I custodi del destino

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di Claudio Paganini, fantasy contemporaneo Doveva essere una semplice gita in barca con il mio migliore amico, ma il destino aveva altri progetti quel giorno. Il naufragio in un mare in tempesta e poi più nulla, fino al risveglio sulla spiaggia di un'isola deserta. La lotta per la sopravvivenza in attesa di soccorsi che non arrivano e una voce nel cervello che continua a ripetere "tu non sei solo", mentre visioni di mondi lontani spingono la mente già provata sull'orlo del baratro. C'è qualcuno sull'isola, che sta attendendo da millenni il mio arrivo...

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CLAUDIO PAGANINI

I CUSTODI DEL DESTINO

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I CUSTODI DEL DESTINO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-622-6 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Novembre 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

Questo romanzo è opera di fantasia, ogni riferimento a fatti o personaggi è da ritenersi puramente casuale.

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Mi chiamo Patrick Sinclair e questa è la storia della mia rinascita.

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Capitolo 1 La prima cosa che ricordo fu il rumore della risacca. Le onde, incalzanti, una dopo l’altra, lambivano il mio corpo fradicio con un rumore raschiante, come quando si liscia un muro con la carta vetrata. Ero disteso supino sulla battigia, esausto dopo una notte passata a lottare con i flutti, ancora incosciente di ciò che mi circondava. Percepivo i rumori e il caldo del sole sulla pelle esposta, ma non avevo avuto ancora la forza di aprire gli occhi. Poi, lentamente, i ricordi recenti cominciarono a emergere dalla nebbia della memoria; lo yacht del mio amico Reginald, uno splendido cabinato di 25 metri affittato per l’occasione, il sole e il mare calmo, la cena e i liquori della sera prima. Poi quella barca, scura, silenziosa, che lentamente si era avvicinata avvolta dalle tenebre; non c’eravamo accorti della sua presenza fino a quando degli uomini armati non salirono a bordo. Gridavano tutti insieme in una lingua sconosciuta, incomprensibile; la sola cosa chiara era che volevano qualcosa e che ci avrebbero fatto del male se non l’avessero ottenuta. “… Pirati… ” mi scoprii a pensare, mentre cercavo di mantenermi lucido. Era una situazione surreale, fuori dal tempo, quasi comica se non fosse stato per le pistole spianate e i grossi coltelli che quegli individui tenevano legati in cintura. Avevano la pelle bruciata dal sole e dalla salsedine, gli sguardi duri, taglienti di chi non aveva nulla da perdere. “Quattro contro due… ” pensai tra me, mentre cercavo di valutare quante possibilità avevamo di portare a casa la pelle tutta intera. Reginald non era una persona combattiva, ma il suo fisico atletico poteva benissimo avere la meglio sulla magrezza dei nostri assalitori; l’unico particolare che mi suggeriva cautela e buon senso

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era che loro erano armati e noi no. Intanto le grida continuavano incalzanti; i nostri assalitori non erano soddisfatti del bottino e stavano maltrattando il mio amico nel vano tentativo di ottenere più di quello che potevamo offrire loro. Avevamo con noi solo quello che ci necessitava per una crociera di due settimane tra le splendide isole di quella zona di mare, così poco battuta dalle normali rotte commerciali; l’avevamo scelta proprio perché speravamo di vivere quei giorni a stretto contatto con la natura, solo noi due, il mare e nient’altro. Le cose precipitarono in un lampo; quello che sembrava il capo, esasperato dal magro bottino e dalla nostra scarsa collaborazione, colpì in pieno volto il mio amico con il calcio della pistola. Il tempo sembrò rallentare di colpo; ricordavo nitidamente ogni istante, rivivendoli come se stessi vedendo un filmato alla moviola: Reginald, proiettato all’indietro dal colpo ricevuto e il pirata che prendeva la mira per sparare. Non ebbi tempo di pensare se quello che stessi facendo fosse logico oppure no; sentii i muscoli delle gambe tendersi nello scatto e le braccia afferrare saldamente i fianchi dell’assalitore. La mia fronte colpì con violenza il suo naso che in uno schianto secco si ruppe, mentre la spinta ci fece urtare i supporti del battellino auto gonfiante; finimmo in acqua, gommone compreso, mentre dalla barca si levavano urla e imprecazioni. Non sapevo che fine avesse fatto il pirata, ma avevo saldamente tra le mani la sua cintura spezzatasi durante la colluttazione. Poi cominciarono gli spari, il desiderio d’immergermi sempre più in profondità e il dolore ai timpani dovuto alla pressione dell’acqua. Riaffiorai abbastanza distante dall’imbarcazione da essere in pratica invisibile nel buio; altri spari tuonarono nella notte, ma fortunatamente in una direzione sbagliata. Il battellino di salvataggio si stava allontanando sempre più in balia della corrente e, a meno di una rapida decisione, il mio destino appariva ormai segnato; sarei morto per colpa dei nostri assalitori o annegato in mezzo all’oceano. Non avendo molto da perdere cominciai a nuotare verso il gommone sperando di riuscire a raggiungerlo prima di perderlo di vista; lo yacht si stava allontanando sempre più e con esso ogni speranza di tornare presto a casa. Non avevo idea della sorte toccata al mio

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compagno di sventura: potevo solo sperare che fosse riuscito ad avere il sopravvento o, nella peggiore delle ipotesi, fosse usato come ostaggio per un possibile riscatto. La nuotata fu lunga, faticosa, rallentata dal moto ondoso che, gradatamente, stava aumentando. Non fu facile raggiungere il battellino e altrettanto difficoltoso fu il salire a bordo senza capovolgerlo; i proiettili esplosi verso di me avevano colpito il fondo del gommone aprendo quattro fori da cui entrava copiosamente l’acqua del mare. Per fortuna nessuno dei tre tubolari sembrava danneggiato perciò, nonostante mi trovassi immerso in un palmo abbondante di acqua salata, la situazione non sembrava troppo disperata. Controllai le dotazioni d’emergenza chiuse nelle sacche ermetiche; una torcia elettrica con relative batterie di scorta, un piccolo kit da pesca, barrette energetiche, un coltellino multifunzioni, quattro razzi di segnalazione, alcune confezioni di acqua potabile e una cassettina di pronto soccorso contenente anche un kit per la riparazione del battellino: tutte cose utilissime se la mia permanenza in mare fosse stata breve, ma insufficienti a garantirmi la sopravvivenza a lungo termine. Il buio intorno a me era totale; non avevo la minima idea né della direzione della corrente né se mi stessi avvicinando o no alla terraferma. Sapevo che intorno a me c’erano alcune piccole isole, ma, a parte questi atolli, tutto il resto era solo e unicamente oceano. L’alba, oltre alla luce, portò l’amara constatazione di essere in mezzo al nulla, unicamente in balia delle onde. Non riuscivo a scorgere altro che una distesa d’acqua in perenne movimento che si estendeva da un orizzonte all’altro; non c’erano uccelli nel cielo, solo nubi che si stavano addensando alla mia destra. “Ci manca solo una bella tempesta tropicale... ” pensavo tra me, mentre fissavo le nuvole che lentamente si avvicinavano. La pelle, cotta dall’acqua salmastra, cominciava a bruciare, bianca come quella di un cadavere. La situazione stava diventando preoccupante, ma era nulla a paragone di quello che sarebbe successo di lì a poco.

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Il mare, che fino a quel momento era stato relativamente calmo, cominciò a ingrossare con onde sempre più alte e profonde; in lontananza bagliori bluastri annunciavano quello che avevo temuto fin dalle prime ore della giornata: la tempesta aveva preso vigore e si stava rapidamente spostando verso di me. Su quel guscio di noce non sarei sopravvissuto a lungo alla forza congiunta del mare e della pioggia; potevo solo prepararmi a una lunga giornata cercando di rimanere legato a quel misero e fragile salvagente. Fu a metà pomeriggio che la tempesta m’investì con tutta la sua violenza; onde alte sei, sette metri facevano rimbalzare il canotto a destra e a sinistra. La pioggia e l’acqua di mare entravano a fiumi allagando la mia piccola imbarcazione; per quanti sforzi facessi, non sarei mai riuscito a svuotarla completamente, ma nonostante tutto lottai fino allo stremo. Mi ero legato alla cintola la cintura con il coltello del pirata e feci altrettanto con la sagola del battellino; se fossi stato sbalzato fuoribordo, almeno non avrei perso il contatto con l’unica speranza di sopravvivenza che avevo. Fu in piena notte che ciò che temevo successe; stremato da una giornata intera di fatiche, giacevo senza più forze sul fondo allagato del gommone, esausto dopo ore e ore a cercare di ributtare in mare l’acqua che inesorabilmente entrava. La sentii arrivare da sotto: un’onda più grossa e potente delle altre mi sollevò sulla sua cresta capovolgendomi e ribaltandomi più volte. Mi trovai sott’acqua senza neppure capire qual era il sotto e quale il sopra; istintivamente cominciai a nuotare seguendo le bollicine che velocemente risalivano in superficie e fu probabilmente quella la mia salvezza. Mi ritrovai tra due onde altissime e poi di nuovo in cima a una di esse per ripiombare giù in un susseguirsi di altalenante terrore. Il gommone era poco distante da me, semisommerso ma ancora a galla; con le ultime energie mi aggrappai a uno dei tubolari: “qui finisce male… ” pensai poco prima di perdere i sensi. La tempesta era passata e ora la sensazione della sabbia e delle pietre sotto di me mi dava una strana euforia.

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“Sono vivo e non sono più in mare… ” pensai confusamente, mentre cercavo di raccogliere tutte le energie rimaste. La furia delle onde mi aveva buttato senza tanti riguardi su una spiaggia; ero stato doppiamente fortunato perché se avessi incontrato sulla mia strada una scogliera o una barriera di corallo, il risultato sarebbe stato ben differente. Il mio corpo era tutto un dolore a cominciare dai muscoli delle braccia, le mani e la schiena; qualcosa procurava un leggero strattone alla vita seguendo il ritmo delle onde che lambivano i miei piedi. Con immensa fatica mi misi seduto e cominciai a osservare ciò che mi circondava; mi trovavo in una minuscola insenatura sabbiosa delimitata da due basse scogliere a filo d’acqua. Il mare, ora calmo, le lambiva sommergendole quasi completamente; fossi stato meno fortunato, a quest’ora sarei un ammasso di carne sanguinante, buono solo come cibo per i granchi. Davanti a me, quello che restava del battellino di salvataggio dondolava pigramente al sole: due dei tre tubolari erano completamente sgonfi, mentre il terzo, orgoglioso, galleggiava a pochi metri dal bagnasciuga. Dietro di me la spiaggia saliva per una decina di metri interrompendosi bruscamente al limitare di un’intricata boscaglia di palme e fitti cespugli. Era il momento di reagire, di trovare la forza di rimettersi in piedi e di valutare bene la situazione. Non fu facile trovare l’energia sufficiente anche solo per spostarsi dal bagnasciuga alla sabbia rovente della spiaggia. Il battellino frenava ogni mio movimento centuplicando la fatica; era, però, l’unico tesoro di cui disponevo, l’unico mezzo per sperare di sopravvivere nell’attesa dei soccorsi e doveva essere la prima cosa da mettere in salvo. Nonostante trovassi molto piacevole il calore del sole sulla pelle, trasportai tutte le poche cose di cui disponevo al riparo tra gli alberi; non avevo ancora un’idea precisa delle priorità da affrontare, ma una cosa era certa: dovevo avere ben chiaro il materiale su cui potevo contare e trovare un rifugio in cui trasferire tutto quanto, me compreso. L’ottimismo era il motore che fino a quel momento mi aveva spinto in ogni mio pensiero e azione, ma fu messo a dura prova davanti alla scarsità del materiale di cui disponevo. L’inventario fu rapido e deludente; avevo un piccolo gommone sforacchiato in più punti,

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misero scrigno che, però, celava un piccolo tesoro: il kit di sopravvivenza. In effetti, era un nome un po’ troppo altisonante visto quello che effettivamente conteneva, ma era tutto ciò che avevo a disposizione oltre al coltellaccio, gentile quanto involontario omaggio di quell’avanzo di galera del nostro assalitore. Dopo una rapida occhiata, ora sapevo di avere a disposizione un coltellino svizzero, buono forse per una scampagnata sui prati, una torcia elettrica fortunatamente stagna con relative batterie di ricambio, quattro barrette energetiche naturalmente scadute, un set di pezze di gomma e mastice per la riparazione del battellino, quattro razzi di segnalazione in buono stato, sei confezioni da un quarto di litro di acqua potabile, una scatoletta per il pronto soccorso contenente cerotti, disinfettante, garze, un laccio emostatico e un blister di aspirine. Fu quest’ultimo a farmi fare la prima risata della giornata: avrei tanto voluto avere davanti il genio che aveva deciso che in caso di naufragio, la cosa più importante da avere a portata di mano fosse proprio l’aspirina. Tralasciando la possibilità che il naufrago fosse allergico, a che cosa avrebbe dovuto servire l’aspirina, forse a curare i postumi di un’impossibile sbornia? Almeno mi era tornato il buonumore e con quel positivo stato d’animo aprii l’ultima scatola del kit d’emergenza. “Una bobina da 100 metri di lenza, una confezione di ami già montati, una scatolina di piombini, due galleggianti e tre improbabili esche finte… ” era tutto ciò che comprendeva il kit per pescare, gioia forse per qualche bambino alle prime armi, ma semplicemente tragico per chi, come me, doveva farci affidamento per procurarsi di che sopravvivere. L’euforia era passata, travolta dallo sconforto per l’incertezza del prossimo futuro; dovevo subito mettermi al lavoro perché, in quelle condizioni, ogni minuto e ogni briciola di energia era preziosa. Il sole stava già abbassandosi verso l’orizzonte lasciandomi ancora poche ore di luce; dovevo procurarmi un riparo per la notte e possibilmente qualcosa da mettere sotto i denti prima che il buio avvolgesse tutto. Osservai con attenzione l’ultimo oggetto, forse il più utile e importante che avevo; slacciai l’impugnatura ed estrassi per la prima volta il pugnale dal suo fodero. Il manico era grande,

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solido, di legno scuro invecchiato dall’uso e dalla salsedine. La lama, lunga più di trenta centimetri era di metallo brunito, quasi sicuramente ferro da fucina, piatta, larga e veramente affilata. Era stata forgiata da mani esperte, battuta e ribattuta, poi nuovamente arroventata, piegata e ribattuta per chissà quante volte; sulla costa della lama erano visibili, sia pure in modo impercettibile, gli strati di cui era composta e il riflesso bluastro del metallo indicava che era stata temprata nell’olio anziché nell’acqua fredda. Era un oggetto solido, molto robusto e funzionale, per nulla estetico e ornamentale: proprio quello di cui avevo bisogno. Di storie di naufraghi era piena la letteratura contemporanea; anche il cinema aveva cavalcato l’onda avventurosa della sopravvivenza in un ambiente ostile, ma dover vivere l’esperienza sulla propria pelle era tutt’altra cosa. Tanto per iniziare, chi come me approdava su una spiaggia deserta non era mai solo; c’era sempre qualcuno che prima o dopo raggiungeva la riva e si univa al gruppo. Guarda caso, erano tutti capaci di fare qualcosa di utile in quella circostanza e, cosa ancora più bizzarra, riuscivano a trovare tutto ciò di cui avevano bisogno semplicemente guardandosi intorno. Per quanto mi sforzassi di cercare, vedevo intorno a me soltanto erba, cespugli e un gran numero di palme da cocco, lunghe, sottili, altissime. Sapevo benissimo che il frutto dei palmizi era l’alimento principe nelle situazioni disperate, ma non era così semplice averlo; ne raccolsi un gran numero, scartando nella scelta quelli che avevano già cominciato a radicare o erano, all’apparenza, troppo leggeri per riuscire a contenere liquido e polpa a sufficienza. Rimaneva il problema di estrarre il frutto dal suo involucro legnoso e particolarmente resistente. Provai a usare il coltello come fosse un machete colpendo la cima del frutto, proprio dove le nervature s’incontravano. Il risultato fu quasi drammatico: la lama, mal direzionata, scivolò sulla scorza legnosa e per poco non andò a colpire la mia caviglia, così maldestramente posta accanto al cocco. Rimasi per alcuni minuti a fissare la lama piantata a pochi millimetri dalla mia scarpa; solo ora mi rendevo conto di quanto fosse precaria la mia situazione. Non potevo permettermi il lusso di ferirmi o di stare male perché ciò poteva significare una morte prematura e

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probabilmente molto dolorosa; dovevo pensare bene a ogni azione che avrei intrapreso, valutando anticipatamente i rischi cui mi esponevo, cosa non facile vista la mia indole impulsiva. Avevo bisogno di un piano d’appoggio su cui incastrare la noce e qualcosa con cui colpirla, possibilmente appuntita per meglio penetrare quella scorza dura. Anche dove colpire era importante: avevo constatato a mie spese che il punto d’unione delle tre nervature longitudinali era il più duro e il meno pratico di tutta la superficie; dovevo trovare quindi il modo di liberare il frutto senza danneggiarlo, perché ancora più prezioso della polpa era il liquido presente al suo interno. Il sottobosco era piatto ed erboso, ma fu vicino alla scogliera che trovai ciò che cercavo: un roccione levigato dal mare, alto poco più di un metro e mezzo con una profonda fenditura sulla parte posteriore. Era perfetta per incastrarci la noce di cocco e offriva allo stesso tempo una solida base cui appoggiarsi per colpirne la superficie. Scovare un attrezzo idoneo a spaccare l’involucro che mi separava dalla cena fu un gioco da ragazzi. Trovai quasi subito due sassi che facevano al caso mio; quante volte, da ragazzo, avevo modellato un ciottolo di fiume usandone un altro come scalpello, trasformando semplici sassi in primitive lame affilate o punte acuminate da usare per costruire rozze ma micidiali lance. Facevamo a gara, io e i miei compagni d’avventura, a chi riusciva meglio a imitare gli attrezzi preistorici che avevamo visto esposti nel museo di storia naturale della nostra città, preziosi reperti che ci avevano tanto colpito per la loro ingegnosità e primitiva eleganza. Ero un ragazzino allora, ma riuscivo a compiere dei piccoli capolavori colpendo con cura e attenzione il sasso che avevo scelto, fino a dargli la forma e la funzione che mi ero prefissato. Ora quell’innocuo passatempo poteva tornarmi molto utile; non mi occorreva un attrezzo ben rifinito, ma qualcosa che facilmente penetrasse quel tanto che serviva a dividere in due la scorza. Scelsi un sasso leggermente ovale e lo martellai sul bordo fino a renderlo tagliente e seghettato; le schegge che saltavano dappertutto quando colpivo mi ferirono più volte le mani, ma quasi non me ne accorsi, tanto ero preso nel lavoro. Appoggiai la lama sulla prima nervatura e con un altro ciottolo colpii delicatamente: la dura costa si aprì

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longitudinalmente con una facilità che non avrei mai sperato. Ripetei l’operazione più volte e in men che non si dica avevo tra le mani una piccola noce di cocco. Trovato il metodo, tutto diventò molto semplice; trasportai il raccolto vicino allo scoglio e ripetei più volte l’operazione liberando una decina di noci. Ciò che contenevano era la cosa più buona che avessi mai assaggiato; non mi ero reso conto di avere così tanta sete fino a quando quel liquido dolce cominciò a scendermi in gola. Anche la polpa era deliziosa e masticarla a lungo placava l’ansia che fino a quel momento agitava il mio animo: “Per il momento cibo e acqua sono assicurati… ” ripetevo a me stesso mentre inghiottivo un boccone dietro l’altro: “domani vedremo di risolvere anche gli altri problemi… ” Il sole stava rapidamente scendendo all’orizzonte tingendo il cielo di rosso e arancione; c’era pace e silenzio intorno a me, interrotto solo dal rumore delle onde che, lentamente, si allungavano sul bagnasciuga e dal richiamo in lontananza degli uccelli. Rimasi a guardare il tramonto fino a quando le prime stelle non fecero la loro comparsa nel cielo terso della sera; mi sdraiai sulla sabbia ancora calda ad ammirare quello spettacolo che, a causa dell’inquinamento luminoso delle città, mi era sempre stato precluso. Non riuscivo a capacitarmi di come potessero esserci così tante stelle in cielo da renderlo brillante, luminoso, ben diverso da quello buio e sfuocato al quale ero abituato. Con quell’immagine negli occhi e nella mente mi addormentai, per la prima volta dopo tanti anni, sereno, quasi felice. Non era stata una brillante idea quella di dormire sulla spiaggia: l’umidità della notte e lo sbalzo termico mi avevano regalato un risveglio tutt’altro che piacevole. Ero completamente intirizzito dal freddo, rigido e dolorante a ogni movimento; mi occorse un tempo incalcolabile solo per riuscire ad alzarmi in piedi. Presi nota mentalmente che la priorità della giornata era la ricerca o la costruzione di un riparo adeguato; al momento pregavo solo che il sole facesse presto a sorgere per avere un po’ di luce e calore. La marea stava lentamente salendo, colmando e ricoprendo le pozze che la sera prima aveva lasciato scoperte; anche quel fenomeno doveva

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essere attentamente osservato perché poteva rivelarsi una fonte di cibo importante per la mia dieta. C’era già abbastanza luce e la volta celeste, lentamente, si stava tingendo di un bel giallo pallido; nessuna nuvola offuscava il cielo terso, limpido e questo mi ricordava un’altra necessità primaria: la ricerca di acqua dolce. La prima regola del naufrago era di non abbandonare la spiaggia in modo da poter avvistare i soccorsi che presto sarebbero arrivati; ero ancora fiducioso in una rapida e felice conclusione della vicenda. Non volevo nemmeno pensare a un’altra possibilità; i soccorritori sarebbero arrivati presto: dovevo solo sopravvivere fino a quel momento. Raccolsi le noci di cocco per la colazione facendo attenzione, questa volta, a come rompevo il guscio; dovevo costruirmi suppellettili che rendessero la mia permanenza sull’isola un po’ meno primitiva e delle ciotole potevano farmi comodo. Non fu facile dividere in due semisfere il guscio duro dei cocchi ma, dopo vari tentativi infruttuosi, quattro rozze coppe legnose stavano lentamente asciugandosi al sole. Dovevo ampliare i miei orizzonti, sapere cosa mi circondava per sfruttare al meglio le risorse che via via avrei trovato. Osservai attentamente i confini della spiaggia; davanti a me la cortina verde che mi separava dal cuore dell’isola era fitta, misteriosa e, a prima vista, impenetrabile. Probabilmente avrei trovato acqua e cibo, ma anche pericoli e il rischio di perdere l’orientamento; erano incognite che, per il momento, non ero pronto ad affrontare e quindi, scartando a priori quella direzione, mi concentrai sui lati estremi dell’arenile. A destra, la bassa scogliera era ormai semisommersa dall’alta marea, facile ponte verso chissà quali baie e anfratti; non sembrava un percorso insidioso o difficile, ma stavo imparando a mie spese a non sottovalutare mai nulla in un ambiente che, anche se non potevo definire ostile, tanto amico non era. La parte sinistra della spiaggia era di tutt’altra natura; una parete rocciosa scura, probabilmente di origine lavica, scendeva fino al mare, interrotta da profonde fenditure e piccoli crepacci. Il mare, entrandovi, produceva un rumore sordo, un brontolio cupo e minaccioso.

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“Devono esserci delle grotte e probabilmente anche dei cunicoli sommersi… ” pensavo, mentre quel suono sinistro mi metteva i brividi. Il mare da calmo si stava gonfiando a vista d’occhio, mentre l’orizzonte si riempiva di nuvole nere. Il temporale si stava avvicinando con una velocità impressionante; forti raffiche di vento accompagnavano lo schiocco dei lampi e il fragore dei tuoni. Ebbi appena il tempo di assicurare i miei pochi averi che il diluvio iniziò; tutto divenne grigio, mentre un muro d’acqua lentamente si avvicinava all’isola. Incurante del pericolo di morire folgorato, rimasi in piedi in mezzo alla spiaggia assaporando il gusto dell’acqua piovana; nulla mi sembrava più buono del dolce nettare che scendeva a piccole gocce nella mia gola riarsa, che lavava il mio corpo salmastro ridandogli inaspettato vigore. Non durò a lungo, ma lasciò tutto più fresco e colorato, più bello di prima, una speranza in più cui aggrapparsi nei momenti di sconforto. Dovevo trovare il modo d’immagazzinare tutto quel liquido prezioso, ma al momento non sapevo proprio come fare. Il temporale aveva portato un altro fastidioso inconveniente: il mare, gonfio e potente, si allungava su tutto l’arenile trascinando via tutto quello che incontrava sul suo percorso e mettendo in pericolo le poche cose che possedevo. Fu una fatica immane trasportare tutto al limite della boscaglia e metterlo al riparo tra i bassi cespugli del sottobosco; non potevo fare altro che osservare grosse onde che intanto colpivano la spiaggia con un cupo e raschiante fragore. Poiché la costa era impraticabile, decisi che era il momento buono per approfondire la conoscenza del territorio circostante; non avevo idea di cosa si celasse dietro la cortina di palmizi, ma intanto potevo cercare di costruirmi un riparo decente dove poter mettere i miei pochi averi. Tranne qualche basso arbusto e alberi troppo alti per servire allo scopo, la ricerca non fu del tutto infruttuosa: trovai, infatti, non troppo distante dal punto del naufragio, uno spiazzo erboso con giovani palmizi che potevano diventare, con un po’ d’immaginazione e tanto lavoro, la struttura portante della mia nuova casa.

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La progettazione fu abbastanza semplice vista l’abbondanza di materie prime, ma la realizzazione fu tutt’altra cosa; la mancanza di chiodi e corde complicava notevolmente la stabilità della struttura che lentamente stava prendendo forma: occorreva inventarsi complicati incastri e strani intrecci tra le varie fronde di palma, ma, prima che l’ultimo raggio di sole si spegnesse all’orizzonte, il mio rifugio aveva preso una forma e una stabilità sufficiente a trascorrere una notte finalmente al riparo dall’umidità. Le sorprese, però non erano finite; il mare mi aveva donato la cosa più preziosa per un naufrago: la sua spazzatura. Un gran numero di rifiuti si era insaccato nella piccola insenatura senza riuscire a tornare in mare aperto, oggetti che persone incivili gettano o abbandonano in mare e che lì rimangono, simbolo galleggiante e indistruttibile del benessere economico. Cominciai una cernita vera e propria tra pezzi di plastica corrosi dal sale, rami di chissà quali alberi lontani, polistirolo e altri oggetti irriconoscibili; sembrava di aggirarsi in una piccola discarica che poteva celare, tra tanti oggetti inutili, alcuni piccoli tesori. Il bottino non fu all’altezza delle aspettative ma fu, comunque, importantissimo: alcune bottigliette di plastica, un telo di nylon, il guscio rigido di un battellino di salvataggio e buste di plastica a volontà. Raccolsi tutto con la massima cura cercando di immaginare come avrei potuto impiegare quel materiale. Sicuramente la cosa principale di cui avevo bisogno era acqua potabile e, con tutto quello che avevo recuperato, avrei potuto cercare di ricavarla dal suolo e dalle piogge che quotidianamente sferzavano l’isola. Con grande fatica e difficoltà scavai una buca larga e poco profonda in un posto ben assolato; sul fondo disposi rami verdi e al centro il guscio del battellino. Coprii il tutto con il nylon appesantendo il centro con una pietra: la condensa sarebbe scivolata direttamente dentro il capace recipiente. Raccogliere l’acqua piovana fu invece più difficile: disposi dei rami di palma in modo da formare una serie di scivoli al cui termine fissai i sacchetti di plastica. Con un po’ di fortuna sarei riuscito ad avere a disposizione un po’ d’acqua da bere prima del calar del sole o così almeno speravo.

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La mattina dopo mi aggirai speranzoso tra la giungla di plastica che avevo creato; la condensa della notte aveva dato i suoi frutti ma, ahimè, non abbondanti come speravo. Raccogliendo fino all’ultima goccia, riuscii a ottenere mezza bottiglietta di acqua leggermente salata, certamente insufficiente a placare la mia sete; decisi allora di utilizzarla per sciacquare per bene tutto ciò che utilizzavo per la raccolta in modo da togliere ogni residuo salmastro. Sarebbe stato difficile, se non impossibile, sopravvivere in queste condizioni; il luogo in cui mi trovavo offriva troppo poche risorse che io stavo già abbondantemente utilizzando. Non vi era nulla di commestibile tranne le noci di cocco che, comunque, non sarebbero durate in eterno e la fitta boscaglia che circondava la mia baia, come ebbi modo di scoprire più tardi, terminava bruscamente ai piedi di una ripida parete rocciosa. Dovevo cercare altrove il modo di sopravvivere fino all’arrivo dei soccorsi e fu quest’idea a spingermi a organizzare subito la partenza.

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Capitolo 2 I preparativi per la prossima esplorazione occuparono buona parte della giornata; pulii una decina di noci di cocco che mi avrebbero fornito acqua e cibo e raccolsi un gran numero di foglie di un basso arbusto che cresceva poco distante dal mio accampamento. Erano lunghe e strette ma, cosa più importante, molto flessibili e resistenti; passai buona parte della serata a intrecciarle ricavando una rozza sacca, orribile da vedere, ma molto capace e robusta. La riempii con i cocchi preparati per il viaggio e me la misi a tracolla; rimaneva ancora molto spazio per immagazzinare ciò che eventualmente avrei trovato strada facendo, ma la cinghia sulla spalla era troppo ruvida e rischiava di danneggiarmi la pelle. Tagliai il fondo dei pantaloni all’altezza del polpaccio ricavando due tubolari che, imbottiti di erba secca, fornirono una protezione più che sufficiente. Avevo intenzione, infatti, di viaggiare leggero e di non rischiare inutilmente le poche cose che possedevo; sarebbe rimasto quasi tutto al campo base anche perché la mia intenzione era di fare rapide esplorazioni in ogni direzione in modo da avere alla fine un quadro generale del territorio il più accurato possibile. L’alba mi sorprese già in piedi, intento a perfezionare le ultime cose; avevo piantato un grosso ramo proprio al centro della mia spiaggia in modo da poterla riconoscere subito al mio ritorno: tutti i miei averi, infatti, erano lì e non potevo correre il rischio di non ritrovarli più. Dopo aver dato un’ultima occhiata, partii in direzione della bassa scogliera; avevo, infatti, deciso di iniziare dal percorso che, a prima vista, sembrava il più facile. Non era logico arrampicarsi su una parete fatta di pietra lavica tagliente quando si poteva comodamente camminare sulla sabbia; avrei esplorato anche quel posto, ma prima dovevo farmi un’idea del luogo dov’ero naufragato.

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La bassa marea mi facilitò il cammino per un lungo tratto; la scogliera proseguiva tra anfratti e spiaggette curvando delicatamente verso est; in alcune pozze lasciate scoperte trovai dei piccoli gamberetti che fuggivano rapidi a ogni mio tentativo di cattura, ma, con molta pazienza e non pochi tagli alle dita, riuscii a rimediare una colazione non abbondante ma sicuramente più saporita e nutriente del solito. L’umore era alto e così pure la curiosità di scoprire cosa si celasse dietro ogni anfratto che incontravo; non pensavo più alla drammaticità della mia situazione, riscoprendo il lato avventuroso e ottimista del mio carattere. Forse anche per questo mi ero rifiutato di segnare i giorni che lentamente passavano; non volevo che la sensazione del tempo che trascorreva potesse portarmi tanto sconforto da indurmi alla depressione: dovevo mantenermi in perfetta efficienza sia fisica che mentale per affrontare ciò che mi avrebbe riservato il prossimo futuro. Il facile cammino terminò davanti a un alto muro di roccia scura; l’avevo intravista già da alcuni minuti ma, avvicinandomi sempre più, si rivelava in tutta la sua grandezza. Fortunatamente non scendeva a picco sulla spiaggia, ma con una pendenza tale che non sarebbe stato difficile arrivarne alla sommità. Per un attimo fui tentato di circumnavigare il promontorio via mare, ma gli scogli che lo circondavano mi fecero cambiare idea immediatamente. Era il secondo affioramento del genere che incontravo e questo mi faceva pensare che mi trovavo vicino a un vulcano o a quello che un tempo lo era stato. La vicinanza della vegetazione cosi alta e folta m’impediva di scorgere se nell’entroterra ci fossero o no dei rilievi di una certa importanza; avrei dovuto osservare il territorio dal mare o da una prospettiva più elevata e favorevole. Al momento ogni ipotesi poteva essere valida, anche se l’idea di un posto di osservazione elevato mi poteva garantire una visione più ampia del tratto di mare che mi circondava. Ripresi il cammino issandomi con cautela su quell’alto sperone roccioso; la parte bassa, levigata dal mare e dal vento, mi fornì un primo tratto di strada relativamente semplice e sicuro, ma di lì a poco le cose cambiarono. Ciò che si nascondeva dietro la prima

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cresta era un tratto di scogliera breve, ma in pratica verticale; se volevo continuare, l’unica via percorribile era salire fino alla sommità di quella specie di dirupo e da lì costeggiarlo fino a ritornare verso la spiaggia successiva. Non era un’impresa semplice perché la pendenza aumentava e vicino alla sommità era in pratica a strapiombo. Dal basso si scorgevano alcune fenditure che potevano offrire appigli, ma potevo valutare la situazione solo da vicino per cui, scartata in partenza la soluzione di tornare indietro, mi feci coraggio e iniziai lentamente a salire. “Fai attenzione a dove metti mani e piedi, bilancia bene il peso, non guardare in basso ma solo verso l’alto… ” continuavo a ripetere mentalmente mentre la concentrazione m’impediva di pensare ad altro. “Devi essere impazzito per cercare di scalare a mani nude una parete del genere… e se cadi? Se ti ferisci chi pensi possa venire a salvarti?” Scacciai di prepotenza questi pensieri nefasti e solo allora mi accorsi di essere giunto su una stretta terrazza, invisibile dal basso, larga forse un po’ più due metri, frutto probabilmente di una frana di chissà quanto tempo prima. Potevo finalmente riprendere fiato e guardarmi intorno senza correre il rischio di precipitare; da lì si dominava un vasto tratto di mare aperto, scintillante sotto un cielo limpido e sereno, ma desolatamente privo di un qualsiasi tipo d’imbarcazione che potesse prestarmi soccorso. Ero circa a metà della salita e fino a lì mi era andata piuttosto bene; qualche escoriazione di poco conto e un’infinità di piccoli dolori muscolari erano i danni patiti durante il primo tratto di arrampicata e tutto sommato ero pienamente soddisfatto sia di me sia dei risultati ottenuti. Mi presi tutto il tempo necessario per riposare e rifocillarmi, mangiando anche una delle barrette energetiche che mi ero portato in caso di emergenza e solo a quel punto affrontai l’ultima parte della salita. Dalla piattaforma su cui mi trovavo saliva in diagonale una stretta fenditura che, girando dietro il costone roccioso, proseguiva fino quasi alla sommità della scogliera; se avessi trovato appigli sufficienti mi avrebbe portato a un passo dalla cima. Ma non dovetti

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salire così in alto: a un tratto, all’interno di questa grossa crepa, fui investito da una forte corrente d’aria. Davanti a me c’era un lungo tratto di roccia umida e striata di fango, mentre quel forte refolo sembrava provenire direttamente dal cuore della parete. Dovetti procedere con estrema cautela, maledicendo di non aver avuto l’idea di portare la torcia con me: non avevo pensato di poter trovare una grotta durante il mio vagabondare e ora dovevo arrangiarmi come potevo. Il cunicolo appena trovato era stretto e tortuoso, una sorta di canale di scolo delle acque piovane; all’inizio non era eccessivamente in pendenza ma, dopo alcune brevi curve, il tunnel si allargava iniziando a salire in maniera sensibile. La roccia, levigata dallo scorrere dell’acqua, era miracolosamente pulita, segno che probabilmente era un canale di scolo con una discreta portata: riuscivo a camminare carponi per lunghi tratti incontrando perfino delle piccole pozze di acqua dolce, fresca e dissetante. Non ci volle molto per intravedere un puntino luminoso che s’ingrandiva man mano che mi avvicinavo; il cuore cominciò a battere più forte e la voglia di uscire all’aria aperta divenne quasi smania. Sbucai lontano dal ciglio della scogliera, ma non abbastanza da non sentire il rumore della risacca; il mare cominciava a ingrossare nuovamente, ma per il momento non era un mio problema. Come sospettavo, quello appena percorso era un passaggio creato dalle acque di un piccolo laghetto per far defluire il liquido in eccesso; la scoperta era importante perché avevo trovato una riserva d’acqua dolce inaspettata, ma non era l’unica sorpresa che quel luogo aveva in serbo per me. Da lì, infatti, si aveva un’ampia panoramica dell’immediato retroterra e ciò mi forniva la prima certezza della giornata: tutt’intorno, a perdita d’occhio, si stendeva l’oceano. Ero effettivamente su un’isola, abbastanza estesa da essere sicuramente riportata sulle carte nautiche e sufficientemente ampia da garantire la sopravvivenza per un ragionevole lasso di tempo. L’unico rilievo degno di nota era una collina piuttosto lontana, dalla classica forma conica tipica di un vecchio vulcano, mentre il resto era un rigoglioso susseguirsi di palmizi e boschi, rocce e radure, un paradiso naturale che avrei apprezzato molto di più se non ci fosse

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stato un piccolo particolare: era comunque una prigione e lo sarebbe stata per chissà quanto tempo ancora. Ormai seguire la costa aveva poco senso e decisi così di rimanere in quel luogo almeno fino al giorno successivo; avrei scelto l’indomani che strada prendere, se ridiscendere verso la mia spiaggia o proseguire all’interno per cercare un luogo dove stabilire la mia residenza. Osservai con attenzione il laghetto: era una semplice pozza d’acqua piovana senza un ruscello che lo alimentasse, buona per rinfrescarsi ma sconsigliabile da bere. Dopo le fatiche dell’arrampicata e il fango del cunicolo non chiedevo di meglio; entrai adagio senza nemmeno togliermi i pochi indumenti che avevo addosso: anche loro avevano bisogno di una bella lavata in acqua dolce. Il fondo era melmoso e i miei piedi provocavano una specie di risucchio quando si spostavano; sott’acqua piccole nuvole torbide si alzavano e si allargavano pigramente, quasi al rallentatore, per poi depositarsi nuovamente. Non era per nulla spiacevole impiegare un tempo lunghissimo per fare cose che normalmente avrei fatto in pochi minuti; era come crogiolarsi in un’enorme vasca da bagno, rinfrescante e rilassante. Ma, come ogni cosa piacevole, anche questa finì troppo presto: inevitabilmente, nonostante tutta l’attenzione che avevo usato, l’acqua divenne talmente torbida da rendere impossibile un’ulteriore permanenza e così, a malincuore, mi stesi al sole ad asciugare. Il cielo non era limpido; grosse nubi transitavano veloci mutando rapidamente forma, come veloci mandrie dirette chissà dove. Anche da piccolo mi piaceva stendermi sui prati ad ammirare le nuvole di passaggio e a ognuna cercavo di dare una forma e un nome meravigliandomi di come queste diventassero di volta in volta qualcosa di diverso. Ma ora non stavo più guardando le nuvole perché in lontananza, alle pendici del vulcano, c’era stato un brillio improvviso, come il riflesso del sole su uno specchio. Occorsero alcuni minuti prima che i raggi solari riuscissero a penetrare la coltre di nubi sempre più fitta e in quel momento lo strano fenomeno riapparve: laggiù qualcosa rifletteva la luce solare proprio nella mia direzione e io non conoscevo nulla in natura che potesse produrre un simile effetto, tranne forse un deposito di minerale vetrificato.

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Anche se la smania di scoprire cos’era stato a provocare quel riflesso era molto forte, c’erano altre priorità più importanti come, ad esempio, il soddisfare i miei bisogni primari: trovare acqua potabile, cibo e riparo; la luce non sarebbe durata ancora a lungo e io ero troppo distante dalla spiaggia per sperare di raggiungerla in tempi brevi. Osservai molto attentamente il terreno circostante: c’erano molte impronte, segno che lo stagno serviva da abbeveratoio per gli animali, per lo più uccelli da quello che riuscivo a capire. Alcune orme però mi facevano ben sperare; non troppo piccole e ben distanziate, zampe fornite di unghie probabilmente adatte allo scavo, forse grossi roditori: di certo non potevo essere troppo schizzinoso riguardo al menù, per cui cercai subito un riparo da cui poter osservare tutta la zona senza essere visto. Mi spalmai il corpo di fango per confondere il mio odore con l’ambiente circostante e mi fabbricai un’arma con cui procacciarmi il cibo. Dovetti scendere al limite della boscaglia per trovare ciò di cui avevo bisogno: un ramo dritto e robusto, di un legno duro ma flessibile, con cui feci, non senza fatica, una lunga lancia appuntita. Sarebbe stato meglio poter indurire la punta con il fuoco, ma non avevo né i mezzi né il tempo per una simile procedura; usai il coltello per assottigliare un’estremità del bastone ricavando così una lunga punta acuminata: non sapevo se avrebbe retto a un impatto senza spezzarsi, ma lo avrei scoperto molto presto, o almeno così speravo. C’era una specie di sentiero che dalla boscaglia saliva verso il crinale della scogliera, segno dell’assidua frequentazione dello stagno da parte della fauna locale; me ne tenni prudentemente alla larga per non lasciare tracce del mio passaggio e tornai al mio nascondiglio per la stessa strada che avevo percorso all’andata. Il tempo passava lento e gli insetti erano l’unica compagnia in quel pomeriggio carico di attese. Fu solo nel tardo pomeriggio che qualcosa cominciò a muoversi al limitare del bosco; una famigliola di quattro elementi stava abbandonando il rifugio della boscaglia e si stava dirigendo verso di me. Non riuscivo a distinguere ancora bene di che animali si trattasse; a prima vista sembravano dei piccoli maialini dal pelo corto e scuro: non dovevano pesare più di quatto o

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cinque chili ed erano perfetti visto che, in caso di cattura, li avrei dovuti mangiare sul posto. Il capofamiglia arrivò per primo, annusando l’aria, guardingo; fece un lungo giro, sospettoso, ma poi, vinto dalla sete, cominciò a bere. Anche il resto della famigliola, rassicurati dal capobranco, si avvicinò alla pozza e, mentre erano tutti e quattro con il muso nell’acqua il mio braccio scattò. Avevo mirato alla preda più vicina ma la mia lancia si conficcò invece nel fianco dell’animale più grosso che nel frattempo aveva smesso di bere e si era avvicinato al mio nascondiglio. L’asta, vibrata con tutta la forza, colpì il fianco dell’animale proprio sotto la scapola; un grido di dolore e di paura sembrò esplodere nella quiete della sera facendo fuggire gli altri animali. Rimasi impietrito da ciò che avevo causato: il povero animale aveva cercato di fuggire, ma la lancia era penetrata troppo in profondità e il sangue scendeva copioso dalla ferita. Era riuscito a fare solo pochi passi in direzione della boscaglia ed era stramazzato al suolo, ansimante nell’agonia; uscii quasi correndo dal mio nascondiglio e lo guardai cercando di evitare quello sguardo spaurito: afferrai il pugnale e lo conficcai direttamente nel cuore. Dopo un breve sussulto, fu tutto finito. Non avevo pensato quanto potesse essere penoso togliere la vita a un altro essere vivente; poco importava che le mie motivazioni fossero dettate dalla sopravvivenza: non era stato per nulla facile. Dovetti farmi forza e completare l’opera: non potevo aspettare troppo altrimenti il suo sacrificio sarebbe stato vano. Trascinai la carcassa lontano dallo stagno, fino al limitare del bosco, facendo attenzione che non diventasse preda degli insetti che l’avrebbero resa inservibile in un attimo; con rapidi colpi di coltello eviscerai l’animale cercando di limitare al massimo la larghezza dei tagli: meno avrei esposto la carne all’assalto degli insetti e più sarei riuscito a utilizzarne per me. Lasciai le budella e la vescica poco distanti da lì, in modo che attirassero tutto ciò che di potenzialmente dannoso potesse esserci per la mia preda, rimettendo nella cavità addominale il fegato e il cuore, bocconi troppo preziosi perché andassero sprecati. Scavai una buca abbastanza profonda e, dopo aver avvolto il corpo nei miei

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indumenti, lo seppellii alla meglio. Pulii un tratto del sottobosco in modo da non creare il pericolo di un eventuale incendio e cominciai a cercare quello che mi serviva per accendere un fuoco; erba secca ce n’era in abbondanza e con un lembo della camicia creai un’esca con cui appiccare il fuoco alla paglia. Pulii la lente della torcia elettrica che, in un impeto di estrema preveggenza, avevo smontato e riposto al sicuro nella tasca dei pantaloni e attesi che il sole facesse il resto. Non mi rimaneva tanto tempo: presto i suoi raggi sarebbero stati troppo deboli e tutta la fatica sarebbe stata vana. Probabilmente lassù qualcuno mi amava davvero perché, dopo pochi minuti, un filo di fumo cominciò lentamente a formarsi tra le trame della stoffa. Non fu semplice trasformare quella tenue speranza in una brace sufficiente ad accendere la paglia ma, prima che il sole fosse troppo basso all’orizzonte, le prime fiammelle cominciarono a consumare la paglia e in seguito la legna posta ad arte tutt’intorno. I minuti successivi furono frenetici e volarono via lasciando solo la sensazione di euforia isterica; riuscire ad accendere un fuoco rappresentava non solo la possibilità di avere cibo cotto, ma anche luce, calore, speranza e salvezza. Osservai quelle tenui fiammelle crescere, consumando tutto quello che avevo posto intorno, fino a diventare un piccolo fuocherello ricco di braci ardenti: solo in quel momento i miei nervi si rilassarono e scoppiai a piangere e a ridere senza freno. Era la prima vera speranza di sopravvivenza; da sola significava poco, ma le potenzialità che mi aprivano erano davvero vitali. Non persi tempo e cominciai a raccogliere più legna possibile: non potevo mantenere acceso il fuoco all’aperto, ma potevo fare in modo che producesse braci sufficienti per poterlo trasportare in un luogo al riparo dalle intemperie. Il fuoco ardeva intenso, vigoroso; lunghe lingue fiammeggianti si alzavano verso il cielo per poi sparire, sostituite da altre di uguale intensità e bellezza. Avevo radunato un gran numero di pezzi di legno, ma mi accorsi ben presto che non sarebbero bastati allo scopo prefissato; con sommo dispiacere mi alzai nuovamente per raccoglierne ancora, distogliendo a fatica lo sguardo dalle fiamme che guizzavano veloci crepitando: era un’immagine ipnotica, rilassante, che a stento m’imposi di non guardare ulteriormente.

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C’era troppo lavoro da fare e poco tempo prima che l’oscurità rendesse impossibile la ricerca di altro combustibile. Trascinai in tutta fretta tutto quello che trovai nelle vicinanze: pezzi di tronco, interi rami e grosse porzioni di corteccia, tutto ciò che poteva bruciare producendo calore e brace. Alla fine mi sdraiai esausto a godermi il calore e la luce dorata del falò. La fase successiva di tutto quel lavoro era creare una specie di forno dove cuocere quello che avevo appena cacciato; non potevo certamente mettere l’animale tutto intero sulla brace e cercavo di pensare a un modo per costruire dei supporti per uno spiedo di quel peso e dimensione. Mi spostai allora leggermente, dove il terreno era più soffice e, con un grosso pezzo di corteccia cominciai a scavare una buca; il mio ottimismo dovette fare i conti con la fatica e l’attrezzatura a dir poco inadeguata al lavoro che mi ero preposto, ma la mia testardaggine, unita a una fame sempre più pressante, compì un piccolo miracolo. In un tempo incredibilmente lungo e a costo delle ultime briciole di energia che mi erano rimaste, riuscii a realizzare ciò che mi ero prefissato: una buca larga un metro e mezzo e profonda circa un metro dove far scivolare i tizzoni ardenti e creare un letto di braci pronte ad accogliere e a cuocere a puntino il mio pasto. Farle rotolare all’interno della fossa fu un’altra piccola impresa, ma alla fine tutto fu come me l’ero immaginato; il calore e le fiamme del falò tenevano a distanza ogni essere vivente, piccolo o grande che fosse, permettendomi di dissotterrare la mia preda senza troppi problemi. Pulii un pezzo di corteccia piatta e vi deposi con cura il fegato e il cuore lasciandoli vicinissimi al fuoco; nel frattempo misi due grossi rami di traverso sulla buca, bloccandone le estremità con delle grosse pietre: l’intenso calore delle braci cominciò a surriscaldare il legno ma, a parte un po’ di fumo, non ci furono altri inconvenienti. Deposi con cura l’animale su quella rozza graticola e attesi che l’intenso calore facesse il resto. Era ormai notte inoltrata, ma il chiarore delle fiamme illuminava buona parte del terreno circostante; nonostante fossi esausto, continuavo ad alimentare il falò principale spostando di tanto in tanto le braci più grosse nella buca. Avevo tagliato il cuore e il fegato in pezzi abbastanza piccoli da essere infilzati su uno spiedo

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appuntito e, in attesa che la parte più grossa cuocesse, cercai di attenuare i morsi della fame improvvisando un barbecue. La carne appena macellata era durissima e di un sapore strano, metallico, ma masticai con testardaggine ogni boccone succhiando avidamente ogni goccia di nutrimento che poteva offrire. Nel frattempo lo sfrigolio proveniente dalla carcassa lì vicino produceva un profumo di arrosto che rendeva quasi dolorosa l’attesa.

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Capitolo 3 Passai buona parte della nottata a cuocere, mangiare e dividere quello che rimaneva in parti abbastanza piccole da poter essere facilmente trasportate. L’animale non era grande per cui non rimase molto per i giorni successivi; cercai di utilizzare proprio tutto, comprese le ossa che, ben pulite e affilate, potevano essere un’ottima punta per la mia rozza lancia. Tornai più volte alla pozza d’acqua, tornata limpida e fresca; poco importava se non era il massimo dell’igiene, poiché la sete e il bisogno di lavare via il sangue dell’animale mi convinsero a essere meno schizzinoso: chissà quali altre cose avrei dovuto fare che normalmente mi avrebbero ripugnato, per cui tanto valeva cominciare proprio da questa. L’alba mi sorprese disteso accanto al fuoco, sazio, quasi felice; sognavo di essere a casa, sdraiato sul divano, davanti al caminetto acceso: solo pace, silenzio e una vaga sensazione di sicurezza. Poi il sogno cambiò all’improvviso: rividi la scena della caccia come se la stessi osservando da una prospettiva diversa, in qualche modo sbagliata; poi quel lampo di luce riflessa, lontano sulla collina, troppo distante per riuscire anche solo a capirne l’origine, ma stranamente invitante. Mi svegliai di soprassalto; le briciole del sogno precedente erano svanite lasciando al loro posto la dolorosa certezza di essere ancora sull’isola, solo e disperso. Il fuoco si era da tempo spento lasciando un tappeto di braci ancora calde; cercai di ravvivarle pensando di rimanere lì per qualche tempo, ma subito scartai quella soluzione: l’odore della carne e del fumo unito al trambusto della sera precedente avrebbero tenuto lontano gli animali per chissà quanto

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tempo e io non potevo sperare certo di sopravvivere con un pugno di carne abbrustolita e una pozza d’acqua stagnante. Raccolsi le mie cose e, dopo aver seppellito con cura le braci e gli scarti del mio pranzo, cercai di fare il punto della situazione. Poiché tornare indietro era assurdo, non mi rimanevano che due possibilità: seguire il sentiero tracciato dagli animali o inoltrarmi nella boscaglia. Scartai quasi subito la seconda ipotesi: avevo paura di perdere l’orientamento e di ritrovarmi a vagare tra gli alberi senza più sapere dove andare. Il sentiero costeggiava per un tratto la foresta penetrandovi in un punto dove gli arbusti non erano particolarmente alti e fitti: la cosa che però mi fece decidere fu la constatazione che il suo percorso sembrava puntare in direzione della collina, proprio verso il punto dove avevo intravisto quello strano bagliore. Dopo il primo tratto relativamente semplice, le cose si complicarono: l’erba alta e gli intricati cespugli mi costrinsero più volte a deviazioni che resero molto difficile tornare ogni volta sul tracciato. Ebbi più volte l’impressione di aver sbagliato strada, di essermi perso cercando di evitare ora una macchia di arbusti spinosi ora una folta distesa di erba così alta da non vedere al di là del mio braccio. Ogni volta fui preso dal timore e dallo sconforto e, puntualmente, con il ritrovamento del sentiero, la gioia e l’euforia mi facevano ben sperare per il prossimo futuro. Il terreno era molto vario, un’alternanza di salite e rapide discese, di avvallamenti e piccole colline, il tutto popolato da una flora rigogliosa e da una fauna invisibile ma sempre presente; potevo sentire i loro occhi che mi osservavano impauriti e curiosi, il rumore dei loro movimenti furtivi sugli alberi e tra l’erba alta: forse era solo la mia immaginazione suggestionata dalla lunga solitudine e ciò mi faceva temere l’insorgere di spiacevoli paranoie. In ogni caso proseguivo più o meno seguendo il sentiero; il sole alle spalle mi forniva l’indicazione che stavo procedendo verso ovest e solo quando ebbi la sua luce perpendicolare sulla mia testa decisi di fermarmi. Avevo trovato poco prima un piccolo ruscello che scorreva in un ripido avvallamento: una cosa minuscola paragonata ai fiumi che ero

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abituato a vedere, ma altrettanto preziosa e insostituibile. L’acqua, limpida e fresca, scorreva rapida su un letto di argilla e sassi; dovetti trovare un punto favorevole per inginocchiarmi e posare le labbra su quel fluido meraviglioso, succhiando avidamente tutto quello che potevo. Mi riempii lo stomaco fino a sentirne le pareti tese, dopo di che mi distesi al sole a riposare; è strano come nei momenti di difficoltà, ogni cosa, anche la più banale, acquisti un significato e un valore particolare: cose semplici come un sorso d’acqua o un boccone di cibo diventano fonte di gioia o disperazione, tanto importante diventa il possederne a sufficienza. Io lo stavo sperimentando sulla mia pelle e notavo, con crescente apprensione, come le priorità della mia vita erano drasticamente cambiate. Consumai la carne avanzata la sera prima masticando lentamente ogni boccone, nella consapevolezza di non sapere quando avrei potuto farlo nuovamente. Ripresi quasi subito il cammino, perché non c’era molto tempo e io dovevo trovare un posto per accamparmi prima che sopraggiungesse la notte: avevo notato infatti delle orme che mi avevano messo una certa fretta, impronte grandi e larghe, pericolosamente munite all’estremità da quelli che a prima vista sembravano artigli o unghie molto spesse. In ogni caso, non avevo intenzione di appurare a chi o a cosa appartenessero, non prima di aver trovato un posto abbastanza sicuro dove accamparmi. Fine anteprima.Continua...