Happy Italy, Ilaria Rossetti

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Un romanzo sul desiderio di vendetta, sull'impunità che ci restituisce un'Italia dove i furbetti hanno la meglio e in cui è sempre più difficile attendersi l'happy end.

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Happy Italy

Ilaria Rossetti

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Voglio cantare insieme a mia moglie. Il festival di Sanremo?Perché no.

Gianpiero Fiorani, La Stampa, 15 luglio 2007

E adesso imparo un sacco di cosein mezzo agli altri vestiti uguali

tranne qual è il crimine giustoper non passare da criminali.

Fabrizio De André, Nella mia ora di libertà, 1973

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Il pomeriggio in cui sua figlia muore, mia nonna è ateatro.

Non sta tra il pubblico, a fischiare l’improbabile mes-sa in scena di un Ibsen in chiave post-moderna, no, èesattamente dall’altra parte, a schiena dritta sotto le lucironzanti del palcoscenico, a prendersi tutto quel disprez-zo distillato prima in un silenzio teso, poi in un piovascodi sbraiti e fischi, e non riesce a fare altro che guardaredavanti a sé, oltre la platea disordinata, fino alla scrittaExit che campeggia lontano.

Mentre sua figlia esce di casa, attenta a non sbatterel’uscio, e s’infila in macchina, una pistola giocattolo cac-ciata nella tasca interna della giacca, Alice De Mattè stapensando che forse, da quel giorno, potrà rassegnarsi a fa-re la pensionata senza velleità specifiche, concentrata piùche altro su malinconie, nipoti e talk show.

Nel preciso istante in cui sua figlia sfrega via l’ultimopianto, ed esce dall’automobile, respirando a fondo l’ariascialba di un pomeriggio di ottobre, lei si siede di fronte al-lo specchio del camerino comune, e lascia che il nero delmascara si raggrumi lungo le occhiaie umide. E malediceIbsen.

Poi, quando ormai sua figlia ha varcato l’ingresso dellabanca e già punta la pistola giocattolo contro i visi di clien-

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ti e impiegati, azzerati di espressioni e personalità, e la ma-no è incredibilmente ferma, come non è il cuore, Alice DeMattè sta aspettando che il cortile del teatro si svuoti, perpoi calpestare la ghiaia a passi lenti, sentendo i sassi pun-gere sotto le ballerine; assapora, lei, lo sgomento lieve chein genere segue la fine di ogni finzione. Certo, è semprestata un’attrice mediocre, e lo considera con la stessa ama-rezza con cui sua figlia, in quei secondi, si scopre incapacedi apparire convincente davanti a una cassiera con certopiù esperienza e pelle dura di lei, in fatto di rapine. Medio-cre come tante cose, come quelle scarpe comprate a quat-tro euro al mercato della domenica, conclude Alice, e in-tanto una guardia giurata piomba nella banca, alle spalle disua figlia; mediocre come l’idea di vivere nei luoghi soloperché ci si è capitati, e non perché li si è scelti, mediocrecome un dramma rappresentato su un palco di dilettanti,sotto luci crude e fischi spietati, e intanto la guardia pun-ta la pistola, intimando a sua figlia di alzare le braccia.

Ma sua figlia, d’istinto, si gira, tenendo stretta l’armagiocattolo.

L’istante in cui la guardia spara, per mia nonna, è il cor-tile lasciato alle spalle e una prima sigaretta accesa in ungesto impreciso.

E mentre sua figlia – mia madre – si accascia sul pavi-mento, un’aureola di sangue attorno alla testa e il respirofracassato, lei torna a casa, nell’aria ferma delle cinque diun pomeriggio qualsiasi.

Torna a casa dopo un Ibsen massacrato, e qualche trac-cia di trucco rimasta sulla pelle, sopra gli zigomi, quasi aricordarle lo scompiglio amaro dei piccoli fallimenti. Tor-

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na, nel ronzio ottuso di un paio di luci da palcoscenico e– più tardi lo apprenderà – nell’irruzione disperata dellamorte, quando deflagra come un calcio in bocca.

Mi chiamo Virginia, e peso ottantadue chili e cinqueettogrammi.

Quasi nove mesi dopo la morte della figlia di mia non-na, sto viaggiando su un treno. Comincia così, con unosferragliare indefinito in mezzo alla pianura: l’Intercity èaffollato. È una slavata mattina d’estate. Tengo un giorna-le piegato sulle ginocchia, mentre le ascelle mi bagnano lamaglietta, il sudore che s’incolla sotto gli occhiali. Peso ot-tantadue chili e cinque e sono alta uno e settanta scarso:molti mi dicono che va bene così, che curarsi dell’aspettoè un atteggiamento superficiale.

Ho sempre cercato di dare loro ragione. Sono partita da Milano quasi due ore fa, ora i finestri-

ni ritagliano scenari aridi, ma più morbidi. La luce delledieci si disfa contro il profilo del mio compagno di viag-gio, un uomo sottile, taciturno, che non ha mai apertobocca. Di fronte due donne bisbigliano di figli, bollette edi quell’intervista a quell’attore. Una ha gambe da fenicot-tero e la voce insicura. C’è caldo, un’afa che impiastriccia irespiri e le palpebre; la sento pesare sul vagone, sulla pia-nura che comincia a farsi montagna, di fuori.

È un giorno di inizio luglio, un giorno come tanti. InAustralia c’è stata un’alluvione disastrosa. A Roma, davan-ti a Montecitorio, una manifestazione. Qualcuno ha spac-cato la faccia di un ragazzo con un casco, e il Papa ha

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espresso l’opinione del giorno. Berlusconi lo stesso. Tutti,lo stesso.

Per la prima ora di viaggio, ho finto interesse per il li-bretto sgualcito che mi ha infilato nella borsa zia Tina, pri-ma che uscissi di casa: c’era scritto Università italiane, pro-spetto informativo. Intanto stiamo correndo verso il mare,verso la grande casa di mia nonna, o perlomeno ci vado io.Mi ravvio i capelli, lunghi e anonimi, e l’uomo zitto milancia un’occhiata curiosa: mi ricorda il presidente dellacommissione dell’esame di maturità, ha la stessa pelata e lestesse mani; all’orale, solo una settimana prima, simili ma-ni avevano gesticolato nell’aria rarefatta dell’aula, nel ten-tativo di spronarmi a dire qualche parola in più.

Quando ho aperto gli occhi, questa mattina, ho realiz-zato subito: partire e oggi.

Due parole che si sono addolcite con una tazza di latte,uno sguardo alle valigie accatastate all’ingresso, e l’abbrac-cio melodrammatico di mia zia Tina, che sa piangere a co-mando e tenere in ordine un appartamento con la stessacaparbietà.

Partire, oggi: Milano grondava di parole morsicate, pe-riodi spezzati, e i filippini di piazza della stazione non sierano ancora svegliati, sfiniti in branchi sotto le ombre deiplatani. Ho guardato tutta quella gente accalcarsi scenden-do dagli autobus, inciampare tra i propri piedi, tra i gradi-ni, tra un marciapiede e un cane distratto; l’ho guardataaffrettarsi verso la stazione, nei blocchi tesi delle otto lavo-rative, correre ai binari, popolare i treni come formiche an-siose.

Ho visto una vecchia senza gambe raggranellare cinque

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euro con un paio di sorrisi sdentati; poi si è trascinata acomprare una birra, l’ha stappata con un accendino e se l’èbevuta d’un fiato, a un paio di metri dai cessi per handi-cappati.

Partire, oggi: ho lasciato la cucina con le piastrelle gial-lo girasole, dove bruciavamo le cotolette nel tentativo direnderle più croccanti, poi la sala senza odori, perfetta, ilmarmo chiaroscuro, la mia stanza, infine, dove mi chiude-vo quando litigavamo, quando, anestetizzata dall’invernomilanese, studiavo la nebbia dalla finestra, fingendo d’im-parare Vittorini e ogni combinazione di redox.

Il controllore spunta dal corridoio, scavalca zaini e vali-gie colorate.

Borbotta che vuole vedere il biglietto, glielo porgo bru-scamente.

Le donne chiacchierine e l’uomo che non parla fannolo stesso.

Li studio, e immagino che abbiano esistenze semplici.Basilari. Che vadano al lavoro ogni mattina – lui battescontrini in un supermercato di periferia, loro sogghigna-no dalle scrivanie di un ufficio assicurativo. Immagino cheabbiano mogli, mariti, figli. Che ogni sera, socchiusa osbattuta alle spalle la porta del loro impiego quotidiano,non vedano l’ora di tornare a casa, che scalpitino, sulla me-tro o in automobile, mentre la città brulica di esseri uma-ni in tutto e per tutto identici a loro, un intero esercito.Immagino che spalanchino l’uscio della propria abitazionee siano felici. Che si sentano stanchi, a una tavola dove iconiugi hanno apparecchiato confondendo la destra e la si-nistra tra forchette e coltelli e i bambini brontolano alla

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pasta scotta, ma con occhi allegri. Credo che vadano a let-to non troppo tardi, magari conclusa la prima serata suqualche canale per famiglie. Li vedo cercare il cuscino, cer-care di fare l’amore. Hanno una minima idea di quello chesarà domani? Sì. Sarà quello che è stato oggi. Com’era permia madre.

Dove stai andando di bello?È una delle due donne. Ha un tono garbato. Dal corri-

doio oltre lo scompartimento arrivano frammenti di di-scussione, forse qualcuno non ha il biglietto.

Glielo dico. Abbozzo anche un sorriso. Moneglia, mor-moro, Liguria.

La donna annuisce, poi gira il viso verso il finestrino, laconversazione s’è già esaurita e fissare oltre il vetro opacoprobabilmente è meno imbarazzante.

Io vorrei raccontarle qualcosa, di Moneglia. Vorrei raccontarle dei cocci di porcellana accatastati nel

lavandino, quando nonna rompeva il solito piatto o la so-lita tazza. Spiegarle, magari, la sensazione di strofinare lafronte contro una parete rugosa, ogni notte, perché il let-to è troppo vicino al muro. Spiegarle l’odore oleoso delvento delle sei di sera, e i carruggi annodati su se stessi,l’esatto ciabattare delle estati e poi gli inverni, quando sul-la battigia non passa nessuno, e la mezzaluna scura si dila-ta di tregue e sabbia. Mi piacerebbe accennarle di nove me-si fa. Della figlia di mia nonna, e della pistola giocattolo.

Ovviamente non apro bocca.Mi chiamo Virginia, ho diciannove anni e, se tu dor-

missi, vorrei semplicemente trattenerti, cercare lo scheletroaffilato del tuo cuore.

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Casa della nonna ha un giardino immenso, e l’altrogiorno, al telefono, lei mi ha detto Non vedo l’ora che ar-rivi, Virginia, vedi, abbiamo piantato maggiorana, menta,e buganvillea, qualche mese fa, e ora c’è profumo di cura.

Ti cercherei lì, sperando di scovarti in qualche balugi-nio d’ombra.

Mi chiamo Virginia, e tu sei mia madre.Dormi laggiù, in quel giardino, vicino alla maggiorana,

nel vaso del basilico.

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Nonna viene a prendermi che è appena pomeriggio: lapanchina su cui mi sono seduta ad aspettare scotta, è mar-mo bollente, mi brucia i pantaloncini, le cosce, il sedere,ma non c’è altro posto libero, dalla stazione fuoriesconosenza sosta turisti in infradito.

Il treno è arrivato giusto, lei è in ritardo. Aspetto. Mi sembra di essere fatta di margarina, ci spero, un po’:

forse, stando lì, sotto quel sole sfrontato, mi scioglierò co-me un panetto. Ci spero. E aspetto.

Lei arriva solo mezz’ora dopo, di corsa, con la treccia ar-gentata che le balla sulle spalle e una gonna lunga, una fan-tasia di cocchi disegnati. Sembra una zingara, penso, e mivergogno. Considero, per un attimo, di scappare, di gettar-mi sotto un treno.

Lei si ferma sul binario di fronte, il palmo orizzontalecontro gli occhi, a vedetta: ci mette qualche secondo, poimi intravede. Non sorride. Non sorride mai. Sbuca dalsottopassaggio ansimante, sottile come un grissino di pa-ne, zingara e triste.

Non trovavo parcheggio, scusami.Allora hai tutto, sì, il borsone eccolo, non hai altro?Va bene, quindi… possiamo andare, sì.Fuori dalla stazione il sole è ancora più rovente: cammi-

niamo in silenzio, affiancando una coppia di vecchi, lei è

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tinta di biondo e annacquata di lacrime, lui fuma una siga-retta senza guardarla. La Renault blu della nonna spunta,tra gli zaini da campeggio e i trolley e il candore dei taxi.

Ho i pantaloncini completamente cotti contro la pelle,il naso continua a sudarmi sotto gli occhiali: intorno ragaz-ze in reggiseno e boxer a fiori, e poi ecco, fiori dappertut-to, in aiuole incastrate tra i marciapiedi, perché è luglio,comunque e nonostante tutto, luglio salmastro e sabbiosoe vacanziero. A noi non sembra. A noi sembra angusta laRenault, mentre parte, e il paese una girandola di vociaree schiamazzi, quasi insultanti. Guardo mia nonna e la suatreccia, e il parabrezza sfigurato di polvere.

Arriviamo dopo nemmeno un quarto d’ora.Nonna mi rivolge un ampio sorriso, mentre sblocca

tutto il cancello della casa – è una vecchia villa, due pianie lunghi corridoi senza luce – e io passo a fatica, strofinan-do la pancia contro i fermi. Noto subito la puzza di can-deggina, e il buio che spiove dalle pareti: seguo la nonnafino alla cucina, e ci facciamo strada tra sedie in disordine,vasetti di maionese vuoti abbandonati in un angolo del ta-volo, due stendibiancheria e un gatto mezzo addormenta-to. Nonna spalanca la portafinestra e il sole vernicia conviolenza la cucina. Oltre, il giardino. Lei si volta verso dime, le braccia incrociate: mi fissa per qualche istante,l’espressione di chi vorrebbe mormorare qualcosa di adat-to e non ha la più pallida idea di dove cominciare.

Io sudo e mi concentro sulle piastrelle arancioni dellacucina, l’unto sopra le piastrelle, la luce sparsa. Nonna michiede come mi sento, e io so cosa intende.

Ho un tremito.

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Lei fruga nella borsa e mi porge la pistola. Prendila, mi dice, toccala. Facciamo che non è il mo-

mento di avere paura. Ubbidisco, e la prendo, lasciandola scivolare dalle mani

grinzose di lei alle mie, goffe. Intanto nonna apre l’arma-dio dello scolapiatti e prende due tazzine; mi dice che Et-tore Palazzi, l’uomo con cui divide la casa, arriverà a mo-menti, è uscito per la sua solita corsa pomeridiana. È unapersona gentile, mormora, molto dinamica; uno scrittore,anche, aggiunge dandomi le spalle, il tono di voce appenapiù alto.

La cucina, ricolma di sole, mi sembra paurosamente pic-cola. Rigiro la pistola per almeno un paio di minuti, men-tre nonna finisce di preparare il caffè, e dal giardino spirad’improvviso un’aria dolciastra, turgida di sale e rancore.

Sono arrivata.

Mia nonna si chiama Alice De Mattè, e aveva fatto unavita come si doveva.

Aveva sempre raccolto i capelli e accomodato il proprioritmo a quello collettivo.

Aveva cucinato spaghetti aglio e olio e peperoncino dilunedì sera, messo gerani sui davanzali e salvia negli ango-li del balcone, era stata bella in modo discreto, aveva pen-sato sempre, anche, in modo discreto. Aveva lavorato,pagato le tasse, sopportato le lentezze esasperanti della bu-rocrazia, letto i giornali credendoci almeno un po’, dato fi-ducia ai Presidenti e ai Papi, agli schemi e alle loro caselle:non aveva dormito mai più di sette ore a notte, era stata

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produttiva, onesta, dignitosa, normale, senza rincorrerenulla più del silenzio immoto, senza palpiti, in cui evapo-rava la sua casa una volta che tutti e tre – lei, suo marito,sua figlia – erano sotto lo stesso tetto, al sicuro. Aveva tifa-to l’Italia ai Mondiali e ignorato i guazzabugli politici: ilsuo paese, Moneglia, era stata una scaglia di luce piantatatra mare e terre di collina, aveva balenato senza dare nel-l’occhio, come si doveva. Di tanto in tanto leggeva – Mora-via, Agatha Christie, Camilleri, Liala – e le piaceva recita-re: con la parrocchia s’era impegnata in più di una rappre-sentazione, e un paio di professori di liceo gliel’avevanofatto notare, Lei, Alice cara, è davvero portata per il palco-scenico, dovrebbe fare un salto a Genova, o addirittura aMilano! E mia nonna ci aveva pensato tre volte esatte, intutta la sua vita: andare via, cambiare la direzione dei suoigiorni, portarsi dietro libri e famiglia e la nostalgia del ma-re. E per tre volte esatte s’era detta di no. Perché non eracosì, che si doveva fare. Non era così che sarebbe stato op-portuno vivere.

Mia nonna aveva continuato a camminare sempre unpasso dietro lo schiamazzo: non le piacevano gli esibizioni-sti, le soubrette, i filosofi; non le piaceva chi aveva troppeopinioni, ed esercitava costantemente il diritto di espri-merle. Quando a Moneglia, d’inverno, qualche famigliascendeva giù nei carruggi per il caffè serale, lei indossava ilcappotto grigio di panno, quello comprato al mercato diGenova, forse per meno di trentamila lire: le piaceva manon osava chiedere pareri, per paura di apparire superficia-le. Le stava bene, lo pensavano tutti: nessuno gliel’avevadetto mai.

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Ogni tanto ripensava all’idea di scoprire una vita diver-sa, sul parquet di un palcoscenico; ogni tanto aveva qual-che domanda, qualche riserva – sul modo in cui il maritoparlava a tavola, sulle decisioni dell’ultimo governo, sullanecessità di aprire l’ennesimo cantiere, l’ennesimo super-mercato. Ma poi quel languore sfumava, lasciandole soloun impreciso sentore d’infelicità: c’erano lavori domestici,allegre trasmissioni televisive, pranzi in famiglia, tasse dapagare, una figlia da crescere.

Al funerale di sua figlia, ha indossato il cappotto grigiodi panno comprato a Genova, e una caligine ottobrina sfi-gurava i numeri gialli degli autobus, mentre raggiungeva-mo il cimitero in macchina. Mentre sua figlia – mia madre– veniva infilata in una cella frigorifera – l’avrebbero cre-mata qualche giorno più tardi, il forno era rotto – lei è ri-masta immobile sulla ghiaia del sentiero, senza mai negareun sorriso di ringraziamento a tutti coloro che inciampa-vano tra la folla, per offrirle strette di mano o impacciatibaci sulle guance. Tutto fatto come andava fatto, ancorauna volta.

Ora, da qualche mese, mia nonna si chiede del risarci-mento.

Dov’è il risarcimento, dov’è il premio, per aver conces-so tanto rispetto e tanta confortante ordinarietà. Per nonavere mai deviato il percorso.

Perché il tutto è molto semplice. A Ettore Palazzi il fra-tello s’è ammazzato, a mia nonna la figlia, invece, l’hannoammazzata. La ragione dei loro lutti è comune: associazio-ne a delinquere, truffa, appropriazione indebita, aggiotag-gio, ostacolo all’attività di vigilanza. Chi ha arraffato l’ha

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fatto senza curarsi di nulla: e la Banca, quella capocchia dispillo nel mezzo degli zoppicamenti per arrivare a fine me-se, ha spento i generatori all’improvviso. Il palcoscenico,con un ronzio, s’è fatto buio: hanno urlato indignati, dalpubblico, ma nessuno ha restituito loro i biglietti. Hannosigillato i cancelli con nastro adesivo e pudore, prometten-do soluzioni. Che non sono arrivate.

La figlia di mia nonna ha provato a risarcirsi da sola, ilfratello di Ettore s’è risarcito anche lui da solo, control’asfalto del cortile di quella stessa banca, una mattina chenon c’era vento. Intanto il maggiore responsabile è a piedelibero, e probabilmente non entrerà più in carcere.

Bancopoli: sembrava Monopoli. Sembrava: non c’erano piccoli funghi e piccole candele

da muovere su cartone colorato, dov’erano i funghi e lecandele, e dov’erano gli imprevisti e le probabilità, e tuttequelle stazioni nord-sud-ovest-est che, se le hai, sbanchi.

Ettore e mia nonna s’intravedono a una di quelle udien-ze inutili, poi leggono l’uno dell’altro su un giornale loca-le. Non si conoscono, ma sanno chi sono.

A Moneglia tutti sanno chi c’è dall’altra parte del-l’uscio.

Famiglia colpita da lutto criminoso e insoddisfatta del-l’evolversi della prassi giuridica regolare, cerca persone con si-mile vissuto con le quali condividere la propria esperienza, ascopo di creare un gruppo di sostegno reciproco.

Letto così, per caso, a colazione, un giorno qualsiasi: eEttore intuisce chi c’è dietro, e non è che ci creda molto in

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questi “gruppi di sostegno”, che gli sono sempre sembratitanto degli assembramenti di disperati, con l’unica vogliadi crogiolarsi nella propria sofferenza. Ma a convincerlosono forse quell’accenno di pioggia, mentre si veste peruscire, e la porta della camera di suo fratello che si apred’un tratto, sotto un’improvvisa folata di vento: forse pureil binario sgombro e strattonato dal diluvio, quando arrivain stazione per le solite due ore di scrittura – Ettore trovache lavorare al libro davanti a treni che partono sia profon-damente stimolante.

Di fatto, la sera stessa, con le vene livide, telefona al nu-mero dell’annuncio.

Mia nonna risponde. Era sicura che lui avrebbe chia-mato.

Moneglia: il paese se li ingoia subito, vorace e lumino-so; dalle vetrate polverose del bar, giù al porticciolo, siscorge un po’ di mare. Parlano per un’ora buona, primastudiandosi con circospezione, poi, lentamente, uscendodalle rispettive trincee.

Si vedono altre quattro volte, sempre nello stesso bar,sempre con quei vetri che però, al quarto incontro, sonopiù puliti: e allora Ettore il blu del mare lo vede davvero, egli viene voglia, per un attimo, di abbracciare quella vec-chia coi polsi magri e la voce salda. Non lo fa mai. Però,quando mia nonna nomina per la prima volta la pistola,lui prova lo stesso affetto. E scopre che si può provare amo-re per una cruda idea di vendetta. Così lui si trasferisce dalei, c’è molto di cui discutere e molto da organizzare. Lacasa ha un grande giardino e corridoi troppo lunghi.

Le piante sono dappertutto.

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C’è disordine, isolamento, un gatto perennemente ad-dormentato e saltuarie visite di compaesani dall’aria con-trita – i lutti paiono un grande collante sociale.

Poi arriverò io.Durante l’ultimo incontro nel bar non c’è alcun sento-

re di colpa, ma solo la stessa furia di sempre. Ancora aggio-taggio, truffa, appropriazione indebita, ostacolo all’attivitàdi vigilanza: mia nonna ed Ettore imparano il lessico diquel gioco alla delinquenza, qualche goccia di caffè annac-quato finisce sui taccuini e i fogli fermati nelle graffette; enel tramestio di quel vocabolario sconosciuto, Monegliaperde ogni rumore. Sembra una città piena di rispetto, inun Paese pieno di rispetto.

Si accendono una sigaretta insieme, mia nonna e il cin-quantunenne aspirante scrittore, e fumano in silenzio: al-l’orizzonte, una nave rimorchia un peschereccio, puntan-do verso i moli e alzando uno stormo bianco di gabbiani.

A colazione, il mare è un alone lontano. Seduti a tavo-la, tra caffè lunghi, biscotti al cacao, pane tostato e tè, mianonna ed Ettore si scambiano qualche parola pigra. Io misono svegliata dopo di loro, da un sonno senza sogni; ci homesso un po’ a realizzare che non ero a Milano, a ricordar-mi del viaggio in treno e dell’arrivo a Moneglia.

La mia stanza è spaziosa, e la carta da parati rosa ha unche di vagamente soffocante; non ho ancora disfatto le va-ligie. Prima di scendere, mi sono lavata la faccia tre volte,ho cercato la maglietta più larga che possiedo e mi sono in-filata gli occhiali.

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È presto, vedo il cielo sprigionare luce arancione.Ettore Palazzi si è alzato a stringermi la mano subito,

appena sono apparsa in sala da pranzo; ha borbottato cheera molto felice di conoscermi, finalmente, e che assomi-gliavo moltissimo alla nonna, anzi, ero la nonna cinquan-t’anni prima, sicuramente. Quando ho scorto l’espressioneperplessa di lei, ho tentato con tutte le mie forze di non ar-rossire.

Sorseggiando il suo tè, Ettore Palazzi ha cominciato abombardarmi di domande: quanti anni hai, cosa vuoi faredopo la scuola, se leggi, cosa ti piace leggere.

Ho risposto in fretta, gli ho detto che non avevo nessu-na intenzione di andare all’università e che certo che mipiaceva leggere, cose in generale.

Ho evitato di precisare che l’unica forma di scritturache mi appassiona davvero è quella dei manuali d’istruzio-ni. Di qualunque cosa: computer, lettori musicali, aspira-polvere, lavatrici, mobili Ikea. Soprattutto i mobili Ikea,che in realtà sono soltanto immagini. Mi piace capire co-me funzionano le cose.

Ora, da almeno cinque minuti, Ettore è impegnato inun monologo feroce, concitato. Ha un volto comune, pic-coli occhi paludosi che non ti guardano mai in faccia; staraccontando del suo libro, del suo parto, come lo chiama,che uscirà a fine estate. Ripete di continuo in primis e ge-sticola; nonna deve aver sentito questo discorso un centi-naio di volte, e sbriciola una fetta di pane in un piattino,con aria distratta.

Sì, sarà una grande biografia, in fondo di Berlusconihanno scritto in pochi, e tutti allo stesso modo, se mi con-

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cedi questo sbilanciamento. Io voglio spiegare il perché noisiamo Berlusconi, voglio fare luce su questo struggente le-game che vincola questi anni – i nostri anni – alla sua fi-gura. Sì, Virginia, passami il termine, struggente: perché inquesto legame c’è tutto, tormento, condivisione, speranza.

Il monologo prosegue, ma io mi aggrappo a quella pa-rola, struggente, e la voce dell’aspirante biografo di Berlu-sconi si dilegua dietro pensieri che non hanno nulla a chefare con una colazione estiva, e con un sole appena natoche ha smantellato la notte. Oppure hanno a che farvi intutto e per tutto.

Struggente, per me, è il dolore, capillare, dell’aprire gliocchi la prima mattina senza di lei, e del contatto dei pie-di con il pavimento. Anche, forse, del semplice constataredi essere vivi, orizzontali, sgomenti. Sapere che tua madrenon c’è più, eppure alzarsi, la luce delle sette e trentacin-que che è una sirena elettrica contro le pareti, appena sco-state le persiane. Sapere che è un’alba di foschie, indossarei vestiti accuratamente piegati su una seggiola, bere un caf-fè veloce con zia Tina, che non parla e non sorride e nonti guarda. Prendere lo zaino accanto alla scrivania e ricor-darsi di respirare come sempre, lavarsi i denti, pisciareun’altra volta, ammucchiare lenzuola e piumone in fondoal letto.

Struggente è la Milano delle otto, in ottobre, che non ècambiata affatto dalla Milano di una settimana prima;struggente è andare a scuola, perché è giusto andarci, tel’hanno detto tutti, anche se poi gli sguardi dei tuoi com-pagni sono catenacci stretti alla gola, nei corridoi, nelle au-le, nell’area macchinette. Struggente, infine, è il risenti-

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mento che provi, perché sai che non c’è stato nulla di con-tingente, nulla d’inevitabile.

Sai benissimo che la colpa esiste, e appartiene a qualcuno.Intanto, in classe, leggi con gli altri d’integrali, moti

contro i totalitarismi e Leopardi.

La notte prima, la nonna era venuta nella mia stanza. I passi avevano ticchettato sul cotto del pavimento, in-

filzandosi con dolcezza nell’oscurità della mia camera. Ave-vo tenuto gli occhi chiusi.

Senza le lenti gigantesche, un filo trasparente di salivaall’angolo della bocca: mi aveva guardato così; grassa e stra-nita, non avrei potuto essere più diversa da lei. Si era por-tata le mani dietro il collo, sulla nuca, un sospiro che s’eraaccavallato all’aria spostata dalle pale. Mi aveva osservatorespirare, mi aveva osservato dormire.

Adesso Ettore Palazzi s’è zittito, e lei gli sta chiedendoqualcosa su un negozio di ferramenta vicino al lungomare.Nessuno accenna mai alla pistola.

All’improvviso uno dei due, non vedo chi, rovescia l’en-nesimo caffè.

C’è un’imprecazione, una risata, poi uno sbattere dipersiane.

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