffusione a livello
internazionale a partire dalla fine del XX secolo, con grandi ondate di revoche dalle
contrattazioni che hanno interessato i principali listini mondiali, e in particolare quelli
dell’Europa continentale. La recente affermazione del delisting spiega la scarsità di studi e di
lavori di ricerca sul tema, in particolare in ambito europeo, dove soltanto nei primi anni 2000
sono cominciati ad emergere significativi contributi dottrinali improntati su una disamina di
tale fenomeno. Da qui l’interesse a realizzare un’analisi generale a tutto campo del fenomeno
del delisting e dei principali aspetti di carattere economico – finanziario, culturale e giuridico
ad esso connessi, in modo da fornire un quadro d’insieme che quantomeno dal punto di vista
teorico permetta di conoscere maggiormente un fenomeno sempre più ricorrente.
Una delle principali ragioni alla base di questa progressiva espansione del fenomeno sono
senza dubbio da ritenersi gli eventi macroeconomici negativi manifestatisi successivamente
all’avvento del XXI secolo, quali lo scoppio della dot.com bubble nei primissimi anni
Duemila e la crisi economica – finanziaria esplosa nel 2007. Tuttavia sembrano emergere
anche altre driving forces rilevanti che, anche se in un primo momento risultano essere meno
evidenti, hanno giocato un ruolo altrettanto importante nel determinare un numero crescente
di delistings.
Nel primo capitolo, verrà realizzata un’accurata disamina del delisting con l’aiuto della più
significativa letteratura internazionale disponibile sul tema. Fornendo una preview di come
sarà strutturato tale capitolo, occorre precisare come innanzitutto si cercherà di dare
un’adeguata definizione al fenomeno in esame, per poi analizzare i trend che esso ha assunto
nel corso del tempo nei principali mercati regolamentati globali con particolare attenzione al
suo andamento nel mercato borsistico italiano, e le fisionomie e i connotati con cui tende a
presentarsi; verranno poi evidenziati gli effetti positivi e negativi generalmente associati alla
sua manifestazione, seppure i primi sembrino prevalere nettamente sui secondi facendo
supporre già in questa sede preliminare come il delisting sia da considerare una minaccia da
fronteggiare piuttosto che un evento favorevole da ricercare. Verrà inoltre realizzata
un’indagine sulle diverse motivazioni che possono determinare l’uscita di una società dal
mercato regolamentato ove è quotata, e le finalità generalmente perseguite da questa in caso
di abbandono volontario. Congiuntamente a ciò saranno illustrati quelli che possono
considerarsi dei key successuful factors di una listing strategy ovvero dei requisiti che la
società deve necessariamente presentare per poter ambire ad una quotazione duratura e di
4
successo, e per allontanare il pericolo di un eventuale delisting. Sin dalle prime battute
saranno rimarcate le importanti differenze esistenti tra i cd. delisting di stampo anglosassone e
quelli di tipo continentale, che sembrano emergere in particolare relativamente alla forma e
alla struttura dell’operazione, alle motivazioni alla sua base, al soggetto promotore, e alle
finalità con essa perseguite.
Sempre nell’ottica di un’analisi generale sul delisting, si è ritenuto opportuno trattare una
serie di argomenti oggetto di grande attenzione per gli studiosi, quali earnings management,
going dark, going public e cross-listing, indagando sui legami significativi che sembrano
presentare con il fenomeno in esame. A tal proposito, verranno analizzati i benefici e i costi
generalmente associati al going public, rimarcando come il sostanziale peggioramento
registrato dal loro trade off abbia contribuito in modo determinante alla recente diffusione del
fenomeno del delisting, e come la perdita dei vantaggi di quotazione sia una delle principali
implicazioni negative conseguenti all’abbandono di un mercato borsistico. In seguito si
approfondirà l’interessante tema dell’earnings management, valutando l’effettiva esistenza
della relazione che pare emergere tra l’aggressività con cui il management della società può
realizzare una manipolazione degli utili di bilancio, tendenza particolarmente ricorrente in
sede di IPO, e il rischio di delisting involontario che grava sulla società. Necessario sarà
anche soffermarsi sull’analisi del fenomeno del going dark, sempre più frequente negli USA,
ovvero del processo con cui una società abbandona più o meno volontariamente il mercato
regolamentato ove è quotata per entrare in un OTC market, valutando le ripercussioni
generate da un tale evento sul prezzo, sulla liquidità e sul rischio del suo titolo. Infine, a
conclusione del primo capitolo si indagherà sui fenomeni di foreing listing e foreign delisting,
identificando i target markets maggiormente interessati da tali eventi, e cercando di
comprendere le finalità che possono spingere una società a quotarsi in un listino differente da
quello domestico, e d’altro canto le motivazioni più ricorrenti alla base della situazione
opposta, ovvero dell’abbandono del mercato estero ove si era quotata; si valuteranno anche gli
importanti effetti prodotti da questi due fenomeni sul prezzo, sulla liquidità e sul livello di
rischio caratterizzanti il titolo della società nell’home market. Nel secondo capitolo verrà
condotta un’accurata analisi delle caratteristiche, della struttura e delle fisionomie riguardanti
le due diverse tipologie di uscita da un mercato regolamentato, dapprima focalizzandosi sulla
fattispecie di delisting involontario, tipica dei mercati regolamentati USA, per poi considerare
la più ampia ed eterogenea categoria di delisting volontari, all’interno della quale assumono
particolare importanza le operazioni di going private, sostanzialmente riconducibili ad OPA e
Fusioni, ma potenzialmente in grado di assumere diverse denominazioni, forme e strutture a
seconda del soggetto che le promuove e delle finalità perseguite.
5
Nel terzo capitolo infine si cercherà di tracciare un profilo giuridico del delisting, realizzando
un quadro generale di come il fenomeno in trattazione venga regolamentato a livello
internazionale, attraverso una disamina delle principali caratteristiche dei regime legali vigenti
sul tema in tre diversi contesti economici, politici e culturali: USA, Sud – Est asiatico e
Europa continentale.
6
7
1. IL DELISTING: ASPETTI GENERALI
Il delisting è un fenomeno che, a causa della considerevole espansione che sta conoscendo a
livello internazionale, è diventato un argomento di rilevante interesse in ambito dottrinale, con
un numero crescente di studi e di ricerche volte ad indagare sui vari aspetti ad esso collegati.
Nel seguente capitolo verrà condotta un’accurata review della più significativa letteratura
internazionale presente sul delisting. Dopo aver inizialmente definito e presentato il
fenomeno, si cercherà di indagare sulle fisionomie e le caratteristiche che esso tende
solitamente ad assumere, per poi proseguire con un’analisi generale su alcuni argomenti, da
più tempo oggetto dell’attenzione degli studiosi, che sembrano presentare dei legami
significativi con il tema in trattazione, quali: earnings management, going dark, going public
e cross-listing. Nello specifico, verrà evidenziato come il sostanziale peggioramento del trade
off tra i costi e i benefici di quotazione abbia costituito i presupposti per le grandi ondate di
delisting verificatesi a livello internazionale con l’avvento del XXI secolo, per poi indagare
sulla relazione che pare emergere tra il fenomeno dell’earnings management e le probabilità
di delisting che caratterizzano una listed company, e sulle caratteristiche esibite dai sempre
più ricorrenti, soprattutto nei mercati d’oltreoceano, processi di going dark, con i quali una
società abbandona il mercato regolamentato ove è quotata per accedere ad un Over The
Counter Market. Infine, ci si focalizzerà sulle grandi ondate di cross-listing che hanno
caratterizzato i principali mercati azionari mondiali negli anni Novanta a cui sono seguiti
numerosi foreign delistings, approfondendo le cause e gli effetti associati ad un tale evento.
1.1 DEFINIZIONE, FISIONOMIE E CARATTERI GENERALI DEL DELISTING
Con il termine delisting si intende la rimozione permanente di un titolo azionario dal mercato
regolamentato ove era quotato, o altresì il processo attraverso cui una società quotata perviene
alla revoca dalle negoziazioni. La parola delisting trova le sue radici nel termine listing, che
rappresenta l’esatta situazione opposta, ovvero l’ammissione del titolo di una società alla
quotazione in un certo mercato borsistico. Con l’ingresso in un listino, una società acquisisce
un valore di mercato riconosciuto e condiviso da un’ampia comunità finanziaria, e permette ai
suoi shareholders di poter scambiare le azioni in loro possesso, e di ottenere così importanti
benefici in termini di liquidità. Con il delisting invece, la società abbandona lo Stock
Exchange perdendo quel valore di mercato precedentemente acquisito, e le sue azioni non
possono più costituire oggetto di negoziazione in quel mercato.
8
L’operazione di delisting di un titolo da un mercato regolamentato è denominata a livello
internazionale anche con l’appellativo di going private o public to private1, termini che
denotano chiaramente come a seguito di un tale evento il capitale sociale venga privatizzato,
ovvero ristretto ad un numero limitato di azionisti, e diventi inaccessibile per gli investitori
presenti nel mercato azionario ove la società era quotata.
Il fenomeno oggetto di trattazione, ha conosciuto una significativa diffusione soltanto a partire
dalla fine degli anni Novanta, registrando i livelli di massima espansione nei primissimi anni
2000 a seguito dell’esplosione della dot.com bubble, e successivamente al propagarsi della
crisi economico - finanziaria globale nel 2007, originatasi alla fine dell’anno precedente negli
USA con il problema dei mutui sub prime. A sostegno di quanto asserito, emergono le
evidenze riportate da You (2008), in uno dei più significativi contributi presenti in dottrina
che analizza il delisting in una dimensione internazionale, considerando la totalità delle
imprese revocate dai vari listini mondiali dal 1964 al 2008, e permettendo così di individuare i
patterns che il fenomeno ha assunto nel tempo: nel periodo considerato si sono verificati
complessivamente 73.254 delisting, di cui ben l’80% realizzatesi dopo il 2000.
Altri importanti risultati, che testimoniano come il numero di going privates sia incrementato
in modo considerevole con l’avvento del XXI secolo, sono contenuti nella ricerca, focalizzata
sul mercato USA, condotta da Chaplinsky e Ramchand (2007). Da tale contributo, si evince
che la percentuale di imprese, domestiche e non, che soggiornano in uno dei tre maggiori
mercati regolamentati USA2 per un periodo superiore ai 10 anni è passata da circa il 98% per
le società quotatesi prima del 1980 all’esiguo 30% per quelle che hanno fatto il loro ingresso
in Borsa dal 1990 in poi; con il passare del tempo, si è quindi registrata una netta contrazione
del periodo di permanenza di una società nel mercato regolamentato, che spiega il
significativo incremento, in termini di numero e frequenza, delle operazioni di delisting. La
durata media di quotazione ha subito un drastico calo soprattutto a partire dai primi anni 2000,
passando dai 10 anni registrati a metà anni Novanta, ai soli 5 anni emersi nel 2004, in seguito
al manifestarsi degli effetti provocati dall’esplosione della dot.com bubble, e all’introduzione
nei principali mercati regolamentati di standard di quotazione più rigorosi. Coerentemente con
quanto sopra evidenziato, You, Parhizgari e Srivastava (2012) sottolineano come il gran
numero di imprese approdate alla quotazione nei vari listini mondiali negli anni Novanta,
abbia comportato negli anni successivi la riduzione delle probabilità di sopravvivenza di
ciascuna, poiché l’eccessiva competizione nell’attirare su di sé l’attenzione di analisti e
investitori ha incrementato le difficoltà nel realizzare i benefici teorici connessi alla
1 Da qui in avanti si utilizzeranno in modo alternato questi vocaboli.
2 NYSE, NASDAQ e AMEX.
9
quotazione; ciò, associato alle due circostanze sopra menzionate, ha costituito i presupposti
per le grandi ondate di delisting degli anni Duemila.
La recente diffusione del fenomeno del delisting spiega la scarsità di significativi contributi
dottrinali e lavori di ricerca sul tema, soprattutto in ambito europeo, ove il delisting era
percepito sino a poco tempo fa come una manifestazione complessa e lontana, tipica di
mercati maturi e consolidati come quelli Nord americani, e perciò avvolta da un alone di
velato mistero3.
Tuttavia, risulta opportuno precisare come il fenomeno in esame abbia cominciato ad
acquisire maggiore visibilità, e diventare argomento di rilevante discussione in ambito
dottrinale e non, anche a fronte del netto calo delle nuove ammissioni verificatosi negli ultimi
tempi, che ha comportato un sostanziale peggioramento del differenziale IPO4 – Delisting
nella pressoché totalità dei listini mondiali5.
A sostegno di quanto appena affermato, la Figura 1 riporta la situazione relativa al mercato
regolamentato italiano.
FIGURA N. 1: ANDAMENTO DEL DIFFERENZIALE IPO – DELISTING NEL LISTINO DI PIAZZA
AFFARI, DAL 1997 A GIUGNO 2012.
Grafico frutto di un’elaborazione personale. Dati rilevati da http://www.borsaitaliana.it/bitApp/statsearch.bit?
target=statistic&family=group.
3 Negli anni 80-90 del secolo scorso il delisting aveva interessato principalmente il mercato statunitense e quello
canadese. Dalla pressoché totalità degli studi sul tema emerge chiaramente come gli Usa sono da considerarsi i
pionieri di questo fenomeno, successivamente diffusosi in Gran Bretagna, e a seguire negli altri Paesi
dell’Europa Continentale. 4 Initial Public Offering.
5 In particolar modo nei mercati regolamentati dei Paesi più sviluppati.
10
L’andamento del mercato italiano negli ultimi 15 anni può essere considerato rappresentativo,
con le dovute precisazioni, di quello che ha caratterizzato gli altri principali mercati
regolamentati dell’Europa continentale, e sembra giustificare la tesi ampiamente condivisa in
dottrina, tra gli altri da You (2008), Macey, O’Hara e Pompilio (2008) e Geranio (2004), in
base alla quale le nuove quotazioni e le uscite dal mercato tendono a seguire rispettivamente i
cicli rialzisti e ribassisti del mercato. Questo diffuso orientamento trova le sue radici nella
teoria del hot and cold market di Helwege e Liang (2004), la quale sottolinea come la
distribuzione delle IPO tenda a concentrarsi nei periodi in cui il mercato presenta un
andamento positivo, ovvero nelle fasi di hot market, mentre viceversa si riduce nei periodi di
mercato al ribasso, di cold market, dove le società quotate sono maggiormente incentivate al
delisting.
Dai contributi di You (2008) e You, Parhizgari e Srivastava (2012) emerge come le
determinanti alla base della significativa estensione a livello mondiale registrata dal fenomeno
del going private successivamente all’avvento del XXI secolo, siano numerose e variegate,
pur presentando non pochi legami tra loro. Queste driving forces possono essere
sostanzialmente riconducibili a tre fattori principali:
all’elevata volatilità che caratterizza l’andamento dei prezzi di mercato in seguito
all’esplosione della crisi economico – finanziaria del 2007, e che ha generato un crollo
della fiducia degli investitori, e di conseguenza una netta riduzione dei trade volumes
sui titoli, e dei relativi valori di mercato di questi ultimi;
ai rilevanti problemi di carattere strutturale e alle inefficienze varie caratterizzanti gran
parte dei mercati regolamentati mondiali, che si mostrano sempre meno capaci di
sostenere, valorizzare e tutelare le società in essi quotate;
all’innalzamento dei requisiti minimi richiesti per la quotazione a seguito
dell’introduzione, nei primi anni 2000, di provvedimenti più rigorosi che hanno reso
più difficile e oneroso mantenere lo status di società quotata. Con riferimento ai Paesi
dell’Unione Europea, occorre inoltre evidenziare come le modifiche apportate alla
normativa comunitaria disciplinante le operazioni di M&A6, ne abbiano favorito la
diffusione, dando un ulteriore slancio ai public to privates.
Sin da queste prime battute, in linea con quanto evidenziato nelle ricerche di You(2008),
Martinez e Serve (2011) e Geranio e Zanotti (2010), è bene precisare come l’ondata di
delisting che ha investito il Vecchio Continente presenta dei connotati ben differenti rispetto a
quelli con cui il fenomeno tende a manifestarsi nei mercati azionari più maturi e consolidati, i
6 Merger and Acquisitions.
11
cd. mercati anglosassoni: USA, Canada e UK. Nella maggior parte dei casi infatti, il ritiro dal
listino nei mercati dell’Europa continentale, è stato più o meno espressamente inseguito dalle
imprese, attraverso operazioni di delisting volontario, spesso realizzate tramite M&A o Offerte
Pubbliche di Acquisto (OPA). Limitati sono stati invece i casi di delisting involontario, molto
diffusi nei più competitivi e rigorosi mercati Nord americani, ovvero quelle situazioni in cui la
revoca dalla quotazione è disposta coattivamente dallo Stock Exchange, solitamente a seguito
del venir meno di uno o più requisiti minimi richiesti per la quotazione, di gravi irregolarità
e/o inadempimenti da parte dell’emittente, o più semplicemente per le scarse performance
registrate dall’impresa7. Gli stessi autori evidenziano inoltre, come la revoca dalle
contrattazioni in ambito europeo, e in particolar modo nel mercato regolamentato italiano,
abbia frequentemente riguardato imprese di medio - piccola dimensione e ridotta
capitalizzazione, le cd. small caps8, spesso caratterizzate da performance assai discutibili.
Diversamente da ciò, nei mercati anglosassoni, il fenomeno del delisting ha colpito imprese
con le più svariate caratteristiche in termini di dimensione, market capitalization, performance
economico - finanziarie, storia e provenienza.
Un’altra importante differenza, rimarcata da Martinez e Serve (2011), tra i delisting di stampo
anglosassone e quelli di tipo continentale, riguarda la forma che tende generalmente ad
assumere un’operazione di delisting volontario: nei mercati Nord americani, così come in
quello britannico, sovente una consapevole e volontaria uscita dal mercato regolamentato è
realizzata tramite un’operazione di LBO9, solitamente coadiuvata da investitori istituzionali
come i Fondi di Private Equity, mentre nei mercati regolamentati dell’Europa continentale
molto più ricorrenti sono le già menzionate OPA, nella gran parte dei casi promosse dagli
stessi azionisti di controllo, spesso coincidenti con i soci fondatori dell’impresa che in passato
l’avevano condotta alla quotazione.
Per quanto riguarda le modalità attraverso cui una società può essere delistata, Chaplinsky e
Ramchand (2007) sembrano distinguere tre principali fattispecie esistenti di public to private:
- Imprese che non riuscendo a soddisfare gli standard richiesti per la quotazione, o
avendo commesso particolari inadempimenti e/o irregolarità, o per una qualche altra
ragione, si vedono costrette ad abbandonare le contrattazioni su decisione vincolante
dello Stock Exchange. Sono queste le cd. operazioni di delisting involontario, dove
l’uscita dal mercato prescinde dall’effettiva volontà dell’emittente. Solitamente queste
7 Le due fattispecie esistenti di delisting, volontario ed involontario, verranno singolarmente trattate nel secondo
capitolo. 8 Il sistema imprenditoriale italiano è caratterizzato in prevalenza da small caps, ovvero da aziende di piccola e
media dimensione, spesso a conduzione familiare. 9 LBO o Merger Leveraged Buyout.
12
imprese, prima del delisting, erano caratterizzate da performance economico -
finanziarie molto negative e declinanti, e anzi, in certi casi già in sede di IPO
presentavano un assai discutibile stato di salute e quindi un elevato rischio di delisting
nel breve termine, tale da considerare inopportuna la decisione della Borsa di
ammetterle. Spesso, ma non sempre, si tratta di imprese di ridotte dimensioni e
modesta market capitalization10
.
- Imprese che decidono di delistare volontariamente dal mercato borsistico, poiché
necessitano di una maggior flessibilità strategica e gestionale per implementare un
qualche programma di ristrutturazione e/o risanamento, o perché semplicemente non
ritengono più soddisfacente il rapporto tra benefici e costi connessi allo status di
impresa quotata. In altri casi invece, le performance dell’impresa hanno subito un
drastico deterioramento dopo l’IPO, e la decisione di abbandonare le contrattazioni è
quindi da considerarsi soltanto una mossa per anticipare il probabile futuro
provvedimento di revoca dello Stock Exchange. Le società che richiedono
intenzionalmente la revoca dalle contrattazioni spesso sono piccole – medie imprese
con bassa capitalizzazione, che hanno subito un peggioramento delle proprie
performance in seguito all’ingresso nel mercato, evidenziato da un progressivo declino
del prezzo del titolo.
- Imprese che abbandonano il mercato regolamentato successivamente ad un’OPA, ad
un LBO o ad un’operazione di M&A. Solitamente queste imprese sono caratterizzate
da buone performance economico – finanziarie e soddisfano a pieno i requisiti minimi
di quotazione, mostrando quindi di avere la capacità di poter continuare a soggiornare
in modo profittevole nel mercato; tuttavia, in seguito al verificarsi di una delle tre
operazioni sopra menzionate, si vedono costrette ad abbandonare le contrattazioni. A
differenza delle società che delistano volontariamente o involontariamente, le imprese
rientranti in questa categoria presentano le più svariate caratteristiche in termini di
performance, size e market capitalization. Inoltre, in media esse evidenziano un
maggiore livello di prossimità tra le performance registrate in sede di IPO e quelle al
momento del delisting, tale da giustificare come in questi casi, il delisting spesso non
sia una conseguenza del declino del prezzo e della liquidità del titolo azionario.
Pertanto, sia “poor quality” e “low performing company”, che “high quality” e “high
10
Per market capitalization si intende il valore complessivo delle azioni negoziate di una società quotata; si
ottiene moltiplicando il numero di azioni out standing della società per il relativo prezzo di mercato; è una
misura dell’Entreprise Value di una società quotata. La somma delle market capitalizations di tutte le società
quotate in un certo mercato azionario dà il valore complessivo di quel mercato.
13
performing company”11
, possono optare, seppur con motivazioni diverse, alla
realizzazione di un’operazione di OPA, LBO o di M&A12
. Queste operazioni, un
tempo tipiche dei mercati anglosassoni, hanno conosciuto una recente diffusione nei
mercati dell’Europa continentale, sia in seguito alla flessibilizzazione della normativa
comunitaria sul tema, sia per l’aumento su questi mercati del numero di rilevanti
investitori istituzionali come Fondi di Private Equity, di Venture Capital e Banche
d’Investimento. Con riferimento alle considerate operazioni di revoca dalle
contrattazioni, potrebbe sorgere qualche perplessità circa la categoria nella quale farle
rientrare. Macey, O’Hara e Pompilio (2008) e Geranio (2004), tendono a risaltare
come la finalità primaria perseguita con esse non sia di certo l’uscita da un mercato
regolamentato; ciò, ne è soltanto una mera conseguenza tecnica, venendo meno alcuni
dei requisiti minimi richiesti per la quotazione. È lo Stock Exchange, pur avendo
pressoché nulla discrezionalità, ad assumere in questi casi la decisione di delistare il
titolo della società. Quanto appena evidenziato, potrebbe quindi indurre a considerare
OPA, LBO e M&A operazioni di delisting involontario. Tuttavia, la dottrina
prevalente13
fa rientrare queste tre differenti fattispecie di going private nell’ambito
dei delistings volontari, sostenendo che, anche se formalmente la decisione di delisting
è assunta dallo Stock Exchange, spesso dietro ad una delle considerate operazioni
sussiste l’intenzione, implicita e secondaria, della società di abbandonare le
contrattazioni, e in ogni caso c’è la piena consapevolezza che la sua realizzazione
comprometterà irrimediabilmente il proseguo della quotazione. Chaplinsky e
Ramchand (2007), anche se maggiormente indirizzati verso questo orientamento
dominante, sottolineano come sia inadeguato fare una rigida e incondizionata
classificazione di queste tre operazioni, facendole rientrare a priori nell’una o
nell’altra categoria; più opportuno pare indagare caso per caso sulle reali motivazioni
che spingono una società a realizzare un’operazione di OPA, di LBO o di M&A,
analizzando accuratamente i comportamenti e le azioni, implicite e non, assunte
nell’ultimo periodo di quotazione dalla società stessa, l’andamento delle sue
performance economico - finanziarie durante il soggiorno nel listino, e le motivazioni
11
Chaplinsky e Ramchand (2007). 12
Alcune imprese scelgono di realizzare un’operazione di M&A, LBO o OPA, perché la considerano l’unica
alternativa possibile al probabile dissesto economico - finanziario a cui sono prossime. Altre imprese invece, pur
presentando delle buone performance, scelgono di fondersi o di essere acquisite perché possiedono degli assets,
o altri valori potenziali, che altre imprese sono disposte a pagare per averli, e quindi a valorizzarli. Più in
generale, tutte e tre le operazioni considerate possono soddisfare l’esigenza di ristrutturazione della corporate
governance che un’impresa può presentare in particolari momenti della sua vita. 13
Tra i tanti vedi: Geranio e Zanotti (2010), Martinez e Serve (2011), Chaplinsky e Ramchand (2007),
Renneboog, Simons, e Wright (2007) e You (2008).
14
che sostavano dietro alla passata scelta di quotarsi. Secondo i due autori, soltanto
procedendo in questo modo, si ha una maggior probabilità di comprendere se dietro
alla realizzazione di una delle considerate operazioni sussiste o meno l’effettiva
volontà della società di delistarsi.
Da quanto sinora emerso, pare evidente come il delisting debba essere considerato un
fenomeno altamente negativo, una minaccia da fronteggiare sempre più fortemente negli
ultimi tempi; come rimarcato da Chandy, Sarkar e Tripathy (2004), la manifestazione di un
tale evento potrebbe provocare effetti dannosi per tutti: per la società, che venendo estromessa
dalle contrattazioni rinuncerebbe a tutti i più svariati benefici connessi alla quotazione, per i
suoi shareholders, i quali vedrebbero ridursi nettamente il valore e la liquidità dei titoli
posseduti, per i managers che perderebbero in prestigio, visibilità e motivazione, e per lo
Stock Exchange, che da una parte assisterebbe alla riduzione della sua market capitalization
complessiva e delle opportunità di investimento offerte agli investitori, oltre che al
peggioramento del differenziale IPO - Delisting, perdendo così di attrattività e prestigio, e
dall’altra non potrebbe più beneficiare delle varie commissioni di quotazione e di
negoziazione che la società delistata li riconosceva. In aggiunta a tutto ciò, Macey, O’Hara e
Pompilio (2008) evidenziano come spesso i processi di uscita dal mercato regolamentato
siano lunghi, complessi e costosi, a causa di normative poco trasparenti e inefficaci, e di un
trattamento non egalitario che gli Organi di competenza riservano alle imprese; può infatti
accadere che un’impresa continui a soggiornare in un mercato regolamentato per mesi o
addirittura anni, nonostante manifesti una palese non conformità agli standard di quotazione,
o ancor di più che sia coinvolta in particolari scandali o frodi14
, recando così danno a sè
stessa, ai suoi investitori oltre che al mercato. Emerge quindi la necessità di normative più
chiare e rigorose, che riducano la discrezionalità concessa agli Stock Exchanges nell’assumere
i provvedimenti di revoca, oltre che di una maggior attenzione e competenza degli organi di
Borsa, in modo da regolare più efficacemente i sempre più numerosi processi di delisting15
.
Alcuni autori, tra i quali Renneboog, Simons, e Wright (2007) e Leuz, Triantis e Wang
(2008), hanno realizzato un’analisi più estesa, non limitandosi a considerare le conseguenze
negative associate al delisting, ma risaltandone anche gli effetti e le implicazioni positive. Essi
tendono ad evidenziare come, nel caso una società sia costantemente sottovalutata dal
mercato, e che quindi il prezzo di mercato del titolo non rispecchi il suo reale valore,
l’abbandono delle contrattazioni possa dimostrarsi un evento favorevole per l’impresa e i suoi
14
Numerosi casi negli USA nei primi anni 2000. Enron su tutti. 15
Il tema della regolamentazione del delisting sarà approfondito nel terzo capitolo, nel quale verrà condotta
un’analisi generale su come il fenomeno in esame è disciplinato a livello internazionale.
15
shareholders, così come quando la stessa presenta la necessità di una maggior flessibilità
strategica e gestionale al fine di attuare un programma di ristrutturazione e/o risanamento.
Inoltre, il going private generalmente comporta un maggior allineamento dei comportamenti e
degli obbiettivi, tendendo così a ridurre lo storico conflitto tra manager e shareholders.
Macey, O’Hara e Pompilio (2008) sottolineano che per certi aspetti il delisting potrebbe
essere considerato addirittura come un fenomeno fisiologico che si manifesta ciclicamente per
compiere una sorta di necessaria selezione delle imprese soggiornanti nei vari Stock
Exchanges, al fine di permettere a quest’ultimi di mantenere elevati livelli di competitività,
efficienza e prestigio. In tal modo, questo processo di pulizia dei mercati regolamentati
tenderà gradualmente ad escludere tutte quelle imprese scarsamente performanti, con
l’obbiettivo di massimizzare il numero di high quality company quotate nel listino, ovvero di
imprese con un buon stato di salute economico – finanziaria, evidenziato da un titolo con un
prezzo di mercato stabilmente elevato e un significativo trade volume. Considerato quanto
appena evidenziato, sembrerebbe che i mercati borsistici dovrebbero incentivare anziché
contrastare i delistings. Tuttavia, i sopra citati autori precisano che una tale affermazione sia
da considerarsi azzardata; la soluzione più ragionevole, come nella maggior parte dei casi,
sembra infatti sostare nel mezzo: il delisting di una società è un fenomeno che presenta
numerose conseguenze negative ed alcuni risvolti positivi, e deve perciò essere analizzato e
valutato ponderatamente caso per caso dallo Stock Exchange. Detto ciò, non tutte le cd. low
quality company, ovvero le imprese con scarse performance economico – finanziarie, devono
essere escluse dalle contrattazioni, o comunque indotte a farlo, nel più breve tempo possibile,
verificando piuttosto l’esistenza di eventuali possibilità di ripresa o di rilancio della società, e
se opportuno, fornirle il necessario supporto cercando di fare quanto possibile per evitarne il
delisting; pertanto, è da ritenere totalmente sconsiderato l’atteggiamento, assunto da diversi
Stock Exchanges negli ultimi tempi, di abbandonare una società al proprio destino o
addirittura revocarla non appena presenta un calo di performance o una qualche non
conformità agli standard di quotazione. In aggiunta a quanto detto, come sostenuto da
Chaplinsky e Ramchand (2007), gli Stock Exchanges dovrebbero evitare un eccessivo
squilibrio tra IPO e delisting, e perciò attuare una sorta di gestione dinamica dei due fenomeni
cercando di regolarne stabilmente l’andamento, in modo da impedire che un’eventuale ondata
di delistings comporti perdite significative per il mercato in termini di attrattività, prestigio e
competitività, e che d’altra parte invece un eccessivo numero di IPO implichi uno smisurato
incremento della competizione tra le diverse società quotate nel listino nell’accaparrarsi i
benefici connessi alla quotazione, realizzabili soltanto attirando l’attenzione di analisti e
16
investitori sul proprio titolo, portando così alla riduzione delle probabilità di sopravvivenza di
ciascuna.
You (2008) evidenzia inoltre la tendenza di alcuni mercati regolamentati, specie quelli dei
Paesi emergenti, Honk Kong su tutti, di abbassare eccessivamente gli standard di quotazione
al fine di attirare sempre più nuove IPOs e di ridurre le potenziali revoche, con l’obbiettivo di
dare un ulteriore slancio alla già rilevante crescita, misurabile in termini di market
capitalization e volume complessivo delle negoziazioni, che li ha contraddistinti a partire
dalla seconda metà degli anni Novanta. Le preoccupazioni degli autori dottrinali, risaltate
nello studio di You (2008), circa le conseguenze negative che lo sconsiderato comportamento
adottato da questi Stock Exchanges avrebbe potuto generare, si sono rivelate giustificate.
L’elevata deregolamentazione che vige nei mercati borsistici emergenti ha contribuito al
dissesto di molte società quotate che, pur presentando un cattivo stato di salute economico -
finanziario sin dal momento dell’IPO e quindi irrisorie prospettive di un soggiorno
profittevole nel mercato, sono state comunque ammesse alle contrattazioni; il going public
sembra infatti aver inflitto il colpo decisivo a tali imprese, provocandone il tracollo.
Sempre nell’ottica di un’analisi generale del fenomeno, You(2008) e You, Parhizgari, e
Srivastava (2012) risaltano come negli ultimi anni esso abbia interessato prevalentemente i
mercati occidentali, ovvero quelli dei Paesi più sviluppati. Il mercato statunitense, da sempre
considerato il mercato regolamentato per eccellenza, per anni destinazione finale del processo
di crescita ed espansione di numerose imprese nazionali e non, ha registrato una significativa
perdita di attrattività e di competitività in seguito agli eventi verificatesi nel primo decennio
del XXI secolo, rimarcata da un netto calo delle IPOs e da un consistente numero di
delistings. In direzione opposta sembrano muoversi i cd. mercati emergenti, in gran parte
riconducibili a quelli del Sud Est asiatico16
; essi stanno attraversando un periodo di grande
crescita ed espansione, e sono diventati sempre più mercato target di numerose imprese
provenienti dai Paesi vicini, ma anche da Europa e Nord America. Questi mercati infatti, sono
stati toccati soltanto parzialmente dalla crisi economico – finanziaria esplosa nel 2007, e
offrono allettanti opportunità d’investimento per le imprese e gli investitori, oltre che, come
sopra evidenziato, ridotti standard di quotazione e obblighi in tema di disclousure; a
quest’ultimo aspetto però conseguono importanti problemi strutturali del mercato, legati ad
una normativa carente e poco chiara, che non tutela a dovere gli investitori e la concorrenza
tra le imprese, e che pare essere un significativo freno alla definitiva consacrazione di questi
listini.
16
Cina, India, Honk Kong, Singapore, Corea del Sud.
17
Indagando sui fattori che contribuiscono ad un soggiorno duraturo e profittevole in un
mercato regolamentato, e che perciò tendono ad allontanare il rischio delisting che grava
intorno ad una società quotata, Chaplinsky e Ramchand (2007) considerano fondamentale la
capacità dell’impresa di insediarsi efficacemente sin da subito nel mercato, attirando in modo
persistente l’attenzione di analisti e investitori. Infatti, soltanto con una significativa analyst
coverage17
, ovvero con un elevato livello di market recognition, la società è in grado di
garantire un importante trade volume al suo titolo, favorendone così un andamento positivo in
termini di prezzo e liquidità. Un’impresa che mostra di avere tale capacità, riesce a godere in
misura rilevante dei benefici teorici associati al going public, che l’avevano incentivata ad
accedere al listino, e quindi a sopportare più facilmente i considerevoli costi ed oneri che la
quotazione implica, allontanando il pericolo di un eventuale delisting. Tuttavia, quest’ultimo
aspetto non è di semplice realizzazione, poiché è collegato a numerosi altri fattori. Chaplinsky
e Ramchand (2007) sottolineano che il presentarsi al mercato al momento dell’IPO con un
buon stato di salute economico – finanziaria, ovvero come un’high quality company, e con
una size elevata, in termini di assets ed equity, gioca un ruolo importante nel determinare la
futura capacità dell’impresa di calamitare su di sé l’interesse del mercato. Una società che si
presenta al momento dell’ingresso nel mercato borsistico con dei buoni fundamentals, in
particolare con apprezzabili livelli di earnings, ROA18
, fatturato, e debito, e con una size
rilevante, ha maggiori probabilità di mantenere a lungo lo status di società quotata. A
sostegno di ciò, dallo studio di Li e Zhou (2006), emerge come gran parte delle imprese
delistate dal 1980 al 1999 dai tre principali mercati regolamentati USA, mostravano in sede di
IPO scarsi fondamentali, e spesso erano di dimensioni non particolarmente elevate.
Come sottolineato da Fama e French (2004), sembra esserci una relazione diretta tra prezzo di
collocamento e durata di quotazione. In altre parole, le società che si presentano al mercato
con un prezzo del titolo elevato hanno minor probabilità di incorrere in un delisting nel breve
termine. Infatti, tanto più elevato è il prezzo del titolo in sede di IPO tanto più probabile è che
l’impresa riesca ad attirare sin da subito l’attenzione di investitori e analisti, garantendo un
significativo trade volume delle proprie azioni, e facendo così emergere i presupposti per un
durevole e profittevole soggiorno nel listino.
17
L’analyst coverage è il principale indicatore dell’andamento di un titolo in un mercato borsistico; misura il
livello di investor recognition, ovvero il grado di attenzione posto dal mercato (investitori e analisti) verso
l’impresa e il suo titolo. Tanto più grande è la size dell’impresa e tanto più essa è conosciuta, tanto maggiore
tenderà ad essere la sua analyst coverage. D’altra parte invece, le cd. small caps tenderanno ad assistere,
successivamente alla fase di IPO, ad un progressivo calo del valore di questo indicatore, poiché a causa della
loro ridotta dimensione e modesta market capitalization, sono considerate poco attraenti dal mercato, e analisti e
investitori non sono incentivati a spendere tempo e denaro nel ricercare informazioni e dati su di esse. Il valore
di questo indicatore è misurabile attraverso il numero di opinioni, pareri, articoli e raccomandazioni pubblicate
dagli analisti sull’impresa e sul suo titolo. 18
Return of Assets: indicatore misurante la redditività prodotta dalla gestione operativa di un’azienda.
18
Fungáčová (2007) evidenzia invece come l’entità del capitale sociale di una società quotata
detenuta da enti pubblici sia inversamente proporzionale alle probabilità di un’eventuale
uscita dal mercato regolamentato della stessa nel medio periodo. Dal suo contributo,
focalizzato su un’analisi del fenomeno del delisting nei mercati regolamentati dell’Est
Europa, si rileva come un aumento dell’1% della frazione di capitale sociale posseduta da enti
pubblici comporti una riduzione dello 0,3% delle probabilità di delisting futuro della società;
ciò pare essere giustificato dal fatto che quando lo Stato o un altro ente pubblico è coinvolto
nella struttura proprietaria di una società, tende ad assumere un ruolo strategico, ovvero mira
a perseguire un piano di ristrutturazione, di risanamento o di crescita ed espansione,
conseguibile con una quotazione a medio – lungo termine.
Un altro importante fattore che può allontanare il rischio delisting che incombe sul titolo di
una certa società, è il capital rising. Per Merton (1987), la decisione di presentarsi in sede di
IPO con un un’offerta pubblica di sottoscrizione (OPS)
19, e di aumentare periodicamente il
capitale sociale durante il soggiorno nel listino, dando così la possibilità ai nuovi investitori
presenti nel mercato di sottoscrivere azioni di nuova emissione, e perciò allargando la quota di
public capital, ovvero della porzione di capitale sociale detenuta da azionisti diversi da quelli
di controllo, aumenta le probabilità di un soggiorno duraturo nello Stock Exchange. Infatti, il
capital rising è considerato una tecnica di sensibilizzazione degli investitori, poiché segnala al
mercato come la strategia di quotazione dell’impresa sia basata su finalità strategiche di
medio - lungo termine e non su propositi speculativi di breve periodo; questo le permette di
attirare stabilmente l’attenzione del mercato e di garantire significativi livelli di trade volume
al proprio titolo. L’elevato livello di commitment che la società ha nel mercato costituisce il
presupposto per una quotazione duratura e profittevole. A sostegno di quanto affermato, dallo
studio di Chaplinsky e Ramchand (2007) emerge come un numero consistente delle imprese
revocate dai tre principali mercati regolamentati USA nel periodo 1961-2004, non abbia
realizzato alcun aumento di capitale successivamente all’ingresso nel mercato regolamentato,
neppure in sede di IPO, e che quindi nessuna azione di nuova emissione sia stata sottoscritta
durante il soggiorno nel listino. Considerato quanto sopra emerso, sembrano dunque
sussistere elementi a sufficienza per sostenere l’esistenza di una relazione inversa tra l’entità
dei capital risings effettuati e la probabilità di revoca dalle contrattazioni.
19
Un’IPO può essere realizzata con un’offerta pubblica di sottoscrizione (OPS), ovvero provvedendo al
momento dell’ingresso nel mercato ad un aumento del capitale sociale, e perciò proponendo agli investitori
azioni di nuova emissione; in alternativa, può verificarsi una semplice offerta pubblica di vendita (OPV), quando
la società quotanda non delibera alcun aumento di capitale, ma si limita a vendere al mercato parte delle proprie
azioni di vecchia emissione. Infine, l’impresa può decidere di adottare congiuntamente le due tecniche, offrendo
al mercato sia azioni di nuova emissione, che quelle già esistenti.
19
Quando uno o più di questi fattori, considerati di fondamentale importanza per soggiornare
con successo in un mercato borsistico, non si verifica, ecco che per una società quotata
incombe il pericolo delisting. La revoca dalle contrattazioni, se da una parte può conferire
maggior flessibilità strategica e operativa per poter implementare un’eventuale processo di
rinnovamento o ristrutturazione, e libera l’impresa dai rigidi obblighi in tema di disclousure e
dai rilevanti oneri di quotazione, dall’altra, comporta la perdita dei benefici connessi al listing,
in particolar modo di quelli relativi alla facilità d’accesso alle fonti di capitale, alla liquidità
delle proprie azioni, all’avere un valore di mercato riconosciuto e condiviso da un’ampia
comunità finanziaria, e tutti gli effetti positivi in termini di immagine e notorietà conseguiti
con il going public. Come rimarcato da Macey, O’Hara e Pompilio (2008) e da Chandly,
Sarkar e Tripathy (2004), abbandonando il listino la società e i suoi shareholders assistono ad
un drastico calo del prezzo del titolo, che perde in media circa il 50% del suo valore, e della
sua liquidità, evidenziando un netto calo del trade volume, e il triplicarsi del bid ask spread.
Un ulteriore aspetto di carattere generale associato al tema oggetto di trattazione, sul quale
merita brevemente soffermarsi, è il ruolo giocato dallo Stato, e dalle sue istituzioni politiche,
economiche, finanziarie e legali nel contribuire alla crescita del mercato regolamentato
nazionale e nel contrastare il fenomeno del delisting. In tale ambito, assume particolare rilievo
il contributo di Fungáčová (2007), che indaga sullo sviluppo dei mercati borsistici nelle cd.
economie di transizione negli anni Novanta e Duemila20
, e sui connotati che le revoche dalle
contrattazioni hanno in essi assunto. Lo studio in questione, sottolinea come un diverso
processo di privatizzazione, e più in generale un differente operato delle istituzioni abbiano
comportato un percorso di crescita del mercato regolamentato nazionale assai dissimile, pur
trattandosi di Paesi confinanti con caratteristiche geografiche, culturali e storiche molto simili.
Emerge infatti che, mentre Polonia, Ungheria e Slovenia presentano un mercato borsistico in
espansione ed un processo di transizione verso un sistema economico di libero mercato, tipico
dei Paesi più sviluppati, sempre più vicino al raggiungimento degli obbiettivi iniziali cui si era
preposto, la R. Ceca e la R. Slovacca mostrano ancora un significativo livello di sottosviluppo
economico e finanziario, e un mercato regolamentato scarsamente attrattivo e competitivo,
con gravi problemi strutturali. Queste evidenze sembrano sostenere la tesi di Levine e Zervos
(1998), in base alla quale il mercato borsistico svolge un ruolo chiave nel determinare lo
sviluppo del sistema economico e finanziario di un Paese, in quanto incentiva gli scambi e gli
investimenti, drivers principali della crescita di un’Economia.
I diversi livelli di sviluppo economico e finanziario sopra rimarcati, possono essere spiegati
dalle differenti dinamiche con cui è avvenuto il processo di privatizzazione in questi Paesi,
20
Ovvero i Paesi dell’Est Europa, un tempo sotto l’influenza del regime comunista imposto dall’URSS.
20
avviato nei primi anni Novanta, in seguito alla disaggregazione dell’URSS e alla fine del
regime comunista cui erano sottoposti. Come spiegato da Fungáčová (2007), nei primi, si è
adottato un cd. approccio top down, che prevedeva una graduale e pianificata transizione
verso il libero mercato, e poneva come primaria fondamentale esigenza a cui far fronte la
forte ristrutturazione strategica e organizzativa delle grandi imprese collettiviste,
accompagnata da una significativa riforma delle varie istituzioni politiche, economiche,
finanziarie e legali. Nei due Paesi dell’ex Cecoslovacchia invece, si è adottato un approccio di
tipo bottom up, che ha portato ad un’accellerata e sconsiderata ondata di privatizzazioni, senza
realizzare ex ante un’accurata pianificazione di quello che si presentava come un radicale
cambiamento del sistema economico - finanziario. In questi due Paesi, lo Stato spinse
erroneamente un gran numero di imprese appena privatizzate a quotarsi nel nascituro mercato
regolamentato nazionale, senza considerare la prioritaria e profonda necessità di
ristrutturazione che esse presentavano prima di anche solo poter pensare di accedere al listino,
e l’impossibilità per un mercato appena costituito e con gravi problemi strutturali di poter
accogliere e supportare un così elevato numero di imprese. Fungáčová (2007) evidenzia come
a metà del 1993, neanche un anno dopo la sua attivazione, il Prague Stock Exchange (PSE)
ospitava circa un migliaio di società, e il numero continuò a salire negli anni successivi, fino a
raggiungere la quota record di Maggio 2006, con la bellezza di ben 1792 società quotate;
sebbene per size complessiva fosse addirittura paragonabile ai listini dei Paesi occidentali, la
gran parte delle imprese soggiornanti nel mercato ceco presentava tuttavia delle performance
economico - finanziarie disastrose, e in aggiunta, il mercato non era in grado di svolgere le
sue funzioni principali, in particolare quella informativa, mostrando prezzi completamente
disconnessi alla realtà. Tutto ciò, comportò a partire dalla fine degli anni Novanta, l’inizio di
una ondata di delisting di dimensioni enormi, che si manifestò con la stessa rapidità con cui
negli anni precedenti si erano registrate le nuove IPOs. Le revoche dalle contrattazioni
assunsero svariate fisionomie: alcune imprese delistarono volontariamente, altre in seguito al
fallimento o ad altre procedure concorsuali, ma la maggior parte vennero revocate su
decisione dello Stock Exchange, che all’improvviso decise di innalzare i pressoché inesistenti
standard di quotazione sino a quel momento in vigore, dimostrandosi consapevole dell’errore
fatto in passato nell’ammettere imprese che neanche lontanamente meritavano lo status di
società quotata, comportando così conseguenze assai negative per le imprese stesse, per il
mercato e per l’economia ceca in generale. Tuttavia, questi numerosi delistings involontari
susseguitesi in un breve lasso di tempo non fecero altro che peggiorare ulteriormente la già
critica situazione del mercato regolamentato ceco, rallentandone pesantemente il processo di
21
crescita. A sostegno di ciò, si segnala a Settembre 2012 la presenza di soli 15 titoli listati nel
PSE.
Quanto sopra evidenziato fornisce pertanto elementi a sufficienza per sostenere come sia
fondamentale il ruolo giocato dalle varie Istituzioni di un Paese nel contribuire alla sviluppo
di un mercato regolamentato efficiente e competitivo, in grado di gestire efficacemente il
fenomeno del delisting e le implicazioni negative ad esso associate21
.
Sempre nell’ambito degli aspetti generali connessi al fenomeno in esame, si registra infine
una crescente propensione da parte degli investitori presenti nei diversi mercati regolamentati
ad acquistare le azioni di una società non appena essa manifesti delle prospettive di delisting
nel breve periodo, con l’obbiettivo di rivenderle dopo poco tempo a prezzo maggiorato,
conseguendo così importanti guadagni. Shumway (1997) e Eisdorfer (2008) evidenziano
come l’elevata volatilità che caratterizza l’andamento del prezzo di un titolo a rischio delisting
possa infatti offrire importanti opportunità di profitto per gli investitori. In seguito
all’emergere delle voci di un possibile delisting da parte della società, si intensificano i bias
informativi che la riguardano, ovvero cominciano a circolare con sempre maggior insistenza
informazioni contrastanti relative allo stato di salute economico - finanziario della società, ai
comportamenti e alle decisioni future che essa adotterà; queste dinamiche producono un
rilevante signaling effect sul prezzo del titolo, generandone così un andamento anomalo e
altalenante. Tuttavia, non sempre le aspettative ottimistiche degli investitori si avverano,
poiché la minaccia di delisting potrebbe improvvisamente realizzarsi, o comunque
intensificarsi, provocando un netto e inesorabile calo del prezzo del titolo, e causando così
grosse perdite per gli investitori. Detto ciò, pare opportuno valutare in modo accurato la
decisione se realizzare o meno questi investimenti altamente rischiosi, in ogni caso cercando
prima di ottenere informazioni attendibili sul reale stato di salute economico - finanziario
dell’impresa e sulle probabili dinamiche future che la caratterizzeranno.
1.2 IL TRADE OFF TRA I COSTI E I BENEFICI DEL GOING PUBLIC: I PRESUPPOSTI PER
IL DELISTING
A differenza di quanto emerso relativamente al delisting, il fenomeno del going public ha
origini molto più datate, e ciò spiega i numerosi contributi presenti in ambito dottrinale sul
tema. Il going public, conosciuto a livello internazionale anche con l’appellativo di private to
public o listing, consiste nella decisione di una società di procedere ad un’Initial Public
21
A tale conclusione oltre che a Fungáčová (2007), sembrano giungere anche You (2008) e You, Parhizgari, e
Srivastava (2012).
22
Offering (IPO) con l’obbiettivo di accedere ad un certo mercato regolamentato e rendere le
proprie azioni negoziabili tra il pubblico in esso presente.
Listing e delisting, seppur siano da considerarsi due fenomeni ben distinti, per molti versi
opposti, presentano tuttavia legami non poco significativi tra loro. Infatti, il venir meno delle
motivazioni che hanno indotto un’impresa a quotarsi in un certo mercato borsistico può
costituire i presupposti per un suo imminente abbandono delle contrattazioni. Da qui la
decisione di analizzare brevemente i costi e i benefici, reali e potenziali associati allo status di
listed company. In linea con quanto evidenziato da Röell (1996) e da Pagano, Panetta e
Zingales (1998), in due dei più significativi contributi presenti sul tema in ambito europeo, è
da ritenere che quando una società non riesce a realizzare i benefici teoricamente conseguibili
con il soggiorno in un mercato regolamentato, o qualora essi risultino essere inferiori ai costi
relativi, ci sono elevate probabilità che la stessa manifesti l’intenzione di procedere alla
revoca dalle negoziazioni.
Per ciò che concerne i principali benefici potenzialmente realizzabili con la quotazione,
Pagano, Panetta e Zingales (1998) evidenziano innanzitutto come l’ingresso in uno Stock
Exchange permetta all’impresa di raccogliere con maggior facilità nuove risorse finanziarie a
titolo di capitale proprio, e perciò di ottenere importante liquidità e al contempo di
diversificare le proprie fonti di finanziamento, che per una società non quotata sono
solitamente costituite da capitale di credito e dai conferimenti iniziali dei soci fondatori. Dallo
studio di Röell (1996) emerge come questo beneficio costituisca la principale motivazione che
induce un’impresa ad approdare in un mercato regolamentato. Il going public le permette
infatti di recuperare le risorse necessarie ad implementare il suo programma di crescita ed
espansione, realizzabile anche grazie attraverso le operazioni di M&A, molto più ricorrenti per
le public companies. Inoltre, avendo minori difficoltà di accesso al capitale di rischio,
l’impresa tende ad acquisire un maggior potere contrattuale nei confronti dei fornitori del
capitale di credito: si potrebbe pertanto registrare anche un netto calo del WACC22
.
Chemmanur e Fulghieri (1999) evidenziano come il più facile accesso al capitale comporti
vantaggi non solo in termini quantitativi, ma anche dal punto di vista qualitativo. Infatti, la
differenziazione delle fonti di finanziamento utilizzate permette all’impresa di bilanciare la
propria capital structure, e di diversificare, e quindi ridurre il rischio affrontato. Anche i soci
22
Weighted Average Cost of Capital o costo medio ponderato del capitale. Consiste nella media ponderata tra il
costo del capitale proprio e il costo del capitale di debito. Il WACC è il tasso minimo che un'azienda deve
generare come rendimento dei propri investimenti per remunerare i creditori, gli azionisti e gli altri fornitori di
capitale. Può essere rappresentato da questa formula: WACC = (D/V) *Kd *(1-Tm) + (E/V)*Ke.
D = ammontare capitale di debito o indebitamento; E = Equity o patrimonio netto; V = Entreprise Value,
calcolato come somma tra D e E; Kd = costo dell’indebitamento; Ke = costo del capitale proprio; Tm = marginal
tax rate. Per un approfondimento sul tema si veda: KOLLER, T., GOEDHART, M., e WESSELS, D., 2010.
Valuation. Chicago: Mc Kinsey & Company, pp. 232-266.
23
fondatori dell’impresa, che in ambito europeo, e soprattutto in Italia23
, tendono a coincidere
con l’imprenditore e i suoi familiari, a seguito dell’ingresso di nuovi azionisti e perciò
dell’innesto di ulteriore capitale proprio, vedono ridursi il rischio gravante sul loro
investimento. Inoltre, essi hanno la possibilità di monetizzare in qualunque momento parte più
o meno rilevante della propria partecipazione sociale, ottenendo importanti capital gains,
grazie al fatto che solitamente in seguito alla quotazione il valore delle azioni della società si
apprezza, permettendo loro di vendere quelle in proprio possesso ad un prezzo superiore a
quello pagato in precedenza per sottoscriverle.
Un altro importante vantaggio che il going public comporta per la società, consiste
nell’acquisizione di un pricing di mercato, ovvero di un valore oggettivo, riconosciuto e
condiviso da un’ampia comunità finanziaria. Pagano, Panetta e Zingales (1998) tengono
tuttavia a precisare che questa implicazione potrebbe presentare anche dei risvolti negativi per
l’impresa: qualora il mercato regolamentato non fosse in grado di svolgere efficacemente la
sua funzione informativa, ovvero di riflettere sul prezzo di mercato del titolo dati e
informazioni attendibili sull’impresa, o più in generale non avesse la capacità di riconoscere e
far emergere il suo reale valore, ecco che essa risulterebbe essere svalutata; ciò
comporterebbe effetti assai negativi sul trade volume del titolo e sul relativo prezzo,
costituendo i presupposti per un necessario delisting. A sostegno di quanto appena
evidenziato, dagli studi di You (2008) e di Martinez e Serve (2011) emerge come la pressoché
totalità dei listini mondiali, a seguito della crisi economico – finanziaria esplosa nel 2007,
presenti inefficienze tali da non riuscire ad esprimere tutto il valore potenziale che le società
ospitate racchiudono in sé; anzi, spesso emergono dei prezzi di mercato altamente discordanti
dal reale valore delle imprese.
Altri significativi effetti positivi associati al listing sono quelli riconducibili ai molteplici
benefici in termini di immagine, che sulla base dei risultati emersi dall’indagine di Röell
(1996) costituiscono la seconda ragione principale per cui una società è incentivata al going
public. Innanzitutto, l’essere sottoposta a numerosi e stringenti obblighi in tema di disclousure
e a rigorosi standard di quotazione fa percepire l’impresa come caratterizzata da un’elevata
qualità intrinseca, permettendole di creare un clima favorevole di consenso e approvazione
presso i suoi stakeholders, fattore molte importante per il raggiungimento degli obbiettivi
prefissati. Pagano, Panetta e Zingales (1998) rimarcano inoltre che con l’ingresso in un
mercato regolamentato la società ottiene un grande incremento in termini di visibilità e di
reputazione, a cui però fa fronte un significativo ampliamento delle responsabilità verso i
23
La fattispecie d’impresa più ricorrente nel mercato italiano è la piccola - media impresa a conduzione
familiare.
24
propri stakeholders. Ogni suo comportamento, azione o decisione diventerà infatti oggetto del
giudizio del mercato e degli attori in esso operanti, influenzando l’andamento del prezzo del
titolo. La quotazione implica pertanto non solo importanti cambiamenti organizzativi per
l’impresa, ma soprattutto in termini culturali, dovendo garantire un’elevata trasparenza della
propria attività oltre che una continua comunicazione con il pubblico.
I notevoli miglioramenti in termini di immagine possono avere risvolti positivi per l’impresa
sia dal punto vista finanziario, nell’approvvigionamento delle risorse finanziarie necessarie al
sostentamento della sua attività, facilitando i rapporti con investitori e istituti di credito, e
avendo maggior potere contrattuale nel negoziare le condizioni di finanziamento, sia dal
punto di vista commerciale, “attirando nuovi clienti potenziali e rafforzando la fedeltà di
quelli già in portafoglio”24
. Coerentemente con quanto appena asserito, Geranio (2004)
sottolinea come spesso le imprese tendano ad approdare nei mercati regolamentati dei Paesi
che costituiscono il principale mercato di sbocco dei propri prodotti e/o servizi, ove
generalmente sono quotati anche i maggiori competitors. Ecco che, come evidenziato da
Pagano, Panetta e Zingales (1998), in alcuni casi, soprattutto per le imprese europee, la
decisione di listing non è accompagnata da una strategia di quotazione accuratamente
pianificata, ma risulta essere erroneamente motivata soltanto dalla volontà di rispondere ad
azioni intraprese in precedenza dai concorrenti. Spesso, il soggiorno nel mercato di queste
imprese si rivela sin da subito infruttuoso, inducendole dopo breve tempo al delisting.
Altre implicazione positive che il listing di una società generalmente comporta sono legate
all’aspetto motivazionale. Insieme all’impresa, infatti, anche il management e lo staff
acquisiscono un’elevata visibilità, e il loro operato diventa oggetto di valutazione da parte
della comunità finanziaria; di conseguenza, essi sono maggiormente “involved and
committed”25
nell’impresa, e tenderanno a massimizzare il proprio impegno al fine di
realizzare gli obbiettivi che la società si è prefissata. Infine, per una società quotata
sembrerebbero emergere anche dei benefici di natura fiscale. Tuttavia, Pagano, Panetta e
Zingales (1998) e Röell (1996), con riferimento alle decisioni di going public in ambito
europeo, tengono a precisare come il ruolo giocato da quest’ultimi nell’indurre un’impresa al
listing sia marginale, poiché modesta è la loro entità. Le normative vigenti nei principali Paesi
europei, a differenza di quella statunitense, non riconoscono significativi vantaggi fiscali alle
società quotate in un mercato regolamentato. Questa può essere considerata una delle cause
della scarsa propensione al listing da parte delle imprese europee, le quali tendono a
considerare maggiormente conveniente finanziarsi attraverso l’utilizzo della leva finanziaria
24
Geranio (2004, p. 6). 25
Pagano, Panetta e Zingales (1998).
25
piuttosto che con il capitale di rischio, essendo gli interessi a differenza dei dividendi da
pagare agli azionisti fiscalmente deducibili.
Da quanto sinora emerso sembrerebbe che il private to public non faccia altro che presentare
importanti vantaggi per un’impresa e i suoi shareholders. Tuttavia, a fianco dei numerosi
potenziali benefici sopra elencati, la quotazione in un mercato regolamentato comporta per
l’impresa anche una serie di costi rilevanti da sopportare. Questi costi sono della più svariata
natura: diretti e indiretti, evidenti e nascosti, reali e potenziali. Come evidenziato da Carney
(2006), in seguito all’innalzamento dei requisiti minimi di quotazione e degli obblighi in tema
di disclousure verificatosi nei principali mercati regolamentati mondiali nei primi anni
Duemila, si è assistito ad un inasprimento dei costi che un’impresa deve sostenere per poter
accedere e soggiornare in un listino. Per quanto riguarda i costi diretti espliciti, essi sono in
gran parte riconducibili ai costi sostenuti durante l’iter di ammissione per la realizzazione
dell’IPO, a quelli relativi alla raccolta e all’elaborazione di dati e info per la redazione dei
bilanci e dei rendiconti infrannuali, e alle rilevanti fees da pagare periodicamente per il
soggiorno nel listino e per il trading delle azioni. Con riferimento ai costi diretti impliciti,
particolare rilevanza assume il ricorrente fenomeno dell’underpricing, da sempre oggetto di
numerosi studi e ricerche in ambito dottrinale. Loughran e Ritter (2003), evidenziano infatti
come spesso il prezzo del titolo in sede di IPO sia inferiore al fair value riconosciuto dal
mercato. Nella loro ricerca emerge come l’entità dell’extra rendimento iniziale connesso
all’underpricing del titolo cambi nel corso del tempo, in relazione alle dinamiche esogene che
caratterizzano l’andamento dei mercati. Nei Paesi industrializzati, dal 1990 al 1998 si è
registrato un underpricing medio del 15%, che è salito a valori intorno al 65% negli anni
immediatamente successivi, in corrispondenza della dot.com bubble. Secondo la maggior
parte degli autori dottrinali26
, sebbene tale fenomeno potrebbe essere in certi limitati casi
riconducibile ad errori di valutazione e di pricing commessi dalla società quotanda e dai suoi
intermediari che ne seguono l’IPO, pare opportuno considerarlo come volontariamente
ricercato dalla stessa con l’obbiettivo di attirare sin dal suo ingresso nel mercato l’attenzione
di analisti ed investitori e garantire elevati trade volumes sul titolo, riuscendo così a
sottoscrivere in breve tempo per intero il capitale sociale, e a realizzare i potenziali vantaggi
connessi alla quotazione.
Pagano, Panetta e Zingales (1998) sottolineano come la misurazione dei costi diretti della
quotazione sia relativamente semplice, mentre più complesso risulti identificare e quantificare
quegli oneri che colpiscono indirettamente una listed company, la cui entità presenta
26
Vedi tra gli altri: Chemmanur e Fulghieri (1999), Pagano, Panetta e Zingales (1998), Geranio (2004), e
Loughran e Ritter (2003).
26
un’elevata variabilità da impresa a impresa. Gran parte dei costi indiretti sono collegati ai
numerosi interventi che un’impresa deve apportare alla propria corporate governance al fine
adottare un regime di full disclousure. L’introduzione della cd. cultura della trasparenza
richiede una profonda riorganizzazione interna tale da facilitare la raccolta, l’elaborazione e la
diffusione di dati e informazioni, e permettere all’impresa di adempiere ai stringenti obblighi
informativi cui è sottoposta. Un altro importante costo indiretto, evidenziato da Geranio
(2004) e da You (2008), che colpisce più frequentemente le small caps è riconducibile alla
tendenza degli Stock Exchanges di emarginare progressivamente queste imprese di modeste
dimensioni una volta terminato il periodo di IPO, per focalizzare l’attenzione su quelle con
una size rilevante. Ecco che queste small caps registrano con il passare del tempo un netto
calo del trade volume del proprio titolo e della liquidità che lo caratterizza, procedendo così
progressivamente verso il delisting. Tali imprese inoltre, spesso presentano difficoltà
nell’accettare il significativo cambiamento culturale che il going public impone,
dimostrandosi poco propense ad esporsi al giudizio del mercato sul loro operato, oltre a non
essere in grado di gestire efficacemente le numerose relazioni con i vari stakeholders,
adottando politiche comunicazionali inadeguate. In altri casi, invece non realizzano
un’accurata pianificazione ex ante della strategia di quotazione e degli obbiettivi che con essa
intendono perseguire, avendo così ben poche possibilità di rimanere quotati a lungo.
Infine, sempre tra quelli che si possono considerare costi indiretti del listing, è da evidenziare
come lo status di quotata comporti per l’impresa una significativa diminuzione della propria
autonomia e liberta d’azione, oltre che una perdita di flessibilità strategica ed operativa. Ciò
potrebbe rappresentare uno svantaggio rilevante soprattutto quando un’impresa riscontra la
necessità di attuare un programma di ristrutturazione, di risanamento o di rinnovamento,
emersa per molte imprese negli anni successivi allo scoppio della crisi economico –
finanziaria del 2007.
A conclusione di tale paragrafo, in linea con quanto rilevato da numerosi autori dottrinali, tra i
quali Chaplinsky e Ramchand (2007), Geranio e Zanotti (2010), Renneboog, Simons e Wright
(2007), e You (2008), occorre ribadire come sia sempre più difficile per una società quotata
realizzare i benefici teorici associati al soggiorno in un mercato regolamentato. Da un lato, ciò
può essere spiegato dal fatto che le grandi ondate di IPOs che hanno interessato i principali
listini mondiali negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, hanno comportato un’eccessiva
competizione tra le imprese nell’attirare in modo persistente su di sé l’attenzione del mercato
e nel realizzare i listing benefits, provocando una progressiva contrazione delle probabilità di
sopravvivenza nel listino di ciascuna; dall’altro, dai crescenti problemi strutturali ed
inefficienze che hanno cominciato a caratterizzare i vari Stock Exchanges a seguito degli
27
eventi macroeconomici negativi manifestatisi in questi primi anni del XXI secolo,
compromettendo uno svolgimento efficace delle loro funzioni principali, e la loro capacità di
creare le condizioni ottimali per un soggiorno profittevole e duraturo delle imprese ospitate.
Parallelamente all’emergere di quanto appena evidenziato, si è registrato un significativo
inasprimento dei costi che l’accesso e il soggiorno in un mercato borsistico richiedono, a
seguito dell’introduzione nei principali mercati regolamentati di standard di quotazione e di
obblighi in tema di disclousure considerati eccessivamente stringenti e rigorosi. Si è assistito
quindi ad un sostanziale peggioramento del trade off costi – benefici connessi allo status di
public company, costituendo da una parte i presupposti per numerosi delisting, e dall’altra
scoraggiando nuove IPOs.
1.3 EARNINGS MANAGEMENT E DELISTING
Oggetto di grande attenzione in ambito dottrinale negli ultimi tempi, l’earnings management
rappresenta un interessante elemento di discussione, anche in virtù dei legami che sembra
presentare con il fenomeno in trattazione. Una sua precisa definizione è stata elaborata da
Healy e Wahlen (1999), nel cui studio realizzano un’ampia literature review sul tema. Essi
affermano che “Earnings management occurs when managers use judgment in financial
reporting and in structuring transactions to alter financial reports to either mislead some
stakeholders about the underlying economic performance of the company or to influence
contractual outcomes that depend on reported accounting numbers”27
. In altre parole,
l’earnings management consiste in una pratica attraverso cui i managers di una società,
approfittando dell’ampia discrezionalità loro concessa dai principi contabili internazionali
nella redazione del bilancio e nella valutazione delle varie poste contabili in esso contenute,
possono realizzare una manipolazione più o meno aggressiva degli utili, con l’obbiettivo di
influenzare le scelte e i comportamenti degli stakeholders dell’impresa, e provocare
determinate reazioni nel mercato regolamentato. E’ bene rimarcare come un tale fenomeno sia
considerato illegale nella pressoché totalità degli ordinamenti giuridici internazionali, i quali
hanno progressivamente ridotto gli spazi per la sua realizzazione al fine di garantire una
maggiore trasparenza dei mercati regolamentati28
. L’earnings management assume particolare
rilevanza soprattutto con riferimento alle società quotate in un certo mercato borsistico,
considerato che le informazioni e i dati sulle performance economico – finanziarie di una 27
Healy e Wahlen (1999, p. 368). 28
Negli USA si è agito in tale direzione con l’introduzione della SOX nel 2003, da una parte imponendo alle
listed companies più rigorosi obblighi informativi e l’adozione di un regime di full disclousure, e dall’altra
prevedendo pesanti sanzioni in capo al management e alla società stessa in caso di riscontrata falsificazione dei
dati di bilancio.
28
listed company vengono comunicate al mercato e si riflettono sull’andamento del titolo. Gli
utili di una società, rappresentando uno dei suoi fundamentals, hanno una particolare valenza
informativa, poiché trasmettono al mercato un’importante informazione circa le performance
dell’impresa, producendo così significativi effetti sul prezzo del titolo. Come sottolineato da
Healy e Wahlen (1999), l’asimmetria informativa tra i managers e i vari stakeholders
dell’impresa presenti nel mercato, ovvero tra insiders e outsiders, è da considerarsi un
presupposto fondamentale per l’esistenza di tale fenomeno.
In uno dei più significativi contributi presenti in dottrina nell’ambito dell’earnings
management, focalizzato sull’analisi dei legami che sembrano emergere tra l’aggressività con
cui si realizza l’earnings management in sede di IPO e il rischio di delisting gravante
sull’impresa, Li e Zhou (2006) evidenziano come un gran numero di imprese quotatesi negli
USA tra il 1980 e il 1999, ha deciso di gonfiare gli utili in sede di IPO per presentarsi al
mercato con un prezzo di collocamento del titolo allettante, con l’obbiettivo di attirare sin da
subito l’attenzione di analisti e investitori, e massimizzare il trade volume sul titolo.
Dall’indagine condotta dai due autori, risulta esserci una relazione diretta tra l’intensità con
cui gli utili della società vengono manipolati al momento del suo ingresso nel mercato e le
prospettive di delisting che la stessa presenta nel breve periodo. Gran parte delle società che
sono state delistate dai tre principali mercati regolamentati USA tra il 1980 e il 1999,
esibivano nei bilanci pubblicati in sede di IPO dei dati che con il passare del tempo si sono
dimostrati assai discordanti da quelli reali. Li e Zhou (2006) sottolineano come la tendenza a
distorcere i reali dati economico – finanziari di bilancio assuma rilevanza soprattutto nei
periodi di hot market, ovvero di andamento positivo dei prezzi azionari di mercato, in
corrispondenza dei quali avviene solitamente un gran numero di IPO, e dove perciò c’è una
maggior competizione tra le società quotande nell’attirare su di sé l’attenzione di analisti e
investitori.
L’earnings management particolarmente diffuso in sede di IPO è motivato dal fatto che tanto
più elevato è il prezzo di collocamento iniziale, tanto più consistenti saranno le probabilità che
le azioni emesse dalla società quotanda vengano sottoscritte per intero in breve tempo,
attirando anche investitori prestigiosi come Fondi di Private Equity e di Venture Capital, e
Banche d’Investimento. Come evidenziato da Fama e French (2004), uno dei fattori critici per
una quotazione duratura e di successo sembra infatti essere il prezzo di collocamento iniziale.
Presentarsi al mercato con delle buone performance economico – finanziarie evidenziate da
un elevato prezzo di IPO, oltre che con dei sottoscrittori prestigiosi, fornisce i presupposti per
un soggiorno profittevole nel listino, favorendo la realizzazione dei benefici teorici associati
alla quotazione e minimizzando il rischio di un eventuale delisting nel breve termine.
29
L’earnings management può inoltre ricorrere anche successivamente alla fase di IPO. I
managers di una società quotata possono incautamente avvalersi delle diverse tecniche di
manipolazione degli utili, quali l’attribuzione impropria di ricavi, la sopravvalutazione di
rimanenze attive e la sottovalutazione di elementi passivi ogni qual volta desiderano
aggiustare le voci di bilancio, facendole coincidere con determinati valori target prefissati o
più semplicemente richiesti per poter essere apprezzati dal mercato.
Nonostante quanto sopra evidenziato, l’aggressivo gonfiamento degli utili, oltre che essere
illegale, è aspramente criticato in ambito dottrinale, tra i tanti da Li e Zhou (2006), Healy e
Wahlen (1999) e da Leuz, Nanda, e Wysocki (2003). Tali autori rimarcano come l’earnings
management non presenti soltanto potenziali benefici ma anche rilevanti costi, diretti e
indiretti, e soprattutto rischi. Pare infatti che la reale situazione economico – finanziaria
dell’impresa tenda gradualmente ad emergere, poiché l’asimmetria informativa esistente in
origine tra i managers e gli altri stakeholders progressivamente si annulla; perciò, ci sono
elevate probabilità che il mercato prima o poi riesca a scoprire l’eventuale manipolazione
degli utili realizzata dall’impresa. Quando ciò avviene, si determinano effetti assai negativi
per la società, che potrebbe assistere ad un netto calo del prezzo del titolo e della sua liquidità,
accompagnato da un incremento della volatilità; il mercato tende a punire la società per il suo
comportamento scorretto e poco trasparente, spingendola gradualmente verso il dimenticatoio,
senza preoccuparsi dei danni che ciò provocherà per i suoi incolpevoli shareholders. Nei casi
estremi lo Stock Exchange può decidere di revocare la società dalle contrattazioni, o in ogni
caso indurla ad abbandonare il mercato di propria spontanea iniziativa; il delisting genererà
conseguenze ancor più disastrose per la stessa e i suoi investitori.
In linea con quanto sinora emerso, Li e Zhou (2006, p. 3) affermano che “IPO’s associated
with more aggressive earnings management are more likely to delist due to performance
failure and they tend to delist sooner”. Sembrerebbe che soprattutto le cd. poor quality
company, ovvero le imprese che manifestano un’assai discutibile stato di salute economico –
finanziario e fondamentali deboli, tendano ad adottare una manipolazione degli utili in sede di
IPO, con l’obbiettivo di mascherare le loro reali performance e risultare così più attraenti al
pubblico presente nel mercato. Tuttavia, anche in questi casi l’earnings management è da
ritenersi una pratica assolutamente da non adottare. Healy e Wahlen (1999) sottolineano
infatti come i benefici associati al gonfiamento degli utili siano solamente potenziali, in
quanto di incerta realizzazione oltre che di durata temporanea, a fronte invece di costi reali
richiesti dalla manipolazione contabile dei dati di bilancio e della possibile realizzazione in
futuro di eventi assai dannosi, come il delisting e soprattutto il sorgere di azioni legali contro
l’impresa e il suo management; queste minacce sono altamente concretizzabili nel caso
30
emergano significative divergenze tra i reali dati economico - finanziari e quelli presentati al
momento dell’IPO.
Dallo studio di Leuz, Nanda, e Wysocki, (2003) emerge una relazione inversa tra la reale
qualità economico - finanziaria di un’impresa e l’aggressività con cui essa ha implementato
l’earnings management. Tanto più un’impresa esibisce un discutibile stato di salute
economico - finanziario, tante più probabilità ci sono che essa abbia adottato in passato un
aggressivo earnings management, presentando in conseguenza a ciò un elevato rischio
delisting nel breve termine. Li e Zhou (2006) tracciano una sorta di profilo delle imprese che
più frequentemente tendono ad adottare un aggressivo earnings management in sede di IPO, e
che quindi mostrano sin da subito significative probabilità di abbandono del listino.
Solitamente si tratta di imprese scarsamente performanti, di size ridotta, con modesti
fondamentali evidenziati da contenuti valori di assets, fatturato e utile, di età relativamente
giovane, e poco conosciute. Quelle appena elencate sono da considerarsi infatti caratteristiche
non propriamente idonee ad una società che ambisce ad un soggiorno profittevole e duraturo
nel mercato regolamentato, e che quindi potrebbero spiegare, ma non giustificare, la
manipolazione degli utili al momento dell’IPO.
Healy e Wahlen (1999) evidenziano inoltre, come le grandi imprese siano meno incentivate
ad adottare comportamenti di earnings management, poiché, da una parte la maggior size,
spesso associata ad un elevato livello di notorietà, permettono già di per sé di attirare
l’attenzione di analisti e investitori e perciò di garantire un sufficiente trade volume sul titolo,
e dall’altra perché i costi e i rischi che dovrebbero sopportare in seguito alla manipolazione
degli utili sono nettamente superiori rispetto alle imprese di minor dimensione e market
capitalization, anche in virtù dei continui controlli e verifiche a cui vengono sottoposte dagli
Organi di Borsa, e degli stringenti obblighi in tema di disclousure cui devono adempiere.
Considerato quanto emerso nel suddetto paragrafo, si può concludere affermando come
durante il processo di redazione del bilancio i managers di un’impresa debbano utilizzare in
modo ragionevole l’elevata discrezionalità loro concessa nella valutazione delle diverse poste
contabili, evitando di incorrere nel fenomeno dell’earnings management; risulta infatti
inopportuno oltre che illegale alterare la reale situazione economico – finanziaria in cui versa
l’impresa, considerando che, come in precedenza evidenziato, essa tende gradualmente ad
emergere e, qualora risultasse molto distante da quella comunicata al mercato, potrebbe
implicare conseguenze assai negative per la società, come il sorgere di azioni legali contro il
suo operato e l’inesorabile declino del prezzo del titolo. Gli Stock Exchanges tendono a punire
eventuali comportamenti poco trasparenti, spingendo sempre più la società nel dimenticatoio
con gravi conseguenze sulle sue performance, sino addirittura ad escluderla coattivamente
31
dalle contrattazioni o inducendola al delisting volontario, e nei casi più gravi determinandone
il default.
1.4 DAL DELISTING AL GOING DARK
Un fenomeno assai diffuso negli ultimi tempi, e complementare a quello del delisting, è il cd.
going dark, ovvero il processo attraverso il quale un’impresa che, in seguito ad una decisione
volontaria, o per imposizione dello Stock Exchange, abbandona un mercato regolamentato, e
inizia a negoziare le proprie azioni in un’Over the counter market (OTC)29
. Anche se spesso
si tende a considerare sinonimi i due termini, l’orientamento dottrinale prevalente30
rimarca
come questa tendenza sia assolutamente ingiustificata: delisting e going dark sono due
fenomeni distinti, caratterizzati da differenti connotati e fisionomie; tuttavia, è opportuno
evidenziare come essi presentino un legame significativo tra loro, essendo da ritenere la
realizzazione dell’uno una condizione necessaria per il verificarsi dell’altro. Il going dark è
infatti considerato uno step successivo al delisting, poiché si realizza soltanto quando la
società delistata e successivamente approdata ad un OTC market, espleta il suo processo di
deregistration dalla normativa disciplinante lo status di listed company, non dovendo più
sottostare ai stringenti obblighi da questa imposti.
Il going dark è un fenomeno particolarmente ricorrente soprattutto negli USA, dove ci sono
mercati OTC più maturi ed efficienti. A partire dalla fine degli anni Novanta, in seguito alla
grande ondata di delisting che ha investito i tre principali mercati regolamentati statunitensi31
,
un numero sempre più significativo di imprese quotate in essi, una volta abbandonato per una
qualche ragione il listino, ha deciso di accedere ai mercati OTC, continuando così a negoziare
le proprie azioni tra un pubblico rilevante.
Negli USA ci sono due32
principali mercati OTC:
a) l’Over the Counter Bulletin Board, meglio conosciuto come OTCBB, che è gestito
e regolato dalla National Association of Securities Dealers, e prevede una
relativamente flessibile regolamentazione in tema di disclousure al pubblico e
degli standard di quotazione che, seppur meno rigorosi rispetto a quelli richiesti
29
Un mercato OTC è un mercato generalmente molto deregolamentato, in cui c’è connessione diretta tra
domanda ed offerta, senza l’intermediazione dello Stock Exchange. Risultato di ciò è la riduzione dei costi di
transazione, ma anche l’assenza della garanzia che il Mercato acquisti i titoli oggetto di negoziazione nel caso in
cui una delle controparti faccia default. Il prezzo viene determinato sulla base della legge della domanda e
dell’offerta. 30
Tra i tanti vedi: Macey, O’Hara e Pompilio (2008), Leuz, Triantis e Wang (2008) e Bollen e Christie (2009). 31
AMEX, NYSE, NASDAQ. 32
Da segnalare che anche il NASDAQ presenta un’apposita sezione dedicata al trading di titoli unlisted, che non
devono seguire i rigidi requisiti previsti per i titoli delle società quotate nel listino regolamentato.
32
per soggiornare in un mercato regolamentato, sono da considerarsi comunque un
peso non indifferente per la società che decide di accedere alle contrattazioni in
questo mercato.
b) Il Pink Sheets market, o “mercato dei fogli rosa”, un mercato OTC altamente
deregolamentato e permissivo.
Considerato che gran parte delle imprese che decidono di intraprendere un processo di going
dark scelgono di entrare in questo secondo mercato, pare opportuno concentrarsi sull’analisi
delle caratteristiche, delle dinamiche e degli andamenti che esso presenta, tralasciando
l’OTCBB. Il Pink Sheets è stato di rado oggetto di studi e di ricerche, anche in virtù delle
scarse informazioni che si avevano a disposizione su di esso. Tuttavia, la grande espansione
che ha registrato negli ultimi tempi ha spinto un numero crescente di autori ad indagare sulle
dinamiche che lo caratterizzano.
Alcuni contributi particolarmente interessanti che analizzano i processi di going dark aventi
come mercato di destinazione il Pink Sheets market, soffermandosi sulle sue caratteristiche
intrinseche e sul grande sviluppo che ha avuto negli ultimi tempi, sono quelli forniti da Bollen
e Christie (2009), e da Leuz, Triantis e Wang (2008).
Bollen e Christie (2009) evidenziano come il “mercato dei fogli rosa” si sia originato nel
lontano 1904, insieme ad un altro mercato con le medesime peculiarità ma destinato alla
contrattazione dei bond, il cd. Yellow Sheets, anch’esso tutt’ora operativo. Il suo nome deriva
dal fatto che in passato le negoziazioni avvenivano tramite dei fogli di carta rosa. Dal 1999, il
Pink Sheets è diventato un sistema di quotazione e negoziazione elettronico, e ciò,
congiuntamente alla creazione di uno specifico web site interattivo, ha permesso a questo
mercato OTC di incrementare notevolmente la propria visibilità, favorendone la grande
crescita degli ultimi tempi. Come rimarcato da Leuz, Triantis e Wang (2008), tale sviluppo
pare essere giustificato anche dal fatto che il soggiorno in un mercato borsistico è diventato
sempre più difficile ed oneroso, specie dopo l’introduzione del Serbaney Oxley Act del 2003,
che ha portato ad un inasprimento dei requisiti minimi richiesti per la quotazione, oltre che ad
un incremento dei relativi costi, comportando così un gran numero di delistings volontari e
non dai mercati regolamentati USA. Ecco che negli ultimi anni sempre più imprese
statunitensi e non, non essendo in grado di accedere ad un mercato regolamentato o in seguito
al delisting da esso, hanno optato per l’ingresso nel mercato dei fogli rosa, che presenta non
pochi vantaggi rispetto agli Stock Exchange. Bollen e Christie (2009) e Leuz, Triantis e Wang
(2008) sottolineano come le società che vogliono accedere al Pink Sheets market non debbano
seguire la complessa procedura di IPO richiesta per la quotazione in un mercato
regolamentato, e pagare le ingenti fees per la quotazione e la negoziazione delle proprie
33
azioni, oltre che appunto a non essere costrette a sottostare a particolarmente rigidi standard di
quotazione, a stringenti obblighi di natura informativa, e alle continue verifiche e controlli da
parte degli Organi di Borsa. Questo mercato OTC si presenta infatti come altamente
deregolamentato, destrutturato e permissivo, prevedendo un insieme ristretto e unitario di
norme in capo alle società ospitate. Inoltre, si propone come un mercato eterogeneo, in quanto
le imprese soggiornanti in esso presentano caratteristiche molto differenti tra loro. Il Pink
Sheets market accoglie imprese di piccola, media e grande dimensione, quotate o meno in
mercati regolamentati, di diversa nazionalità, cultura ed età, operanti in differenti settori, con
livelli di performance economico - finanziarie assai divergenti. Bollen e Christie (2009)
evidenziano come in questo mercato convivano imprese aventi un prezzo del titolo superiore
ai 10 $, con imprese il cui titolo ha un valore addirittura intorno a 0,0001 $. Per quanto
riguarda i titoli che vengono negoziati nel Pink Sheets market, gli stessi autori33
propongono
una loro suddivisione in quattro categorie:
1. Titoli economicamente stressati, ovvero relativi a società prossime al dissesto
economico – finanziario, e che generalmente in passato erano quotate in mercati
regolamentati.
2. Titoli scarsamente performanti, chiamati più comunemente “penny stock”, e riferiti
alle cd. poor quality company, cioè a quelle società con performance assai discutibili,
che non potrebbero accedere ad un mercato borsistico non riuscendo a rispettare i
requisiti minimi previsti, e che presentano un prezzo di mercato del titolo
costantemente al di sotto della soglia di 1 $.
3. Titoli di società con una ridotta quota di flottante34
, ovvero altamente controllate dagli
azionisti di maggioranza. Questi titoli sono caratterizzati da ridotte e sporadiche
contrattazioni.
4. Titoli che presentano elevati prezzi di mercato, significativi trade volumes, buona
liquidità, e relativamente bassa volatilità. Rappresentano quindi opportunità
d’investimento meno rischiose per gli investitori rispetto ai precedenti. Solitamente
riguardano grandi imprese, domestiche e non, operanti a livello globale e quotate in
uno o più mercati regolamentati, ma che scelgono tuttavia di negoziare le proprie
azioni anche in questo mercato OTC. Tuttavia, questa categoria risulta essere
marginale, poiché più del 50% dei titoli negoziati nel Pink Sheets sono caratterizzati
33
Bollen e Christie (2009, p. 1328). 34
Il termine flottante indica la quantità di azioni, emesse da un'azienda quotata, che gli investitori possono
liberamente negoziare nel mercato. Queste azioni non fanno parte della partecipazione di controllo della società,
perché sono le azioni che l'azienda cede ai possibili investitori esterni.
34
da modesti prezzi di mercato, ridotti volumi di contrattazione, notevoli bid ask spread,
ed elevata volatilità.
Come rimarcato da Leuz, Triantis e Wang (2008), il mercato dei fogli rosa presenta
un’elevata volatilità dei prezzi azionari, che hanno un valore medio nettamente inferiore a
quello dei titoli quotati in un mercato regolamentato, accompagnata da dei contenuti trade
volumes, e da dei bid ask spreads decisamente superiori a quelli di uno Stock Exchange.
L’elevata volatilità dei prezzi di mercato è in gran parte riconducibile ai continui “pump e
dump”35
informativi che caratterizzano questo mercato OTC, provocati dalla forte tendenza
degli attori operanti in esso di adottare comportamenti opportunistici, approfittando
dell’ampia libertà d’azione che è loro concessa, e manipolando le informazioni circolanti tra il
pubblico al fine di ricavarne un qualche beneficio personale. In tal modo, sovente si
manifestano dei veri e propri shock informativi che generano un continuo alternarsi di
variazioni positive e negative dei prezzi azionari, spiegando così l’elevato livello di incertezza
che avvolge questo mercato. Gli investitori disponendo di scarse, incomplete e spesso
inattendibili informazioni e dati sulle imprese presenti nel Pink Sheets market, devono quindi
prestare molta attenzione nello loro scelte d’investimento, consapevoli dell’esistenza dei
frequenti sopra menzionati comportamenti opportunistici, che potrebbero recare loro ingenti
danni economici. Considerato quando sinora emerso, si può pertanto sostenere che gli
investimenti in questo mercato presentano un elevato livello di rischio, offrendo elevate
prospettive di guadagno ma altresì significative perdite potenziali.
Macey, O’Hara e Pompilio (2008) hanno invece cercato di analizzare gli effetti provocati
dalla decisione di going dark sull’impresa e i suoi shareholders, considerando un significativo
campione di imprese delistate dal NYSE nel 2002. Dalla ricerca emerge come il delisting dal
mercato regolamentato e la successiva decisione di approdare nel Pink Sheets market,
generalmente comportino rilevanti costi per la società e i suoi azionisti, evidenziati da una
netta riduzione del valore del titolo, accompagnata da un notevole aumento del bid ask spread
e della sua volatilità. Non ci sono invece sufficienti evidenze per poter affermare significative
riduzioni del trade volume.
Dai risultati dell’indagine, si evince che in media il prezzo del titolo assiste ad un declino di
circa il 50% del suo valore, lo spread percentuale triplichi, e la volatilità raddoppi. I volumi di
negoziazione sul titolo tendono invece a mantenere livelli accettabili.
Per Bollen e Christie (2009) uno dei fattori che sembra maggiormente incidere sull’entità
delle perdite connesse al going dark, è la dimensione dell’impresa: generalmente, imprese di
grandi dimensioni registrano minori riduzioni del prezzo del titolo, e più contenuti incrementi
35
Leuz, Triantis e Wang (2008, p. 195).
35
del bid ask spread e della volatilità. Si potrebbe quindi sostenere l’esistenza di una relazione
inversa tra i costi del going dark e la size di un’impresa.
Un interessante aspetto da chiarire riguarda le dinamiche con cui avviene la significativa
riduzione del valore del titolo, verificando in tal modo se essa sia da collegare al delisting dal
mercato regolamento oppure al successivo ingresso nel Pink Sheets market. Per ottenere una
risposta attendibile a tale questione, Macey, O’Hara e Pompilio (2008) hanno considerato
opportuno analizzare l’andamento che caratterizza il prezzo del titolo in seguito all’annuncio
al mercato del delisting della società, nel caso di uscita volontaria dalle contrattazioni, o
all’emergere palese del mancato rispetto degli standard di quotazione, precursore di un
probabile delisting involontario. A tal proposito, si registra come gran parte delle imprese del
campione considerato, subisca circa il 70% del declino totale del prezzo del titolo
conseguente al going dark, negli ultimi giorni di quotazione che precedono l’abbandono delle
contrattazioni, e non nel periodo successivo alla cancellazione. Pertanto, si può affermare
come sia il delisting, non tanto inteso come revoca ufficiale dalla contrattazioni ma piuttosto
come consapevolezza del mercato di una probabile prossima uscita dell’impresa, e non il
successivo accesso al Pink Sheets Market, a giocare un ruolo determinante nella riduzione del
valore del titolo, e perciò a comportare significative perdite per la società e i suoi
shareholders. D’altra parte invece, sembra che al secondo evento siano maggiormente
riconducibili gli incrementi del bid ask spread e della volatilità.
1.5 FOREIGN LISTING E FOREIGN DELISTING
Gli anni Novanta sono stati caratterizzati da grandi ondate di foreign listings, ovvero di IPOs
realizzate da imprese in mercati differenti dal loro listino domestico, con l’obbiettivo di
espandere la propria presenza a livello internazionale e dare uno slancio importante al proprio
processo di crescita. Con l’avvento del XXI secolo, complici la manifestazione dei più volte
citati eventi macro economici sfavorevoli, e del progressivo deterioramento del trade off tra i
costi e i benefici della quotazione, un numero considerevole di queste imprese ha
abbandonato le contrattazioni dai mercati regolamentati stranieri ove si era precedentemente
quotato, in certi casi di propria spontanea iniziativa e in altri su decisione dello Stock
Exchange. Da qui la decisione di analizzare brevemente il fenomeno del cross-listing,
identificando i benefici potenziali con esso perseguibili, la cui mancata realizzazione, parziale
o totale, può costituire i presupposti per la manifestazione del fenomeno, per certi versi
opposti, del foreign delisting, con l’obbiettivo ultimo di valutare gli effetti provocati da un
tale evento sul prezzo, la liquidità e il rischio caratterizzante il titolo nel mercato domestico.
36
Si parla di cross-listing o foreign listing quando una società decide di quotare le proprie
azioni, e perciò rendere negoziabile il suo equity, in uno o più mercati regolamentati stranieri,
in aggiunta o in alternativa al mercato borsistico domestico. You (2008), in uno dei più
significativi contributi dottrinali in grado di realizzare un’analisi trasversale dei fenomeni di
foreign listing e foreign delisting in una dimensione internazionale, dal 1964 al 2008,
evidenzia come solitamente un’impresa che decide di accedere ad un listino estero, presenta
una precedente esperienza di quotazione nel mercato regolamentato del Paese di provenienza,
e quindi considera il cross-listing come un importante step per espletare il suo graduale
processo di crescita ed espansione.
Uno dei principali mercati target delle strategie di foreign listing implementate dalle imprese,
risulta essere quello statunitense. Da sempre i mercati regolamentati USA presentano un
elevato livello di competitività ed efficienza, e di conseguenza sono ritenuti molto attraenti
non solo dalle imprese nazionali, ma anche da quelle straniere, le quali considerano l’ingresso
in questi Stock Exchanges prestigiosi come l’ultimo decisivo passo da compiere per dare un
definitivo slancio al proprio processo di crescita ed espansione. A sostegno di quanto appena
asserito, emergono le evidenze riportate dalla ricerca di Chaplinsky e Ramchand (2007), che
analizza tutti i foreign listings e i foreign delistings manifestatesi nei tre principali mercati
regolamentati USA dal 1961 al 2004. Nel periodo considerato si sono registrati ben 1330
listings e 728 delistings da parte di imprese estere, numeri che risaltano la grande dinamicità
che da sempre caratterizza i listini statunitensi. Delle complessive 728 revoche dalle
negoziazioni, 463 si sono concretizzate nel NASDAQ, e 265 nel NYSE e nell’AMEX. Il
maggior numero di delistings concretizzatesi dal NASDAQ pare essere giustificato dal fatto
che da sempre questo listino accoglie un maggior numero di foreign companies, presentando
standard di quotazione relativamente meno stringenti rispetto agli altri due mercati,
soprattutto in tema di size e market capitalization, spesso punti di debolezza per le imprese
provenienti dal Vecchio Continente. Quindi, a fronte di un maggior numero di foreign listings
il NASDAQ tende ragionevolmente a presentare anche un numero superiore di foreign
delistings.
You (2008) evidenzia come il fenomeno del cross-listing abbia conosciuto una significativa
espansione a livello internazionale a partire dalla fine degli anni Ottanta, contribuendo alla
progressiva integrazione dei mercati regolamentati mondiali. Dal suo studio, emerge come
ben il 76 % dei 45.783 cross-listings che hanno interessato i vari listini dal 1964 al 2008 si sia
manifestato dopo il 1990, ovvero a partire dagli anni in cui sempre più imprese cominciarono
ad assumere consapevolezza degli importanti vantaggi realizzabili con il going public, e
quindi a maggior ragione con il cross-listing. Si registra come circa il 70% dei 34.795 foreign
37
listings verificatesi a seguito del 1990 si concentri nel decennio 1995 – 2005. Nel periodo
1964 – 2008, emerge come la maggior parte delle imprese che hanno deciso di quotarsi in un
listino diverso da quello nazionale, ben il 44% del totale dei foreign listings, risulti essere
proveniente dagli USA, e abbia scelto come mercato di destinazione l’Europa, e in particolare
il mercato regolamentato tedesco che, insieme a quello statunitense, mostra di essere così il
principale target market per i foreign listings.
Il fatto che gli USA siano il principale mercato di destinazione per le imprese provenienti da
Europa e Sud Est asiatico è confermato anche dalle ricerche di Karolyi (2006), Sarkissian e
Schill (2004), e di Pfister e VonWyss (2010), i quali ribadiscono anche come le imprese
statunitensi siano coloro che più spesso tendono ad attuare una strategia di cross-listing, e
come gran parte di esse decida di quotare le proprie azioni nel mercato regolamentato tedesco.
Ciò spiega il perché questo mercato, seppur meno attrattivo e competitivo rispetto a quello
USA, presenti un valore superiore in termini di numero di imprese straniere ospitate; secondo
Daugherty e Georgieva (2011), tale evidenza può essere inoltre spiegate dal fatto che, a
seguito dell’introduzione della SOX nel 2003, nei principali listini d’oltreoceano sono stati
introdotti requisiti minimi e obblighi in tema di disclousure particolarmente stringenti, che
impediscono a molte imprese estere, soprattutto europee, che desiderano realizzare un foreign
listing, di entrare in questi mercati azionari molto selettivi, costringendole così a ripiegare
sullo Stock Exchange tedesco, che rappresenta il mercato regolamentato più sviluppato del
Vecchio Continente, e che per ragioni di prossimità culturale, storica, normativa e geografica
favorisce loro i presupposti per una quotazione vantaggiosa.
You (2008) mette a confronto inoltre, le dinamiche assunte nel tempo dai foreign listings con
quelle dei domestic listings, ovvero delle IPOs effettuate dalle imprese nei relativi mercati
nazionali. Tra il 1964 e il 2008, si sono registrati complessivamente 152.613 listings
realizzatesi nei vari mercati regolamentati mondiali, dei quali circa il 70% ha riguardato
quotazioni di imprese nel proprio mercato domestico, mentre il restante 30% sono stati
foreign listings. USA e Canada risultano essere gli Stock Exchanges che raccolgono il
maggior numero di imprese nazionali, con ben il 40% dei domestic listings totali avvenuto in
questi due mercati. Dalla ricerca considerata emerge come in media la durata dei domestic
listings sia nettamente superiore a quella dei foreign listings. In altre parole, tendenzialmente
un’impresa che decide di quotarsi nel listino nazionale presenta più elevate probabilità di
sopravvivenza a medio - lungo termine rispetto ad un’impresa che approda in un mercato
estero: la durata media di quotazione è di circa 9 anni per i domestic listings e di 5 anni per i
foreign listings. Queste evidenze sembrano essere supportate da quanto rimarcato nei
contributi di Daugherty e Georgieva (2011) e di Sarkissian e Schill (2004), nei quali si
38
sottolinea come risulti essere molto più difficile realizzare i benefici teorici associati al going
public in un mercato estero rispetto ad un mercato domestico; solitamente i mercati di
destinazione del cross-listing sono mercati altamente competitivi e selettivi, lontani non solo
geograficamente dal mercato di provenienza dell’impresa, ma anche dal punto di vista
culturale e normativo, dove l’impresa fatica ad attirare l’attenzione di analisti ed investitori, e
a garantire elevati trade volume al proprio titolo; in aggiunta a ciò, emerge come spesso le
imprese che optano per il cross-listing sono quotate anche nel proprio mercato nazionale, e
hanno quindi già goduto di tali benefici, rendendo così difficile una loro ulteriore
realizzazione o amplificazione.
Al fine di analizzare le caratteristiche delle imprese che generalmente tendono ad adottare una
strategia di cross-listing, di particolare utilità risulta essere il contributo di Chaplinsky e
Ramchand (2007) nel quale, indagando sui connotati delle imprese straniere quotatesi in uno
dei tre principali mercati statunitensi dal 1961 al 2004, emerge una rilevante eterogeneità tra
di esse, che rende impossibile tracciare un profilo ideale tipico di un’impresa che effettua un
foreign listing. Innanzitutto, si evidenzia una differenza sostanziale tra le imprese provenienti
dal Vecchio Continente e quelli originarie dei Paesi emergenti del Sud Est asiatico, che
rappresentano i due principali luoghi di provenienza dei cross listings diretti nei mercati
statunitensi. Le prime spesso sono seasoned firms, ovvero imprese che presentano una
struttura economico – finanziaria consolidata, con precedenti esperienze di quotazione nel
mercato domestico e/o di foreign listings in altri listini europei, e ridotte opportunità di
crescita, che considerano l’ingresso nel mercato statunitense come un ultimo step necessario
per rafforzare la loro già rilevante presenza a livello globale. Le seconde invece, sono imprese
molto giovani, spesso in fase di start up, che mirano a realizzare interamente il proprio
processo di crescita ed espansione in un mercato competitivo e prestigioso come quello
statunitense. Esse sono caratterizzate da enormi margini di sviluppo, e attirano sin dal loro
ingresso l’attenzione di analisti e investitori, presentando così ottime probabilità di un
soggiorno profittevole e duraturo nel mercato. Solitamente per queste imprese, a differenza di
quelle europee, la decisione di rendere il proprio equity negoziabile nel mercato USA non è
preceduta da quella di quotarsi nel listino domestico o in quello di Paesi confinanti, spesso
caratterizzati da inefficienze e problemi strutturali. Oltre a questa prima grande differenza,
Chaplinsky e Ramchand (2007) rilevano altre numerose divergenze tra le imprese estere
quotate nei principali listini statunitensi, riscontrabili in termini di dimensione, cultura, storia,
settore d’attività, performance economico – finanziarie, e driving forces alla base della
decisione di realizzare un foreign listing. You (2008), sempre indagando sui connotati delle
imprese che hanno adottato, nel periodo 1964 – 2008, la decisione di quotarsi in un mercato
39
differente da quello domestico, evidenzia come il fenomeno del cross-listing abbia riguardato
soprattutto le imprese operanti nell’industria mineraria, seguite da quelle attive nei settori ad
elevato tasso tecnologico, come software e computer.
Ritornando alle fisionomie generali che ha presentato nel tempo il fenomeno del cross-listing,
You, Parhizgari e Srivastava (2012) sottolineano come nel primo decennio del XXI secolo si
sia manifestata una grande crescita ed espansione dei mercati azionari emergenti, come Cina,
Honk Kong, India e Singapore i quali, nonostante presentino problemi strutturali ed
inefficienze non di poco conto, sono stati toccati soltanto in modo marginale dalla crisi
economico - finanziaria globale, e offrendo importanti opportunità di crescita per le imprese e
di profitto per gli investitori, attirano sempre di più l’attenzione delle società che intendono
realizzare un foreign listing. Contrariamente a ciò, si registra un netto calo dei cross-listings
aventi come destinazione i mercati europei e quelli nord americani, che hanno subito gravi
perdite in termini di efficienza e competitività a seguito della crisi economico - finanziaria
scoppiata nel 2007, riducendo così la loro attrattività. Il fenomeno del cross-listing ha invece
conosciuto una limitata diffusione nei mercati regolamentati Sud americani, da sempre
caratterizzati da elevati livelli di sottosviluppo, e da una ridotta tutela degli investitori e delle
imprese, risultando così poco allettanti non solo per le società estere ma anche per quelle
nazionali, che tendono a migrare in massa verso gli Stock Exchanges Nord americani; quanto
appena evidenziato spiega le ragioni per cui i mercati regolamentati Sud americani sono quelli
che presentano i più bassi livelli sia di domestic che di foreign listings.
Le motivazioni che spingono un’impresa a quotarsi in un mercato borsistico estero coincidono
in gran parte con le ragioni per le quali normalmente essa decide di going public, rendendo il
proprio equity negoziabile nel mercato regolamentato domestico. In altre parole, considerato
quanto evidenziato da You (2008), ovvero che un’impresa che opta per un foreign listing è
solitamente già quotata nel proprio listino nazionale, si può assumere che tale decisione è in
parte guidata dalla volontà di rafforzare e amplificare gli effetti favorevoli associati al going
public, e quindi di godere in maggior misura dei benefici già parzialmente realizzati con la
precedente scelta di quotarsi nel mercato domestico. Coerentemente con quanto appena
asserito, Karolyi (1998) e Roosenboom e Van Dijk (2009), evidenziano le seguenti
motivazioni alla base del foreign listing di una società:
- Ampliare la quantità di risorse finanziarie a disposizione per realizzare il proprio
processo di crescita ed espansione.
- Differenziare le fonti di finanziamento utilizzate, e perciò ridurre il rischio gravante
sull’impresa e i suoi shareholders.
40
- Realizzare una potenziale riduzione del WACC, ovvero del costo medio di raccolta del
capitale.
- Equilibrare la capital structure, facendo un maggiore utilizzo del capitale di rischio, e
riducendo i finanziamenti concessi a titolo di capitale di credito.
- Incrementare il potere negoziale verso i fornitori del capitale di credito, come
conseguenza del più agevole accesso al capitale proprio.
- Godere di rilevanti benefici in termini di immagine e di reputazione, con implicazioni
favorevoli sia nell’ambito finanziario che in quello commerciale.
- Miglioramento della corporate governance e della qualità intrinseca percepita dagli
stakeholders, soprattutto nel caso di approdo in mercati azionari altamente efficienti e
competitivi, caratterizzati da normative stringenti e rigorose.
- Maggiori possibilità che il prezzo del mercato del titolo sia prossimo al reale valore
dell’impresa, ovvero che almeno uno dei listini ove l’impresa è quotata svolga
efficacemente la sua funzione informativa, compensando l’eventuale inefficienza in
tale senso dell’altro/i mercato/i in cui le azioni dell’impresa vengono negoziate.
- Aumento di prestigio e di visibilità anche per il management e per lo staff
dell’impresa, con impatti postivi sul profilo motivazionale.
- Riduzione del rischio per gli shareholders esistenti, che inoltre hanno la possibilità di
monetizzare facilmente parte più o meno consistente della propria partecipazione
sociale, ottenendo significativi capital gains.
- Potenziali benefici fiscali. Tale effetto rileva particolarmente per le imprese europee,
che nei relativi mercati regolamentati nazionali non godono in misura importante di
questi vantaggi, e che quindi accedendo in mercati come quelli nord americani, ove
allo status di public company sono di norma associati significativi benefici in tale
direzione, potrebbero finalmente godere di un trattamento fiscale privilegiato.
Come appurato in precedenza per il listing nel mercato domestico, anche il cross-listing
implica, a fronte di numerosi potenziali benefici, rilevanti costi da non sottovalutare, che
tendono a presentare un’elevata variabilità da impresa a impresa, soprattutto quelli indiretti.
Innanzitutto, emergono gli ingenti costi diretti da sostenere in sede di IPO per espletare il
procedimento di ammissione al listino, le notevoli commissioni di quotazione e di trading da
corrispondere periodicamente allo Stock Exchange, e i costi di consulenza legale e finanziaria
di cui l’impresa necessita durante il soggiorno nel mercato. In aggiunta a ciò, sussistono
importanti costi indiretti, che come rimarcato da Pfister e VonWyss (2010) e Röell (1996)
sono quelli che pesano maggiormente sull’impresa a seguito di un foreign listing, e più in
generale ogni qual volta essa decide di rendere il proprio equity negoziabile in un certo
41
mercato regolamentato. Tali costi sono in gran parte riconducibili a tutti quegli oneri necessari
a conformarsi alla normativa prevista dal mercato ospitante, soprattutto relativamente ai
requisiti minimi di quotazione e agli obblighi in tema di disclousure; emergono pertanto in
corrispondenza della sopravvenuta necessità di adottare efficaci politiche di comunicazione,
di predisporre bilanci infrannuali, e più in generale di introdurre la cd. cultura della
trasparenza. Questi costi rilevano soprattutto per le imprese estere, in gran parte europee e
Sud Est asiatiche, che decidono di approdare in uno dei principali mercati regolamentati
statunitensi, caratterizzati da stringenti e rigorose norme di quotazione. Ecco che, soltanto
coloro che tra queste esibiscono un buon stato di salute economico – finanziario, con delle
discrete dimensioni in termini di assets ed equity, e una corporate governance già improntata
verso un regime di full disclousure, possono ambire all’ammissione in tali mercati,
presentando delle prospettive di quotazione favorevoli.
Se come affermato da Geranio (2004), a seguito della quotazione nel mercato azionario
domestico si assiste ad una netta contrazione della flessibilità gestionale e strategica
dell’impresa, approdare ad un ulteriore listino oltre a quello nazionale ovviamente amplifica
gli effetti negativi in tal senso. Pertanto, pare risultare inopportuno realizzare un cross-listing
quando l’impresa riscontra la necessità o l’opportunità di attuare un piano di ristrutturazione
e/o di rinnovamento, la cui implementazione richiede una certa libertà d’azione.
Pfister e VonWyss (2010) considerano infine come un ulteriore svantaggio presentato dal
foreign listing, tutte le implicazioni negative tipicamente connesse all’eventuale concretizzarsi
di un’azione legale contro l’impresa in un mercato straniero.
Come osservato per il listing nel mercato domestico, l’entità dei costi e degli svantaggi
connessi al cross-listing, sono indirettamente proporzionali alla dimensione dell’impresa, in
termini di assets ed equity, e al livello di esperienza acquisita con la quotazione in altri
mercati azionari. Appare quindi ragionevole per una società, prima di assumere una decisione
di cross listing, analizzare accuratamente le caratteristiche legali, economico – finanziarie,
politiche e culturali del mercato regolamentato in cui si intende approdare, e più in generale
del Paese di riferimento, verificandone la compatibilità con la struttura attuale dell’impresa,
oltre che realizzare una ponderata valutazione del trade off tra i benefici e i costi offerti dal
foreign listing.
Alla significativa diffusione del fenomeno del cross-listing concentratasi tra la fine degli anni
Ottanta e la fine degli anni Novanta, hanno fatto seguito negli anni Duemila grandi ondate di
foreign delistings dai principali mercati borsistici mondiali; un numero considerevole di
imprese che in precedenza aveva scelto di quotarsi in uno o più mercati regolamentati
stranieri, dopo alcuni anni li ha abbandonati, in alcuni casi volontariamente, in altri su
42
decisione dello Stock Exchange, concentrando così il proprio business sul solo mercato
azionario domestico. Dai contribuiti di Karolyi (2006), You (2008), You, Parhizgari e
Srivastava (2012) e Chaplinsky e Ramchand (2007), sembra emergere come le ragioni alla
base di questi numerosi foreign delistings, che hanno comportato un sostanziale
peggioramento dei differenziali IPO – delisting nella pressoché totalità dei mercati
regolamentati mondiali, in corrispondenza anche del netto calo registrato dai foreign listings,
possano essere riconducibili principalmente a tre fattori:
- Introduzione nei primi anni Duemila, nei principali mercati azionari, di normative sul
listing più stringenti e rigorose, che hanno comportato un innalzamento dei requisiti
minimi di quotazione e degli obblighi in tema di disclosure, generando un
considerevole inasprimento dei costi, diretti e indiretti, da sostenere per soggiornare in
un mercato borsistico.
- I numerosi foreign listings avvenuti negli anni Novanta, hanno determinato
un’eccessiva competizione tra le società quotate nei vari listini nell’attirare su di sé
l’attenzione di analisti e investitori, condizione necessaria al fine di garantire elevati
trade volumes sul titolo e massimizzare i listing benefits. I mercati, dal canto loro, non
si sono dimostrati in grado di accogliere una tale quantità di nuove IPOs, e quindi di
supportare efficacemente le società durante il periodo di soggiorno nel listino. Ciò ha
provocato una progressiva riduzione delle probabilità di sopravvivenza di ciascuna
impresa, incrementandone il rischio di incorrere in un delisting nel breve termine.
- A seguito degli eventi macroeconomici negativi verificatesi nel primo decennio del
XXI secolo, si è assistito ad una progressiva perdita di efficienza e di competitività dei
principali mercati regolamentati mondiali, sempre più incapaci di svolgere le loro
funzioni fondamentali, e di supportare le imprese durante il periodo di quotazione,
compromettendone la capacità di realizzare i benefici teorici associati al going public,
presupposto fondamentale per sopravvivere nel listino.
Pertanto, a fronte di costi reali sempre più ingenti, si deve registrare una crescente difficoltà
nel godere dei vantaggi potenzialmente collegati allo status di listed company; si è dunque
verificato un sostanziale peggioramento del trade off tra i costi e i benefici del cross listing, e
più in generale del going public. Ciò, non solo ha costituito i presupposti per numerosi foreign
delistings, ma ha anche scoraggiato nuove IPOs, provocando un netto ridimensionamento a
livello globale del fenomeno del cross- listing.
Indagando sulle modalità con cui si sono realizzati questi numerosi foreign delistings, You
(2008), evidenzia come i circa 18.000 foreign delistings verificatesi a livello globale tra il
1964 e il 2008, si siano realizzati per approssimativamente il 45% a seguito di una decisione
43
di revoca imposta direttamente dallo Stock Exchange, per circa il 40% attraverso operazioni di
M&A, e per il residuo 15% su richiesta esplicita della società. Rispetto ai domestic delistings
realizzati dalle imprese dal proprio mercato nazionale, soprattutto in ambito europeo, emerge
una forte frequenza di delistings involontari. Tale evidenza pare essere giustificata dal fatto
che gran parte dei foreign delistings si sono verificati dal mercato statunitense, che costituisce
anche il principale mercato di destinazione per i foreign listings; tale mercato presenta
standard di quotazione e obblighi di trasparenza assai rigorosi e stringenti, che spesso le
società non riescono a rispettare, venendo così costrette dallo Stock Exchange ad abbandonare
le negoziazioni. Sempre dalla ricerca di You (2008), emerge come la maggior parte dei
foreign delistings abbia riguardato imprese statunitensi, e ciò pare essere naturale considerato
che da sempre risultano essere le più propense a realizzare le strategie di cross-listing. Nello
specifico, circa il 40% delle operazioni di delisting da un mercato regolamentato estero è stato
realizzato da società USA. Pertanto anche i mercati europei, e in particolare quello tedesco, il
principale target market per le imprese USA, sono stati caratterizzati da numerosi foreign
delistings, che hanno tuttavia più frequentemente assunto i connotati di revoche volontarie
dalle contrattazioni.
Il mercato tedesco e quello statunitense, seppur con dinamiche assai differenti, risultano
essere i due mercati borsistici che sono stati maggiormente interessati dal fenomeno del
foreign delisting; ciò pare essere ragionevole, considerato che nel tempo si sono dimostrati gli
Stock Exchanges che più di ogni altro mercato azionario hanno avuto la capacità di attirare le
società straniere.
Rispetto al foreign listing, il fenomeno del foreign delisting ha ricevuto minor attenzione da
parte degli autori dottrinali, poiché diffusosi significativamente soltanto a partire dalla fine
degli anni Novanta. Ecco che, per analizzare le conseguenze generate dall’eventuale decisione
di una società di delistarsi da un qualche mercato estero ove era quotata, risulta utile
considerare come punto di partenza i benefici e gli effetti positivi associati al cross listing
precedentemente evidenziati. In altre parole, in linea con quanto asserito da Liu, Stowe e
Hung (2012) e Pfister e VonWyss (2010), si potrebbe teoricamente assumere che il foreign
delisting provoca la perdita dei benefici potenzialmente associati alla quotazione in un
mercato regolamentato straniero, i quali avevano funto da motivazione dominante alla
precedente decisione dell’impresa di realizzare il foreign listing. Quindi, a seguito
dell’abbandono delle contrattazioni da uno o più mercati stranieri ove era quotata, la società
tende a registrare un’inferiore disponibilità di capitale di rischio, una minor opportunità di
differenziazione delle fonti di capitale utilizzate che, accompagnata alla concentrazione del
business sul solo mercato domestico, potrebbe comportare un notevole incremento del rischio
44
gravante su di essa e sui propri shareholders. Inoltre, l’uscita da un mercato azionario estero,
specie se esso è considerato particolarmente competitivo e prestigioso, potrebbe causare gravi
danni in termini di immagine e reputazione per l’impresa e i suoi manager, generando
ripercussioni negative in ambito finanziario e commerciale per la prima, e sull’aspetto
motivazionale dei secondi. Coerentemente con quanto sostenuto da You, Parhizgari e
Srivastava (2012) pare opportuno sottolineare che le imprese che più hanno beneficiato dal
soggiorno nel listino estero, sono quelle che realizzerebbero maggiori perdite con un
eventuale delisting da tale mercato, e che quindi devono fare il possibile per scongiurare il
verificarsi di questo evento.
You (2008), You, Parhizgari e Srivastava (2012) e Liu, Stowe e Hung (2012), evidenziano
come a fronte di tutti questi svantaggi non di poco rilievo, il foreign delisting potrebbe
tuttavia presentare anche dei risvolti positivi: innanzitutto, si potrebbe acquisire la flessibilità
strategica e gestionale necessaria per implementare dei programmi di ristrutturazione e/o
rinnovamento; non dovendo più sottostare ai numerosi vincoli ed obblighi imposti ad
un’impresa quotata in più mercati regolamentati, si avrebbe maggior autonomia e liberta
d’azione nel realizzare i propri obbiettivi, oltre a non doversi più preoccupare prima di
prendere una qualsiasi decisione o adottare un qualunque comportamento, degli effetti che ciò
provocherebbe nel mercato, e del giudizio della comunità finanziaria. Inoltre, abbandonando
il foreign market l’impresa non deve più sostenere i numerosi costi, diretti e indiretti, che il
soggiorno in esso implicava, con conseguente miglioramento della sua situazione economico -
finanziaria.
Particolare attenzione bisogna porre nella valutazione degli effetti generati da foreign listing e
foreign delisting su prezzo, liquidità e rischio del titolo nel mercato domestico.
Da numerosi lavori focalizzati sul cross-listing e i suoi effetti36
, emerge innanzitutto come, a
seguito del foreign listing, l’entreprise value (EV) dell’impresa tenda generalmente ad
incrementare in misura considerevole, e quindi pare logico aspettarsi che un eventuale
successivo abbandono del mercato estero generi forti ripercussioni negative in tal senso. Dal
lavoro di Karolyi (2006) sembra tuttavia emergere che, l’EV di una società propende ad
aumentare in modo permanente una volta che essa decide di attuare un cross-listing, e che un
futuro potenziale delisting dal mercato estero ove era quotata non comporti alcun
annullamento di tale effetto positivo precedentemente acquisito. Ciò nonostante,
l’orientamento dottrinale dominante, condiviso tra gli altri da Pfister e VonWyss (2010), You
(2008) e You, Parhizgari e Srivastava (2012), evidenzia come a seguito del foreign delisting si
36
Vedi tra gli altri: Miller (1999), King e Mitoo (2007), Karolyi (2006), Lowengrub e Melvin (2002),
Roosenboom e Van Dijk (2009), Chaplinsky e Ramchand (2007).
45
registri un netto calo dell’entreprise value, in alcuni casi addirittura superiore all’incremento
verificatosi al momento dell’ingresso nel mercato straniero. Pare opportuno precisare, in linea
con quanto rimarcato da Chaplinsky e Ramchand (2007), che soltanto la scelta di quotarsi in
listini contraddistinti da un elevato livello di competitività e di prestigio può comportare
significativi e duraturi incrementi dell’entreprise value; infatti, soggiornando in tali mercati,
caratterizzati da normative particolarmente rigorose, l’impresa viene percepita agli occhi dei
suoi stakeholders, anche di quelli presenti nel mercato domestico, come portatrice di
un’elevata qualità intrisenca, e ottiene così importanti benefici in termini di immagine, che si
ripercuotono favorevolmente sia sul piano finanziario che su quello commerciale. Viceversa,
l’abbandono di questi listini prestigiosi può comportare gravi danni in termini di immagine e
reputazione con svariati risvolti negativi sotto diversi punti di vista; l’home market tende a
penalizzare l’impresa per il suo foreign delisting, gettandola progressivamente nel
dimenticatoio, e dando avvio ad un inesorabile declino del prezzo del suo titolo, e della
liquidità da esso offerta, spingendola così verso un ulteriore delisting.
La maggior parte degli studi37
presenti in ambito dottrinale si è focalizzata sull’analisi
dell’andamento che il prezzo del titolo assume nel mercato domestico in seguito alla
realizzazione del foreign listing della società, senza valutare, o in certi casi facendolo soltanto
in via marginale e indiretta, gli effetti che potrebbero manifestarsi sulla medesima variabile
conseguentemente all’eventuale decisione della stessa di effettuare un foreign delisting. I
risultati emersi dalle sopra citate ricerche evidenziano come generalmente si registrino
significative variazioni positive del prezzo del titolo nell’home market nel periodo
immediatamente precedente all’ufficializzazione dell’ingresso della società nel mercato
straniero, e nella fase di IPO. Tuttavia, sembra che questi effetti positivi tendano nella
maggior parte dei casi ad attenuarsi con il passare del tempo.
Di particolare rilievo sono da considerarsi i lavori di Pfister e Von Wyss (2010), Liu (2005),
Liu, Stowe e Hung (2012), Miller (1999) e You, Parhizgari e Srivastava (2012), che risultano
essere tra i pochi contributi presenti dottrina che non si limitano a valutare gli effetti generati
da un foreign listing sul prezzo del titolo della società nel mercato domestico, ma anche, o
meglio soprattutto a realizzare un’analisi approfondita delle conseguenze provocate sulla
medesima variabile da un foreign delisting. In queste ricerche, partendo da una valutazione
complessiva dei risultati riportati dai più numerosi studi focalizzati sugli effetti e sulle
implicazioni del foreign listing, si tenta di realizzare un’analisi delle dinamiche caratterizzanti
il prezzo del titolo nell’home market in seguito al manifestarsi del fenomeno del foreign
37
Vedi tra gli altri: King e Mitoo (2007), Karolyi (1998), Karolyi (2006), Lowengrub e Melvin (2002) e
Roosenboom e Van Dijk (2009).
46
delisting. Liu (2005), analizzando un campione di 103 imprese provenienti da 20 differenti
Paesi, involontariamente delistate dai tre principali mercati regolamentati statunitensi dal
1990 al 2003, mostra come in seguito all’annuncio del probabile delisting dal mercato estero,
il prezzo del titolo della società nel mercato domestico tenda mediamente a declinare del
4,5%, e nella maggior parte dei casi, tale riduzione risulta perdurare nel tempo. Pfister e Von
Wyss (2010), realizzano un’importante indagine su un campione totale di 255 foreign
delistings verificatesi dal 1998 al 2008 in tre dei principali mercati regolamentati mondiali:
Deutsche Börse, Tokyo Stock Exchange e SIX Swiss Exchange. Tali autori, al fine di
analizzare gli effetti provocati dal delisting dal mercato straniero sul prezzo del titolo nel
mercato di provenienza dell’impresa revocata, considerano l’andamento che esso assunto dal
duecento ottantesimo giorno precedente all’annuncio della probabile uscita dal listino al
centesimo giorno successivo alla realizzazione del delisting effettivo. Dall’indagine sembra
emergere come generalmente gli effetti sul prezzo del titolo nell’home market a seguito del
delisting dal mercato estero siano poco significativi, poiché tendono a concentrarsi nei giorni
immediatamente successivi all’annuncio del delisting, per poi dissolversi gradualmente; ciò è
spiegabile dal fatto che il mercato domestico tende a sovra reagire alla notizia del probabile
imminente delisting della società, a causa dell’importante signaling effect che un evento di
tale tipo provoca sul prezzo del titolo. In media, si registra che il declino del prezzo del titolo
avvenga in gran parte nei 20 giorni seguenti all’annuncio di delisting, per poi rapidamente
annullarsi entro i 100 giorni successivi alla realizzazione effettiva dello stesso. Liu, Stowe e
Hung (2012), considerando tutte le imprese statunitensi delistatesi volontariamente dal Tokyo
Stock Exchange dal 1982 al 2005, rilevano che mediamente al foreign delisting faccia seguito
una riduzione poco significativa del prezzo del titolo nell’home market, che si aggira intorno
al 2% e che tende a scomparire entro 20 giorni dall’annuncio del delisting. Miller (1999),
indagando su un campione di 181 imprese provenienti da 35 differenti Paesi, che hanno
abbandonato il NYSE dal 1985 al 1995, evidenzia come la reazione del prezzo del titolo nel
mercato domestico conseguente al foreign delisting della società presenti un’elevata
variabilità da impresa a impresa, poiché dipende da numerosi fattori quali le motivazioni alla
base dell’abbandono del listino, le driving forces che avevano indotto la società a quotarsi nel
mercato straniero, lo stato di salute economico – finanziario attuale e prospettico della società,
la porzione del suo business focalizzata sul foreign market, e le caratteristiche strutturali del
mercato domestico e di quello estero. Dall’analisi in questione, emerge come mediamente il
prezzo del titolo nell’home market registri una riduzione media di circa il 6%, che tuttavia
tende ad essere anche in questo caso solamente provvisoria, e ad annullarsi nel breve termine.
47
Infine, You, Parhizgari e Srivastava (2012) considerando nel campione d’analisi 465 società
provenienti da diversi Paesi che hanno deciso di approdare in un mercato regolamentato
straniero per poi dopo poco tempo abbandonarlo, nel periodo 1988 – 2007, sembrano ribadire
quanto sopra evidenziato dagli altri autori considerati, ovvero che a seguito di un foreign
delisting si tende ad osservare una riduzione effettiva irrilevante del prezzo del titolo nel
mercato domestico.
Quanto sopra emerso non sembra dunque permettere di sostenere l’esistenza di una
significativa relazione tra il foreign delisting e l’andamento del prezzo del titolo nel mercato
domestico, in quanto nella maggior parte dei casi si tratta di variazioni negative di modesta
entità e di breve durata, in gran parte riconducibili al signaling effect generato dall’annuncio
del probabile delisting sul prezzo del titolo. Seppur in modo contenuto, il prezzo del titolo
sembra essere maggiormente influenzato dall’evento di foreign listing.
Un’altra importante variabile di mercato rilevante che necessita di essere analizzata è il livello
di liquidità offerto dal titolo nell’home market. Anche in questo caso, gran parte dei lavori si è
focalizzata sull’analisi dell’andamento che la liquidità caratterizzante il titolo di una società
nel mercato domestico assume a seguito della decisione della stessa di quotarsi in un mercato
straniero, e non sugli effetti generati su tale variabile dall’opposta decisione di realizzare un
foreign delisting. Karolyi (2006), Lowengrub e Melvin (2002), King e Mitoo (2007) e You,
Parhizgari e Srivastava (2012), evidenziano come generalmente a seguito della decisione di
una società di realizzare un foreign listing, si registrino significativi aumenti della liquidità
offerta dal titolo nell’home market, generati da un effetto combinato manifestatosi sui due
fattori che sono da considerarsi le determinanti chiave del livello di liquidità presentato da un
titolo azionario: il trade volume e il bid ask spread. La liquidità caratterizzante un titolo
presenta con il primo elemento una relazione direttamente proporzionale, mentre con il
secondo un legame inverso. Infatti, successivamente all’ingresso di una società in un mercato
borsistico straniero, si tende ad osservare un netto incremento del volume di negoziazioni del
titolo nel mercato domestico, accompagnato da una consistente riduzione del bid ask spread,
ovvero del differenziale tra il prezzo più basso a cui uno shareholder dell’impresa è disposto a
vendere un titolo (ask) e il prezzo più alto che un compratore presente nel mercato è disposto
ad offrire per quel titolo (bid). Dai contributi sopra menzionati, sembra quindi emergere
l’esistenza di una relazione significativa tra il cross-listing e la liquidità del titolo nel mercato
domestico, poiché gli effetti positivi generati su tale variabile da un foreign listing, a
differenza di quelli emersi sul prezzo, sembrano perdurare nel tempo, e non gradualmente
dissolversi una volta terminata la fase di IPO. In disaccordo con questo orientamento
dottrinale dominante, Levine e Schmukler (2006) tendono a sminuire i risvolti positivi sulla
48
liquidità del titolo nel mercato domestico associati al fenomeno del cross-listing, rimarcando
come a seguito della decisione della società di accedere ad un mercato straniero, si assista ad
un semplice trasferimento di trade volume, e quindi di liquidità, dal mercato domestico al
mercato estero ove l’impresa si è quotata; in altre parole, nel foreign market si registra un
incremento del volume delle negoziazioni sul titolo con conseguenti effetti positivi in termini
di liquidità offerta all’impresa e ai suoi shareholders, mentre nell’home market si verifica una
variazione di analoga entità ma di segno opposto sulle medesime variabili.
Anche in questo ambito, molto contenuta è la quantità dei contributi che hanno come focus
d’indagine principale gli effetti provocati sulla liquidità del titolo nell’home market dal
delisting della società dal mercato estero ove era quotata. I lavori di Pfister e Von Wyss
(2010), Liu (2005), Chandy, Sarkar e Triphaty (2004) e You, Parhizgari e Srivastava (2012)
risultano essere tra i più significativi in tale direzione. I seguenti autori evidenziano
l’esistenza di una relazione negativa tra il livello di liquidità offerto dal titolo nell’home
market e la decisione della società di realizzare un foreign delisting. A seguito dell’uscita dal
mercato estero sembrano registrarsi infatti significative variazioni negative dello stato di
liquidità caratterizzante il titolo nel mercato domestico, segnalate da un calo del trade volume
e da un incremento del bid ask spread.
Un ultimo interessante elemento di discussione consiste nel valutare gli effetti generati da
foreign listing e foreign delisting sul livello di rischio gravante sull’impresa e i suoi
shareholders. Poiché, a seguito della decisione di una società di quotarsi in un listino straniero
e quindi di raccogliere ulteriore capitale proprio, si verifica una diversificazione del suo
business con conseguente riduzione del grado di esposizione al rischio per l’impresa e i suoi
azionisti, sembrerebbe logico ritenere che l’inversa operazione di delistare il titolo dal
mercato estero ove essa era quotata, focalizzando interamente il proprio business sul mercato
domestico, comporti un incremento del rischio affrontato. Tuttavia, Pfister e Von Wyss
(2010), You, Parhizgari e Srivastava (2012) e Lowengrub e Melvin (2002), evidenziano che,
mentre a seguito della decisione di cross-listing si registrano solitamente importanti riduzioni
del beta di mercato e del livello di volatilità che caratterizza il titolo nel mercato domestico,
l’eventuale delisting dal mercato estero non produce significativi effetti su tali variabili.
Nonostante quanto sinora emerso, risulta opportuno precisare, come sottolineato più volte da
Roosenboom e Van Dijk (2009) nel loro contributo sul tema, che l’entità e la durata degli
effetti generati sul prezzo e la liquidità del titolo nell’home market, e sul rischio gravante
sull’impresa e i suoi shareholders, a seguito della decisione di quotarsi in un mercato
borsistico straniero, o viceversa da quella di abbandonarlo, presentano un elevato livello di
variabilità da impresa a impresa, poiché sono strettamente legate a numerosi fattori, fra i
49
quali: stato di salute economico – finanziario attuale e prospettico dell’impresa, motivazioni
alla base del foreign delisting e del precedente foreign listing, caratteristiche strutturali del
mercato estero e del mercato domestico, situazione macroeconomica generale, solo per citarne
alcuni.
A conclusione del paragrafo, pare interessante evidenziare anche i fattori comuni, relativi
all’impresa e al mercato, alla base dei numerosi foreign delistings che dalla fine degli anni
Novanta hanno interessato imprese della più svariata nazionalità e la pressoché totalità degli
Stock Exchanges mondiali. A tal merito, dal contributo di You, Parhizgari e Srivastava (2012)
emerge il ruolo chiave giocato dalle performance dell’impresa, dalle performance del mercato
straniero ove essa è quotata e dalle condizioni di trade al suo interno, nel determinare un
foreign delisting. Relativamente alle performance dell’impresa: “low firm return, high firm
risk and low firm trade volume in host market causes foreign delisting”; con riferimento alle
performance del mercato straniero ospitante: “low market return and low trading volume in
the host market causes foreign delisting”38
.
38
You, Parhizgari e Srivastava (2012, p. 208).
50
51
2. DELISTING INVOLONTARIO E DELISTING VOLONTARIO: DUE
DIVERSE TIPOLOGIE DI USCITA DA UN MERCATO REGOLAMENTATO
I regimi legali disciplinanti il funzionamento dei mercati regolamentati più efficienti e
competitivi39
, prevedono l’esistenza di due diverse modalità di uscita da un mercato
regolamentato: il delisting volontario e il delisting involontario. Nel primo caso, è la società
stessa che richiede allo Stock Exchange, di sua spontanea iniziativa e in totale autonomia,
l’autorizzazione ad abbandonare il mercato. Il compulsory delisting invece si manifesta ogni
qualvolta è la Borsa a deliberare per una qualche ragione la revoca del titolo dalle
negoziazioni. Questa seconda tipologia di delisting è più ricorrente nei mercati anglosassoni, e
in particolare in quelli statunitensi, che si contraddistinguono per una normativa assai rigorosa
in tema di standard di quotazione e di obblighi vari associati allo status di listed company,
rendendo particolarmente complicato e oneroso per una società soggiornare in essi. Le uscite
volontarie dal mercato sono invece la fattispecie di delisting predominante nei mercati
borsistici dell’Europa continentale, dove le normative di quotazione risultano essere molto
meno stringenti e selettive, e i mercati presentano alcuni problemi di carattere strutturale che
riducono le probabilità di una quotazione profittevole per le società ospitate; accade infatti
frequentemente che una società, dimostrandosi sin dal suo ingresso scarsamente performante
e incapace di attirare significativi livelli di analyst coverage, sia costretta dopo poco tempo ad
abbandonare le contrattazioni al fine di evitare il tracollo definitivo. Tuttavia pare opportuno
ribadire che, poiché le revoche dalle contrattazioni a seguito di una richiesta esplicita della
società sono abbastanza limitate, la macrocategoria dei delisting volontari risulta
complessivamente prevalere su quella dei delisting involontari a causa della tendenza
dottrinale dominante nel far rientrare in tale ambito anche i numerosi processi di going
private, ovvero tutti quei casi in cui a determinare l’uscita dal mercato sia un’operazione di
OPA o di Fusione.
Nel seguente capitolo si realizzerà un accurato approfondimento sulle caratteristiche, sulla
struttura e sulle fisionomie con cui generalmente si manifestano gli eventi di delisting
involontario e di delisting volontario, analizzando le motivazioni più ricorrenti alla base della
loro realizzazione e gli effetti che ne conseguono.
39
ovvero quelli riconducibili ai Paesi sviluppati.
52
2.1 IL DELISTING INVOLONTARIO: UN FENOMENO TIPICO DEL MERCATO USA
You (2008) sostiene che ci si trova dinanzi ad un delisting involontario o compulsory delisting
ogni qualvolta lo Stock Exchange decide di propria spontanea iniziativa di revocare
definitivamente un titolo dalle negoziazioni. In questi casi, la volontà della società non viene
considerata in alcun modo, e il provvedimento assunto dalla Borsa, o meglio dall’organismo
preposto all’organizzazione e alla gestione del mercato regolamentato, deve considerarsi
vincolante e incontrastabile. Pertanto, ogni qual volta lo Stock Exchange dichiara
ufficialmente il delisting di una società, il suo titolo viene automaticamente cancellato dal
listino, e le sue azioni non possono più costituire oggetto di trading in quel mercato.
L’orientamento dottrinale dominante40
sostiene che una revoca dalle contrattazioni per poter
essere considerata a tutti gli effetti un caso di delisting involontario, deve sorgere come
conseguenza di un provvedimento assunto, non soltanto dal punto di vista formale ma anche
da quello sostanziale dallo Stock Exchange, senza che questo sia in qualche modo motivato
dalla volontà più o meno esplicita della società di abbandonare le contrattazioni. Ecco la
ragione per cui, in linea con quanto evidenziato da tale orientamento maggioritario, risulta
inadeguato far rientrare in tale ambito i delisting che avvengono a seguito di OPA o di
Fusioni, ovvero quelle situazioni in cui seppur il provvedimento di revoca è formalmente
assunto dallo Stock Exchange, sussiste la finalità più o meno dichiarata e rilevante da parte
della società di abbandonare le contrattazioni, o quantomeno la sua piena consapevolezza che
il concretizzarsi di una tale operazione comporterebbe automaticamente il delisting del titolo,
venendo meno alcuni dei requisiti minimi richiesti per la quotazione in un mercato
regolamentato. Da qui la decisione di trattare i processi di going private nel prossimo
paragrafo, dedicato all’analisi dell’ampia ed eterogenea categoria dei delisting volontari, per
concentrarsi ora sulle revoche involontarie dalle contrattazioni.
Dai numerosi studi presenti in dottrina sul tema, tra i quali si citano quelli di You (2008),
Wolff e Long (2010) e Djama, Martinez e Serve (2012), emerge chiaramente come a seguito
dell’introduzione di standard di quotazione sempre più stringenti e rigorosi nei principali
mercati regolamentati mondiali, e del deterioramento generale delle performance economico –
finanziarie delle imprese successivamente all’esplosione della crisi globale nel 2007, risulta
essere sempre più complicato per una società quotata rispettare i requisiti minimi, quantitativi
e non, richiesti per la quotazione in un listino, e quindi conservare a lungo lo status di public
company. Quanto appena evidenziato spiega la significativa diffusione che il fenomeno del
40
Tra i tanti vedi You (2008), Macey, O’Hara e Pompilio (2008), Chaplinsky e Ramchand (2007), Geranio
(2004), Djama, Martinez e Serve (2012), Leuz, Triantis e Wang (2008).
53
delisting involontario ha conosciuto a livello internazionale negli ultimi tempi, seppur soltanto
nei mercati regolamentati statunitensi sia da considerarsi una delle principali cause di
abbandono del listino. Questi mercati sono infatti caratterizzati da rigidi standard di
quotazione e dalla stringente normativa SEC gravante sulle listed companies, che hanno la
funzione di realizzare una continua e spietata selezione delle società in essi quotate.
Da qui la scelta di analizzare i connotati e le fisionomie che il fenomeno tende ad assumere
nel mercato regolamentato statunitense, considerando alcuni tra i più significativi contributi
dottrinali improntati sull’analisi dei delisting involontari d’oltreoceano.
Dalle ricerche di Chaplinsky e Ramchand (2007), Macey, O’Hara e Pompilio (2008) e You
(2008), emerge come i compulsory delistings trovino generalmente manifestazione a seguito
del verificarsi di una delle seguenti condizioni:
Mancato rispetto da parte della società di un qualunque standard, quantitativo o non,
di quotazione;
Inadempimento ad un qualche obbligo associato allo status di public company, tra i
quali assumono particolare rilevanza quelli di natura informativa, il cui rispetto, dopo i
numerosi scandali finanziari verificatisi nei primissimi anni Duemila, è considerato
fondamentale per garantire la trasparenza del mercato e pertanto condizione
assolutamente inderogabile per poter continuare a soggiornare in esso;
Adozione da parte della società di comportamenti ritenuti dallo Stock Exchange
scorretti o inopportuni, in quanto potenzialmente in grado di recare danno al pubblico
presente nel mercato;
Andamento declinante del prezzo del titolo, che riflette un progressivo deterioramento
delle performance dell’impresa e dei suoi fundamentals41
successivamente alla fase di
IPO;
Coinvolgimento dell’impresa in particolari scandali o inchieste che potrebbero minare
la competitività e il prestigio del mercato;
Fallimento della società, o anche il solo annuncio di un suo possibile ma non certo
dissesto economico - finanziario nel breve termine;
Titolo caratterizzato da un trade volume ritenuto dallo Stock Exchange troppo
contenuto per poter giustificare i costi sostenuti per quotarlo;
Ogni qualvolta lo Stock Exchange ritiene che non sussistano più i presupposti per il
proseguo della quotazione della società.
41
I valori chiave rappresentanti l’andamento economico – finanziario di un’impresa sono: total assets, equity,
earnings, sales e total debts.
54
Queste appena elencate sono da considerarsi, con riferimento alla pressoché totalità dei
mercati regolamentati mondiali, delle condizioni di carattere generale al verificarsi delle quali
potrebbero sorgere sufficienti elementi da indurre uno Stock Exchange a deliberare la revoca
del titolo dalle contrattazioni. Tuttavia da quanto evidenziato nell’ultimo punto, emerge
chiaramente come gli Stock Exchanges godano di una significativa discrezionalità, più o meno
variabile a seconda dei casi, nell’assumere una decisione di radiation. Pertanto, il manifestarsi
di una delle sopra menzionate condizioni non comporta automaticamente il delisting del
titolo, ma costituisce semplicemente i presupposti per un’eventuale legittima decisione di
revoca dello Stock Exchange.
Carney (2006) e Wolff e Long (2010), analizzando le dinamiche caratterizzanti i tre principali
mercati regolamentati USA successivamente all’introduzione della SOX nel 2003,
evidenziano il ruolo fondamentale giocato da tale provvedimento nel determinare la notevole
diffusione degli eventi di delisting involontario. Con la SOX infatti, sono stati innalzati gli
standard di quotazione42
con la finalità di realizzare un continuo processo di selezione delle
imprese soggiornanti in tali mercati, cercando da una parte di massimizzare il numero delle
cd. high quality companies, ovvero delle imprese più performanti, e escludendo dall’altra le
low performing firms, in modo tale da permettere così al mercato di conservare elevati livelli
di efficienza e di prestigio; l’introduzione di un tale provvedimento è stata considerata
necessaria poiché la significativa caduta dei prezzi azionari registratesi nei primissimi anni
2000, complice anche i numerosi scandali finanziari verificatisi in quel periodo di cold
market, aveva provocato un forte crollo della fiducia degli investitori e danneggiato la
competitività dei mercati. Macey, O’Hara e Pompilio (2008), evidenziano come nel periodo
1995-2005 si siano registrati approssimativamente novemila delisting dal NYSE, dal
NASDAQ e dall’AMEX, e come circa il 50% rientrino nella categoria delle revoche
involontarie dalle contrattazioni; questi dati confermano ancora una volta quanto il delisting
involontario sia un fenomeno particolarmente diffuso nel mercato USA. Un numero altamente
significativo di questi compulsory delistings si è concentrato nel periodo 2000-2005 a seguito
dell’esplosione della dot.com bubble e soprattutto dell’introduzione della SOX. Chaplinsky e
Ramchand (2007), analizzando i movimenti in entrata ed uscita dai mercati regolamentati
USA da parte di imprese estere nel periodo 1961-2004, rimarcano come le revoche
42
In particolare sono stati innalzati gli obblighi di natura informativa in capo ad una listed company. Tali vincoli
infatti non riguardano più soltanto la cd. comunicazione finanziaria relativa alla trasmissione dei bilanci e dei
rendiconti infrannuali, ma mirano a indurre le varie società quotate ad introdurre un regime di full disclosure,
obbligandole a garantire una piena trasparenza di tutti i vari aspetti relativi alla loro attività. Tra le varie novità
apportate con la SOX, è stata resa obbligatoria l’adozione di un codice etico e la comunicazione di eventuali sue
violazioni, sono stati introdotti obblighi di certificazione e valutazione in capo al CFO e CEO, e più in generale
si è notevolmente rafforzato il principio di corporate responsability.
55
involontarie dalle contrattazioni abbiano riguardato numerose imprese domestiche ma
soprattutto foreign companies provenienti da altri Paesi, principalmente da quelli europei, che
hanno invano tentato di realizzare un profittevole processo di crescita nel mercato
statunitense. Molte di queste imprese, che spesso venivano da precedenti esperienze di
quotazione nel listino nazionale e/o in quello di Paesi vicini, non sono riuscite ad
implementare quel significativo processo di cambiamento culturale e organizzativo che la
quotazione in un mercato altamente competitivo come quello USA richiede, mostrando dopo
breve tempo dal loro ingresso di essere incapaci di adeguarsi ai rigorosi standard di
quotazione. A sostegno di quanto appena evidenziato, ritornano utili i già riportati risultati
contenuti nello studio di You (2008), nel quale emerge come la durata media dei domestic
listings nei mercati regolamentati USA sia nettamente superiore a quella dei foreign listings.
Nello specifico, mentre la durata media di quotazione è di circa 9 anni per le imprese
domestiche, si riduce drasticamente ai soli 4 anni per quelle straniere. Continuando ad
indagare sulle fisionomie e sui connotati che il fenomeno del delisting involontario assume
nei mercati regolamentati USA, dallo studio di Macey, O’Hara e Pompilio (2008) emergono
alcune evidenze che permettono di tracciare una sorta di profilo ideale di quelle società che
tendono a presentare un più elevato rischio di compulsory delisting:
La maggior parte delle revoche involontarie dalle contrattazioni si verifica nel NYSE,
ovvero nel primo mercato regolamentato mondiale per market capitalization e trade
volume complessivo, caratterizzato dai più rigorosi standard di quotazione e da
un’estremamente accurata selezione delle imprese in esso soggiornanti.
La size delle imprese che possono incorrere in un delisting involontario risulta essere
la più variabile, anche se solitamente tanto più ridotta è la dimensione dell’impresa,
misurabile in termini di assets e equity, tante più difficoltà essa incontra
nell’implementare il profondo cambiamento organizzativo che il going public implica,
e nell’adeguarsi ai stringenti requisiti richiesti per il soggiorno nel mercato. Si
potrebbe pertanto sostenere l’esistenza di una relazione inversamente proporzionale tra
la size dell’impresa e le probabilità di un suo delisting involontario nel breve periodo.
La causa più ricorrente alla base della decisione dello Stock Exchange di revocare un
titolo dalle negoziazioni è il mancato rispetto del requisito del prezzo di 1$ per azione.
I compulsory delistings hanno più spesso riguardato imprese caratterizzate da un
progressivo peggioramento delle proprie performance, evidenziato da un declino del
prezzo del titolo successivamente alla fase di IPO. In altri casi invece, emergono
imprese che già al momento dell’ingresso nel mercato presentavano un discutibile
56
stato di salute economico – finanziario e ridotte probabilità di una quotazione duratura
e profittevole, e che pertanto non avrebbero dovuto essere ammesse alle contrattazioni.
Imprese non particolarmente note e prestigiose, caratterizzate da un ridotto volume di
negoziazione del proprio titolo sembrano presentare significative probabilità di
incorrere in un delisting involontario nel breve periodo.
Dai contributi di Chaplinsky e Ramchand (2007), Macey, O’Hara e Pompilio (2008) e You
(2008) emerge inoltre come nei periodi di cold market, ovvero di prezzi di mercato al ribasso,
si tenda a registrare un maggior numero di delisting involontari dai mercati regolamentati
USA, poiché in queste fasi le imprese quotate presentano una maggior difficoltà nell’attirare
l’attenzione del mercato su di sé e garantire un elevato trade volume al proprio titolo,
complice la poca fiducia che vige tra gli investitori; spesso ciò comporta un deterioramento
delle performance economico – finanziarie delle imprese, che rende loro più complicato
conformarsi stabilmente agli standard di quotazione, specialmente a quello del prezzo del
titolo superiore all’1$, il cui mancato rispetto consiste nella principale causa di revoca
involontaria dalle contrattazioni nel mercato statunitense. Viceversa, nei periodi di hot market
le imprese solitamente sono caratterizzate da un più contenuto rischio di incorrere nel breve
termine in un delisting involontario, poiché grazie al clima di ottimismo ed euforia che
avvolge il mercato in queste fasi, esse sono in grado di garantire importanti trade volumes al
proprio titolo e di ottimizzare così il trade off tra i costi e i benefici della quotazione.
Con riferimento a quei fattori che possono ritenersi dei key successuful factors di una listing
strategy, quali l’elevato prezzo di IPO, la significativa size dell’impresa, l’effettuazione di
periodici capital risings nel mercato regolamentato in cui si è approdati, la presenza
nell’azionariato di investitori istituzionali e prestigiosi, evidenziati da Chaplinsky e
Ramchand (2007) e già rimarcati nel primo capitolo della trattazione, è opportuno sottolineare
come questi svolgano un ruolo ancor più determinante nel favorire un soggiorno profittevole e
duraturo nel listino per le società quotate nei mercati regolamentati USA, considerata l’elevata
competitività e selettività che li contraddistingue, e perciò nell’allontanare il rischio di un
possibile delisting involontario.
Un altro elemento di rilevante discussione in ambito dottrinale su cui risulta interessante
soffermarsi è la significativa relazione che pare emergere tra la corporate governance di
un’impresa e il rischio di delisting involontario che essa presenta nel breve periodo. Charitou,
Louca e Vafeas (2007), analizzando un campione di 161 revoche involontarie manifestatesi
tra il 1998 e il 2004 nel NYSE, indagano sull’effettiva esistenza di una tale relazione, e più
specificatamente mirano a verificare se le competenze e le caratteristiche dell’organo gestorio,
ovvero del Board of Directors, congiuntamente alla struttura proprietaria dell’impresa,
57
svolgano un ruolo chiave nell’influenzare la capacità della stessa di soggiornare in modo
profittevole nel mercato regolamentato e di adeguarsi agli standard di quotazione richiesti.
Il Board of Directors (BOD) o Consiglio di Amministrazione (CDA), composto dai principali
managers dell’impresa, è il detentore del potere gestorio nella maggior parte delle società
quotate in un mercato regolamentato, specialmente in quelli anglosassoni, dove la fattispecie
dell’impresa familiare è pressoché inesistente. Si presenta pertanto al vertice del processo
decisionale dell’impresa, e ogni decisione o azione, sia essa di carattere strategico o operativo,
deve sempre essere deliberata da tale organo, o quantomeno necessita della sua approvazione
per poter esser implementata. Da quanto appena emerso, si evince come il ruolo giocato dal
BOD sia fondamentale nel determinare l’andamento delle performance economico –
finanziarie dell’impresa nel mercato borsistico ove è quotata, e quindi le dinamiche
caratterizzanti le tre principali variabili di mercato di un titolo quotato: prezzo, rischio e
liquidità. Tanto meglio l’organo gestorio di una società è strutturato tanto più sarà
potenzialmente in grado di svolgere efficacemente i suoi compiti, e pertanto minori saranno le
probabilità che l’impresa incorra in un delisting involontario nel breve periodo. Charitou,
Louca e Vafeas (2007) tracciano una sorta di profilo ideale di BOD, in corrispondenza del
quale una società presenta buone probabilità di soggiornare in modo profittevole e duraturo in
un mercato borsistico e quindi un ridotto rischio di incorrere in un delisting involontario nel
breve termine. A tal merito si individuono quattro caratteristiche o meglio fisionomie che
l’organo gestorio di una società dovrebbe presentare:
1. Indipendenza: un board of director composto da amministratori esterni43
garantisce
una maggior indipendenza e ininfluenzabilità dell’organo gestorio dagli altri
stakeholders della società, in particolare dagli azionisti di controllo, e ciò spesso si
traduce in un più efficace svolgimento delle sue funzioni con risvolti positivi sulle
performance economico – finanziarie dell’impresa. Gli outsider managers da una
parte risultano essere maggiormente incentivati a tutelare indistintamente gli interessi
di tutti gli azionisti, senza privilegiare quelli di maggioranza, e dall’altra poco
propensi ad adottare comportamenti opportunistici finalizzati alla realizzazione di un
qualche interesse personale e potenzialmente in grado di recare danno all’impresa e ai
suoi shareholders. Inoltre, la presenza di un BOD esterno tende a ridurre lo storico
conflitto tra proprietà e controllo, esistente tra gli interessi e le priorità del manager e
quelle dell’azionista.
2. Size: un’eccessiva numerosità del BOD potrebbe far sorgere problemi di
comunicazione e di coordinamento, rallentando il processo decisionale e impedendo
43
Denominati anche Outsider Directors o External Managers.
58
all’organo di svolgere efficacemente i suoi compiti. Emerge infatti una relazione
inversa tra size del BOD, misurabile in termini di numero di directors, e performance
aziendali, dalla quale deriva un ulteriore legame, questa volta di carattere positivo:
quello tra la dimensione del BOD e la probabilità della società di incorrere in un
delisting involontario nel breve periodo.
3. Frequenza di meeting: il livello o grado di attività del BOD, misurato dalla frequenza
con il quale esso tende a riunirsi, sembra presentare una relazione negativa con il
rischio di delisting gravante su una società. In altre parole, tanto minore sarà la
cadenza temporale con il quale il BOD si radunerà, tanto più i managers realizzeranno
un monitoraggio continuo ed accurato dell’andamento dell’impresa, e quindi saranno
in grado di prendere tempestivamente le adeguate decisioni volte a garantirne il
corretto funzionamento. Successivamente al 2007, con lo scoppio della crisi
economico – finanziaria globale, l’elevata instabilità dei mercati azionari richiede
fortemente un notevole grado di attività dei BOD delle varie imprese, in modo tale da
permetter loro di adeguarsi ai continui cambiamenti esterni. Sembra essere opportuno
inoltre sostenere che il BOD dovrebbe presentare una significativa frequenza di
meeting soprattutto per quelle società che stanno attraversando un periodo di crisi,
evidenziato da un trend negativo del prezzo del titolo e da ridotti volumi di
negoziazione, al fine di evitare che la situazione precipiti a tal punto da indurre lo
Stock Exchange ad escludere la società dal mercato. In queste situazioni, l’organo
gestorio deve dimostrare una competenza e un’esperienza tale da individuare le
opportune azioni da intraprendere con l’obbiettivo di favorire la ripresa della società e
scongiurare il pericolo di un delisting involontario.
4. Ingresso dei managers nel capitale sociale: la partecipazione al capitale sociale degli
insiders, ovvero di coloro che sono direttamente coinvolti nella gestione dell’impresa,
i managers, deve essere considerata un importante meccanismo di allineamento di
interessi, obbiettivi e comportamenti, in grado di ridurre lo storico conflitto tra
proprietà e controllo, e scongiurare il verificarsi di comportamenti opportunistici da
parte dei managers; essendo essi stessi shareholders, sono infatti maggiormente
incentivati a tutelare gli interessi dell’impresa e degli altri azionisti. Si potrebbe
sostenere quindi l’esistenza di una relazione positiva tra il livello di partecipazione dei
managers al capitale sociale e il rischio di delisting involontario che incombe sulla
società: tanto più gli amministratori di una società sono coinvolti nella sua struttura
proprietaria, ovvero maggiore è l’identificazione tra insiders e outsiders, tante più
59
possibilità ci sono che il BOD svolga efficacemente la sua attività di gestione, e che
quindi l’impresa sia caratterizzata da ottime performance economico – finanziarie.
Charitou, Louca e Vafeas (2007), evidenziano inoltre come in seguito all’introduzione della
SOX nel 2003 la relazione esistente tra le caratteristiche dell’organo gestorio e le probabilità
che la società si imbatti in una revoca involontaria dalle contrattazioni nel breve termine si sia
intensificata; il NYSE infatti, successivamente ai numerosi scandali finanziari verificatisi nei
primissimi anni Duemila, è diventato più sensibile ai problemi di corporate governance che
possono caratterizzare le società in esso quotate. Con la SOX, lo Stock Exchange ha introdotto
più rigorosi e stringenti standard di quotazione in tale direzione, il cui mancato rispetto
comporta quasi automaticamente il delisting della società.
Da quanto sopra evidenziato, sembrano emergere pertanto elementi sufficienti per poter
sostenere che i connotati presentati dalla corporate governance di un’impresa, riscontrabili
dalle fisionomie assunte dal BOD e dalla struttura proprietaria, svolgano un ruolo chiave nel
determinare l’andamento della sua attività, e quindi nel decretare il successo o l’insuccesso
della quotazione nel mercato regolamentato.
Sempre con riferimento al mercato USA, Macey, O’Hara e Pompilio (2008) evidenziano la
ricorrenza di eventi di listings e delistings involontari sequenziali ed incrociati tra i diversi
mercati statunitensi regolamentati e non. Spesso si verificano situazioni in cui imprese che,
non riuscendo ad adeguarsi ai rigorosi requisiti richiesti per la quotazione nel NYSE, sono
costrette ad abbandonare tale mercato, accedendo successivamente a mercati regolamentati
meno selettivi o addirittura a OTC markets. I sopra menzionati autori sottolineano infatti
come l’esistenza negli USA di una struttura di mercato multilivello altamente integrata e
caratterizzata da diversi stadi di quotazione, ciascuno dei quali corrispondente ad una
differente tipologia di mercato con proprie fisionomie e caratteristiche, consenta ad una
società che viene revocata dal mercato ove era quotata di approdare in un altro mercato,
continuando a rendere negoziabili le proprie azioni tra un pubblico rilevante, ed evitando così
la privatizzazione del suo capitale sociale. I diversi stages di quotazione sono caratterizzati da
una decrescente regolamentazione, ma anche da declinanti livelli di liquidità, di tutela delle
imprese e degli investitori, di prestigio e di reputazione, e da un crescente livello di rischio
misurato da un progressivo aumento della volatilità dei prezzi azionari. Questa multi-level
structure prevede come primo livello di quotazione ove una società può decidere di rendere
negoziabile il proprio equity il NYSE, ovvero il mercato borsistico più prestigioso e
competitivo al mondo, caratterizzato dai più stringenti standard di quotazione. Al secondo
stadio corrispondono invece il NASDAQ e l’AMEX, gli altri due maggiori mercati
regolamentati statunitensi per market capitalization e volume delle negoziazioni, caratterizzati
60
tuttavia da una normativa di quotazione lievemente più morbida rispetto al NYSE44
. Accade
però sovente che un’impresa non riesca a conformarsi neppure ai requisiti richiesti per il
soggiorno in tali mercati azionari, e che decida quindi di negoziare le proprie azioni nell’OTC
Bullettin Board, il principale mercato non regolamentato statunitense; anche in questo
mercato vigono però alcuni standard di quotazione che, seppur meno stringenti rispetto a
quelli previsti nei mercati borsistici, costituiscono comunque un vincolo non indifferente per
le imprese in esso soggiornanti. Infine, il quarto ed ultimo livello della struttura è
rappresentato dal Pink Sheets market, un mercato altamente deregolamentato e permissivo45
.
È bene evidenziare come un’impresa possa essere quotata in due o più dei sopra menzionati
mercati, anche se Macey, O’Hara e Pompilio (2008) tengono tuttavia a precisare come la
situazione più frequente sia quella di una quotazione in un mercato regolamentato
accompagnata dal soggiorno in un OTC market. Molto rari sono invece i casi in cui una
società che viene revocata dalla quotazione in un mercato regolamentato decida di
privatizzare completamente il suo equity senza accedere in nessun altro mercato, neppure in
uno OTC.
Il delisting involontario, così come ogni altra tipologia di revoca dalle contrattazioni, è da
considerarsi un evento traumatico per le imprese e i loro azionisti. Sembra infatti che oltre alle
perdita dei listing benefits si tenda a registrare una netta riduzione dell’Entreprise Value,
evidenziata da una drastico calo del valore del titolo e da un peggioramento dello stato di
liquidità che caratterizza l’impresa. Inoltre, trattandosi di un’uscita obbligata dal mercato, si
potrebbero avere ritorsioni assai negative in termini di immagine e reputazione, con
ripercussioni sia sul piano finanziario che su quello commerciale. Pertanto, pare opportuno
sostenere come una società quotata debba fare il possibile per evitare di incorrere in una
revoca involontaria dalle contrattazioni46
, e che d’altra parte lo Stock Exchange debba valutare
ponderatamente la situazione prima di assumere un tale provvedimento.
Liu (2005), considerando un significativo campione di imprese domestiche e straniere
revocate dai tre principali listini USA su decisione dello Stock Exchange tra il 1988 e il 2003,
indaga sugli effetti provocati da un delisting involontario sulle principali variabili di mercato
che rappresentano l’andamento di un titolo quotato: prezzo, rischio e liquidità. A tal fine si
analizzano le implicazioni generate su queste variabili nel periodo che intercorre tra
44
Come verrà approfondito nel terzo capitolo, sia i requisiti formali che quelli sostanziali richiesti per la
quotazione in questi due listini risultano essere meno stringenti e selettivi rispetto a quelli imposti dal NYSE. 45
Per un approfondimento sulle caratteristiche presentate da questo OTC market e sulle dinamiche che lo hanno
contraddistinto negli ultimi tempi si rimanda al Cap.1, par.4 del suddetto lavoro. 46
Quanto appena affermato ha validità a patto che la prosecuzione della quotazione non presenti per la società e i
suoi azionisti delle prospettive di perdita addirittura superiori a quelle che si realizzerebbero con un delisting. In
questi casi infatti, l’uscita dal mercato potrebbe rappresentare una soluzione favorevole, e pertanto sarebbe da
considerarsi più un evento da ricercare che un pericolo da evitare.
61
l’annuncio al mercato dell’imminente revoca dalle contrattazioni e la realizzazione effettiva
del delisting del titolo, confrontando le conseguenze negative che si ripercuotono in tal senso
sulle imprese straniere da quelle caratterizzanti le imprese domestiche.
Innanzitutto, emerge che l’annuncio del probabile delisting a breve della società produce un
importante signaling effect sul mercato, generando un clima di sfiducia e pessimismo tra gli
analisti e gli investitori circa le prospettive di performance future per la società, che tende a
provocare un declino del prezzo di mercato del suo titolo.
Liu (2005), in linea con quanto emerso dal significativo contributo di Sanger e Peterson
(1990), evidenzia come nei 20 giorni successivi all’announcement day una società domestica
registri mediamente una riduzione dell’8,5% del prezzo del titolo, che tenderà ad accentuarsi
successivamente all’event day, ovvero al giorno del delisting effettivo; nel medesimo periodo
una società straniera assiste invece in media ad una variazione negativa del 4,5% di tale
variabile. Emerge pertanto come il fenomeno del delisting involontario incida maggiormente
sul valore del titolo delle società domestiche, poiché le società estere delistate da un mercato
USA conservano solitamente lo status di impresa quotata nel mercato regolamentato
d’origine, riuscendo così a godere ancora di un certo livello di analyst coverage, di visibilità e
dei principali listing benefits. In ogni caso, sembra evidente come la caduta del valore del
titolo a seguito di una revoca involontaria dalle contrattazioni comporti una netta riduzione
dell’Entreprise Value. Queste variazioni negative del prezzo del titolo e dell’EV sono causate
dalle prospettive sfavorevoli che l’annuncio di un probabile delisting nel breve termine genera
sul livello futuro di liquidità e di investor recognition che caratterizzerà l’impresa. Con
l’abbandono delle contrattazioni infatti, l’impresa subirà una netta contrazione del trade
volume sul proprio titolo, la principale determinante della liquidità, e una significativa perdita
di prestigio e di visibilità. Questo scenario prospettico tutt’altro che favorevole spiega il
motivo per cui a seguito dell’annuncio al mercato del delisting, si registri normalmente un
rilevate declino del prezzo del titolo.
Infine, ma non ultimo in ordine di importanza, risulta essere il ruolo giocato dalle
implicazioni negative che si genereranno sul capitale reputazionale dell’impresa con l’uscita
della società dal mercato borsistico, nel causare congiuntamente agli elementi sopra
considerati, il declino del prezzo del titolo a seguito dell’announcement day. Il delisting
comporterà per la società significative perdite in termini di visibilità e di prestigio, a maggior
ragione se si tratta di una revoca involontaria, con importanti ripercussioni negative sul piano
finanziario e su quello commerciale; si registrerà infatti non soltanto una riduzione del potere
contrattuale verso le Banche e gli altri erogatori di capitale di credito, e quindi un più elevato
costo dell’indebitamento, ma anche di quello nei confronti di clienti e fornitori nel definire le
62
condizioni di incasso e pagamento, che potrebbe causare problemi di liquidità per l’impresa.
In aggiunta a tutto ciò, c’è da evidenziare come generalmente una società non quotata risulti
essere meno attrattiva rispetto ad una listed company, e questo potrebbe tradursi in maggiori
difficoltà per la stessa non solo nell’attirare a sé nuovi clienti, ma anche a trattenere quelli già
presenti in portafoglio.
Liu (2005) rimarca inoltre che tanto più la domanda del titolo della società è elastica, e quindi
più elevato è il grado di dipendenza che la lega al prezzo, maggiormente significativi saranno
gli effetti prodotti sul prezzo del titolo e sul trade volume dall’annuncio al mercato del
delisting. Eisdorfer (2008), sottolinea come generalmente tra l’announcement day e il giorno
di realizzazione ufficiale del delisting della società, tenda a registrarsi un andamento anomalo
e altalenante del prezzo del suo titolo, che pare spiegare la tendenza diffusa tra gli investitori
nel realizzare rilevanti operazioni di speculazione su questi titoli ad elevato rischio revoca,
acquistandoli nel momento in cui sono caratterizzati da un’improvvisa caduta del prezzo per
rivenderli qualche istante più tardi, non appena si verifichi una significativa variazione
positiva del prezzo tale da permettere il conseguimento di un importante guadagno. Queste
operazioni di investimento sono da considerarsi altamente rischiose, poiché se da una parte
presentano prospettive di profitto assai allettanti, dall’altra potrebbero risolversi in ingenti
perdite.
2.2 IL DELISTING VOLONTARIO E LE OPERAZIONI DI GOING PRIVATE
A fianco alla categoria dei delisting involontari, che comprende quei casi in cui la revoca
dalle contrattazioni è disposta direttamente dallo Stock Exchange, emerge l’ampia ed
eterogenea famiglia dei delisting volontari, all’interno della quale sono racchiuse tutte quelle
operazioni di delisting motivate dalla volontà, più o meno esplicita, della società di
abbandonare il mercato borsistico ove è quotata. A differenza del compulsory delisting, che
ricorre con frequenza soltanto nei mercati regolamentati statunitensi, il fenomeno del delisting
volontario presenta un’elevata diffusione a livello globale. Tralasciando i limitati casi in cui la
revoca del titolo dalle negoziazioni è richiesta esplicitamente dalla società, i quali verranno
trattati nel capitolo successivo nell’ambito dell’analisi giuridica sul tema, pare interessante
soffermarsi ora sulle cd. operazioni di going private o public to private che, come sostenuto
dall’orientamento dottrinale dominante47
, sono da considerarsi a tutti gli effetti fattispecie di
uscita volontaria dal listino, poiché celano la finalità più o meno rilevante della società di
47
Tra i tanti vedi: Geranio e Zanotti (2010), Martinez e Serve (2011), Chaplinsky e Ramchand (2007),
Renneboog, Simons e Wright (2007), Renneboog e Simons (2005) e You (2008).
63
procedere al delisting, e in ogni caso la piena consapevolezza del suo management e dei suoi
shareholders che la realizzazione di una tale operazione comporterà automaticamente per la
società la perdita dello status di listed company, venendo meno alcuni dei requisiti minimi
richiesti per il soggiorno in un mercato azionario. Anche se c’è una tendenza diffusa nel
considerare i termini going private e public to private come sinonimi di delisting, Renneboog
e Simons (2005, p. 2) tengono a precisare come essi siano opportuni da utilizzare soltanto nel
considerare determinate situazioni di revoca volontaria dalle contrattazioni, evidenziando che
“when a listed company is acquired and subsequently delisted, the transaction is referred to
as a public to private or a going private transaction”; Palm (2004, p. 1) sostiene invece che
“a going private transaction is a transaction or series of transactions which has the effect of
transforming a public company into a private company and thereby eliminating the public
shareholders”. Da questa seconda definizione emergono due step fondamentali che
caratterizzano una tale operazione: il considerevole cambiamento che interviene nella
struttura proprietaria e nella corporate governance della società, e la conseguente uscita dal
mercato regolamentato, che implica la privatizzazione del capitale sociale. Le operazioni di
going private sono sostanzialmente riconducibili alle Offerte Pubbliche di Acquisto (OPA), e
alle Mergers and Acquisitions (M&A), seppur all’interno di queste due macro categorie
emerge un’elevata varietà di operazioni, ciascuna della quali contraddistinta da una propria
denominazione, da una propria struttura, e da dei connotati peculiari.
Dallo studio di Renneboog e Simons (2005), improntato su un’analisi generale dei patterns
assunti nel tempo dal fenomeno del going private a livello internazionale, emerge come le
operazioni di public to private, dopo un’iniziale diffusione negli anni Ottanta, dapprima nei
mercati anglosassoni e successivamente anche in quelli dell’Europa continentale, abbiano
conosciuto un periodo di stallo nella prima metà degli anni Novanta, per poi subire una nuova
graduale espansione a partire dalla fine del XX secolo, che le ha portate a diventare una delle
principali cause e al contempo modalità di uscita da un mercato regolamentato, certamente la
più ricorrente in ambito europeo. A sostegno di quanto appena detto, la Figura 2 riporta la
situazione per il mercato azionario italiano, le cui dinamiche, con le dovute precisazioni,
possono essere considerate per rappresentare l’evoluzione che ha caratterizzato il fenomeno
del going private negli altri mercati borsistici dell’Europa continentale.
64
FIGURA 2: MOTIVAZIONI ALLA BASE DEL DELISTING DAL LISTINO DI PIAZZA AFFARI, NEL
PERIODO 1999 – 2012 (Giugno)
Figura frutto di un’elaborazione personale dei dati raccolti da http://www.borsaitaliana.it /bitApp/statsearch.bit?
target=statistic&family=group.
La Figura 2 evidenzia come nel periodo considerato, le motivazioni alla base dei delisting
incorsi nel mercato borsistico italiano siano state le più svariate. Tuttavia, emerge chiaramente
come le OPA e le Fusioni per incorporazione prevalgano nettamente su tutte le altre
fattispecie di uscita dal mercato: dal 1999 al 2012, delle complessive 198 revoche dalle
contrattazioni registrate dal listino di Piazza Affari, ben 94 sono avvenute in seguito ad OPA,
e 65 come conseguenza di M&A. Questi dati sembrano fornire elementi importanti per
evidenziare la grande diffusione che le operazioni di going private hanno subito a livello
globale a partire dalla fine degli anni Novanta, misurabile sia in termini di numero che di
valore. Renneboog e Simons (2005) individuono nel 1997 l’anno a cui ricondurre l’inizio di
questa nuova ondata di public to private, e in linea con quanto emerso da altri numerosi
contributi dottrinali48
sul tema, identificano i seguenti due fattori di carattere generale alla
base della propagazione di tali operazioni, che coincidono in gran parte con le driving forces
in grado di spiegare l’espansione registrata negli stessi anni dal fenomeno del delisting:
1 L’introduzione di normative più chiare e flessibili disciplinanti i vari aspetti delle
operazioni in esame, ha permesso di facilitarne la realizzazione. Da un lato ciò ha
attenuato le discussioni in ambito politico e dottrinale circa la loro legalità, e dall’altro
ha permesso di superare le remore da parte delle società europee nell’affrontare un
48
Vedi: Renneboog, Simons e Wright (2007), Martinez e Serve (2011), Palm (2004), Geranio e Zanotti (2010),
Croci e Del Giudice (2010).
65
going private, causate dalla loro arretratezza culturale e dall’avversione verso tutti
quegli eventi generatori di significativi cambiamenti organizzativi.
2 La manifestazione di eventi macroeconomici negativi nel primo decennio del XXI
secolo, ha generato una crisi congiunturale dei mercati azionari, e gravi ritorsioni sulla
situazione economica - finanziaria di molte società in essi quotate. I mercati
regolamentati presentano sempre più inefficienze e problemi strutturali, che
impediscono loro di svolgere efficacemente le funzioni fondamentali di uno Stock
Exchange e di creare le condizioni ottimali per permettere alle società ospitate una
quotazione duratura e profittevole; ciò, congiuntamente all’introduzione di standard di
quotazione più rigorosi ha comportato un sostanziale peggioramento del trade off tra i
costi e i benefici associati al going public, costituendo i presupposti per numerosi
going privates.
La Figura 3, illustrante i dati contenuti nello studio di Geranio e Zanotti (2010), fornisce una
visione delle dinamiche, in termini di numero e valore, che hanno caratterizzato le operazioni
di going private nei principali mercati mondiali dal 1984 al 2009: emerge chiaramente, in
linea con quanto sinora evidenziato che, mentre il mercato USA, e in secondo piano quello
britannico sono stati ampiamente interessati da tali eventi già negli anni Ottanta, questi hanno
conosciuto una crescente diffusione nei mercati dell’Europa continentale soltanto a partire
dalla seconda metà degli anni Novanta.
FIGURA 3: LE OPERAZIONI DI GOING PRIVATE NEI PRINCIPALI MERCATI MONDIALI
La figura qui sopra riportata è tratta dallo studio di Geranio e Zanotti (2010, p. 872).
Nel contributo di Renneboog e Simons (2005), viene realizzata un’accurata analisi delle più
importanti motivazioni che sostano dietro alle sempre più ricorrenti decisioni delle società
quotate di realizzare un going private:
Beneficiare di “Tax advantages”: l’uscita dal mercato regolamentato comporta per la
società più ridotte opportunità e minor convenienza nel raccogliere il capitale di
rischio; pertanto, una private company è maggiormente incentivata a finanziare la
66
propria attività facendo ricorso alla leva finanziaria. Il più elevato utilizzo del debito
permette alla società di realizzare importanti vantaggi fiscali, in virtù del fatto che a
differenza dei dividendi gli interessi sono fiscalmente deducibili.
Realizzare un “incentive realignment”: a seguito dell’operazione di going private si
realizza generalmente una concentrazione della proprietà dell’impresa, assistendo alla
riunificazione tra proprietà e controllo. Ciò comporta una forte attenuazione dello
storico conflitto tra managers e shareholders, che in ambito europeo, considerata
l’elevata dipendenza che solitamente esiste tra l’azionariato di controllo e il
management di una società, tende spesso a tradursi in un significativo conflitto tra
azionisti di maggioranza e di minoranza. Il public to private permette un maggior
allineamento tra gli interessi, gli obbiettivi e i comportamenti adottati dai principali
attori organizzativi, favorendo così l’introduzione di un clima positivo all’interno della
società, e facilitando la realizzazione degli obbiettivi che essa si è prefissata. Inoltre, a
seguito di una tale operazione, gli azionisti dispongono in maggior quantità delle
informazioni riservate relative all’attività d’impresa, essendo così in grado di
esercitare un più stretto controllo sul suo andamento; si tende quindi ad assistere ad
una riduzione dei cd. costi di agenzia, grazie all’eliminazione dell’asimmetria
informativa tra principale ed agente, tra insider e outsider. Questi costi sono
sostanzialmente distinguibili in tre differenti categorie: monitoring costs, bonding
costs e residual losses49
. Considerato quanto sopra detto, si può dunque sostenere
come con il going private una società miri a rifocalizzare la propria attività sulla
finalità fondante di una qualsiasi iniziativa imprenditoriale, ovvero sulla creazione di
valore per gli shareholders.
Godere di “transactions costs savings”, ovvero di importanti riduzioni dei costi di
transazione, i quali si distinguono in “search and information costs, bargaining costs
and policing and enforcement costs”. I primi riguardano tutti quei costi che una
società deve sostenere nella ricerca e valutazione degli input da reperire, dei clienti e
dei fornitori con cui relazionarsi, dei partners con cui collaborare, e più in generale
ogni qualvolta deve interfacciarsi con il mercato per soddisfare un qualche bisogno. La
49
Presupposto fondamentale per l’esistenza dei costi di agenzia è l’asimmetria informativa tra principale ed
agente, ovvero tra azionista e manager. I monitoring costs sono i costi sostenuti dal principale per controllare
l’operato dell’agente; i bonding costs riferiscono a quegli oneri sostenuti dall’agente per rassicurare il principale
sul rispetto di quanto pattuito nel contratto e sull’adozione di comportamenti leali, corretti e non opportunistici;
infine, le residual losses misurano la perdita di entreprise value che il principale deve sopportare a causa delle
delega data all’agente, e sono rappresentate dalla differenza tra il valore creato per l’impresa e i suoi
shareholders dal comportamento effettivamente adottato dal manager e quello che avrebbe dovuto essere
generato se quest’ultimo avesse tenuto un comportamento perfettamente conforme a quanto stipulato nel
contratto di agenzia. Per un approfondimento si veda Jensen e Meckling (1976).
67
seconda categoria di costi di transazione comprende tutti quegli oneri che una società
deve sostenere durante la negoziazione con l’altra parte contrattuale per arrivare a
concludere un accordo. Infine, ci sono i costi per la realizzazione del contratto e della
transazione da esso prevista.
Non dover più sopportare i diversi costi, diretti ed indiretti, richiesti dalla quotazione
in un mercato regolamentato, tra i quali spiccano soprattutto le commissioni da
corrispondere allo Stock Exchange per la permanenza nel mercato e il trading delle
proprie azioni, e quelli sostenuti per rispettare i vari standard e obblighi di quotazione;
quest’ultimi hanno subito un notevole incremento a seguito dell’introduzione nei primi
anni Duemila di listing rules particolarmente rigorose nei principali listini mondiali.
“Takeover defenses”. Il going private può essere considerato anche una strategia
implementata dal management di una società con l’obbiettivo di difenderla da possibili
takeovers. Spesso accade che i managers di una società, preoccupati dalle pressioni del
mercato e dall’intensa minaccia di possibili tentativi di acquisizione, più o meno ostili,
da parte di soggetti esterni, decidano di privatizzare il capitale sociale conducendo la
società al di fuori dal mercato regolamentato attraverso un’operazione di Management
Buyout (MBO), solitamente supportati finanziariamente da un Fondo di Private
Equity.
“Corporate undervaluation”. A seguito dello scoppio della crisi economico –
finanziaria nel 2007, i mercati regolamentati presentano rilevanti problemi strutturali
ed inefficienze. Può accadere così che il mercato borsistico ove la società è quotata
non riesca a riconoscere ed esprimere il reale valore dell’impresa, riflettendo un
prezzo di mercato discordante dalla sua effettiva situazione economico – finanziaria.
In altri casi, ciò può essere dovuto al fatto che il management attuale della società non
ha la competenza, l’esperienza o l’interesse necessari per impiegare in modo ottimale
gli assets dell’impresa, non riuscendo così a far emergere tutto il suo potenziale
valore. Questo fenomeno, conosciuto a livello internazionale come share
underperformance, riguarda più frequentemente le società di ridotta dimensione e
market capitalization, e emerge in presenza di uno stabile disinteresse del mercato per
il titolo della società. Pertanto, un’operazione di going private, producendo
significativi impatti sulla corporate governance di una società e l’abbandono del
listino, può risolvere l’eventuale problema di undervaluation che la affligge.
“Corporate restruction”. Lo status di listed company impedisce alla società di avere
quel livello di flessibilità strategica ed operativa, e più in generale quella libertà
d’azione, necessari per poter realizzare efficacemente eventuali programmi di
68
ristrutturazione organizzativa. Negli ultimi tempi, a causa degli eventi
macroeconomici sfavorevoli verificatisi nel primo decennio del XXI secolo, molte
imprese, manifestando l’esigenza di una profonda opera di restruction, rinnovamento
e/o risanamento, si sono dimostrate altamente propense al going private, evento che
fornisce loro le condizioni ottimali per implementare quanto prestabilito e reagire così
alla crisi economico – finanziaria.
Permettere alla società e ai suoi shareholders di avere l’effettiva disponibilità dei
flussi di cassa prodotti, evitando che essi siano impiegati in progetti a VAN negativo.
Tale motivazione alla base della decisione di una società di privatizzare il proprio
capitale è ricorrente soprattutto negli USA, dove le società che generalmente
realizzano un going private presentano un business maturo e consolidato con elevati
cash flow.
Non compatibilità tra la politica dei dividendi che si intende implementare e lo status
di società quotata. Per esempio, una politica di trattenimento degli utili volta a
garantire l’autofinanziamento dell’impresa in un periodo di crescita può essere
valutata negativamente dal mercato e provocare un declino del prezzo del titolo; in
questi casi, il going private pare quindi essere la soluzione più indicata.
Ridurre i waste, ovvero gli sprechi di diversa natura che sussistono nelle varie unità
organizzative, e costituire perciò una “higher-value added allocation of resources”.
Il going private sembra infine essere un evento altamente consigliato per tutte quelle
società quotate che sono caratterizzate da una ridotta analyst coverage, e il cui titolo
presenta un limitato trade volume, un prezzo declinante, e problemi di liquidità.
Queste driving forces della decisione di una società di procedere ad un going private,
solitamente si presentano in modo combinato, anche se con un diverso ordine di importanza
da impresa ad impresa. Geranio (2004) sottolinea che dal soggetto che promuove il going
private, e quindi dalla struttura dell’operazione di OPA, si possono desumere le motivazioni
alla base della stessa. Innanzitutto, l’operazione di public to private può essere intrapresa da
un gruppo di investitori esterni non facenti parte dell’azionariato attuale, e solitamente di
carattere istituzionale come i Fondi di Private Equity, che mirano ad acquisire il controllo
della società attraverso un buyout. A seconda delle finalità perseguite dai promotori
dell’operazione, emergono tre differenti fattispecie di buyout: strategico – industriale, quando
l’acquirente intende realizzare “un’integrazione strategica e operativa della propria attività
con quella dell’impresa acquisita”50
; finanziario, qualora l’acquirente svolga tipicamente
50
Geranio (2010, p. 12).
69
l’attività di gestione di partecipazioni in altre imprese51
; e infine il management buyout,
quando l’operazione è condotta dal management attuale dell’azienda, con l’obbiettivo di
acquisirne il controllo al fine di gestirla in totale autonomia.
Accanto ai buyouts, una diversa tipologia di going private emerge quando l’OPA non viene
promossa da degli investitori esterni o dal management della società, ma bensì dagli stessi
azionisti di maggioranza in essere di quest’ultima, solitamente con la finalità prioritaria di
condurla al di fuori del listino, in modo tale da acquisire la flessibilità strategica e gestionale
necessaria per la realizzazione di un qualche programma di ristrutturazione. Se l’operazione di
OPA, con conseguente abbandono delle contrattazioni, è intrapresa dagli stessi azionisti che
avevano precedentemente optato per il going public della società, può significare anche che la
strategia di quotazione implementata non ha realizzato gli obbiettivi prefissati, o che era
motivata esclusivamente da finalità speculative di breve periodo.
FIGURA 4: LE DIVERSE TIPOLOGIE DI BUYER
Figura frutto di una rielaborazione personale di quanto evidenziato nel lavoro di Geranio e Zanotti (2010, p.
878).
La Figura 4 classifica i 106 going privates avvenuti nel periodo 2000-2005 nei principali
Paesi dell’Europa continentale e oggetto dello studio di Geranio e Zanotti (2010), secondo le
categorie sopra discusse, evidenziando come la maggior parte delle operazioni di public to
private intraprese abbia avuto come promotore Fondi di Private Equity, Banche
d’Investimento o società di grandi dimensioni, ovvero financial e corporate buyers. In Italia,
considerata la significativa diffusione di piccole e medie imprese a conduzione familiare che
caratterizza il mercato nazionale, gran parte delle operazioni di OPA sono state promosse
dalle stesse famiglie detentrici del pacchetto di controllo della società, e sono pertanto da
considerarsi dei family buyouts.
Nonostante quanto detto sinora potrebbe indurre a considerare il public to private un evento
dai soli risvolti positivi per un’impresa, Renneboog e Simons (2005), Martinez e Serve (2011)
51
Per esempio, i fondi chiusi e le merchant bank.
70
e Croci e Del Giudice (2010) tengono tuttavia ad evidenziare anche gli effetti negativi ad esso
associati, sostenendo come il management della società debba pertanto valutare
ponderatamente la decisione di going private prima di assumerla. Infatti, è palese come la
scelta di privatizzare il capitale sociale e abbandonare il mercato regolamentato provochi la
perdita dei listing benefits. Inoltre, le operazioni di going private spesso risultano essere
complesse, costose e soprattutto time consuming, considerato che nella pressoché totali dei
casi necessitano di almeno sei mesi per essere espletate. In aggiunta a ciò, Renneboog e
Simons (2005) sottolineano come il going private sia da considerare una “shock therapy” per
la società, ovvero un evento traumatico generatore di profondi cambiamenti organizzativi, ma
in certi casi ritenuto l’unica soluzione possibile per risanare il suo stato di salute economico –
finanziario, evitandone il dissesto. Tuttavia, può accadere che i benefici ottenuti con la
privatizzazione del capitale sociale siano inferiori ai relativi svantaggi, e che la società
presenti la necessità di godere di alcuni importanti vantaggi realizzabili soltanto con la
quotazione, in particolare di un miglioramento dello stato di liquidità che la caratterizza, della
diversificazione del rischio gravante sulla sua attività, e di una maggiore visibilità. In questi
casi, il ritorno al going public pare essere un evento quasi scontato. I due autori evidenziano,
con riferimento al mercato USA, come la probabilità che la società realizzi una nuova IPO,
pressoché irrisoria nei due anni immediatamente successivi al compimento del going private,
cresca mediamente in misura significativa tra il terzo e il quinto anno, sino a raggiungere una
soglia vicino al 60% dal sesto in poi. Dal mercato UK emergono evidenze analoghe, con
l’unica differenza che le probabilità che la società decida di accedere nuovamente alle
contrattazioni cominciano ad assumere rilevanza a partire dal quarto anno e non dal terzo.
Renneboog e Simons (2005) analizzando i fattori che tendono ad incidere con maggior
rilevanza sulla durata dello status di private company e quindi sulle probabilità di un ritorno
nel mercato regolamentato della società, individuano i seguenti: la size e la notorietà
dell’impresa, che presentano una relazione diretta con le probabilità di un nuovo going public,
la struttura della proprietà, le caratteristiche e le competenze del management, le motivazioni
alla base della precedente scelta di going private, e le dinamiche caratterizzanti l’ambiente
esterno.
Il principale strumento per realizzare un going private è come detto l’OPA, un’operazione
attraverso la quale il soggetto promotore mira ad effettuare un rastrellamento di tutte le azioni
outstanding della società, proponendo ai vari shareholders di cedere quelle in proprio
possesso in cambio di un corrispettivo prestabilito, solitamente superiore al prezzo di mercato
del titolo in modo da facilitare il successo dell’operazione.
71
Tuttavia, è bene precisare come all’interno dell’ampia ed eterogenea categoria delle Offerte
Pubbliche di Acquisto, emergano differenti operazioni che, seppur risultino tra loro
accumunate dall’essere degli strumenti a cui ricorrere per realizzare la finalità di acquisire il
controllo di una società, ciascuna di esse esibisce una propria struttura e delle caratteristiche
distintive. Le due tecniche di OPA più frequentemente utilizzate sono il Leveraged Buyout
(LBO) e il Buyout Offer with Squeeze Out (BOSO). Gran parte dei contributi dottrinali52
sul
tema del going private, evidenzia che una delle principali differenze che tende a
contraddistinguere i delistings volontari di stampo anglosassone da quelli di tipo continentale,
consiste proprio nella forma con cui viene generalmente condotta l’operazione di going
private; nei mercati regolamentati d’oltreoceano e in quelli dell’UK, una società che mira a
realizzare un public to private ricorre abitualmente alla prima tecnica di OPA sopra
menzionata, mentre nei mercati del Vecchio Continente tendono a prevalere le operazioni del
secondo tipo, essendo spesso lo stesso azionista di controllo della società, che sovente
coincide con la famiglia fondatrice o comunque con i soci fondatori dell’impresa che avevano
in passato optato per il suo going public, a promuovere un’OPA per il riacquisto della totalità
delle azioni in circolazione con l’obbiettivo di privatizzare il capitale sociale.
Zambelli (2004), afferma che un’operazione di LBO o Merger Leveraged Buyout, ricorre ogni
qual volta un investitore o un gruppo di investitori esterni, solitamente di carattere
istituzionale come Fondi di Private Equity e Banche d’Investimento, costituisce una nuova
società con capitale pressoché irrisorio (newco) con l’obbiettivo di acquisire il controllo di
un’altra società, chiamata target o bersaglio. Una volta completata l’acquisizione della target,
questa verrà incorporata nella newco, e la società che risulterà alla fine di questo processo di
fusione attraverso acquisizione con indebitamento, sarà pertanto appesantita dal debito
contratto in origine dalla newco per acquisire la target; considerato quest’ultimo aspetto, pare
quindi opportuno ritenere condizione fondamentale per il successo dell’operazione e per delle
prospettive favorevoli di performance, che la società target presenti un ridotto livello di
indebitamento ed un cash flow consistente, in modo da essere in grado di rimborsare il debito
acceso dalla newco. Lo stesso Zambelli (2004), nel suo interessante lavoro focalizzato sul
LBO nel mercato italiano, evidenzia che quando un’operazione di questo tipo è promossa
dallo stesso management in essere della società, essa viene denominata Management Buyout
(MBO), mentre qualora il buyout viene realizzato da una cordata di managers esterni,
solitamente supportati finanziariamente da un Fondo di Private Equity, ci si trova dinanzi ad
un’operazione di Management Buyin (MBI).
52
Vedi tra gli altri: Martinez e Serve (2011), Geranio e Zanotti (2010), Renneboog e Simons (2005), Renneboog,
Simons e Wright (2007), Croci e Del Giudice (2010).
72
Renneboog e Simons (2005) rimarcano che per molto tempo le operazioni di LBO hanno
suscitato rilevanti critiche in ambito dottrinale e non, a causa dei poco trasparenti contorni di
legalità che presentavano, sfociando frequentemente in “hostile takeovers”; ciò,
congiuntamente alla mancanza di una chiara regolamentazione sul tema, e alla scarsa
preparazione dei mercati dell’Europa continentale e delle società in essi operanti,
nell’affrontare un’operazione di questo tipo, ha inizialmente limitato la diffusione dei LBOs ai
mercati anglosassoni. Il significativo processo di sviluppo economico – finanziario fatto
registrare dai mercati europei negli anni Novanta, accompagnato da un progresso in termini di
cultura imprenditoriale e dall’introduzione di normative sul tema più chiare ed efficaci, ha
contribuito alla graduale espansione nel Vecchio Continente di queste operazioni di going
private, ponendo fine ai timori delle imprese verso un evento generatore di rilevanti
cambiamenti organizzativi e soprattutto ai numerosi dibattiti emersi circa la loro legalità.
Relativamente al mercato italiano, queste controversie hanno subito una significativa
attenuazione soltanto a partire dal 2003, con la cd. riforma del diritto societario, con la quale è
stata espressamente dichiarata l’ammissibilità legale di tali operazioni53
.
Il contributo di Martinez e Serve (2011), avente come oggetto d’analisi un campione di 140
imprese francesi delistatesi a seguito di un going private dal mercato regolamentato nazionale
tra il 1997 e il 2006, fornisce un’accurata comparazione tra le operazioni di LBO e quelle di
BOSO, evidenziandone le differenze in termini di struttura, fisionomie e finalità. Innanzitutto,
si rimarca come un’operazione di LBO venga solitamente avviata e condotta da degli
investitori esterni alla società, o in alternativa dal suo management, a differenza di un BOSO,
che viene sempre promosso dagli azionisti di maggioranza in essere della società, o dalla
società controllante di quest’ultima54
. Da ciò ne deriva che mentre le operazioni di LBO sono
solitamente indirizzate verso società target di grandi dimensioni e caratterizzate da una
struttura proprietaria altamente polverizzata, dove risulta pertanto più agevole acquisire il
controllo societario, i BOSO spesso avvengono in società con un azionariato altamente
concentrato, riconducibili nella maggior parte dei casi ad imprese di più ridotte dimensioni e
market capitalization, dove i soci di maggioranza detengono un significativo pacchetto di
controllo. Un’altra importante differenza tra le due operazioni di going private in esame
riguarda le loro caratteristiche strutturali: il ricorso ad una fattispecie del primo tipo implica
da un lato un rilevante utilizzo della leva finanziaria per eseguire l’OPA e acquisire il
53
Prima di questa riforma, avvenuta con l’emanazione del D. lgs. n. 181 del 28 Giugno 2003, entrato in vigore il
1 Gennaio 2004, l’operazione di LBO era considerata come uno strumento di aggiramento per interposta persona
(newco) del divieto di sottoscrizione di azioni proprie ex art. 2357 c.c., e del divieto di assistenza finanziaria per
la sottoscrizione o l’acquisto di azioni proprie ex art. 2358 c.c. Vedi Zambelli (2004). 54
In ambito europeo, e ancor più frequentemente nel mercato italiano, i promotori di un’operazione di BOSO
sono solitamente gli stessi soci fondatori o la famiglia fondatrice dell’impresa.
73
controllo della target, e dall’altro la realizzazione di un’operazione di M&A, step conclusivo
necessario per poter espletare il processo di LBO; un BOSO segue invece i criteri di
un’acquisizione ordinaria. Per quanto riguarda le finalità più ricorrenti perseguite con le due
operazioni, spesso dietro ad un’operazione di LBO sussiste l’intenzione di ridurre i contrasti
tra principale ed agente, cioè tra azionisti e management, e/o di realizzare una significativa
ristrutturazione organizzativa, apportando notevoli cambiamenti nella corporate governance e
nella struttura proprietaria della società; nei casi di BOSO invece, emerge una più rilevante
necessità o volontà di realizzare un delisting dal mercato regolamentato ove la società è
quotata, spesso come conseguenza di un ridotto trade volume del titolo e di un prezzo di
mercato in costante peggioramento, o del raggiungimento degli obbiettivi prefissati da una
strategia di quotazione fondata su mere finalità speculative di breve periodo.
Martinez e Serve (2011) evidenziano inoltre le seguenti caratteristiche distintive generalmente
esibite dalle società che realizzano un BOSO:
Bassi livelli di analyst coverage, associati a ridotti trade volumes sul titolo, che tende
a presentare una scarsa liquidità e un prezzo di mercato declinante.
Società mature e consolidate, con scarse opportunità di crescita.
Imprese di più ridotta dimensione rispetto alla media dei competitors di settore quotati
nello stesso listino, misurabile in termini di assets, equity e market capitalization.
Livelli di redditività molto bassi, evidenziati da dei ROA e ROE inferiori alla media di
mercato.
Aziende underlevered, mostranti un rapporto Debt/Equity più basso rispetto alla
maggior parte dei competitors quotati, e che pertanto con il delisting potrebbero
godere in misura più rilevante dei vantaggi fiscali connessi all’indebitamento.
Un ultimo connotato di carattere giuridico che contraddistingue le operazioni di BOSO
riguarda infine il diritto di squeeze out, ovvero la facoltà di espropriare dietro corrispettivo i
possessori delle azioni residue, riconosciuta in capo a chiunque arriva a detenere una soglia
rilevante del capitale sociale, che nella normativa italiana è fissata al 95%.
Per quanto riguarda gli effetti generati da un’operazione di going private sulla situazione
economico – finanziaria della società, Kaplan (1989) analizzando le performance post
delisting di 48 imprese revocate dal NYSE a seguito di un going private tra il 1980 e il 1986,
evidenzia come nei due anni successivi alla sua realizzazione si assista generalmente ad un
graduale incremento dell’operating income, che comincia a crescere in misura rilevante a
partire dal terzo anno; il valore delle capital expenditures, ovvero degli investimenti in conto
capitale tende invece a ridursi significativamente nei tre anni successivi al public to private, a
causa dell’implementazione del programma di ristrutturazione cui l’impresa necessita, che
74
richiede una riduzione della size del business e una serie di importanti disinvestimenti. Il free
cash flow o flusso di cassa operativo, in corrispondenza delle dinamiche sopra registrate,
tende ad assumere un trend positivo nei cinque anni successivi alla realizzazione del going
private. Quanto sopra emerso permette quindi di sostenere che l’evento del going private
comporta nella maggior parte dei casi un progressivo incremento dell’efficienza operativa
dell’impresa. Kaplan (1989) sottolinea inoltre che se la privatizzazione del capitale sociale è
realizzata attraverso un LBO, l’elevato indebitamento contratto dai promotori dell’operazione
potrebbe in certi casi pesare in modo eccessivo sul bilancio della società post fusione,
conducendola verso un inesorabile dissesto economico – finanziario. Risulta pertanto
possibile sostenere l’esistenza di una relazione diretta tra l’entità del debito contratto in
origine dalla newco e il rischio di default gravante sulla target successivamente alla
realizzazione del going private, che risulta essere particolarmente significativa nei primi 3
anni.
A fianco all’OPA e alle differenti tecniche che possono essere utilizzate per realizzarla, l’altra
fattispecie esistente di going private è la Fusione. Si può infatti assistere ad una società
quotata che decide per una qualche ragione di realizzare una fusione per incorporazione con
un’altra società, quotata o non; tuttavia, Renneboog e Simons (2005) precisano che qualora
una delle finalità principali perseguite dalla società con la fusione sia quella di abbandonare il
mercato regolamentato ove soggiorna, generalmente la società target con la quale si decide di
realizzare l’operazione è una unlisted company, spesso creata ad hoc per facilitare il
raggiungimento degli obbiettivi prefissati con l’operazione. Raramente si verificano situazioni
in cui una società decide di effettuare il proprio going private attraverso una semplice fusione
con una società non quotata; molto più spesso infatti, dietro alla decisione di privatizzare il
capitale sociale non sussiste soltanto la finalità di abbandonare le contrattazioni, ma anche
quella di apportare un’importante modifica alla struttura proprietaria e alla corporate
governance dell’impresa: ecco il motivo per cui questa tecnica di public to private viene
frequentemente realizzata nell’ambito di operazioni di natura complessa, in modo
complementare all’altra principale modalità di going private, l’OPA, come appurato per i
sopra analizzati casi di LBO, MBO e MBI.
Un ultimo aspetto che costituisce un elemento di rilevante discussione in ambito dottrinale,
sul quale merita pertanto soffermarsi, riguarda la posizione degli azionisti di minoranza nelle
operazioni di going private. Nelle operazioni di OPA, senza la totale proprietà delle azioni
sociali, il soggetto/i promotore non può espletare il processo di public to private e realizzare
così la sua eventuale finalità di condurre la società fuori dal mercato borsistico ove è quotata.
Gli azionisti di minoranza, a causa dell’esigua quota di capitale sociale posseduta, hanno un
75
assai limitato potere decisionale nell’eventuale scelta del management, degli azionisti di
maggioranza o degli investitori esterni di privatizzare il capitale sociale; i minority
shareholders si vedono così spesso costretti a partecipare ad un’operazione che potrebbe
pregiudicare o addirittura essere totalmente contraria ai loro interessi, senza avere alcuna voce
in capitolo nella sua realizzazione. Inoltre, con riferimento alle operazioni di BOSO, emerge
un’ancor più scarsa tutela dei piccoli azionisti, che qualora il soggetto promotore dell’OPA
eserciti il precedentemente discusso diritto di squeeze out, questi sono automaticamente
obbligati a cedere le azioni in proprio possesso in cambio di un corrispettivo fissato da un
esperto del tribunale, senza aver alcuna possibilità di rifiuto.
Un significativo contributo dottrinale avente come oggetto d’analisi il punto di vista del
singolo azionista di minoranza nelle operazioni di going private, è fornito da Bates, Lemmon
e Linck (2006), nel quale si considera un significativo campione di 8.871 going privates
verificatisi nei tre principali mercati regolamentati statunitensi tra il 1988 e il 2003. Nella
ricerca in questione, vengono rimarcati i guadagni potenzialmente ottenibili dai piccoli
azionisti nel periodo di tempo che va dall’annuncio al mercato dell’imminente going private
della società alla sua effettiva realizzazione con conseguente abbandono delle contrattazioni.
Emerge infatti la tendenza da parte dei piccoli azionisti di approfittare dell’andamento
anomalo e altalenante che caratterizza il prezzo del titolo successivamente all’announcement
day, cedendo le azioni in proprio possesso al pubblico presente nel mercato al fine di
realizzare dei profitti con ogni probabilità superiori a quelli che otterrebbero durante il
processo di freeze-out, nel quale dispongono di un irrisorio potere contrattuale; il termine
freeze-out è volto ad identificare quell’insieme di azioni di pressione esercitate dagli azionisti
di maggioranza su quelli di minoranza al fine di indurli a cedere le azioni residue in loro
possesso, con l’obbiettivo di escluderli definitivamente dall’azionariato sociale e acquisire il
controllo totalitario dell’impresa, condizione necessaria per poter espletare con successo il
processo di going private. Geranio e Zanotti (2010), considerando un campione di 106 PTP
deals avvenuti nei principali mercati dell’Europa continentale tra il 2000 e il 2005,
focalizzano la propria attenzione proprio sullo studio del Cumulative Average Abnormal
Return (CAAR), definito come il guadagno complessivo realizzato mediamente dagli
shareholders di una società in procinto di subire un going private, grazie all’andamento
anomalo assunto dal prezzo del titolo a seguito dell’annuncio al mercato del vicino delisting
della società. Dal loro contributo si osserva un CAAR medio del 18,78% nei mercati
regolamentati della zona EURO; questo è da ritenersi piuttosto contenuto se confrontato con il
76
circa 30% esibito dal mercato inglese evidenziato nel lavoro di Renneboog, Simons e Wright
(2007)55
, e il 50% riscontrato da Leuz, Triantis e Wang (2008) relativamente al NYSE56
.
Nonostante quanto appena evidenziato, spesso gli azionisti di minoranza non riescono a
liberarsi delle azioni in loro possesso cedendole ad un prezzo vantaggioso al mercato, e sono
pertanto costretti a partecipare al processo di going private della società, che con elevata
probabilità recherà loro ingenti perdite.
A tal proposito, Geranio e Zanotti (2010) cercano di valutare gli strumenti a disposizione di
uno shareholder minoritario in ambito europeo per tutelare i propri interessi durante
un’operazione di public to private, ed evitare così di essere costretto dai promotori
dell’operazione a svendere le azioni in proprio possesso. Innanzitutto, un’azionista di
minoranza che dispone, direttamente o indirettamente, di un pacchetto azionario tale da fargli
raggiungere determinati quorum assembleari, ha il potere di opporsi alla decisione
dell’assembla dei soci di lanciare un’OPA sulla totalità delle azioni sociali in circolazione al
fine di realizzare un going private. Con riferimento alla normativa italiana, l’art. 2377 c.c.
comma 3 stabilisce come i soci di una società quotata che detengano, singolarmente o
congiuntamente, l’uno per mille del capitale sociale, abbiano la facoltà di impugnare la
delibera assembleare chiedendone l’annullamento; il comma 4 aggiunge che qualora i soci
non riescano a raggiungere il quorum richiesto per poter disporre della facoltà di opporsi alla
decisione dell’assemblea, hanno tuttavia il diritto a chiedere un risarcimento per i danni subiti.
Se gli azionisti di minoranza non arrivano a detenere una quota di capitale sociale tale da
poter porre il veto alla realizzazione dell’operazione, e qualora il risarcimento dei danni sia
considerato insufficiente per tutelare i propri interessi, possono ricorrere in via giudiziaria
chiedendo di bloccare l’esecuzione dell’OPA. Anche se ci sono elevate probabilità che una
tale iniziativa non porti al risultato sperato, occorre evidenziare che in ogni caso si
verificherebbe, tra spese legali e perdite di tempo, una riduzione dei benefici che il soggetto
promotore dell’operazione si aspetta di realizzare. Considerato quanto sopra detto, e in linea
con le conclusioni tratte da Bates, Lemmon e Linck (2006) e da Geranio e Zanotti (2010),
sembra opportuno sostenere che, seppur gli azionisti di minoranza godano di una certa tutela
legale nelle operazioni di going private, risulta essere necessaria l’introduzione di normative
più chiare ed efficaci, sia nel mercato statunitense che e a maggior ragione in quelli europei
dove il conflitto tra azionisti di minoranza e di maggioranza tende ad assumere un’elevata
55
Renneboog, Simons e Wright (2007) focalizzano la loro analisi su un campione di 177 PTP deals avvenuti nel
mercato UK nel periodo 1997-2003. 56
Nello studio di Leuz, Triantis e Wang (2008) viene considerato un campione di 436 going privates realizzatisi
nel NYSE tra il 1998 e il 2004.
77
importanza, con l’obbiettivo di riconoscere ai piccoli azionisti degli strumenti in grado di
tutelare maggiormente i loro interessi nei processi di public to private.
78
79
3. IL PROFILO GIURIDICO DEL DELISTING: INQUADRAMENTO DEL
FENOMENO NELLE DIVERSE NORMATIVE
Nel seguente capitolo si condurrà un’analisi di come il fenomeno del delisting viene
regolamentato a livello internazionale, arricchendola con le valutazioni critiche evidenziate
dai più significativi contributi dottrinali disponibili in tale ambito, e con delle frequenti
comparazioni tra i differenti regimi legali vigenti sul tema. Per riuscire in tale intento si è
cercato di realizzare un quadro generale delle normative disciplinanti lo status di public
company in tre diversi contesti economici, politici e culturali: nei mercati anglosassoni, nei
mercati emergenti del Sud Est asiatico, e nell’Europa continentale. Innanzitutto, si
considereranno i connotati giuridici che il delisting assume nei mercati regolamentati
statunitensi, da sempre gli equity markets più efficienti e sviluppati, per poi indagare sulla
normativa che lo disciplina nelle developing countries del Sud Est asiatico, prendendo come
oggetto di riferimento il mercato regolamentato cinese. Infine, ci si addentrerà con un maggior
livello di approfondimento nella regolamentazione italiana sul tema, che con le dovute
precisazioni può essere considerata rappresentativa di quelle vigenti negli altri Paesi
dell’Europa continentale.
3.1 QUADRO NORMATIVO GENERALE DEL DELISTING NEGLI USA
Negli Stati Uniti esistono tre principali mercati regolamentati, che in ordine di market
capitalization complessiva e di volume di negoziazioni possono essere così elencati: il New
York Stock Exchange (NYSE), il più grande e prestigioso mercato azionario del mondo, da
sempre il più attrattivo sia per le imprese domestiche che per quelle straniere, il National
Association of Securities Dealers Automed Quotation (NASDAQ), che è stato il primo
mercato regolamentato virtuale, ove le contrattazioni avvengono esclusivamente in modo
elettronico, e infine l’American Stock Exchange (AMEX), fino al 1953 conosciuto come New
York Curb Exchange, che nel Gennaio del 2008 è stato acquistato dalla NYSE Euronext.
Dai numerosi lavori presenti in ambito dottrinale che si focalizzano sul delisting dai mercati
borsistici statunitensi57
, emerge chiaramente come a partire dai primissimi anni Duemila si sia
assistito ad un progressivo incremento del numero delle imprese che per una qualche ragione
hanno abbandonato le contrattazioni da tali mercati, a fronte di una netta contrazione dei new
listings, e tutto ciò in riferimento sia a imprese domestiche che straniere. Questo sostanziale
57
Particolarmente considerate sono state le ricerche di Chaplinsky e Ramchand (2007), Chandly, Sarkar e
Tripathy (2004), You (2008), Macey, O’Hara e Pompilio (2008) e Carney (2006).
80
peggioramento del differenziale IPO – delisting ha comportato una contrazione dei trade
volumes e della market capitalization dei principali listini d’oltreoceano, causando loro una
perdita in termini di competitività ed efficienza, elementi che da sempre li
contraddistinguono. In linea con quanto asserito dai vari Carney (2006), You (2008),
Chaplinsky e Ramchand (2007) e Macey, O’Hara e Pompilio (2008) e evidenziato nei capitoli
precedenti del presente lavoro, necessita ribadire come la SOX abbia giocato un ruolo di
primo piano nel determinare queste dinamiche. Infatti, è indiscutibile come l’introduzione di
tale provvedimento abbia comportato un significativo inasprimento dei costi di quotazione,
associato all’innalzamento dei requisiti minimi richiesti per poter accedere e soggiornare nei
mercati regolamentati statunitensi, e degli obblighi connessi allo status di public company.
Considerata l’importanza assunta dalla SOX nel determinare numerosi delistings e
scoraggiare nuove IPOs, pare pertanto opportuno soffermarsi brevemente sul contenuto di tale
provvedimento, e sulle finalità che il Governo statunitense si è proposto di perseguire con
esso. A tal merito, di particolare utilità risultano essere i contribuiti di Carney (2006), Zhang
(2007) e Coates (2007), improntati su un’accurata analisi delle caratteristiche e della struttura
presentate dalla SOX, delle motivazioni e delle finalità sottostanti, e delle conseguenze da
essa generate sui processi di deregistration e di delisting nei mercati regolamentati
statunitensi. La SOX è una legge federale approvata dal Governo degli USA il 20 Luglio 2002
ed entrata in vigore il 1 Gennaio 2003; è considerata la riforma della normativa regolante il
funzionamento degli Stock Exchanges statunitensi più significativa dopo i Security Exchange
Acts del 1933 e del 1934. Come evidenziato da Carney (2006), è stata una risposta quasi
dovuta che il Governo americano ha dovuto dare a seguito dei numerosi scandali finanziari
che avevano coinvolto i principali mercati regolamentati USA nei primissimi anni Duemila,
Enron su tutti, provocando il crollo della fiducia degli investitori, e quindi delle performance
degli stessi mercati. Emanando la SOX, il governo sembrava finalmente dare ascolto a quanto
sostenuto fermamente in ambito dottrinale e non, ovvero l’esigenza di ridurre i vuoti che
caratterizzavano la disciplina regolante i mercati borsistici nazionali, il cui funzionamento
pareva eccessivamente basato sul meccanismo dell’autoregolamentazione, con l’obbiettivo di
ripristinare la fiducia degli investitori, e permettere ai mercati di mantenere elevate
performance in termini di efficienza e competitività. Zhang (2007) e Coates (2007)
evidenziano come le principali finalità perseguite con il provvedimento in questione possono
essere così sintetizzate:
Incrementare il senso di responsabilità delle imprese e dei loro managers verso l’estesa
comunità finanziaria con cui una public company si interfaccia, e indurre le società
quotate in un mercato regolamentato ad adottare un regime di full disclousure, basato
81
sulla cd. cultura della trasparenza. In altre parole, attraverso l’imposizione di numerosi
e stringenti obblighi di natura informativa, spingere i managers dell’impresa a
garantire la piena trasparenza dei flussi informativi. Inoltre, vengono imposti obblighi
di certificazione e valutazione in capo al CEO e al CFO58
.
Aggravare le sanzioni in cui la società e i suoi managers potrebbero incorrere nel caso
di mancato adempimento ai vari obblighi informativi, o di adozione di comportamenti
scorretti e/o fraudolenti volti a ledere gli interessi degli investitori e più in generale del
pubblico operante nel mercato ove la società è quotata.
Aumentare le responsabilità dell’auditor nell’attività di revisione contabile, e
rafforzare il principio di indipendenza dei revisori esterni.
Innalzare i poteri e i compiti della Security Exchange Commission (SEC), ovvero
l’organismo di vigilanza dei mercati regolamentati statunitensi.
Rendere più attivo e propositivo il ruolo degli azionisti di minoranza, attraverso la
concessione di importanti diritti, soprattutto di natura informativa.
Congiuntamente a quanto appena evidenziato, pare opportuno sottolineare che per poter
accedere ad un mercato regolamentato USA, e rendere così le proprie azioni negoziabili in
esso, una società, domestica o straniera che sia, deve seguire un lungo e complesso iter di
ammissione, che prevede come sua parte integrante fondamentale l’articolato processo di
registration, stabilito dal Security Exchange Act del 1933, e sottoposto al controllo della SEC.
L’introduzione della SOX, oltre ad aver innalzato gli obblighi in tema di disclousure e gli
standard di corporate governance, ha reso ancor più complicato tale procedimento di
registrazione, e a maggior ragione quello inverso di deregistration. A tal proposito, Witmer
(2005) fornisce un breve ma esaustivo quadro generale che aiuta a comprendere le procedure
che una società deve seguire per registrarsi e deregistrarsi dalla normativa statunitense sulle
public company. Tutte le imprese che mirano a quotarsi in uno dei listini statunitensi devono
adempiere a tale iter di registration, seppur attraverso modalità differenti a seconda delle
proprie caratteristiche. Witmer (2005) sottolinea come un’impresa che vuole negoziare il
proprio equity in un mercato regolamentato USA debba di norma registrarsi nella sezione 12
(b) prevista dal regolamento SEC. Tuttavia, per le imprese che presentano un numero di
shareholders superiore a 300, e un valore degli assets eccedente i 10 milioni di $, la sezione
di riferimento è la 12 (g). Nella medesima sezione si devono registrare anche le imprese con
assets inferiori ai 10 milioni di $ ma con più di 500 shareholders. Le foreign companies che
58
Chief Executive Officer e Chief Financial Officer. Uno dei vari obblighi di certificazione imposti a questi due
importanti manager di una società, è quello di garantire che il bilancio sia conforme ai requisiti e ai criteri
stabiliti dalla SEC registration e rispecchi la reale situazione economico – finanziaria dell’impresa.
82
ambiscono ad accedere alle contrattazioni in un mercato borsistico USA sono sottoposte ad un
ancor più rigorosa procedura di ammissione; infatti, oltre a doversi registrare in una delle due
sezioni sopramenzionate, devono realizzare un’ulteriore immatricolazione, compilando il
FORM 20-F previsto dalla normativa SEC, mentre per le società canadesi il modulo di
riferimento è il FORM 40-F.
Una volta completato il processo di registrazione, l’impresa è sottoposta alle stringenti norme
imposte dalla SEC, tra le quali emergono soprattutto numerosi obblighi di natura informativa
e rigorosi standard di corporate governance. Quando una società è in procinto di esser
delistata dal mercato regolamentato ove è quotata a causa del mancato rispetto di uno o più
standard di quotazione, di norma deve seguire la procedura prevista dal FORM 15 della SEC,
e dedicata ai delisting involontari; se invece una società decide di abbandonare
volontariamente le contrattazioni, il modello di riferimento è il FORM 13 E-359
. In ogni caso,
ciò che per Witmer (2005) e Macey, O’Hara e Pompilio (2008) occorre evidenziare, è che
generalmente in prossimità del delisting di una società, viene contestualmente avviato il
processo di deregistration, che presenta una durata superiore e delle complessità ancor più
rilevanti di quello di registration, e che spesso si protrae oltre la data di realizzazione effettiva
del delisting; questo spiega il perché possa accadere che una società che è stata ufficialmente
revocata dalle contrattazioni del listino, continui ad essere sottoposta alla stringente normativa
imposta dalla SEC; infatti, il delisting del titolo non comporta automaticamente anche la
deregistration; soltanto quando quest’ultima sarà completata, la società si libererà da ogni
obbligo. Leuz, Triantis e Wang (2004) sottolineano inoltre, come un’impresa che a seguito del
delisting da uno degli Stock Exchange USA abbia completato il processo di deregistration,
non possa quotarsi in altri mercati regolamentati statunitensi, e neppure nell’OTC Bulletin
Board. L’unica soluzione che le rimane, se desidera ancora negoziare le proprie azioni tra un
pubblico rilevante, è approdare nel Pink Sheets market, un mercato altamente
deregolamentato e permissivo, realizzando così la già citata operazione di going dark.
Analizzando gli standard di quotazione richiesti dal NYSE, ovvero il mercato regolamentato
più grande e prestigioso del mondo, con una market capitalization complessiva di circa
10.000 miliardi di $, emerge la presenza di requisiti molto stringenti e rigorosi, che come
sostenuto da Macey, O’Hara e Pompilio (2008) e Degregori (2011), hanno la funzione di
garantire un’elevata selettività delle imprese in esso soggiornanti, massimizzando il numero
delle cd. high quality company, cioè delle imprese più performanti, al fine di mantenere gli
elevati livelli di competitività ed efficienza che da sempre contraddistinguono il listino.
59
Seguono tale procedura anche le società che delistano successivamente ad operazioni di OPA o M&A, in
quanto considerate fattispecie di delisting volontario.
83
Degregori (2011) tende a distinguere i requisiti che una società deve rispettare per poter
soggiornare nel NYSE in sostanziali e formali. Per ciò che riguarda i primi, si evidenzia come
una società che ambisca a stazionare in questo prestigioso mercato borsistico debba presentare
un indiscutibile livello di interesse nazionale, e quindi avere una certa reputazione e notorietà
negli USA, oltre che esibire una posizione di primo piano nel settore di riferimento, con
significative prospettive future di crescita o quantomeno di stabilità. I requisiti formali si
distinguono a loro volta in criteri dimensionali o numerici, e criteri finanziari. Relativamente
ai primi, il numero degli shareholders non deve mai essere inferiore a 400, la quantità di
azioni negoziabili nel mercato azionario non scendere al di sotto di 600.000, e il trade volume
medio mensile del titolo nei 12 mesi precedenti non minore di 100.000 azioni; infine, di
particolare interesse è il requisito del prezzo di chiusura di almeno 1 $, soglia sotto la quale si
può scendere per un periodo non superiore a 30 giorni consecutivi. I requisiti di natura
finanziaria sono invece i seguenti:
Somma degli utili ante imposte negli ultimi tre anni non inferiore ai 6.500.000 di $, di
cui almeno 2.500.000 di $ realizzati nell’ultimo esercizio.
Cash flow operativo totale degli ultimi tre esercizi di almeno 25.000.000 di $.
Fatturato dell’ultimo anno non minore di 100.000.000 di $ e market capitalization
media negli ultimi 12 mesi di almeno 1.000.000.000 di $.
Total Assets non inferiore ai 60.000.000 di $60
.
Per ciò che riguarda invece le imprese straniere quotate nel NYSE, dalla sezione 103.00 del
NYSE listed company manual emerge che se vogliono evitare di incorrere in un potenziale
delisting devono rispettare dei requisiti quantitativi ancor più rigorosi, tra i quali si
evidenziano i seguenti: il numero complessivo degli shareholders della società non deve
essere inferiore a 5000, la quantità di azioni negoziabili nei vari mercati ove la società è
quotata di almeno 2.500.000, i pre tax earnings e i cash flows degli ultimi tre esercizi non
inferiori ai 100.000.000 di $ .
Macey, O’Hara e Pompilio (2008), Chaplinsky e Ramchand (2007) e Wolff e Long (2010)
tengono tuttavia ad evidenziare come il NYSE abbia una significativa discrezionalità nelle
decisioni di ammissione e di revoca di un titolo. Ciò emerge anche dal NYSE Listed
Company Manual - Section 802.01, ove si enuncia che il NYSE si riserva il diritto “to make
an appraisal of, and determine on an individual basis, the suitability for continued listing of
an issue in the light of all pertinent facts whenever it deems such action appropriate, even
60
Per un approfondimento dettagliato su tutti i requisiti e gli standard richiesti per la quotazione nel NYSE vedi:
http://nyse manual.nyse.com/lcm.
84
though a security meets or fails to meet any enumerated criteria”61
. Quindi, il mancato
rispetto di uno o più dei requisiti sostanziali e formali, precedentemente evidenziati, non
comporta automaticamente il delisting della società. Questa elevata discrezionalità concessa
in capo allo Stock Exchange è aspramente criticata dai sopra citati autori, poiché spesso tende
a tradursi in un trattamento non egalitario delle imprese soggiornanti nel listino: emergono
situazioni nelle quali società che, pur manifestando una palese e continuativa non totale
conformità agli standard di quotazione, rimangono tuttavia quotate nel mercato per mesi o
addirittura anni. Solitamente si tratta di imprese di grandi dimensioni, caratterizzate da un
elevato livello di notorietà e di commitment nel mercato USA, la cui uscita potrebbe
provocare implicazioni negative sulla competitività e sul prestigio del mercato. Ecco il motivo
per cui, in questi casi lo Stock Exchange tenda a fare tutto ciò che è in proprio potere per
allontanare la decisione di revocare il titolo. Come rimarcato da Macey, O’Hara e Pompilio
(2008), altri elementi a sostegno dell’eccessiva discrezionalità concessa al NYSE emergono in
corrispondenza del verificarsi di quelle situazioni in cui il mercato decide di escludere dalle
contrattazioni società che pur mostrandosi in linea con gli standard di quotazione e non
colpevoli di un qualche comportamento scorretto, hanno evidenziato negli ultimi tempi una
netta contrazione della size degli assets, delle cumulative perdite d’esercizio o delle
prospettive di fallimento.
Al fine di evitare il ripetersi degli scandali finanziari avvenuti nei primissimi anni Duemila, lo
Stock Exchange si dimostra sempre più inflessibile invece nel sanzionare i casi di adozione da
parte di una società quotata di comportamenti scorretti o poco trasparenti potenzialmente in
grado di ledere gli interessi del pubblico operante nel mercato, soprattutto in corrispondenza
di eventuali violazioni degli obblighi in tema di disclousure e degli standard di corporate
governance imposti dalla SEC registration, che come detto hanno subito un inasprimento a
seguito dell’introduzione della SOX nel 2003. Witmer (2005), Macey, O’Hara e Pompilio
(2008) e Coates (2007), affermano come in questi frangenti il delisting del titolo della società
sia pressoché scontato.
Elemento di rilevante discussione in ambito dottrinale risulta essere il requisito del prezzo di
chiusura superiore all’1 $, standard di quotazione peculiare dei mercati borsistici USA. Come
stabilito nel NYSE listing manual62
, se un titolo presenta per 30 giorni consecutivi un prezzo
di chiusura inferiore a questa soglia, lo Stock Exchange ne delibera la sospensione per 6 mesi,
scaduti i quali, se l’impresa si mostra ancora non conforme a tale standard, viene esclusa
61
Vedi: http://nysemanual.nyse.com/LCMTools/PlatformViewer.asp?selectednode=chp%5F1%5F9%5F2%5F1
&manual =%2Flcm%2Fsections%2Flcm%2Dsections%2F. 62
Vedi l’apposita sezione disponibile su: http://nysemanual.nyse.com/LCMTools/PlatformViewer.asp?select
ednode=chp%5F1%5F9%5F2%5F1&manual=%2Flcm%2Fsections%2Flcm%2Dsections%2F.
85
definitivamente dalle contrattazioni. Dallo studio di Macey, O’Hara e Pompilio (2008), si
evidenzia chiaramente come la principale causa di delisting involontario nei tre principali
mercati regolamentati statunitensi dal 1995 al 2005, sia stato il mancato rispetto di tale
requisito. Oltre agli autori in questione, anche Chaplinsky e Ramchand (2007) e Chandly,
Sarkar e Tripathy (2004), considerano assai discutibile la rigidità con cui il NYSE tenda a far
rispettare tale standard. Infatti, molti penny stock, ovvero titoli con un prezzo inferiore all’1$,
potrebbero essere relativi a società che presentano un elevato livello di interesse nazionale,
sino a poco tempo prima caratterizzate da buone performance, e che il declino del titolo sotto
la soglia minima potrebbe quindi semplicemente significare che esse stanno attraversando un
periodo di crisi passeggera; detto ciò, in questi casi pare opportuno sostenere che un’eventuale
revoca dalle contrattazioni del titolo sarebbe da considerarsi una decisione inadeguata e
frettolosa da parte del listino, il quale dovrebbe utilizzare l’ampia discrezionalità
riconosciutagli per valutare ponderatamente la situazione economico – finanziaria
dell’impresa prima di assumere una qualsiasi decisione. A tal proposito, Macey, O’Hara e
Pompilio (2008) in un lavoro focalizzato sull’analisi dei connotati economici e giuridici
caratterizzanti i delisting processes negli USA, evidenziano come i managers delle società che
si trovano dinanzi a questa situazione abbiano la possibilità di utilizzare delle tecniche
finalizzate ad evitare che il prezzo del titolo scenda al di sotto del livello minimo richiesto, e
quindi ad allontanare il pericolo che una momentanea fase di scarse performance possa
indurre inopportunamente la Borsa ad escludere la società dal mercato. Molto frequente
risulta essere l’adozione della cd. “reverse splits strategy”, che consiste nel processo
attraverso cui una società procede alla riduzione del numero delle azioni in circolazione e al
contestuale aumento del loro valore nominale, lasciando inalterato l’ammontare complessivo
del capitale sociale. Ovviamente, il tutto deve avvenire senza ledere i diritti di ciascun
azionista. Tuttavia, gli stessi autori rimarcano come nella maggior parte dei casi tale strategia
si riveli inefficace, limitandosi semplicemente a posticipare di qualche tempo il delisting della
società. Un’altra tecnica spesso utilizzata dalle società che si trovano dinanzi a queste
situazioni problematiche, è la cd. “Debt - reducing exchanges offers (DREOs)”, ovvero il
procedimento attraverso cui una società prossima alla bancarotta mira a ritirare le azioni in
circolazione presso il pubblico, proponendo ai suoi shareholders di sostituire le azioni in loro
possesso con dei bonds o degli altri strumenti finanziari detenuti dalla società stessa. Anche
questa tecnica, sottolineano i tre autori considerati, spesso risulta essere inefficace non
riuscendo ad innalzare stabilmente il prezzo del titolo sopra la soglia di 1 $, e perciò ad
allontanare dalla società il rischio di un potenziale delisting involontario.
86
Pare opportuno soffermarsi inoltre sulle condizioni richieste per soggiornare nel NASDAQ, il
secondo mercato regolamentato statunitense per market capitalization e trade volume
complessivo, il cui venir meno costituisce i presupposti di una potenziale revoca dalle
contrattazioni. Anche se il quadro normativo disciplinante la quotazione nel NASDAQ
presenta notevoli analogie con quello appena analizzato relativamente al NYSE, risulta
tuttavia opportuno precisare, in linea con quanto evidenziato da Degregori (2011) e Macey,
O’Hara e Pompilio (2008), che in questo listino possono accedere anche società di più ridotta
dimensione, in termini di assets ed equity, con performance meno brillanti, e oggetto di un
non particolarmente elevato livello di interesse nazionale. Inoltre, l’accesso in tale mercato
richiede standard di corporate governance meno stringenti. Tra i principali requisiti di
quotazione a cui una società che aspira a quotarsi nel NASDAQ deve conformarsi, Macey,
O’Hara e Pompilio (2008) evidenziano i seguenti: il capitale sociale non deve mai scendere al
di sotto della soglia dei 10 milioni di $; il numero di azioni detenute dal pubblico e perciò
negoziabili nel mercato non deve essere inferiore a 750.000 e il market value complessivo di
tali azioni deve essere di almeno 5 milioni di $; il numero minimo di shareholders è 400, e ci
devono essere almeno 2 market makers tra gli azionisti per un periodo non inferiore a 10
giorni consecutivi. Dal NASDAQ listed company manual emerge inoltre come anche i valori
richiesti in termini di earnings, revenues e assets siano inferiori rispetto a quelli necessari per
poter essere quotati nel NYSE; nello specifico, i pre tax earnings dell’ultimo esercizio non
devono essere inferiori ai 750.000 $, il fatturato per ciascuno degli ultimi tre anni di almeno 6
milioni di $ e gli assets devono ammontare ad una somma non minore di 5 milioni di $.
Infine, anche in questo mercato regolamentato vige una rigida applicazione dell’assai discusso
requisito del prezzo di chiusura di 1$ per azione, con tutte le precedentemente sottolineate
implicazioni che ne derivano. Come osservato per il NYSE, anche il NASDAQ detiene un
elevato potere di discrezionalità nelle decisioni di ammettere un titolo alle contrattazioni o
viceversa di revocarlo, che si evince da quanto asserito nella sezione 4300 della normativa
SEC “Nasdaq may deny initial inclusion or apply additional or more stringent criteria for the
initial or continued inclusion of particular securities or suspend or terminate the inclusion of
particular securities based on any event, condition, or circumstance which exists or occurs
that makes initial or continued inclusion of the securities in Nasdaq inadvisable or
unwarranted in the opinion of Nasdaq, even though the securities meet all enumerated
criteria for initial or continued inclusion in Nasdaq”63
. Coerentemente con quanto asserito in
precedenza per il NYSE, anche nel NASDAQ potremmo quindi osservare imprese che, pur
manifestando una palese non conformità agli standard di quotazione, continuano
63
http://www.sec.gov/pdf/nasd1/4000ser.pdf.
87
inopportunamente a rimanere quotate per mesi o addirittura anni. La tendenza dello Stock
Exchange sarà sempre quella di garantire un trattamento privilegiato alle imprese di maggiori
dimensioni e notorietà, e oggetto di elevato interesse nazionale, facendo quanto possibile per
evitare un loro eventuale delisting.
Considerato quanto sinora emerso, si può dunque sostenere come l’esistenza di requisiti e
standard di quotazione particolarmente rigorosi, e più in generale di una normativa che risulta
essere in grado nella maggior parte dei casi di regolare in modo chiaro ed efficace i vari
processi di IPO e delisting, permetta ai mercati regolamentati statunitensi, nonostante le
conseguenza negative generate dalla grave crisi congiunturale che ha colpito la pressoché
totalità dei mercati azionari, specie quelli dei Paesi più sviluppati, di mantenere elevati livelli
di competitività ed efficienza, e di continuare a costituire la destinazione più ambita per le
strategie di listing intraprese da società domestiche e non. Tuttavia, come evidenziato nel
paragrafo, emerge la necessità di nuovi provvedimenti volti a limitare l’eccessiva
discrezionalità concessa agli Stock Exchanges nelle decisioni di ammissione o di revoca di un
titolo, al fine di evitare che essi utilizzino sconsideratamente tale potere riconosciutogli, e di
garantire un più equo trattamento delle diverse società quotate nei listini. Congiuntamente a
quanto appena detto, pare opportuna anche una chiarificazione e una semplificazione del
complesso e oneroso processo di deregistration dalla normativa SEC, che spesso permette
soltanto dopo molto tempo ad una società delistatesi dal mercato regolamentato di liberarsi
dai numerosi obblighi connessi allo status di public company.
3.2 IL REGIME LEGALE DI DELISTING NEI MERCATI REGOLAMENTATI EMERGENTI
Da quanto evidenziato negli studi di You (2008) e Karolyi (2006), che risultano essere tra i
più significativi contributi dottrinali focalizzati sull’analisi e la comparazione a livello
internazionale dei fenomeni di listing e delisting, emerge come i cd. mercati regolamentati
emergenti, in gran parte riconducibili a quelli dei Paesi del Sud Est asiatico64
, abbiano
conosciuto un periodo di grande crescita ed espansione a partire dai primissimi anni Duemila,
contrariamente a quanto si sia potuto assistere per i mercati più sviluppati. I developing
markets infatti, sono stati toccati soltanto parzialmente dalla crisi economico – finanziaria
scoppiata nel 2007, e offrono importanti opportunità di crescita per le imprese e di profitto per
gli investitori. A sostegno di quanto appena asserito, si evidenzia come a fronte di un numero
contenuto di delistings, tali mercati sono stati caratterizzati negli ultimi tempi da grandi
ondate di IPOs, realizzate sia da imprese nazionali che straniere, molte delle quali provenienti
64
Cina, India, Honk Kong, Singapore i principali.
88
anche da Europa ed USA; ciò ha comportato il sorgere di differenziali IPO – delisting
sorprendentemente favorevoli per questi listini, che si contrappongono a quelli sempre più
negativi registrati dai mercati azionari europei e nord americani. Yang e Ding (2012) rilevano
come nel 2011 il principale mercato regolamentato cinese, lo Shangai Stock Exchange (SSE),
abbia registrato in media almeno un’IPO ogni trading day, permettendo così alla Cina di
essere per il quinto anno consecutivo il Paese che ha fatto registrare il maggior numero di
IPOs in un anno. Nel 2011 si sono registrate IPOs nello SSE e nello Shenzen Stock Exchange
(SZSE), i due principali mercati regolamentati cinesi65
, per un ammontare complessivo di
67,9 miliardi di $, portando così i due listini ad essere tra i primi cinque mercati azionari al
mondo per market capitalization complessiva.
Interessante pare quindi avere un quadro generale dei principali aspetti giuridici connessi ai
fenomeni di listing e delisting nei mercati emergenti, di cui la Cina può essere presa come
punto di riferimento, presentando il mercato regolamentato66
più sviluppato in termini di
market capitalization e trade volume complessivo. Xue e Cui (2007) forniscono una breve ma
esaustiva analisi del regime legale che caratterizza la quotazione nello SSE e nello SZSE,
soffermandosi in particolar modo sulla normativa disciplinante i processi di delisting o
radiation, evidenziandone le numerose lacune e proponendo a tal merito alcuni interventi
migliorativi che necessiterebbero di essere realizzati.
Il regime legale disciplinante il listing e il delisting da un mercato regolamentato, si è
costituito gradualmente, in concomitanza con il progressivo sviluppo che ha contraddistinto lo
SSE e lo SZSE67
a partire dagli anni Novanta, e accentuatesi notevolmente con l’inizio del
XXI secolo. A tal proposito, Xue e Cui (2007) identificano i diversi stages caratterizzanti il
processo di formazione del sistema legale regolante la quotazione nei mercati borsistici cinesi,
con particolare attenzione ai principali aspetti giuridici associati al delisting:
1) “The preliminary establishment of the de-listing legal regime”: l’emanazione della cd.
Corporate Law, entrata in vigore il 1 Luglio 1994, può considerarsi il primo
importante passo verso la formazione di un regime legale disciplinante la quotazione
di una public company. In tale provvedimento vengono definiti i listing e delisting
standards, l’iter procedurale che una società devo seguire nel caso di accesso o
viceversa di abbandono del mercato regolamentato, e l’organismo con la competenza e
l’autorità per decidere l’ammissione e la revoca di un titolo, la China Securities
65
Questi due mercati sono caratterizzati da un regime legale di quotazione per molti aspetti speculare. Il mercato
borsistico di Hong Kong, seppur presentante dei trend simili, è sottoposto ad una regolamentazione speciale
molto complessa: da qui la scelta di non considerarlo nell’analisi condotta nel suddetto paragrafo. 66
Se si considerano congiuntamente SSE e SZSE. 67
Operativi rispettivamente dal 1990 e dal 1991.
89
Regulatory Commission (CSRC). Successivamente, il 29 Dicembre 1998, viene
introdotta la Security Law, la prima legge disciplinante il trading dei titoli nel mercato
regolamentato cinese, che negli artt. 49 e 57 non fa altro che ribadire quanto previsto
negli artt. 157 e 158 della precedente Corporate Law, relativamente al fenomeno del
delisting di un titolo.
2) “The consummation of the de-listing legal regime”: negli anni successivi viene
progressivamente introdotto una sorta di sistema elettronico di segnalazione, chiamato
ST – PT, tale da garantire un trasparente flusso informativo tra i diversi attori operanti
nel mercato, permettendo all’investitore di valutare ponderatamente le opportunità che
il mercato offre prima di assumere una qualsiasi decisione d’investimento e di
scorgere quei titoli che presentano un elevato rischio delisting nel breve termine e
quindi da evitare, alle società di migliorare le loro attività di gestione, e al mercato di
supervisionare costantemente l’andamento dei titoli in esso quotati.
3) “The start of the de-listing legal regime”: il 22 Febbraio 2001, la CSRC, l’organismo
preposto alla vigilanza del mercato regolamentato, introduce la “Regulation about
Loss Company to Suspend and Terminate Trading on The Market”, proponendosi
erroneamente di regolare con tale provvedimento indistintamente tutti i processi di
delisting che si fossero verificati, indipendentemente dalle motivazioni alla base
dell’esclusione dalle contrattazioni. Il 23 Aprile del 2001 si realizza la prima revoca
dal mercato regolamentato cinese, segnale che le disposizioni contenute in tema di
delisting nelle precedenti Corporate e Security Laws, venivano finalmente attuate. A
questo evento viene così ricondotto l’inizio ufficiale del regime legale sul delisting in
Cina.
4) “The further consummation of the de-listing legal regime”: la Chinese Security
Business Association pubblica nel 2003 una sorta di manuale, il Notice about
Improvement for Stock Transfer, al fine di agevolare la quotazione delle imprese e il
trading dei loro titoli, e limitare in questo modo i delistings.
5) “The establishment of the de-listing legal regime”: il 27 Ottobre 2005 il Parlamento
cinese delibera una profonda revisione della Corporate Law e della Security Law.
Vengono aboliti gli artt. 157 e 158 della prima, mentre gli artt. 49 e 57 della seconda
sono abrogati e sostituiti dai nuovi artt. 55 e 56, che definiscono nuove condizioni,
quantitative e non, per la sospensione e la revoca di un titolo dalle contrattazioni, e
conferiscono pieno potere discrezionale allo Stock Exchange nel disporre
l’ammissione, la sospensione o il delisting di una società. Con questi interventi viene
così realizzato un decisivo step per il consolidamento di un vero e proprio sistema
90
legale disciplinante i vari aspetti connessi alla quotazione di un titolo in un mercato
regolamentato.
Dall’elenco delle regole disciplinanti la quotazione negli Shangai e Shenzen Stock
Exchanges68
emerge, in linea con quanto appurato per la pressoché totalità dei principali
mercati borsistici mondiali, la presenza di standard di quotazione quantitativi e non, il cui
mancato rispetto può costituire i presupposti di un potenziale delisting, la realizzazione del
quale è tuttavia subordinata all’ampia discrezionalità concessa allo Stock Exchange. I requisiti
di natura quantitativa o numerica che una società deve rispettare per poter soggiornare nello
SSE o nello SZSE sono come sempre riferiti al numero minimo di shareholders, alla market
capitalization della società, agli utili e ai cash flows realizzati negli ultimi anni, al totale degli
assets e così via, ma risultano essere molto meno stringenti e selettivi rispetto a quelli richiesti
per il soggiorno nei listini statunitensi, oltre che venire applicati con minor rigidità dagli Stock
Exchanges. Nello specifico, emergono i seguenti principali listing standards:
Il capitale sociale non deve essere inferiore ai 50 milioni di RMB (8 milioni di $)69
Il flottante deve avere un valore pari ad almeno il 25% del capitale sociale. Per le
società con capitale eccedente i 400 milioni di RMB (64,2 milioni di $), la percentuale
minima di flottante è fissata al 10%.
L’impresa deve essere operativa da almeno 3 anni, e avere realizzato dei profitti negli
ultimi tre esercizi per un ammontare complessivo non inferiore ai 30 milioni di RMB
(4,8 milioni di $).
Il valore dei net cash flows generati negli ultimi tre esercizi deve essere di almeno 50
milioni di RMB (8 milioni di $), mentre quello dei revenues complessivamente
realizzati nel medesimo periodo superiore ai 300 milioni di RMB (48,2 milioni di $).
Il numero di shareholders detentori di partecipazioni eccedenti i 1.000 RMB (160,6 $)
non deve essere inferiore a 1000.
L’emittente non deve essere stato accusato di aver commesso azioni illegali,
comportamenti poco trasparenti, falsi in bilancio e più in generale essere stato
coinvolto in scandali ed inchieste negli ultimi tre anni.
Ogni altro requisito stabilito dal Consiglio di Stato. A differenza degli Stati Uniti,
dove i mercati borsistici presentano un elevato livello di autoregolamentazione, nei
mercati azionari della Repubblica Popolare Cinese emerge un forte intervento dello
Stato, attraverso il State Council e la CSRC, nei processi di IPO e di delisting delle
68
La versione in inglese è disponibile su: http://www.sse.com.cn/sseportal/en_us/ps/support/en_sserule
20090408.pdf. 69
Rapporto di cambio al 23/11/2012: 1 Renminbi Yuan cinese = 0,161 Dollari USA.
91
società quotate. Questi due organi detengono infatti un significativo potere decisionale
nelle decisioni di ammissione e di revoca di un titolo. A partire dalla fine del primo
decennio del XXI secolo si è registrata tuttavia una riduzione dell’intervento statale
nei mercati regolamentati, con una progressiva apertura di quest’ultimi alle sempre più
numerose società straniere desiderose di quotarsi in Cina.
Dopo di chè emergono i requisiti di carattere qualitativo, che in gran parte riferiscono agli
standard di corporate governance e agli obblighi di natura informativa ai quali generalmente
una public company deve sottostare. Tuttavia, come evidenziato da Yang e Ding (2012) e
Rajagopalan e Zhang (2008), spesso questi standards non quantitativi vengono violati dalle
società quotate nel listino, senza che lo Stock Exchange intervenga assumendo gli opportuni
provvedimenti sanzionatori; ciò aiuta a spiegare la scarsa trasparenza che da sempre avvolge
il mercato borsistico cinese, la quale rappresenta un freno nell’attirare imprese e investitori, e
nel dare un decisivo impulso al grande sviluppo intrapreso da tale mercato negli ultimi tempi,
permettendogli di raggiungere livelli di efficienza e competitività paragonabili a quelli
caratterizzanti i listini USA. L’applicazione degli standard di quotazione, quantitativi e
qualitativi che siano, è quindi tutt’altro che rigorosa, in quanto subordinata fortemente
all’elevata discrezionalità concessa in capo allo Stock Exchange dalla Security Law del 2005.
In altre parole, come asserito dai sopra citati autori, si potrebbe assistere a delle situazioni in
cui società che pur presentando una palese non conformità ad uno o più requisiti di
quotazione, e/o colpevoli di aver adottato comportamenti scorretti o fraudolenti recanti danno
agli investitori e al mercato in generale, rimangono tuttavia quotate per molti mesi o
addirittura anni nel listino, come se niente fosse accaduto. D’altra parte invece, si potrebbero
verificare casi di società che pur rispettando i listing standards e non avendo commesso
alcuna inadempienza o scorrettezza, vengono escluse dalle contrattazioni a seguito di un
semplice annuncio sull’eventuale possibilità di fallimento della società, o anche soltanto per
aver registrato un declino degli utili o del fatturato negli ultimi esercizi, o più in generale
perché il trade volume caratterizzante il loro titolo non è tale da giustificare i costi che lo
Stock Exchange sostiene per quotarlo. Quanto appena emerso può essere esteso a maggior
ragione per gli altri mercati emergenti, e costituisce quindi una criticità non di poco rilievo
che caratterizza il regime legale di delisting, e più in generale di quotazione, in questi Paesi.
Altri problemi significativi caratterizzanti la normativa disciplinante l’abbandono delle
contrattazioni nel mercato regolamentato cinese, sono riconducibili secondo Xue e Cui (2007,
p. 66) a quanto segue:
“The non precise and deficient delisting standard”: le condizioni al verificarsi delle
quali emergono i presupposti di una revoca dalle contrattazioni, ovvero i delisting
92
standards, sono definite in modo poco chiaro e approssimativo dalla normativa
vigente, e non vengono applicate con l’adeguata rigorosità dallo Stock Exchange. In
particolare, i requisiti di carattere qualitativo non sembrano avere una forza vincolante
tale da indurre le imprese a rispettarli.
“The insufficient delisting procedure”: il sistema legale operante tende ad essere
idoneo a regolamentare soltanto i processi di delisting relativi a quelle società che
presentano perdite da tre o più esercizi consecutivi, estendendo erroneamente tale
disciplina anche a tutti gli altri casi di revoca dalle contrattazioni, per molti dei quali
questo iter procedurale di delisting pare inadeguato. In particolare, emerge come i 6
mesi di sospensione concessi ad una società per riorganizzarsi e conformarsi
nuovamente agli standard di quotazione, spesso risultino essere insufficienti. Inoltre, il
ruolo giocato dalla società in un processo di going private sembra essere troppo
passivo, a causa dei pressoché irrisori diritti ad essa concessi nell’opporsi in qualche
maniera alla decisione di revoca assunta dallo Stock Exchange.
“Lack of voluntary delisting institution”: la pressoché totalità dei regimi legali
disciplinanti il fenomeno del delisting nei mercati regolamentati più sviluppati prevede
l’esistenza non soltanto del compulsory delisting, ovvero della revoca involontaria
dalle contrattazioni per decisione vincolante dello Stock Exchange, ma anche del
delisting volontario, riconoscendo ad una società quotata la facoltà di abbandonare di
propria spontanea iniziativa in qualsiasi momento le contrattazioni. La concessione ad
una public company di un tale diritto segnala un elevato livello di maturazione e di
competitività per un mercato regolamento. La normativa disciplinante i processi di
radiation nei mercati borsistici cinesi non prevede questa fattispecie di delisting,
precisando come soltanto lo Stock Exchange abbia il potere di prendere una tale
decisione; ciò rappresenta un ulteriore sintomo dell’arretratezza che caratterizza il
sistema legale di quotazione cinese, così come quello degli altri mercati emergenti,
che dimostrano di non essere ancora al livello di quelli operanti nei Paesi più
sviluppati. L’unica facoltà concessa in tale direzione ad una società quotata è la
possibilità, una volta che lo Stock Exchange ha deliberato la sospensione del titolo per
un periodo di 6 mesi a seguito della mancata conformità da parte della società ad uno
o più requisiti di quotazione, di chiedere la revoca definitiva dalle contrattazioni una
volta decorsi i 6 mesi70
.
70
Come sottolineato nel Cap. 14, sezione 1 della versione in inglese delle regole disciplinanti la quotazione nello
SSE e nello SZSE, disponibile su: http://www.sse.com.cn/sseportal/en_us/ps/support/en_sserule 20090408.pdf.
93
Altri problemi di carattere generale: il mercato regolamentato cinese non ha ancora
raggiunto un livello di maturazione tale da permettergli di svolgere in modo efficace
le funzioni fondamentali richieste ad un mercato borsistico, in particolare quella
informativa; infatti, spesso presenta dei prezzi di mercato che non riflettono
attendibilmente il reale andamento delle società in esso quotate. Il corretto
svolgimento di tale funzione, è compromesso anche dalla già citata mancanza di una
rigorosa e vincolante normativa in tema di disclousure, che impedisce dei trasparenti
flussi informativi.
Esaminando più da vicino la discussa procedura prevista dal regime legale sul delisting
vigente nel mercato azionario cinese71
, Xue e Cui (2007) e Yang e Ding (2012) evidenziano
come, seppur esplicitamente indicata per quelle società in procinto di abbandonare le
contrattazioni a seguito della realizzazione di tre o più perdite d’esercizio consecutive, sia di
fatto applicata indistintamente in tutte quelle situazioni in cui secondo lo Stock Exchange
sussistono i presupposti di un potenziale delisting del titolo. Dallo Shangai e Shenzen Listed
Company Manual, si evince come l’iter che un titolo a rischio revoca deve seguire sia
articolato nelle tre seguenti fasi, di cui la seconda e la terza sono da considerarsi alternative,
ovvero il verificarsi dell’una esclude l’altra:
“Suspension”: qualora una società presenti una palese mancanza di conformità ad uno
o più standard di quotazione, quantitativi o non, e più in generale ogni qual volta lo si
ritenga opportuno, lo Stock Exchange può deliberare la sospensione della quotazione
del titolo per un periodo di 6 mesi, durante il quale la società è tuttavia costretta a
sottostare agli obblighi associati allo status di public company.
“Restores”: se una volta terminato il periodo di sospensione, lo Stock Exchange ritiene
che l’impresa si sia nuovamente conformata ai listing requirements, e che quindi non
sussistano più i presupposti di un potenziale delisting, allora il titolo viene riammesso
alla quotazione e le azioni della società possono costituire nuovamente oggetto di
negoziazione presso il pubblico presente nel mercato. In ogni caso, per almeno un
anno la società verrà sottoposta ad una stretta sorveglianza speciale da parte dello
Stock Exchange e dei suoi organi di vigilanza. Tuttavia, è da precisare che se durante il
periodo di sospensione la società ha fatto richiesta di una revoca definitiva dalle
contrattazioni, non appena scaduti i 6 mesi il titolo viene automaticamente delistato.
Questa rappresenta l’unica fattispecie di delisting volontario riconosciuta dalla
normativa cinese.
71
Tale procedura è contenuta sempre nel sopracitato Cap. 14, sezioni 1,2,3 dello Shangai e Shenzen Listed
Company Manual.
94
“Termination”: nei casi in cui, al termine del periodo di sospensione, lo Stock
Exchange riscontri ancora il mancato rispetto di uno o più standard di quotazione,
oppure se la società aveva in precedenza fatto richiesta di essere revocata, o più in
generale ogni qualvolta esso ritenga per una qualche ragione che la società non sia
idonea ad essere riammessa alle contrattazioni, ne dispone il delisting immediato.
La procedura appena evidenziata ricorre come detto in tutti i frangenti in cui emergono
elementi sufficienti per delistare il titolo di una società, tranne nei casi di scioglimento,
fallimento o M&A, ove la revoca dalle contrattazioni è automatica, senza la concessione di
alcun periodo di sospensione temporanea.
Come già anticipato, l’iter procedurale di radiation è soltanto uno dei numerosi aspetti relativi
alla quotazione in un mercato regolamentato che il regime legale vigente in Cina non
disciplina in modo adeguato. Xue e Cui (2007), Rajagopalan e Zhang (2008), e Yang e Ding
(2012), concordano nel ritenere necessario un intervento nel breve termine da parte degli
organi legislativi, attraverso l’emanazione di nuovi provvedimenti volti a migliorare il sistema
legale che regolamenta il funzionamento dello SSE e dello SZSE, e a contrastare i numerosi
problemi che esso presenta soprattutto in relazione ai processi di delisting, precedentemente
evidenziati. A tal proposito, emerge quindi l’esigenza di stabilire con maggior chiarezza e
precisione i delisting standards, di rendere più flessibile l’attuale procedura di going private
rendendola maggiormente adattabile alle diverse situazioni, di ridurre l’eccessiva
discrezionalità concessa allo Stock Exchange in tale ambito, e d’altra parte di aumentare i
diritti in capo alle società in modo da far loro giocare un ruolo più attivo nei processi di
delisting, concedendo la possibilità di opporsi alle eventuali decisioni di revoca assunte dal
mercato, e soprattutto la facoltà di realizzare in totale autonomia operazioni di abbandono
volontario delle negoziazioni. A livello più generale, i sopra menzionati autori, propongono
inoltre la costruzione, sulla base del modello USA, di una sorta di “multi level stock market”
ovvero di una struttura di mercato altamente integrata composta su tre diversi livelli di
quotazione, caratterizzati da un ordine decrescente di regolamentazione e di selettività, con
l’obbiettivo di permettere anche a quelle società che per una qualche ragione non riescono ad
accedere al mercato regolamentato desiderato o vengono delistate da quello in cui erano
quotate, di poter rendere comunque le proprie azioni negoziabili presso un pubblico rilevante,
accedendo ad un altro mercato regolamentato o ad un OTC market.
Il mercato regolamentato principale, il SSE, riservandolo alle imprese più performanti
e di maggiori dimensioni attraverso l’introduzione di requisiti di quotazione
particolarmente stringenti.
95
Il secondo mercato regolamentato cinese in termini di market capitalization e trade
volume complessivo, il SZSE, disciplinandolo con standard di quotazione meno
rigorosi tali da permettere il soggiorno di imprese caratterizzate da performance non
eccellenti e da una modesta dimensione.
Costituzione di uno o più mercati OTC, altamente deregolamentati e permissivi, in
modo da permettere alle imprese che dimostrano di non essere grado di rispettare i
requisiti di quotazione imposti dai mercati regolamentati, di avere comunque la
possibilità di rendere negoziabili le proprie azioni tra un pubblico rilevante.
La realizzazione di tutti questi interventi dovrebbe rendere il sistema legale cinese
disciplinante i processi di delisting e più in generale il funzionamento dei mercati
regolamentati più simile a quello tipico dei mercati più sviluppati, permettendo al SSE e al
SZSE di beneficiare di notevoli incrementi in termini di efficienza, competitività e prestigio,
consacrandone il significativo sviluppo che hanno conosciuto negli ultimi tempi.
3.3 IL DELISTING NELLA NORMATIVA ITALIANA
In questo paragrafo, dopo un’iniziale quadro generale sulla normativa italiana regolante il
funzionamento del mercato borsistico nazionale, verrà realizzata un’analisi più specifica del
regime legale disciplinante il fenomeno del delisting nel mercato italiano, soffermandosi in
particolar modo sui delisting standards e sulla procedura che deve seguire una società in
procinto di abbandonare le contrattazioni.
A differenza dei regimi legali vigenti nei mercati emergenti, la normativa italiana sul
delisting, così come quelle disciplinanti il fenomeno oggetto di trattazione negli altri Paesi
sviluppati, non si limita a prevedere soltanto il cd. delisting involontario o compulsory
delisting, ovvero quella situazione in cui è lo Stock Exchange a disporre la revoca di un titolo
dalle contrattazioni, ma riconosce anche la facoltà in capo ad ogni società quotata nel listino
di Piazza Affari di assumere, di propria spontanea iniziativa e in qualsiasi istante, la decisione
di uscire dal mercato borsistico. Emergono quindi due diverse fattispecie di delisting,
involontario e volontario, che sono sottoposte ad una diversa regolamentazione. A differenza
di ciò che si è potuto osservare relativamente al mercato statunitense, da quanto evidenziato
dai contributi di Martinez e Serve (2011) e Geranio e Zanotti (2010), la seconda tipologia di
delisting risulta essere quella più ricorrente in ambito europeo, rientrando in tale categoria
anche le M&A e soprattutto le OPA, un’operazione quest’ultima frequentemente realizzata da
numerose imprese del Vecchio continente, spesso proprio con la finalità più o meno esplicita
di abbandonare il mercato regolamentato. Quanto appena asserito emerge anche dallo studio
96
di Geranio (2004), in uno dei pochi significativi lavori, presenti in ambito dottrinale,
incentrati sul fenomeno del going private nel mercato italiano.
Analizzando la struttura e il funzionamento del mercato azionario italiano, è importante
innanzitutto identificare e al contempo distinguere le due principali istituzioni operanti in
esso: Borsa Italiana e CONSOB. Borsa Italiana è una s.p.a. che svolge l’attività di
organizzazione e gestione dei mercati regolamentati nazionali. La sua primaria finalità è
quella di “garantire lo sviluppo e di massimizzare la liquidità, la trasparenza, la competitività
e l’efficienza dei mercati stessi”72
. Un’altra importante funzione riconosciuta a questo ente è
quella legislativa; Borsa Italiana ha infatti il compito di regolamentare il funzionamento dei
mercati, e perciò di definire i listing e delisting standards, ovvero le condizioni e le modalità
di ammissione, sospensione e revoca di un titolo, l’iter procedurale che una società deve
seguire quando fa il proprio ingresso nel mercato e viceversa quando lo sta per abbandonare, e
gli obblighi di natura informativa generalmente associati allo status di public company. La
decisione formale di ammettere, sospendere, o revocare un titolo dalle contrattazioni spetta
soltanto a Borsa Italiana. Alla Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob),
l’altro principale ente operante nel mercato azionario italiano, è riconosciuta invece la
funzione di controllo e vigilanza sull’andamento del mercato, sul rispetto degli standard di
quotazione e delle procedure di ammissione e di revoca, e più in generale di tutto ciò che è
previsto dal Regolamento di Borsa Italiana. Tuttavia, anche questo organo è dotato di potere
legislativo, e principalmente di regolamentare gli obblighi informativi delle società quotate, le
procedure da seguire in sede di IPO, e le prestazioni dei servizi d’investimento73
.
Si procede ora ad analizzare le principali disposizioni contenute nel Regolamento di Borsa
Italiana, soffermandosi dapprima sulla disciplina del delisting involontario, e successivamente
su quella relativa al delisting volontario. Innanzitutto, pare opportuno evidenziare in linea con
quanto rimarcato da Geranio (2004), come Borsa Italiana disponga di un elevato decision
making power, ovvero di una considerevole discrezionalità nel deliberare l’ammissione, la
sospensione e soprattutto la revoca di un titolo, seppur inferiore a quella riscontrata per gli
Stock Exchanges statunitensi; ciò spesso implica che non sempre a seguito della mancata
conformità ad uno o più standard di quotazione una società venga esclusa dalle contrattazioni.
In altre parole, si potrebbero verificare situazioni in cui imprese che, pur mostrando un palese
non rispetto dei requisiti di quotazione, rimangono tuttavia quotate nel listino per mesi o
addirittura anni, come se niente fosse accaduto. Pertanto, anche se sussistono delle condizioni
72
www.borsaitaliana.it 73
Per approfondire i compiti e le funzioni riconosciute a Borsa Italiana e alla Consob vedi: http://www.borsa
italiana.it/notizie/sotto-la-lente/chifacosa.htm, dove viene realizzata una chiara distinzione tra le attività svolte
dalle due istituzioni.
97
da rispettare per poter soggiornare nel mercato regolamentato, occorre precisare come il loro
venir meno non comporta automaticamente il delisting della società, ma costituisce soltanto i
presupposti per una potenziale revoca dalle contrattazioni, spettando in ogni caso a Borsa
Italiana la decisione finale. Questa significativa discrezionalità concessa a Borsa Italiana, se
da una parte potrebbe presentare dei risvolti positivi, impedendo a società note, sino a poco
tempo prima caratterizzate da ottime performance, e con un passato rilevante, di essere
costrette ad uscire dal mercato soltanto per il mancato rispetto di uno standard di quotazione,
o a seguito di una semplice crisi passeggera, dall’altra spesso comporta un trattamento non
egalitario delle società quotate, tendendo Borsa Italiana a privilegiare le grandi e prestigiose
imprese a scapito delle small caps, che vengono abbandonate al loro destino.
Realizzata questa doverosa premessa, si può ora analizzare nello specifico la normativa
italiana sul delisting. Borsa Italiana “può disporre la sospensione dalla quotazione di uno
strumento finanziario, se la regolarità del mercato dello strumento stesso non è
temporaneamente garantita o rischia di non esserlo ovvero se la richieda la tutela degli
investitori”74
; in alternativa, può deliberare nelle situazioni più gravi “la revoca dalla
quotazione di uno strumento finanziario, in caso di prolungata carenza di negoziazione ovvero
se reputa che, a causa di circostanze particolari, non sia possibile mantenere un mercato
normale e regolare per tale strumento”75
.
Borsa Italiana definisce la sospensione di un titolo come “un’interruzione non programmata
del normale processo di contrattazione di uno strumento finanziario”76
. Gli elementi
considerati per legge rilevanti ai fini dell’emergere dei presupposti di una potenziale
sospensione del titolo dalle negoziazioni disposta da Borsa Italiana sono: “la diffusione o
mancata diffusione di notizie che possono incidere sul regolare andamento del mercato;
l’azzeramento del valore nominale delle azioni con contemporanea delibera di aumento al di
sopra del minimo legale; l’ammissione dell’emittente a procedure concorsuali; lo
scioglimento dell’emittente; il giudizio negativo della società di revisione, ovvero
l’impossibilità per la società di revisione di esprimere un giudizio, per due esercizi
consecutivi”77
. Marcotti (2011), sottolinea come il fenomeno della sospensione temporanea di
un titolo dalla quotazione sia particolarmente ricorrente nel mercato regolamentato italiano, e
ritiene opportuno distinguere tra sospensione discrezionale e sospensione automatica. Una
sospensione del primo tipo è deliberata espressamente da Borsa Italiana in presenza di
74
Art. 2.5.1 comma 1, lettera a del Regolamento di Borsa Italiana. 75
Art. 2.5.1 comma 1, lettera b del Regolamento di Borsa Italiana. 76
http://www.borsaitaliana.it/bitApp/glossary.bit?target=GlossaryDetail&word=Sospensione%20delle%20Nego
ziazioni. 77
Art. 2.5.2 comma 2 del Regolamento di Borsa Italiana. Viene fatto un elenco delle potenziali cause di
sospensione di un titolo dalla quotazione.
98
circostanze che potrebbero compromettere il regolare funzionamento delle contrattazioni,
quali per esempio l’assenza di notizie riguardanti la società. Borsa Italiana può inoltre
decidere per una sospensione discrezionale di un titolo ogni qual volta ritiene anomalo
l’andamento delle negoziazioni che lo riguardano, non solo in riferimento al prezzo ma anche
alle quantità, o in presenza di segnalazioni da parte di altri operatori di mercato circa
l’adozione di comportamenti irregolari da parte della società. Nell’altro caso invece, la
sospensione avviene automaticamente al verificarsi del superamento di determinate soglie di
variazione del prezzo del titolo, più precisamente a seguito di incrementi o decrementi
superiori al 10%, senza che avvenga un intervento esplicito di Borsa Italiana78
.
In aggiunta a quanto sinora evidenziato, la normativa regolante il fenomeno delle sospensioni
asserisce che “qualora nel periodo in cui uno strumento finanziario è sospeso dalla quotazione
si siano verificate modifiche sostanziali nella situazione economico, patrimoniale o finanziaria
dell’emittente, Borsa Italiana può subordinare la revoca del provvedimento di sospensione,
nel solo interesse della tutela degli investitori, alle condizioni particolari che ritenga
opportune, nei limiti delle competenze di cui all’art. 2.1.2 del Regolamento e che siano
esplicitamente comunicate all’emittente”79
.
Indagando sui cd. delisting standars, è bene evidenziare innanzitutto come il delisting di un
titolo possa essere determinato dal venire meno di una qualche requisito di quotazione. Il
Regolamento di Borsa Italiana, in linea con quanto appurato relativamente ai mercati
regolamentati USA, prevede dei requisiti formali e sostanziali da rispettare per potere
soggiornare nel listino. A seguito della privatizzazione della Borsa avvenuta nel 1998, i
requisiti formali si sono evoluti in direzione di una minor rigorosità e un maggior peso di
quelli sostanziali. I requisiti formali previsti in capo all’Emittente sono “la capacità di
generare ricavi in condizioni di autonomia gestionale, la pubblicazione e il deposito degli
ultimi tre bilanci annuali, la sottoposizione dell’ultimo bilancio a revisione contabile”. I
requisiti formali che devono invece caratterizzare le azioni di una società quotata sono i
seguenti: “libera trasferibilità, flottante pari ad almeno il 25% del capitale, numero minimo di
azioni pari a 100.000, capitalizzazione di mercato di almeno 5 milioni di Euro, gestione
accentrata presso Monte Titoli in forma de materializzata”80
. I requisiti sostanziali riferiscono
alla reali prospettive di crescita del business dell’impresa, alla sua solidità finanziaria e
capacità di produrre reddito, e alla trasparenza nella contabilità e nella corporate governance.
78
Un’accurata distinzione tra sospensioni discrezionali e automatiche è fornita anche da http://www.borsa
italiana.it/bitApp/glossary.bit?target=GlossaryDetail&word=Sospensione%20delle%20Negoziazioni. 79
Art. 2.5.1 comma 3 del Regolamento di Borsa Italiana. 80
http://www.andreabiancalani.it/borsa.pdf.
99
Considerato quanto sopra detto, dall’elenco delle condizioni al verificarsi delle quali
emergono i presupposti di una potenziale revoca di un titolo dalle contrattazioni, contenuto
nell’art. 2.5.1 comma 7 del Regolamento di Borsa Italiana, si evince che se una volta decorsi i
diciotto mesi dall’adozione del provvedimento di sospensione non sono venuti meno i motivi
che avevano spinto Borsa Italiana ad emanarlo, quest’ultima ha la facoltà di deliberare il
delisting del titolo, ovvero la sua definitiva rimozione dal listino. Nelle situazioni più gravi
infatti, la sospensione risulta essere un provvedimento insufficiente, e la più opportuna
decisione che Borsa Italiana può prendere in questi casi è quella di revocare il titolo. Come
già anticipato, anche nell’assumere una tale decisione essa dispone di un elevato potere
discrezionale; in particolare, come evidenziato da Martinez e Serve (2011) nella loro analisi
del fenomeno del public to private nei mercati borsistici dell’Europa Continentale, e da
Geranio (2004) specificatamente per il mercato regolamentato italiano, spesso lo Stock
Exchange decide di revocare un titolo dalle contrattazioni soltanto perché presenta un
andamento anomalo ed instabile del prezzo, o a seguito di comportamenti della società
considerati scorretti o poco trasparenti, o perché più in generale si ritiene che il titolo sia
caratterizzato da un trade volume ritenuto non sufficiente a giustificare i costi che la Borsa
sostiene per quotarlo. In ogni caso, la normativa italiana sul tema stabilisce come Borsa
Italiana, prima di assumere un qualsiasi provvedimento di revoca, debba realizzare
un’accurata analisi e valutazione dei seguenti elementi:
“il controvalore medio giornaliero delle negoziazioni eseguite nel mercato e il numero
medio di titoli scambiati, rilevati in un periodo di almeno diciotto mesi;
la frequenza degli scambi registrati nel medesimo periodo;
il grado di diffusione tra il pubblico degli strumenti finanziari in termini di
controvalore e di numero dei soggetti detentori;
l’ammissione dell’emittente a procedure concorsuali;
il giudizio negativo della società di revisione, ovvero l’impossibilità per la società di
revisione di esprimere un giudizio, per due esercizi consecutivi;
lo scioglimento dell’emittente;
la sospensione dalla quotazione per una durata superiore a diciotto mesi”81
.
Questi appena elencati possono considerarsi dei cd. delisting standards, cioè delle condizioni
al verificarsi delle quali possono emergere i presupposti di un potenziale delisting del titolo.
Esaminando la procedura di revoca stabilita dall’art. 2.5.2 del Regolamento di Borsa Italiana,
emerge che se nell’analizzare i sopra evidenziati elementi, Borsa Italiana riscontra l’esistenza
81
L’elenco degli elementi che Borsa Italiana deve valutare prima di deliberare un’eventuale revoca dalle
contrattazioni, è contenuto nell’art. 2.5.1 comma 7 del Regolamento di Borsa Italiana.
100
di sufficienti ragioni per procedere al delisting del titolo, deve inviare “all’emittente una
comunicazione scritta con la quale vengono richiamati gli elementi che costituiscono
presupposto per la revoca e viene fissato un termine non inferiore a 15 giorni per la
presentazione di deduzioni scritte”82
. Il comma 2 dello stesso articolo attribuisce la possibilità
alla società esclusa dalle contrattazioni di chiedere un’audizione a Borsa Italiana, nei modi e
tempi previsti dal Regolamento, per avere una chiarificazione sulle regioni alla base
dell’emanazione del provvedimento di revoca. Se non si verificano particolari stravolgimenti,
rallentamenti od intoppi di varia natura, è prassi che la procedura di revoca giunga a
conclusione entro 60 giorni dalla comunicazione all’emittente del provvedimento, e che
quindi il delisting del titolo acquisisca efficacia entro tale termine. Il comma 5 stabilisce in
qualunque caso l’obbligo in capo a Borsa Italiana di comunicare tempestivamente alla Consob
e al mercato in generale l’avvio della procedura di revoca.
In linea con quanto rimarcato da Geranio (2004), una particolare considerazione merita il
delisting a seguito di un’offerta pubblica di acquisto (OPA), che seppur deliberato
formalmente da Borsa Italiana, deve essere tuttavia considerato una fattispecie di delisting
volontario. Da quanto emerge dal contributo di Martinez e Serve (2011), questa operazione è
molto ricorrente nei mercati regolamentati dell’Europa Continentale, ove spesso si verifica
che gli azionisti di maggioranza dell’impresa, ovvero coloro che avevano in precedenza
deciso di realizzare il going public rendendo il suo equity negoziabile presso il pubblico, siano
li stessi a promuovere successivamente il riacquisto della totalità delle azioni in circolazione,
comportando il venir meno di uno dei requisiti minimi più importanti richiesti per la
quotazione, quello del flottante. Per flottante si intende la quantità di azioni della società
liberamente negoziabili nel mercato, e quindi non facenti parte della partecipazione di
controllo detenuta dagli azionisti di maggioranza; secondo gli standard fissati da Borsa
Italiana, il flottante minimo richiesto per poter soggiornare sul listino di Piazza Affari deve
essere pari ad almeno il 25% del capitale sociale. Il regolamento di Borsa Italiana, nell’art.
2.5.1 comma 8, dispone la revoca immediata dalla quotazione in tutti quei frangenti in cui
venga esercitato l’obbligo di acquisto previsto dall’art. 108, comma 1 e 2, del Testo Unico
della Finanza (TUF) gravante su chi detiene più del 90% del capitale sociale, o d’altro canto,
il diritto di squeeze out riconosciuto dall’art. 111 del TUF.
Analizzando più approfonditamente la normativa nazionale sul tema, occorre evidenziare
innanzitutto come l’OPA presenti un periodo di tempo ben definito entro il quale è possibile
aderirvi. Nello specifico, l’art. 40 punto 2 b del Regolamento Emittenti della CONSOB
stabilisce che il periodo di adesione debba andare da un minimo di 15 giorni ad un massimo
82
Art. 2.5.2 comma 1 del Regolamento di Borsa Italiana.
101
di 25 giorni. Tuttavia, si precisa che “la Consob, sentiti l’offerente e la società di gestione del
mercato, può, con provvedimento motivato da esigenze di corretto svolgimento dell’offerta e
di tutela degli investitori, prorogarne la durata, anche più volte, fino ad un massimo di
cinquantacinque giorni”. Con la finalità di garantire il regolare esito dell’operazione e di
tutelare il mercato e gli investitori, il D. Lgs. 24/02/98, n. 58, meglio conosciuto come Testo
Unico della Finanza (TUF), dispone numerose altre norme disciplinanti i vari aspetti
dell’operazione, e ispirate ai principi di correttezza e trasparenza. In particolare, si segnalano i
diversi obblighi di natura informativa verso la CONSOB e il mercato, previsti dall’art. 102 del
TUF e specificati dall’art. 37 del Regolamento CONSOB; questo, nell’art. 37 bis, stabilisce
inoltre l’obbligo in capo all’offerente di apporre idonee garanzie al mantenimento degli
impegni presi e al pagamento del corrispettivo agli azionisti alienanti, e negli artt. 41 e 42
impone ai soggetti coinvolti nell’operazione l’adozione di comportamenti leali e trasparenti.
Da quanto previsto dal TUF sembrano emergere sei differenti operazioni di OPA:
1. OPA successiva totalitaria. L’art. 106 del TUF comma 1, dispone che “chiunque
venga a detenere una partecipazione superiore alla soglia del 30%” del capitale
sociale, ha l’obbligo di promuovere un’offerta pubblica di acquisto sulla totalità delle
azioni out standing della società. Il comma 2 aggiunge che “l'offerta è promossa entro
trenta giorni a un prezzo non inferiore alla media aritmetica fra il prezzo medio
ponderato di mercato degli ultimi dodici mesi e quello più elevato pattuito nello
stesso periodo dall'offerente per acquisti di azioni della medesima categoria”.
2. OPA preventiva totalitaria. L’art. 107 del TUF stabilisce che chiunque miri ad
acquisire una quota del capitale sociale di una società quotata superiore al 30% deve
fare un’offerta a tutti gli azionisti in essere.
3. OPA preventiva parziale. L’art. 107 del TUF prevede la possibilità di lanciare
un’offerta sul solo 60% del capitale sociale in presenza del verificarsi di una delle
seguenti condizioni: l’offerente non abbia acquistato partecipazioni superiori all’1%
nei dodici mesi precedenti alla comunicazione dell’offerta alla CONSOB;
l’approvazione da parte della maggioranza dell’assemblea dei soci, alla quale però
non possono partecipare il socio offerente, il socio di maggioranza e i soggetti ad essi
legati da uno dei rapporti indicati nell’art. 109 comma 1 TUF83
.
4. OPA a cascata. L’art. 45 del Regolamento CONSOB prevede che chiunque arrivi a
detenere, seppur indirettamente, una partecipazione superiore al 30% del capitale
sociale di una società quotata, abbia comunque l’obbligo di lanciare un’OPA sulla
totalità delle azioni ordinarie della stessa. Con tale disposizione, il legislatore vuole
83
Per esempio: patti parasociali, società controllate o collegate.
102
contrastare coloro che mirano ad acquisire il controllo di una società quotata
attraverso l’acquisto della sua controllante non quotata, eludendo così quanto previsto
dall’art. 107 del TUF.
5. OPA residuale o obbligo di acquisto. L’art. 108 del TUF stabilisce che “chiunque
venga a detenere una partecipazione superiore al novanta per cento delle azioni
ordinarie” debba promuovere un'offerta pubblica di acquisto sulla totalità delle azioni
sociali residue in circolazione “al prezzo fissato dalla Consob”, a meno chè non
provveda a ripristinare “entro centoventi giorni un flottante sufficiente ad assicurare il
regolare andamento delle negoziazioni”.
6. OPA di concerto o acquisto di concerto. L’art. 109 del TUF dispone che sono
solidalmente sottoposti agli obblighi ex art. 106 TUF e art. 107 TUF, anche se la
partecipazione è stata acquisita a titolo oneroso soltanto da uno solo di essi, i seguenti
soggetti: “gli aderenti a un patto, anche nullo, previsto dall'articolo 122; un soggetto e
le società da esso controllate; le società sottoposte a comune controllo; una società e i
suoi amministratori o direttori generali”.
Risulta importante ribadire inoltre, come l’art. 111 del TUF preveda l’istituto giuridico dello
squeeze out, riconoscendo in capo all’offerente che, a seguito di un’OPA totalitaria arriva a
detenere più del 95% del capitale sociale, il diritto di acquistare le azioni residue, a condizione
che abbia dichiarato l’intenzione di avvalersene nel documento di offerta entro tre mesi
dall’inizio dell’OPA. Lo squeeze out è un importante diritto riconosciuto a tutela
dell’offerente in molti ordinamenti dei Paesi europei, e qualora venga da questi esercitato fa
sorgere in capo agli altri azionisti della società l’obbligo di cedere le azioni in loro possesso in
cambio di un corrispettivo. L’art. 111 del TUF stabilisce a tal proposito che il prezzo di
cessione, considerato il carattere espropriativo che assume in questo frangente il trasferimento
delle azioni, venga determinato da un esperto nominato dal tribunale, tenendo tuttavia conto
del prezzo di mercato degli ultimi sei mesi e del prezzo di offerta.
Quanto previsto dalla normativa italiana sull’OPA e appena analizzato, è conseguenza della
direttiva CE n. 25 del 21 Aprile 2004, che con l’obbiettivo di armonizzare le differenti
regolamentazioni nazionali in tema di OPA, ha stabilito dei principi fondamentali e delle linee
guida che i Paesi membri della Comunità hanno dovuto seguire nel disciplinare i vari aspetti
dell’operazione.
Geranio (2004) sottolinea un altro caso che è da considerarsi a tutti gli effetti una fattispecie
di going private volontario anche se la decisione di delisting viene formalmente assunta da
Borsa Italiana, seppur senza alcuna discrezionalità: la fusione per incorporazione. Infatti, una
103
società è cosciente, che qualora venisse incorporata in un’altra società, sarebbe costretta ad
abbandonare il listino, venendo meno la sua autonomia e più in generale la propria identità.
Oltre a prevedere e disciplinare l’istituto del delisting involontario, e a stabilire la revoca
immediata dalle contrattazioni a seguito delle operazioni di OPA e Fusioni, la normativa
italiana considera anche l’ipotesi di esclusione dal mercato su esplicita richiesta della società,
che può essere ritenuta la vera e propria fattispecie di delisting volontario. L’art. 133 del TUF
stabilisce quanto segue: “Le società italiane con azioni quotate nei mercati regolamentati
italiani, previa deliberazione dell'assemblea straordinaria, possono richiedere l'esclusione
dalle negoziazioni dei propri strumenti finanziari, secondo quanto previsto dal regolamento
del mercato, se ottengono l'ammissione su altro mercato regolamentato italiano o di altro
paese dell'Unione Europea, purché sia garantita una tutela equivalente degli investitori,
secondo i criteri stabiliti dalla Consob con regolamento”. L’art. 2.5.6 del Regolamento di
Borsa Italiana, dopo aver riconosciuto in capo ad ogni società il diritto di abbandonare
volontariamente in qualsiasi momento le contrattazioni, disciplina la procedura che una
società deve seguire per portare a compimento tale operazione. Nel comma 1 del sopra citato
articolo si stabilisce l’obbligo in capo alla società che mira ad uscire dal mercato
regolamentato di inviare “apposita richiesta scritta” a Borsa Italiana, nei modi e nei tempi
indicati dai commi successivi. Nello specifico, il comma 2 stabilisce che la società emittente
alleghi alla domanda di esclusione i seguenti documenti:
“delibera dell’assemblea straordinaria di richiesta di esclusione dalle negoziazioni;
attestato dell’ammissione a quotazione in altro mercato regolamentato italiano o di
altro Paese dell’Unione Europea;
parere legale circa l’esistenza nel mercato di quotazione di una disciplina dell’offerta
pubblica di acquisto obbligatoria applicabile all’emittente ovvero parere favorevole,
rilasciato dalla Consob, circa l’esistenza di altre condizioni atte a garantire una tutela
equivalente agli investitori. Tali pareri sono da allegare solo quando la richiesta di
esclusione riguarda le azioni ordinarie”.
Dalla presentazione della richiesta all’effettiva esclusione dalle contrattazioni trascorrono di
norma almeno 90 giorni84
, e precedentemente alla realizzazione del delisting, sia la Borsa
Italiana che la società hanno l’obbligo di comunicare, seppur con tempi e modalità differenti,
la notizia al mercato.
A conclusione del capitolo sembra opportuno proporre la seguente Figura 5, nella quale
vengono riepilogati i principali connotati caratterizzanti il regime legale di delisting nei tre
84
Art. 2.5.6 comma 3 del Regolamento di Borsa Italiana.
104
diversi contesti economici, politici e culturali considerati, evidenziandone analogie e
differenze, e rimarcandone i maggiori problemi.
FIGURA 5: TRE DIVERSI REGIMI LEGALI DI DELISTING A CONFRONTO
USA CINA ITALIA
Nascita del Regime
Legale di delisting
1933-1934 →Security
Exchange Acts
2003 → SOX: innalzamento
dei listing e delisting standards
2001→ Primo caso di
delisting
2005 → nuova Security
Law: modifica dei listing e delisting standards
1998 → Introduzione del
Regolamento di Borsa Italiana
e del D. lgs. del 24/02/1998
(TUF)
Grado di discrezionalità
concessa allo Stock
Exchange nelle decisioni
di ammissione e di revoca
ELEVATO MEDIO ELEVATO
Livello di
autoregolamentazione del
mercato
ALTO BASSO MEDIO
Disciplina dei processi di
delisting
Disciplinati ad hoc a seconda delle motivazioni alla base
della potenziale revoca, delle
caratteristiche dell'impresa e
delle condizioni attuali del mercato
Applicazione della Regulation about Loss
Company to Suspend and
Terminate Trading on The
Market indistintamente a tutti i casi di delisting
→ grave inefficienza
Lo Stock Exchange non ha
sufficienti competenze e maturità per poter disciplinare
efficacemente ad hoc i diversi
processi di delisting → elevata
attinenza a quanto previsto dal Regolamento e
categorizzazione delle ipotesi
Ruolo delle Società nei
processi di delisting
involontario
ATTIVO: diritto di chiedere
audizione allo Stock Exchange, e in certi casi di
contestare il provvedimento di
revoca chiedendo la
riammissione alle contrattazioni
PASSIVO: nessun diritto
PARZIALMENTE ATTIVO:
diritto di chiedere un'audizione
allo Stock Exchange
Riconoscimento
dell'istituzione del
delisting volontario
Possibilità per la società di richiedere in qualsiasi istante e
incondizionatamente la revoca
dalle contrattazioni
Assenza dell'istituzione del
delisting volontario
Riconoscimento della facoltà di richiedere un delisting
volontario ma subordinata al
verificarsi di determinate
condizioni
Listing e delisting
standards
Definiti in modo chiaro e preciso, particolarmente
rigorosi e selettivi
Definiti in modo
approssimativo, e applicati con scarsa rigorosità da
parte dello Stock Exchange
Definiti in modo abbastanza
chiaro e preciso, tuttavia eccessivamente permissivi e
talvolta imposti con poca
rigorosità
Obblighi in tema di
disclousure
Stringenti obblighi di carattere
informativo per le listed companies e rilevanti sanzioni
in caso di inadempimento
→ elevata trasparenza dei
mercati
Frequente inadempimento
da parte delle società
quotate degli obblighi in
tema di disclousure
→ poca trasparenza dei
mercati, scarsa tutela degli investitori
Presenza di diversi obblighi di
natura informativa, tuttavia non
perfetta trasparenza del mercato
come negli USA
Presenza di una multi -
level market structure PRESENTE ASSENTE ASSENTE
Problemi principali
Processo di deregistration
dalla normativa SEC troppo
complesso ed oneroso.
Difficoltà degli Stock
Exchanges nazionali nello
svolgere efficacemente le
Mercato borsistico
caratterizzato da inefficienze e
problemi strutturali, incapace di
105
Applicazione eccessivamente
rigorosa del requisito del prezzo di chiusura superiore
all'1$ → principale causa di
delisting involontario
loro funzioni fondamentali,
in particolare quella informativa; ciò,
accompagnato dai problemi
sopra emersi segnala la non
ancora maturazione di questi mercati emergenti
supportare le small caps, pur
essendo la principale fattispecie imprenditoriale nazionale, e di
attirare le più importanti
imprese estere → scarsa
competitività e basso prestigio
Tabella frutto di una rielaborazione personale delle evidenze emerse nel capitolo.
CONCLUSIONI
Con il presente lavoro si è cercato di far luce sul fenomeno del delisting, che a causa della sua
recente diffusione a livello internazionale e dei limitati contributi dottrinali, soprattutto in
ambito europeo esibisce ancora lati oscuri e sconosciuti. Gran parte degli studi e delle ricerche
disponibili sul tema tendono a focalizzarsi su un singolo mercato regolamentato e,
analizzando un campione di società da esso delistatesi, mirano ad indagare soltanto su alcuni
dei numerosi elementi di interesse presentati dal delisting. Considerata la sempre maggiore
frequenza con cui questo fenomeno tende a manifestarsi e l’importanza che il ruolo giocato da
un tale evento ha nella vita di un’impresa, si è ritenuto pertanto opportuno realizzare
un’accurata analisi teorica trasversale sull’argomento con l’obbiettivo di favorirne una
migliore comprensione, indagando a tutto campo sui principali aspetti di carattere economico
- finanziario, giuridico e culturale connessi al fenomeno del delisting: dalle motivazioni più
ricorrenti alla base di una sua manifestazione, alle fisionomie e alle caratteristiche con cui
tende a presentarsi, dagli effetti che produce sulla società, su i suoi azionisti e sul mercato, a
come viene regolamentato a livello internazionale.
Innanzitutto, si è cercato di dare una definizione ben precisa al delisting, considerandolo come
la rimozione permanente di un titolo azionario dal mercato regolamentato ove era quotato, per
poi analizzarne i trend che ha assunto nel tempo; a tal proposito, è emerso come grandi ondate
di delistings si siano verificate nei principali listini mondiali successivamente a due
considerevoli periodi di hot market caratterizzati da numerose IPOs: negli anni 2000 - 2003 a
seguito dello scoppio della dot.com bubble e successivamente al 2007 con l’esplosione della
crisi economico - finanziaria.
Le principali driving forces alla base della rilevante espansione del fenomeno in esame sono
in gran parte da ricondursi al verificarsi dei sopra citati eventi macroeconomici negativi che,
da una parte hanno determinato numerosi problemi di carattere strutturale ed inefficienze
varie alla pressoché totalità dei mercati regolamentati, e dall’altra hanno generato un
106
progressivo deterioramento dello stato di salute economico – finanziario delle public
company; un ruolo importante nel favorire un numero crescente di revoche dalle
contrattazioni è stato tuttavia giocato anche dall’introduzione nei primissimi anni Duemila di
standard di quotazione più selettivi e rigorosi, che congiuntamente alle circostanze sopra
evidenziate hanno reso sempre più difficile per una società mantenere lo status di impresa
quotata. Nel corso della trattazione è emerso quanto sia sottile il filo che intercorre tra due
fenomeni tra loro opposti: il listing e il delisting; da un momento all’altro, il verificarsi di una
qualche circostanza può comportare il venir meno dei vantaggi associati allo status di public
company e quindi delle motivazioni che avevano spinto la società a quotarsi nel mercato
regolamentato, costituendo così i presupposti per una revoca dalle contrattazioni, sino a poco
tempo prima considerata un’ipotesi remota. Tuttavia è opportuno precisare come la
sopravvenuta mancata realizzazione dei benefici teoricamente conseguibili con il listing
spesso non sia sufficiente a determinare il delisting di una società; prima di assumere una
decisione così importante, generatrice di rilevanti cambiamenti organizzativi, una società deve
infatti considerare anche un altro importante aspetto, ovvero i costi richiesti per il proseguo
della quotazione. A tal proposito, è emerso come con l’esplosione della crisi economico –
finanziaria nel 2007 e con il generale innalzamento dei requisiti minimi di quotazione nei
principali mercati regolamentati mondiali si sia registrato un notevole incremento dei costi,
diretti ed indiretti, richiesti per il soggiorno in un mercato regolamentato; ciò, congiuntamente
alle sempre maggiori difficoltà incontrate nel realizzare i listing benefits ha comportato un
sostanziale peggioramento del trade off tra i costi e i benefici di quotazione, costituendo i
presupposti per un numero crescente di delistings.
Un altro elemento che merita attenzione è il differente approccio alla quotazione in un
mercato borsistico che contraddistingue le imprese europee rispetto a quelle nord americane;
dal presente lavoro è emerso come questo fattore giochi un ruolo importante nello spiegare il
motivo per cui le prime presentino maggiori difficoltà nel soggiornare con successo nel listino
rispetto alle seconde. Nei maturi e consolidati mercati anglosassoni le imprese, in virtù di una
cultura imprenditoriale più avanzata e di una maggior efficienza dei mercati regolamentati,
considerano il going public come una fase naturale del loro ciclo di vita ritenendola spesso
uno step fondamentale per poter espletare il proprio processo di crescita ed espansione e per
riuscire a godere di alcuni importanti benefici. Nei mercati dell’Europa continentale, le
imprese risultano essere invece generalmente meno propense a rendere il proprio equity
negoziabile in un mercato regolamentato, poiché spesso, a causa dell’arretratezza culturale e
dell’avversione verso i cambiamenti organizzativi che le caratterizzano, tendono a percepire
maggiormente gli svantaggi che i vantaggi connessi alla quotazione; pertanto preferiscono
107
conservare lo status di private company, o in alternativa accedono alle contrattazioni soltanto
per rispondere a iniziative dei competitors, o in ogni caso senza un’adeguata pianificazione
della listing strategy, vedendosi costrette ad uscire dopo poco tempo dal listino. Con specifico
riferimento al mercato italiano, emerge come molte imprese siano caratterizzate da ridotte
dimensioni in termini di assets ed equity, e da una proprietà altamente concentrata nelle mani
della famiglia fondatrice; ciò ostacola la loro quotazione. Queste small caps a conduzione
familiare, che hanno giocato un ruolo chiave nel grande sviluppo registrato dall’economia
nazionale negli anni ‘70 e ’80, mostrano oggi rilevanti inefficienze, carenze di flessibilità e di
capacità innovativa e pertanto notevoli esigenze ristrutturali; questi fattori si riflettono in
performance nel mercato regolamentato assai scadenti, contribuendo a determinare un
crescente numero di delistings dal listino di Piazza Affari.
La crisi economico - finanziaria ha inoltre fatto emerge alcune inefficienze e problemi di
carattere strutturale che caratterizzano i mercati regolamentati dell’Europa continentale, e che
impediscono di creare le condizioni ottimali per permettere alle società quotate un soggiorno
profittevole e duraturo nel listino. L’elevata volatilità dei prezzi azionari ha invece
determinato un crollo della fiducia degli investitori e pertanto un netto calo dei trade volumes
all’interno dei mercati, con conseguente deterioramento del loro stato di liquidità.
Nel presente lavoro è emerso come le motivazioni ricorrenti alla base di un delisting possano
essere le più svariate, e cambino notevolmente a seconda che la revoca dalle contrattazioni sia
volontaria o meno. Ecco che, qualora ci si trovi dinanzi alla finalità più o meno esplicita della
società di uscire dal mercato, le determinanti del delisting possono, tra le tante, essere la
necessità di acquisire una flessibilità gestionale e strategica tale per poter implementare un
qualche programma di ristrutturazione organizzativa, il raggiungimento degli obbiettivi
prefissati dalla strategia di quotazione o viceversa il suo fallimento, un trade off tra i costi e i
benefici di quotazione ritenuto non soddisfacente, o ancora la realizzazione di un’operazione
di OPA o di Fusione. Queste driving forces della revoca da un listino sono più frequenti nei
mercati dell’Europa continentale, dove prevalgono nettamente le operazioni di delisting
volontario. Il fenomeno del delisting involontario invece assume particolare rilevanza nei
mercati anglosassoni, e specialmente in quelli statunitensi nei quali con l’introduzione del
Sarbanes Oxley Act nel 2003 sono stati stabiliti standard di quotazione estremamente rigidi
rendendo sempre più difficile ed oneroso soggiornare in essi. Anche le motivazioni
potenzialmente in grado di far sorgere una decisione di revoca dello Stock Exchange
presentano un elevato livello di eterogeneità; nello specifico, si può assistere ad un delisting
involontario a causa del mancato rispetto da parte della società di un qualche standard di
quotazione, o dell’adozione da parte della stessa di un comportamento considerato scorretto e
108
dannoso per il pubblico presente nel mercato, o nel caso di suo fallimento, e più
semplicemente ogniqualvolta lo Stock Exchange ritenga che non ci siano più le condizioni
perché la società possa conservare lo status di public company.
Un’altra importante differenza emersa tra i delisting di stampo anglosassone e quelli di tipo
continentale riguarda la diversa operazione di going private che tende solitamente a
determinare il delisting, più o meno espressamente ricercato, di una società quotata. Nei
mercati USA e UK spesso un’operazione di public to private assume la forma di LBO, mentre
nei mercati dell’Europa continentale più ricorrente è il BOSO; come evidenziato nel secondo
capitolo della trattazione queste due diverse tipologie di OPA sono figlie di due differenti
culture d’impresa, e si contraddistinguono tra le tante cose per i differenti soggetti che le
promuovono, per la struttura dell’operazione, per le finalità perseguite e per le conseguenze
generate sulla struttura proprietaria e sulla corporate governance della società.
Dall’indagine condotta su quei fattori considerati critici per il successo di una strategia di
quotazione e pertanto potenzialmente in grado di allontanare dalla società il pericolo di
incorrere in un eventuale delisting, emerge innanzitutto la capacità della stessa di attirare sin
dal suo ingresso nel mercato l’attenzione di analisti ed investitori in modo da garantire
stabilmente elevati trade volumes sul proprio titolo, condizione fondamentale per realizzare i
listing benefits. Da qui la tendenza diffusa del management delle società quotate di attuare una
manipolazione degli utili di bilancio, i quali avendo una forte valenza informativa circa le
performance economico – finanziarie dell’impresa producono significativi effetti sul prezzo di
mercato del titolo della stessa; questa pratica, ricorrente soprattutto in sede di IPO è da
ritenersi totalmente inopportuna, oltre che illegale, poiché generalmente l’asimmetria
informativa tra insiders e outsiders si affievolisce con il passare del tempo e il mercato tende
così a scoprire la reale situazione economico – finanziaria dell’impresa, e a punire il suo
comportamento scorretto inducendola nei casi più gravi ad abbandonare le contrattazioni.
Dagli studi considerati è emerso come molto importante sia per la società quotanda
presentarsi al mercato con dei buoni fundamentals, segnali di un quantomeno accettabile stato
di salute economico – finanziario, per poter aspirare ad una quotazione profittevole e duratura.
Altri importanti fattori critici per una quotazione di successo sono da ritenersi la size
dell’impresa, misurabile con il valore degli assets e dell’equity, il suo grado di commitment
nel mercato evidenziato dall’entità dei capital risings effettuati successivamente all’IPO, e il
suo livello di prestigio e notorietà.
La mancata realizzazione di una o più delle sopra evidenziate condizioni può compromettere
la permanenza nel listino della società, determinandone il delisting, un evento che produce
effetti assai negativi per la società, per i suoi azionisti e per il mercato stesso. È infatti emerso
109
chiaramente come a seguito della revoca dalle negoziazioni, la società assista ad una drastica
riduzione del valore del proprio titolo e perciò dell’Entreprise Value, accompagnata da un
significativo peggioramento del proprio stato di liquidità e più in generale dalla perdita di tutti
i listing benefits. Il mercato, d’altra parte, assiste ad una riduzione della market capitalization
e del trade volume complessivo, e nel caso in cui la società delistata fosse caratterizzata da un
particolare livello di notorietà, anche a rilevanti perdite in termini di prestigio e attrattività.
Pertanto, anche se parte minoritaria della dottrina tende ad evidenziare gli effetti positivi
connessi al fenomeno del delisting, considerandolo una sorta di processo periodico di pulizia
dei mercati azionari necessario per eliminare le low quality companies potenzialmente in
grado di minare l’efficienza e la competitività dei mercati, e la soluzione ottimale per quelle
imprese che presentano performance altamente peggiorative, pare opportuno in sede di
conclusione ritenere in ogni caso quest’ultimo una minaccia da allontanare piuttosto che un
evento favorevole da ricercare.
Dall’analisi dei regimi legali disciplinanti il delisting in tre diversi contesti economici, politici
e culturali, oltre ai problemi peculiari caratterizzanti ciascuna normativa considerata, è emersa
l’esigenza generale di semplificare le complesse ed onerose procedure che una società in
procinto di abbandonare un mercato regolamentato deve seguire per poter realizzare
effettivamente il delisting e liberarsi dai vari obblighi connessi allo status di società quotata.
Un altro prioritario intervento dovrebbe essere realizzato con l’obbiettivo di ridurre
l’eccessiva discrezionalità concessa agli Stock Exchanges nell’assumere un provvedimento di
revoca; emergono infatti abitualmente degli utilizzi inadeguati di questo elevato decision
making power, comportando un trattamento non egalitario delle società soggiornanti nei
listini.
Al fine di contrastare la crescita sempre più preoccupante del fenomeno del delisting, i vari
mercati regolamentati mondiali, seppur in quelli più sviluppati si sia registrata già
un’inversione di tendenza in tal senso, dovrebbero realizzare una più accurata selezione
durante i processi di IPO delle società che richiedono l’ammissione alle contrattazioni.
Sarebbe infatti opportuno riservare l’ingresso nel mercato soltanto a quelle imprese che
presentano delle reali e significative potenzialità per soggiornare con successo nel listino,
scartando sin da subito le cd. low quality companies. D’altra parte, le stesse società
dovrebbero realizzare una più accurata pianificazione della propria strategia di quotazione,
valutando l’effettiva esistenza della necessità e della convenienza di accedere ad un mercato
regolamentato, non preoccupandosi soltanto del successo dell’IPO ma identificando le azioni
e i cambiamenti da attuare per poter ambire ad una quotazione di successo nel medio lungo
termine, profittevole sia per le stesse che per il mercato.
110
Il lavoro in esame offre anche interessanti elementi di discussione che, considerata la sempre
maggiore diffusione del fenomeno del delisting, necessitano pertanto di essere approfonditi
con ulteriori studi e ricerche sul tema, soprattutto in ambito europeo. Innanzitutto, sarebbe
opportuno identificare quali interventi realizzare nella normativa comunitaria per garantire
una maggior tutela degli azionisti di minoranza nelle operazioni di going private e per
disciplinare con maggior efficacia i complessi processi di delisting. Notevole attenzione
meritano anche i cambiamenti di carattere strutturale che molti listini del Vecchio Continente
dovrebbero adottare per essere in grado di supportare maggiormente le società quotate durante
il loro soggiorno nel mercato e per ripristinare la fiducia degli investitori; in particolare
occorrerebbe soffermarsi sugli interventi da implementare per rendere più agevole la
quotazione delle small caps, molto diffuse nei mercati europei ma che spesso presentano un
elevato rischio di delisting sin dal momento del loro ingresso nel listino.
111
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
BATES, T., LEMMON, M., e LINCK, J., 2006. Shareholder Welfare and Bid Negotiation in
Freeze-Out Deals: Are Minority Shareholders Left Out in the Cold?. Journal of Financial
Economics, 81 (3), pp. 681-708.
BOLLEN, N., e CHRISTIE, W., 2009. Market microstructure of the Pink Sheets. Journal of
Banking & Finance, 33 (7), pp. 1326-1339.
CARNEY, W., 2006. The Costs of Being Public after Sarbanes – Oxley: The Irony of “Going
Private”. Emory Law Journal, 55 (1), pp. 141-160.
CHANDLY, P.R, SARKAR, S.K., e TRIPATHY, N., 2004. Empirical Evidence on the
effects of Delisting from The National Market System. Journal of Economics and Finance, 28
(1), pp. 46-55.
CHAPLINSKY, S., e RAMCHAND, L., 2007. From Listing to Delisting: Foreign Firm’s
Entry and Exit from the U.S. Working paper, Darden School - University of Virginia.
CHARITOU, A., LOUCA, C., e VAFEAS, N., 2007. Boards, ownership structure, and
involuntary delisting from the New York Stock Exchange. Journal of Accounting and Public
Policy, 26 (2), pp. 249-262.
CHEMMANUR, T., e FULGHIERI, P., 1999. A Theory of the Going - Public Decision.
Review of Financial Studies, 12 (2), pp. 249-279.
112
COATES, J., 2007. The Goals and Promise of the Sarbanes-Oxley Act. Journal of Economic
Perspectives, 21 (1), pp. 91-116.
CROCI, E., e DEL GIUDICE, A., 2010. Ownership, Family Control, LBOs, and Country
Effects: An Analysis of European Going-Private Transactions. Working Paper.
DAUGHERTY, M., e GEORGIEVA, D., 2011. Foreign cultures, Sarbanes Oxley Act and
cross-delisting. Working Paper, Opus College of Business - University of St. Thomas,
Minnesota.
DEGREGORI, I., 2011. Il mercato azionario. Menton (Francia): Edizioni R.E.I., pp. 110-124.
DJAMA, C., MARTINEZ, I., e SERVE, S., 2012. What do we know about delistings? A
survey of the literature. Working Paper n. 38, Universitè de Cergy Pontoise, France.
EISDORFER, A., 2008. Delisted firms and momentum profits. Journal of Financial Markets,
11 (2), pp. 160-179.
FAMA, F., e FRENCH, R., 2004. New Lists: Fundamentals and Survival Rates. Journal of
Financial Economics, 73 (2), pp. 229-269.
FAMA, F., e JENSEN, M.C., 1983. Agency Problems and Residuals Claims. Journal of Law
& Economics, 26 (6), pp. 327-349.
FUNGÁČOVÁ, Z., 2007. Can the Market Fix a Wrong Administrative Decision? Massive
Delisting on the Prague Stock Exchange. Working Paper n. 335, CERGE - EI.
113
GERANIO, M., 2004. Il delisting dal mercato azionario italiano: analisi empirica delle cause
e delle conseguenze. Paper n. 7, Università Bocconi, Milano.
GERANIO, M., e ZANOTTI, G., 2010. Equity Market Do Not Fit All: an Analysis of Public
to Private Deals in Continental Europe. European Financial Management, 16 (2), pp. 867-
895.
HEALY, P., e WAHLEN, J., 1999. Review of the earnings management literature and its
implications for standard setting. Accounting Horizons, 13 (4), pp. 365-383.
HELWEGE, J., e LIANG, N., 2004. Initial Public Offering in Hot and Cold Markets. Journal
of Financial and Quantitative Analysis, 39 (3), pp. 541-569.
JENSEN, M., e MECKLING, 1976. Theory of the Firm: Managerial Behavior, Agency Costs,
and Ownership Structure. Journal of Financial Economics, 3 (4), pp. 305-360.
KAPLAN, S., 1989. The effects of management buyouts on operating performance and value.
Journal of Financial Economics, 24 (1), pp. 217-254.
KAROLYI, A., 1998. Why do companies list shares abroad? A survey of the evidence and its
managerial implications. Financial Markets, Institutions & Instruments, 7 (1), pp. 1-60.
KAROLYI, A., 2006. The world of cross-listings and cross-listings of the world: challenging
conventional wisdom. Review of Finance, 10 (1), pp. 99-152.
KING, M., e MITTOO, U., 2007. What companies need to know about international cross -
listing. Journal of Applied Corporate Finance, 19 (4), pp. 60-74.
114
KOLLER, T., GOEDHART, M., e WESSELS, D., 2010. Valuation. Chicago: Mc Kinsey &
Company, pp. 232-266.
LEUZ, C., NANDA, D., e WYSOCKI, P. D, 2003. Earnings management and investor
protection: An international comparison. Journal of Financial Economics, 69 (3), pp. 505-
527.
LEUZ, C., TRIANTIS, A., e WANG, T., 2008. Why Do Firms Go Dark? Causes and
Economic Consequences of Voluntary SEC Deregistration. Journal of Accounting and
Economics, 45 (2-3), pp. 181-208.
LEVINE, R., e ZERVOS, S., 1998. Stock Markets, Banks, and Economic Growth. The
American Economic Review, 88 (3), pp. 537-558.
LEVINE, R., e SCHMUKLER, S., 2006. Internationalization and Stock Market Liquidity.
Review of Finance, 10 (1), pp. 153-187.
LI, J., e ZHOU, J. 2006. Earnings Management and Delisting Risk of Initial Public Offerings.
Working Paper, University of Rochester.
LIU, S., 2005. The impacts of involuntary foreign delistings: an empirical analysis. Journal of
Emerging Markets, 10 (3), pp. 22-39.
LIU, S., STOWE, J., e HUNG, K., 2012. Why U.S. Firms Delist from the Tokyo Stock
Exchange: An Empirical Analysis. International Review of Economics & Finance, 24 (10),
pp. 62-70.
115
LOUGHRAN, T., e RITTER, J., 2003. Why Has IPO Underpricing Changed Over Time?.
Journal of the Financial Management Association International, 33 (3), pp 5-37.
LOWENGRUB, P., e MELVIN, M., 2002. Before and after international cross - listing: an
intraday examination of volume and volatility. Journal of international Financial Markets,
Institutions and Money, 12 (2), pp. 139-155.
MACEY, J., O’HARA, M., e POMPILIO, D., 2008. Down and Out in the Stock Market: The
Law and Economics of the Delisting Process. Journal of Law and Economics, 51 (4), pp. 683-
713.
MARTINEZ, I., e SERVE, S., 2011. The delisting decision: The case of buyout offer with
squeeze out (BOSO). International Review of Law and Economics, 31 (4), pp. 228-239.
MERTON, R., 1987. A simple model of capital market equilibrium with incomplete
information. Journal of Finance, 42 (3), pp. 483-510.
MILLER, D., 1999. The market reaction to international cross-listings: evidence from
Depositary Receipts. Journal of Financial Economics, 51 (1), pp. 103-123.
PAGANO, M., PANETTA, F., e ZINGALES, L., 1998. Why do companies go public? An
empirical analysis. The Journal of Finance, 53 (1), pp. 27-64.
PALM, I. W., 2004. Going Privates transactions in Canada: A Primer for Private Equity
Investors. Working Paper.
116
PFISTER, M., VONWISS, R. 2010. Delistings of secondary listings: price and volume
effects. Financial Markets and Portfolio Management, 24 (4), pp. 395-418.
RAJAGOPALAN, N., e ZHANG, Y., 2008. Corporate governance reforms in China and
India: Challenges and opportunities. Business Horizons, 51 (1), pp. 55-64.
RENNEBOOG, L., e SIMONS, T., 2005. Public-to-Private Transactions: LBOs, MBOs,
MBIs and IBOs. Working Paper n. 94, ECGI.
RENNEBOOG, L., SIMONS, T., e WRIGHT, M., 2007. Why Do Public Firms Go Private in
the Uk? The impact of Private Equity Investors, Incentive Realignment and undervaluation.
Journal of Corporate Finance, 13 (4), pp. 591-628.
RITTER, J., 1984. The "Hot Issue" Market of 1980. The Journal of Business, 57 (2), pp. 215-
240.
RÖELL, A., 1996. The decision to go public: An overview. European Economic Review, 40
(3-5), pp. 1071-1081.
ROOSENBOOM, P., e VAN DIJK, M.A., 2009. The Market Reaction to Cross -Listings:
Does the Destination Market Matter? Journal of Banking & Finance, 33 (10), pp. 1898-1908.
RYDQVIST, K., e HÖGHOLM, K., 1995. Going public in the 1980’s: evidence from
Sweden. European Financial Management, 1 (3), pp. 287-315.
SANGER, G. C., e PETERSON, J. D., 1990. An Empirical Analysis of Common Stock
Delistings. The Journal of Financial and Quantitative Analysis, 25 (2), pp. 261-272.
117
SARKISSIAN, S., e SCHILL, M., 2004. The Overseas listing decision: New evidence of
proximity preference. Review of Financial Studies, 17 (3), pp. 769-209.
SHUMWAY, T., 1997. The Delisting Bias in CSRP data. The Journal of Finance, 52 (1), pp.
327-340.
WITMER, J., 2005. Why do firms cross-(de)list? An examination of the determinants and
effects of cross-delisting. Working Paper, School of Business - Queen’s University.
WOLFF, S., e LONG, C., 2010. Post-Sox Trends in Delistings and Deregistration. Richmond
Journal of global Law & Business, 9 (1), pp. 53-59.
XUE, Z., e CUI, Y., 2007. An Analysis of the Legal Regime of Delisting in China. Canadian
Social Science, 3 (1), pp. 64-68.
YANG, C., e DING, X., 2012. The Survival of Initial Public Offerings in China. Working
Paper, Jiaotong-Liverpool University, China.
YOU, L., 2008. Listing and Delisting over Time and around the Globe. Working Paper.
YOU, L., PARHIZGARI, A. M., e SRIVASTAVA, S., 2012. Cross listing and subsequent
delisting in foreign markets. Journal of Empirical Finance, 19 (2), 200-216.
ZAMBELLI, S., 2004. Il Leveraged Buyout in Italia: controversie e casi aziendali. Profili
istituzionali e finanziari prima e dopo la riforma del diritto societario. Roma: Aracne, pp. 15-
22.
118
ZHANG, I., 2007. Economic Consequences of the Sarbanes-Oxley Act of 2002. Journal of
Accounting and Economics, 44(1-2), pp. 74-115.
RIFERIMENTI NORMATIVI
Artt. 2.5.1, 2.5.2, 2.5.3, 2.5.5, 2.5.6 e 2.5.7 del Regolamento di Borsa Italiana.
Artt. 37 a 45 del Regolamento Emittenti CONSOB.
Artt. 101 a 112 del D. Lgs. 24/02/98, n. 58 (TUF).
Direttiva CE n. 25 del 21 Aprile 2004.
PUBLIC LAW 107–204—JULY 30, 2002 (SARBANES OXLEY ACT – SOX).
Rules governing the Listing of Stocks on Shangai e Shenzen Stock Exchange, versione in
inglese disponibile su: http://www.sse.com.cn/sseportal/en_us/ps/support/en_sserule20090408
.pdf.
Securities Law of the People's Republic of China (revised in 2005), versione in inglese
disponibile su: http://www.chinadaily.com.cn/business/2006-04/18/content_570077.htm.
Nyse Manual Listed Company, disponibile su: http://nysemanual.nyse.com/LCMTools/
PlatformViewer.asp?selectednode=chp%5F1%5F9%5F2%5F1&manual=%2Flcm%2Fsection
s%2Flcm%2Dsections%2F.
Normativa SEC disciplinante la quotazione sul Nasdaq, disponibile su: http://www.sec.gov
/pdf /nasd1/4000ser.pdf.
SITI WEB CONSULTATI
www.borsaitaliana.it
www.consob.it