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1 Giovane poesia italiana Antologia della Collana Gialla

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Giovane poesia italiana

Antologia della Collana Gialla

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A cura di Roberto Cescon

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Il lungo lavoro di ricerca di talenti e di promozione della poesia iniziato da pordenonelegge una decina d’anni fa, è sfociato da tempo in supporto concreto, ovvero nella pubblicazione di 4 volumi in occasione del festival. Anno dopo anno abbiamo proposto 20 autori nuovi o in via di affermazione, che abbiamo seguito per tutto il corso dell’anno. La metà di questi poeti è under 35, e nel complesso siamo di fronte a una panoramica valida della poesia italiana sotto i quaranta. Diverse sono in effetti le provenienze geografiche, diverse le poetiche, diverse le intonazioni di queste venti voci poetiche, che hanno ottenuto grazie a questi volumi una discreta affermazione, hanno avuto recensioni e vinto premi. Una raccolta antologica, che li presenti a un pubblico di lingua diversa con una decina di poesie a testa, una scheda introduttiva e qualche essenziale indicazione bio-bibliografica, appare oggi come un possibile bel coronamento di tanto impegno e di tanta passione.

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Indice

7 - La collana Gialla, per rinnovare la poesia

10 - Gian Maria Annovi Persona presente con passato imperfetto (2018)

22 - Alessandro Bellasio Nel tempo e nell ’urto (2017)

34 - Maria Borio L’altro limite (2017)

54 - Clery Celeste La traccia delle vene (2014)

67 - Azzurra D’Agostino Alfabetiere privato (2016)

80 - Bernardo De Luca Misura (2018)

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92 - Laura Di Corcia In tutte le direzioni (2018)

104 - Tommaso Di Dio Tua e di tutti (2014)

117 - Sebastiano Gatto Voci dal fondo (2015)

131 - Alessandro Grippa Opera in terra (2016)

143 - Naike Agata La Biunda Accogliere i tempi ascoltando (2017)

155 - Maddalena Lotter Verticale (2015)

168 - Daniele Mencarelli Storia d’amore (2015)

180 - Marco Pelliccioli L’orfano (2016)

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193 - Eleonora Rimolo La terra originale (2018)

206 - Greta Rosso Manuale di insolubilità (2015)

218 - Giulia Rusconi Suite per una notte (2014)

232 - Francesca Serragnoli Aprile di là (2016)

244 - Giulio Viano Iridi Artiche (2014)

259 - Kabir Yusuf Abukar Reflex (2017)

271 - Nota biografica del curatore

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La collana Gialla, per rinnovare la poesia

La Gialla nasce dall’attenzione alla poesia che Pordenonelegge da tempo coltiva e si anima nel ricco programma degli eventi di poesia all’interno del festival, un vero e proprio festival nel festival, per promuovere un confronto sui modi e sulle domande alle quali il nostro tempo ci sollecita, ci convoca, in un dialogo incessante e rinnovato tra le generazioni. In questo senso da qualche anno a Palazzo Gregoris si è creata, in collaborazione con le Librerie Coop, la Libreria della poesia, dove vengono venduti solo libri di poesia, di certo un fenomeno controcorrente e molto apprezzato in questi tempi di scarsa visibilità della poesia. L’attenzione alla poesia della Fondazione Pordenonelegge è curata non solo nei giorni del festival, ma anche tutto l’anno: gli incontri con l’autore al Teatro Verdi rivolti anche alle scuole, la Giornata mondiale della poesia a marzo, la Festa di poesia a luglio, il blog ipoetisonovivi.com, che promuove la poesia contemporanea a scuola, il Premio Pordenonelegge Poesia, dedicato alle giovani voci poetiche under 30. Ma più in generale direi che fondamentale per Pordenonelegge è il

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desiderio di condividere l’esperienza della poesia con chi la scrive e con chi la legge, creando amicizie, aperture, confronti sui testi e sulle idee; in tal senso è stata coinvolta anche la scuola, come luogo decisivo dell’incontro con la poesia, intesa non come stravagante espressione di emozioni, ma come esperienza estetica fondamentale per riconoscersi in una comune condizione umana. Si ricorda ancora nel 2013 il censimento dei poeti under 40 e nel 2014 il questionario sulla poesia e sul lavoro del poeta, iniziative anche molto criticate, ma che hanno avuto il merito di avvicinare un panorama poetico frastagliato e alle quali è seguito l’ebook Dove andremo a finire? Note sul questionario dei poeti under 40, con l’analisi dei ricercatori Elena Rizzi e Roberto Scalmana dell’Università Bocconi e gli interventi dei poeti Roberto Cescon, Tommaso Di Dio, Matteo Fantuzzi, Isabella Leardini, Daniele Mencarelli e Giovanni Turra. Da tutto questo è partita l’avventura della Gialla, condivisa insieme a LietoColle, un editore di poesia dalla tradizione ormai consolidata. Secondo quale criterio? Non certo un’intento di poetica, magari sperimentale o, al contrario, lirica (cosa significa, poi, sperimentale? E lirica, essendo sempre la poesia il lavoro di un corpo che comprende il mondo con

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la sua mente, perfino quando finge di non averla?), specie in un tempo dove campeggiano l’implosione delle poetiche e l’ibridismo formale. Piuttosto, al di là  di un possibile discorso sulle opportunità  e sulle occasioni che si sono venute a creare in questi anni, fatte di letture condivise, ad essere comune alle opere pubblicate nella Gialla,  è  il loro dirci un’esperienza del mondo. Questo è ciò che condividiamo - festival ed editore - ovvero la ricerca di un terreno di dialogo su un testo che ci ha “trovato”. E a LietoColle va inoltre riconosciuta l’apertura e la passione che nutrono la difficile impresa di pubblicare oggi dei l ibr i di poesia. Per noi  è  importante che il libro ci interroghi sulla nostra condizione, del nostro tempo, in uno stile che  è  suo (certo, magari fuori dall’eccesso di sperimentalismi o della performatività).  La Gialla è il tentativo ambizioso di rispondere magari non alla domanda quali sono le voci migliori di questi anni, ma quali sono i migliori libri di poesia pubblicati di anno in anno? Tra esordi assoluti e nuove prove di autori, già notati da critica e consensi, speriamo di esserci riusciti.

Roberto Cescon

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Gian Maria Annovi

Persona presente con passato imperfetto (2018)

Persona presente con passato imperfetto è un importante tassello che documenta vent'anni di ricerca poetica, tesa a indagare la persona, un’espressione che ha in sé il paradosso di una singolarità collettiva: la scolta, il kamikaze, l’autofago e tutte le altre allegorie di soggettività radicale presenti nei suoi libri sono sempre terze persone che – anche quando si esprimono nella forma dell’io – rappresentano non la vita dell’autore, ma il mistero di quella singolarità collettiva e impersonale a cui è chiamata, da sempre, la lingua della poesia. Non si tratta dunque di semplice autofiction, magari per interposta persona, ma piuttosto della vita verbale di un io collettivo attraversato dall’esistenza, grazie all’unica cosa che veramente unisce gli esseri umani, il linguaggio, tra paralisi e necessità di rinnovarsi, pronto a misurarsi con l’esperienza di limite e crisi del tempo in cui viviamo.

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sei graffio di riflesso dello schermo / scheletro d’arnie e profumate apri porte e finestre anche esci anche tutto vestito di api che le trasmetti

(le antenne)

e dalle felci azzurre e feroci e dai pini silvestri e dalle piante piantate per pulirci

per punirci gli arti

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e da questa regione celeste fotocopiata e non autorizzata e forse anche bassa se c’è risoluzione delle cose

fotocopia del cielo fotografia dell’acqua fatto tutto il liquido secco

non quello che lava le macchie che leva i vestiti

che bianca di bianco

(e dilaga)

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detto la tua dentatura al lenzuolo la dettatura delle dita / di te è prossima al dire alla dizione dittatoriale che temo

(che tremi anche i cuscini)

il mondo è il bianco del dentifricio che ficchi nei fori cariati nel muro / nelle pareti

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tu non mi sai imboccare non mi sai stare / nella gola la cosa che non indolora che non odora neanche di cosa

(mi respiri) che inutile ossigeno sputi sparpagliando i miei geni

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io non lo so se esistono le cose che non sia un’invenzione (la tua) per obbligarmi ancora ad esistere:

lo vedo nelle errate previsioni della meteo e nelle imprecisioni dell’oroscopo

che quando ti guardo nella bocca

ti leggo inciso sopra i denti

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eppure cos’hai fatto di te che la vita ti avrebbe richiesto di fare e se ci fosse e c’è una risposta generale a questo individuale conato a farsi

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la persona che state chiamando non è un momento raggiungibile

(dice)

eppure aggiunge al vero il verbo

il verso dell’aria che non respira

né più descrive

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è corpo che monta nel corpo nome di donna indicibile come

le cose distrutte per troppe parole

inutili

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essere il nome di qualcosa

da sempre già dimenticato

spazio anonimo segnato da una pietra

nell’alto del grano

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il libro attende che le parole si facciano fuori

polpi dentro gli scogli allungano molli rami se ti allontani:

prenderle vive

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Gian Maria Annovi (Reggio Emilia, 1978) ha esordito con Denkmal (L’Obliquo, 1998), seguito da Self-eaters, (Mazzoli, 2007), Terza persona cortese. Reality in sette visioni (edizioni d’if, 2007; Premio Russo-Mazzacurati), Kamikaze (e altre persone) (Transeuropa, 2011, con un’introduzione di Antonella Anedda e un cd di Joseph Keckler), Italics (Aragno, 2013) e La scolta (nottetempo, 2013; Premio Achille Marazza). Vive a Los Angeles, dove insegna letteratura alla University of Southern California.

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Alessandro Bellasio

Nel tempo e nell’urto (2017)

È una poesia seria quella di Alessandro Bellasio, perché seri e decisivi sono i temi che la invadono - la morte (destino / che ci precede), il limite, la notte, la gabbia, l’assedio, il tu, che è un corpo a corpo con se stessi) - indicati da una parola tesa, quasi scarnificata, sempre sul punto del non dire perché comunque dire non è mai abbastanza e non è mai finito. La sua parola, densa e scabra al tempo stesso, procede cercando di ritornare sempre a un urto originario, che è il luogo dove tutto ha origine; la sua parola (scheggia, polverizzata, lontana, coperta di brina, accerchiata) nomina e ci inchioda in noi stessi, perché le ragioni di quell’urto hanno a che fare con il nostro esistere. Ci inchioda perfino nell’incedere del ritmo di un verso che sa farsi breve, brevissimo e scalare.

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Contro una soglia buiasaremo reclamatida una voce antecedente

inchiodati a un silenzio che scava

nemmeno noi capaci di pensare la morte che siamo

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Di questo niente spartito scheggia a scheggia nelle notti io conservo, di te in me, il memento estremo, un angolo di voce la sola crepa visitata dal respiro.

«Non è che un lembo, questa vita, una piega scura dove apro i chiodi il passaggio di una stella che mi esaudisce in piedi, un muro, un nodo una nuca aperta contro cui pregare invocando la folgorazione»

Qui nell’indiviso, nel ferro dell’unione batte un cuore, il sangue curva dentro ciò che cade la luce lascia vene nere sugli spigoli…

Non è oggi che cadremo su quest’osso remoto, non è qui che il vento ci troverà stanotte, che noi potremo [ritornare, non ora non tra queste cose, non in questa vita dentro gli occhi che noi sapremo mai di noi

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Bunker

Ora la notte è violenza e arsenico. E il viola non è lutto ma il livido che marchia il cielo, l’oscura cicatrice che scava il sangue – il tatuaggio, l’urto.

Ora la notte non è detta, la vita non è data, non è mai venuta – ora la fitta, la stretta ci danno un varco, la nostra meta vera, la ferita

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Il tuo nome ti conosce. Volgiti a esso con un canto di avvicinamento.

Canto che non è canto ma vento venuto via dal petto

atomo di freddo, graffio nella pietra patria congelata

rovo della mente

spina, sterpo, quasi niente

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Non vi sarà parola, nome, data vita che non sarà scontata – tutto è scritto, per sempre, su questo referto senza verità – polvere nelle vene vento nelle mani anni di nessuno – un’ora insanguinata che ci conosce e chiama, dentro noi, cancellando il tempo.

Attraverseremo ancora una volta vivi questo sparo, questo sangue imprigionato nel nodo di un’arteria nel soffio divorato di un respiro, ce ne andremo soli, controluce, nel luogo disabitato nel nudo feroce – un silenzio precedente che ci appartiene.

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Resteràsulla schienail bagliore del sale, il graffio                                         un ventola fibramorsa dal contatto, la furia l ’attritoun filoarso di pensiero il rebbio ossidatodi questa vegliail magliol ’ulna lapidata l ’altarupeche a ciascuno fu il suo esistere

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Nel patto

Di questa guerra estrema ed anonima, di questa voce scavata nella roccia ti resterà nel tempo la ferocia, il deliro, l’insonnia

e il nodo, l’unghia il tatuaggio

il silenzio

il voto

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Frantumata e ripida – la notte… Tu non arretri, non fasci l’emorragia di questo freddo. Sei una domanda che il destino inchioda un respiro che la vita asciuga una sillaba nel vortice.

Batte sulla pietra l’artiglio del silenzio – batte dove il tempo manca e i luoghi sono strappi, figure originarie di caduta.

Adesso tu sai: tornerai carponi alla tua creta, alle tue felci immobili, a quell’impasto di radici e chiodi dove il sangue è niente e il niente vento

strapiombo urto

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Tu non hai scritto, non hai detto.

Di te stesso, al cospetto del dettato, dirai:

- sanguinai grafia -

questo tu dirai, tu sarai

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io sono la luce strettala stella sanguinata sopra gli inseguiti la valle e il tumulo, la tempia e il fusto sono la veglia rotta nelle mani l ’arbusto, la meditazione

io sono il torace, il torso l ’aria io sono la montagna:qui di me non ho che il ventola corsa disperata in questa vita la gabbia tersa il vetro la tenagliacon l ’urto che li fece i vivi la parabola la polvere il pesoe l ’incendio in ognuno per semprela luce spezzatadentro il coroil precipizio dove ho sanguinato questo

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Alessandro Bellasio è nato nel 1986 a Milano, dove vive e lavora come insegnante. Laureato in Filosofia, ha tradotto dal tedesco e si è occupato di critica letteraria, in particolare di poesia contemporanea. Suoi articoli e recensioni sono apparsi online su alcune riviste, tra le quali  Nuovi Argomenti, Idra,  Secretum,  Noema, La Balena Bianca e Compitu re vivi. Nel tempo e nell ’urto  (LietoColle-Pordenonelegge, 2017) è la sua pr ima raccolta (Premio Internazionale di Letteratura Città di Como 2017; Premio Poesia Città di Fiumicino 2017 per l’ Opera Prima).

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Maria Borio

L’altro limite (2017)

L’altro limite è un campo di tensioni tra la vetrinizzazione dell’esperienza individuale e la coscienza del mondo, alla ricerca di un residuo ancora umano sotto lo slabbrarsi dei legami sociali. La vista domina le poesie costruite per scene, dal complesso andamento narrativo, dove si sovrappongono e si disfano immagini e cose, sempre sul punto di trattenere un segreto, per indagare il rapporto tra la superficie e la verticalità del vivere, oltre che della memoria, intesa addirittura nella prospettiva della specie (es. il riferimento agli uomini del Neolitico), da cui scaturisce un’empatia oltre le apparenze digitali. La forma è lo schermo come una casa azzurra, un ritmo che lega gli uomini nella mia mente, la forma che se scrivi o vivi non è mai lo stesso; questo ritmo pensoso avvolge e conduce fino al limite della visione e della mente, un luogo pulviscolare da cui comprendere il mondo. L’altro limite è il primo momento di un lavoro più ampio suddiviso in tre tempi: Il puro, L’impuro, Il trasparente (nel 2018 per Interlinea è uscito

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Trasparenza). Il trasparente è la sintesi, il puro e l’impuro sono la tesi e l’antitesi. La sintesi del mondo digitale è il grande vetro attraverso cui traspaiono il puro e l’impuro mescolati, l’uomo e la tecnologia senza ruoli, l’io e il tu senza ruoli, la velocità e la prospettiva senza ruoli. L’uno altro limite dell’altro.

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Settima scena   Stendevamo le mani contando i bordi di pelle incrinati. Questa è una scena visibile dietro una parte di me che indietreggia, si sorregge la luce insieme la carta e il digitale, ti sorreggi consegnato alla portafinestra e mi apri uscendo sopra il gelo. Questa è una seconda scena che mi lascia creatura tra gli uomini, tu uomo tra le creature che degradano – il balcone, la condotta di rame, i grovigli delle nuvole, una sagoma parlante. Nella terza scena parliamo immobili attraverso uno schermo nell’etere particelle o nella sottospecie di materia, gli atti che chiamano linguaggio o il linguaggio vero, sinuoso, incosciente. Posso dirti il tempo reale, nel tempo reale puoi dirmi, accecati dalla luce digitale, la fortuna di saper aprire una quarta scena dove entrano i frammenti degli altri

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e noi ricomponiamo barricandoci a un orario e a una parola – le notizie rosse e irreali sono scese dietro l’orizzonte, un attimo al mondo per diventare – quando nella quinta, sesta, settima scena saranno il postino o l’uomo del pub o tuo padre persino e mia madre sempre più in sé sprofondati. Così alla quinta scena ero tornata nel [segreto e l’avevi cancellato per un mondo che entrava nella stanza allontanandosi. Poi alla sesta scena eravamo in una semplice fila alla stazione, con gli occhi e una banconota piegati tra la mano e il tavolo – un affidarsi, un rispettare. Alla settima scena torno e respiro nell’irrealtà prodotta dello schermo dei colori del viso e della voce, lontani e accesi, collisioni, temperature, frenetici mentre il puro pensiero di me non è più me ma lo conservi, e i famelici ostacoli di una lotta per il nostro posto sono accidenti,

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tempeste. Un suono di gola, primitivo: la trasmissione del niente è all’altrui niente – la settima scena di noi è il settimo giorno, la vita che vogliono rubare bianca è nuda.  

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Osservate, chiedete non alla forma ma fuori a tutto il resto cosa sia, questa scrittura o le unghie esili, le biografie anonime o le parole anonime. Mi dicono che può essere forma questo libro a [schermo dove vedi vite in frammento o luce stupita.   La forma è lo schermo come una casa azzurra, statistica e figure, un ritmo che lega gli uomini nella mia mente. La forma è, non è ciò che volete io dia. È, non è il divenire. È disfarsi, a volte.   L’altro limite, solo l’immagine, mi hai detto, ma lo [cancello e lo riscrivo: lettere, vi dico, pensatele, in ogni lettera guardate una parola come un piede di bambino appoggiato alla mano della madre, quella mano alla pancia e la pancia a un pensiero.   A volte seguo questo percorso perché una scena [accada e non sia forma sola, ma pancia, mano, piede che non vedete, anche nelle immagini disordinate nell’etere sempre vi seguo, un aereo silenzioso che rientra nell’hangar

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o il cieco che arriva all’ultimo segno del braille.   Mi hanno detto di nuovo di fermarmi sulla forma, la forma che se scrivi o vivi non è mai lo stesso. Con i pensieri come unghie lego vite disunite a schermo.  

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La linea dell’orizzonte sembrava il confine del mondo fermato tra il tuo polo e il mare. Il mare si curva   perché la terra è un globo, le mani sospese tra naso [e orizzonte danno pugni, spingono contro l’orizzonte [immagini di incoerenza.   Adesso in un viaggio di due ore taglio a metà il paese passando a fil di lama la nebbia al nord e l’azzurro [al centro   quattrocentesco come l’affresco di Piero della [Francesca che vorrei trasparente, sopra al mondo la sua [prospettiva.   Ma oggi nel vulcano sgranate le persone [rincorrono un punto di fuga interiore, dalla cornea alla pupilla, e le scie [rosse sottili   schizzano elettriche; ma un bisogno di verità deve [pur correre come la lama aguzza del Freccia Rossa ci toglie [soli da noi stessi

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  (io, noi?) e mentre corre ti vedo in una casa vuota [ancora con i pugni paralleli spingendo immagini che [fanno sciami   di insetti e polveri. Dietro il vetro della finestra [l’alba ha tagliato il cortile: le ombre dei vestiti asciutti corrono sui [muri, i confini   invecchiando invertono la prospettiva l’uno [nell’altro come i poli antipodi e uniti del pianeta strappano l’orizzonte [l’uno all’altro.   Nel vetro tagliente dell’alba la lama del treno è una [prospettiva aerea. Esseri fragili hanno occhi che si toccano.  

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È quasi pronto, sta per passare la vita nell’aumento della proprietà con un distacco, una ricompensa fedele a sé, solo il giglio viola dal prato non vale perché dura un giorno. Potrebbero vederlo dalle finestre di notte, se volesse potrebbe consumarlo, riaffilarlo la gente come la punta di una matita. Questo essere soli è essere di tutti, il corpo ha odore, la proprietà ha odore, l’affezione per una donna che non ha odore, non ha proprietà rientra nel cliché. Lo descrivono come si racconta la vita degli altri o si immagina inesistente. La storia dei prodotti così viva nel minuto che milioni cercano la stessa parola, non lo sanno, lo fanno, lui è il blog, il vlog, il tube della proprietà isolata di sesso maschile su cui appoggerebbe la testa una donna di sesso femminile. La casa senza io gli altri l’accumulo

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degli anni e solo la felicità del processo, non del fine. Potrebbe vederlo la gente nella stanza a volte con il suo odore e anche lei che gli è madre vicino abitualmente avendo speso insieme una vita. Si dorme in due. Si stava immaginando nelle case degli altri.  

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Stesa sul letto a volte vedi forme, curve che entrano e spirali che evadono. Organi trasparenti in alto si aprono e diventano una linea morbida che insegue se stessa, pulisce dai colori scuri – il colore del sangue o quello denso della carne dove nascono le api.   Nulla si rigenera, ma è prolungato, infinito nella linea che separa gli oggetti e fa cose per pensare, per abitare: un grande uovo, ad esempio, si spacca senza perdere liquido e bianchissimo invade gli angoli del soffitto, apre un arco, una porta tra i continenti.   Tra il cielo e l’acqua questo edificio splende in una luce illimitata: puoi aprirlo, aprirti a una lingua di toni aspri, tornare nel suono rotondo di un’altra riprendendo quei toni come finestre sul mare o il ponte sospeso per il parco dove le persone stese sull’erba sono api e il sole sembra impedire la morte anche se tra anni, milioni, un giorno esplodendo.  

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Segui poi altre linee, quelle della specie, forse come sapere che nascere non sarà più violenza, ma fenomeno di sguardo, e dal letto lasci il sesso arrampicarsi attorno ai contorni di questo edificio nel suo bianco, la stella nell’attimo prima di esplodere.   La vita è ovunque, in una linea curva ognuno abita come pensare. Le api ora lasciano la bocca perché le penso.

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Namenbuch, Normandia   Del male   incagliato e invisibile:   l’ombra, la macchia vicino al polso, la macchia nell’odore, il vestito come il corpo, lo spettro che sale sulla chiazza di benzina, sulla calce, sull’erba, sugli escrementi degli uccelli e nei voli la migrazione che dispone schieramenti e collidono come asteroidi.   Del male che invece brucia per cecità:   l’uomo diviso per se stesso, come capire che qualsiasi numero diviso per zero dà zero, e zero diviso per zero: zero. Ma questo non è la fine del mondo, perché la vita è propria di divisioni infinite. Ma l’uomo ha iniziato a pensarsi eterno dividendo: ogni uomo come un centimetro di spazio. Lo spazio si satura a mosaico, verità individuali spingono le une contro le altre, asteroidi dentro ogni cellula.  

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Del male che guardandoci facciamo bruciando:   l’incandescenza fonde i ricordi, fondono la vita [avanti un passo.   Del male che la polvere secca può coprire:   il cimitero con il nido delle rondini sopra la trave e il libro dei nomi, le date di nascita, le date di morte, l’ostinazione a dividere lo spazio in quadrati di nomi, ogni centimetro un centimetro, una voce probabilmente eterna vicino al mare che arriva di notte e divide tutto per zero, morti di guerra e vivi.   Del male che la rondine del nord non riconosce:   il suo petto bianco brucia nell’angolo d’ombra, nel verso che assottiglia lo spazio dei nomi trasformandoli in sassi e pagliuzze, cose di materia dura, prove, nell’inerzia e nella lotta, prove nel becco vive.   Del male che dividi per zero

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e mai zero diventa:   la volontà si prolunga – sul libro dei nomi in un cimitero di guerra; del male che raccontano e del male che esiste, del male che non si fa invisibile – in zero.   Piantato nel midollo di una donna che vuole essere uomo, di un uomo che vuole essere donna, di identità che sarà quando potremo dividere tutto per zero, zero per zero, le rondini nello zero quando dalla costa migrano   all’altro zero incorruttibile.

                                  

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Le forme che si allontanano nella memoria erano forti da una pietra. Le forme, i patti, unioni di natura – è il fiume, il giudice. Ti sei tirata i capelli dietro le orecchie, mia sposa, nel silenzio contemporaneo.

Molto dopo, l’occhio di lui che può essere lei scambia uomini e sessi, il tutto amare liquido.

Mio nonno si sposa, mia nonna indietro per generare, mio nonno mia nonna maggiore e minore. Raccogli la nebbia per fare pietra – e mi accarezzi le mani, mio sposo, nel silenzio contemporaneo.

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Isola   Nella notte il vetro dei grattacieli di Isola sembra una faglia sull’orizzonte, il semicerchio della struttura che dice il potere di rendere solida l’acqua e liquefarsi al momento che hai finito di circoscrivere.   Qui le ore distinguono il silenzio netto, il rullio dei treni, le gocce nell’aria, le fibre – ma l’alba ci ha fermato in un suono contorto:   le curve del tempo vuoto la fuga nel sottopassaggio l’elettricità aperta tra gli ascensori e il cibo [decongelato gli artefici di questa pulizia di vetro o una prova molto umana per fermare un azzurro [fragilissimo.   Seduti al limite della fontana ecco il sorpasso: il freddo incorruttibile si restringe e una folla normale scala i tratti del volto. Al bar mi dici

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che è metafora del mondo oggi trattenendo il cibo nella bocca il grande vetro di questi edifici e il cibo profondo negli organi:   meccanica e carne invisibili e la loro imperfezione avvolge al puro e all’impuro entrando uscendo dal grande vetro come l’arte afona e oscura di Duchamp taglia a sezioni.   Nel caso premi la mano, può frangersi   o resistere come l’etere resiste,   e lì coscienti o da noi separati   puro e impuro,   il grande schermo di Isola   o un continente.

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Maria Borio, nata nel 1985, si è laureata in Lettere ed è dottore di ricerca in Letteratura italiana. Ha scritto su Vittorio Sereni, Eugenio Montale e diversi poeti contemporanei, e ha pubblicato le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018). Cura la sezione poesia di Nuovi Argomenti. Sue poesie si leggono nel XII Quaderno di poesia italiana contemporanea (Marcos y Marcos 2015). Ha pubblicato le raccolte di poesia L’altro limite (LietoColle-Pordenonelegge, 2017) e Trasparenza (Interlinea 2019).

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Clery Celeste

La traccia nelle vene (2014)

Grazie al suo lavoro di radiologa, Clery Celeste racconta la malatt ia senza alcuna posa novecentesca, mostrando il dolore fisico che devasta. Così l’esperienza del corpo che soffre ci mette faccia a faccia con la nostra parte più oscura, quel desiderio di vedere le viscere seguendo la traccia delle vene perché non ci basta l’evidenza di noi. Noi siamo un corpo, un organismo che crediamo di conoscere, eppure c’è un dentro che ci sfugge rischiando di frantumare la faglia in superficie. Qui, nel luogo che più ci accomuna e dove siamo più simili, si consuma quindi lo scacco di non riuscire a narrare a noi stessi la nostra vita: in questo gioco tra dentro e fuori capiamo infatti che la nostra malattia sono le mancanze, le sospensioni, perché siamo il vorrei mai rientrato, le cose non fatte non solo nell’ospedale, ma anche nella casa, perché la spinta a andare al cuore si realizza anche nella relazione con l’altro, divisa tra spogliarsi e nascondersi nei gesti quotidiani, dove i sentimenti passano tra i corpi come fluidi. Vorremmo averci tra le mani, ma non le

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conosciamo, vorremmo stendere solo panni / ben lavati e attraversare le paure senza la casa / dei ricordi, come fanno le lumache / quando sta per piovere. L’ecosistema alternativo al dolore violento dell’essere umani può essere il mare, dove lo sguardo sa cogliere in quell’esistere biologico una diastole dal male dei giorni. Ma non c’è vera cura al nostro desiderio di cercare il centro, perché siamo portati a pungerci, a inserire l ’ago - ovvero la scrittura - per afferrare un’oltranza attraverso il bulbo della penna. Siamo noi questi corpi? Quanto ci conosciamo? Quello che la poetessa suggerisce è un percorso che parte dalla trasparenza del corpo e della malattia per cogliere il nostro sé inafferrabile, sotto gli strati di pelle, dove la vita è lotta degli organi alla sopravvivenza.

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Il mio è il panico della chiusura dell’ipermercato, quando le cose stabiliscono un urlo morboso e la carne in scatola si apre le ferite. Dormono tutti col cappio appeso, è solo questione di tempo.

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Accade che siano le persone di mezzo come una brava infermiera, un medico e il dolore smette di farti impressione come un catetere chiuso e l’urina rimane a mezz’aria nel tubo “Ho smesso di guardarli in faccia magari ricordo i nomi” ma finisci il lavoro e il dramma è essere bravi non sentire niente stare a metà strada dal dispiacere di curare qualcuno che conosci ma con la distanza dei conoscenti.

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Non c’è nessuna colpa nella malattia lasciate perdere le statistiche nessuna sigaretta o bicchiere di birra da rimproverare, io li vedo quelli sani che arrivano con larghi sorrisi e alla prima scansione di TAC palle da golf nella pancia la libertà dei gesti e da professionale sanitaria sono gentile, tolgo l’ago e “arrivederci signore” ma saperli di un mese.

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Tutto si riconduce a un cercarsi di complementari gruppi sanguinei tra foreste di vetro e provette siamo uno scambio di liquidi il nostro baciarsi è solo il gusto di un semplice trasferirsi di fluidi e tutto il resto non si sa da dove passi se dal mio cuore arriva poi al tuo o si perde per strada, tra questo traffico che ci opprime l’asfalto nelle ore di uscita dalle fabbriche il cemento e tutte le altre sostanze radioattive come farfalle le vedo volare.

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Dentro questa macchina tutta la tua struttura risuona alla frequenza della vita e percepisco le tue vene crescere tornare al cuore e fare circonvoluzione di respiri il sogno d’ossigeno che ti porti dentro non temere, prometto che lo attraverserai.

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Riesamino i segmenti rigidi di noi come shanghai sul tavolino e butto via ogni anno come strappo i petali della margherita “eri vero, eri falso” è un gioco poco felice ti faccio a pezzi dentro prima la mano che teneva la mia poi il petto e parto seguendo la traccia delle vene risalgo alla radice il cuore non lo trovo.

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Il male come un palla lo prendi e me lo sbatti addosso si incassa bene nello stomaco lo incarcero, come un dono il lento rovesciarsi della coda tagliata della lucertola. Torna poi a crescere la separata distanza del corpo, l’arto lo sento con i prolungamenti delle vene che puntano dritto alla superficie.

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Ci studiamo come animali all’imbocco della caverna in procinto di attaccarsi. E quella frazione che ci riconosce uomini si perde nel diluvio della caccia, i rantoli della corsa tesa e i muscoli nel loro soffrire scie di impulsi neuronali antichissimi.

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Dormono sulla collina

Non rimarranno che foto e qualche dolore strisciato dal tempo a farmi ricordare il liceo e le pelli forti, ben tirate e le lacrime piantate come alberi nei bagni chiusi a chiave. Sogni di cui non si sa niente, chissà se sono fioriti i rimpianti. Io me li porto ancora dentro i morti delle battaglie d’Asia e tutte quelle pagine.

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Il morso e il bacio sono movimenti circolari. Il seno lo tocchi come se l’avessi sempre fatto. Le rondini che ti volano in testa passano dal fluido degli occhi e arrivano alla mia. Rami spessi le gambe che stringono in nodi le foglie e mi apro tutta unicamente nella solitudine di essere due soli nella stanza.

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Clery Celeste (Forlì, 1991) è laureata con lode in Tecniche di radiologia medica presso l’Università di Bologna. Da gennaio 2015 fa parte della redazione di Atelier Poesia sezione on-line, da gennaio 2018 ne è la direttrice editoriale. È stata vincitrice di numerosi premi: “Tropea Onde Mediterranee”; “Agostino Venanzio Reali”; “E. Cantone”; “Pro Loco Fiume Veneto”; “Biennale internazionale dei Giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo”. Risulta finalista nel Premio Rimini (2014) e al premio Galbiate (2016).  Nel 2018 è stata selezionata come finalista per il premio Cetonaverde poesia. Nel 2019 esce per Edizioni Gattili La vita distesa, piccolo libro d’arte a edizione numerata e limitata con un inedito. La traccia del le vene (LietoColle editore – Pordenonelegge, 2014) è la sua opera prima (nel 2015 è stata vincitrice del premio “Elena Violani Landi”, premio giovani “Maconi”, menzione speciale premio “Carducci”, premio “Solstizio”).

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Azzurra D’Agostino

Alfabetiere privato (2016)

Come rileva la stessa autrice, “questo lavoro di scavo, riordino e ripensamento mi ha concesso l’emergere di alcune private ossessioni (…). Sono affiorate sette parole, che fanno di questo Alfabetiere un “privato” nel senso non tanto di “personale” quanto di privo, zoppo, monco. Mancano infatti la gran parte delle lettere, e le parole stesse che emergono sono parziali, spezzate, una parentesi del linguaggio nella sua ordinarietà. A ben vedere, trovo questa riduzione un valore, laddove all’apparenza possa sembrare un limite. O, forse, trovo il limite stesso il punto giusto su cui soffermarsi, su cui ragionare, intorno a cui dedicarsi”. Le sette parole, attraverso le quali Azzurra D’Agostino rivede e dà nuovo senso alla sua poesia, sono: animali, corpi, filosofia, mondo, morte, parola, presenze. Tutto questo in un dialogo continuo tra tre lingue: l’italiano, il dialetto emiliano e una lingua mista, alla ricerca di una pulizia elementare.

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La misura del mondo

In matematica non sono brava. Perdo il conto delle foglie dei rami e per le stelle ogni volta ricomincio da capo. Non riesco a misurare il salto delle cavallette e non so la formula per il perimetro delle nuvole. Il calcolo di quanta neve sia caduta mi sfugge e anche di quanta ne possa reggere un filo d’erba. La somma dei passi per arrivare al mare non mi riesce e mi chiedo se per il ritorno devo fare una sottrazione. Ho diviso il numero dei semi per i frutti il risultato è una nuova foresta e ne avanza qualcuno. Se moltiplico le giornate di sole per quelle di pioggia ottengo più di sette stagioni e non so quante settimane. La matematica mi confonde. Come misura del [mondo è strana. Per quanti conti si facciano qualcosa non torna mai [pari. Due finestre fanno una vista? quattro muri sono [una casa? Noi siamo i nostri centimetri, chili, litri? quanto [pesa un segreto? quanto misura una risata? e l’area del cuore come si [calcola?

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Vigilia

Uno strato spesso ci chiude il cielo e tutto è rivelato: l’albero di giuda spoglio nel giardino, la solitudine del cane, l’agrifoglio rosso che guida lo sguardo nella fratta. Siamo chiusi qui dentro noi, che aspettiamo qualcosa, il compimento del nostro tempo forse, forse la [fiammella che pure tiene nello spiffero invernale. Fa male certe volte sapersi vivi, così esposti al lato d’ombra inadatti, distratti, diseguali, giusto un po’ troppo, o [appena meno. Non proprio fuori del secolo, ma appena, un poco, a lato. Il volto sfocato della foto, quello che s’è girato, che è venuto non proprio male, ma gli occhi erano [chiusi. Come sarà il tempo a venire? Nevicherà? Avremo figli? Barcollano i palazzi nel buio, le ombre li divorano piano. Avevamo un’altra idea degli eroi che non queste tiepide case. Dai vetri spiamo i passanti. Un forestiero che ama la città, i bui tra l’uno e l’altro lampione. È questo quello che siamo? Perdersi, stupire, essere come possiamo.

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Vedere le cose disfarsi è questo salto, le poche lettere che separano culla e nulla, cura e bara, e noi qui sempre a prendere misure, dentro un corpo che è la più assoluta solitudine, e averci fatto l’abitudine non basta – non basta questa campagna né la legna a marcire non basta seguire cogli occhi come il bosco si riprende tutto e come tutto si arrende. Cos’altro fare? Piangere?

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Non è per giudicare questo bene questo male [questo meglio in questo risveglio questo ritorno questo giorno [assolato nell’assolata campagna la desolata montagna nostra brilla di verde e di trasparenza riempie la stanza qualcosa va a perdersi quello che si mostra è solo il primo lato il velato modo della solitudine la moltitudine dei parenti cascati nel buio svaniti oltre la soglia la voglia di respirare c’è eccome e vien su un profumo di brina la prima mattina d’inverno s’è già cancellata la cancellata era stata dipinta ma l’abbiamo lasciata lì, così, nella ruggine, noi, siamo stati noi? Chi è che se n’è andato davvero? È vero, il primo lato è quello che si mostra, il primo lato è tutto brutto sarebbe mentire, tossire, starnutire come Socrate, solo per sentirsi meno soli più potenti, rigovernati, come se la natura non ci fosse come se la dura pietra che fa il muro del vuoto potesse avere scorci stralci le felci resistono sopportano bene il silenzio il ronzio delle api è tutta un’altra cosa boscosa è diventata la strada faticosa s’è fatta la strada un po’ come lasciare per terra quell’ombra da pianta mentre si canta più in su, sopra la testa si canta che tutta una foresta canta è quasi uno spavento. Chi lascia solo chi? A cosa somiglia la vita sulla terra?

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Vuêter

vuêter c’avî fât al chêsi al strêd la guera l’itaglia i vesté i noster dé c’avî magnà pojver e patég piturà i palaż i cornisôn cusé la lus ataca i lampiôn cvuertà i fjôl e scvuert i nvôdt vuêter, vuêter, żost o sbajà cal sia questqué l’avî fât – al’s pôl scurdêr?

Voialtri

voialtri che avete / fatto le case le strade la guerra / l’Italia i vestiti i nostri giorni / che avete mangiato polvere e patate / dipinto i palazzi i cornicioni / cucito la luce ai lampioni / coperti i figli e scoperto i nipoti / voialtri, voialtri, / giusto o sbagliato che sia / questo qui l’avete fatto – si può scordare?

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Tutto questo verde, le foglie piccole, i gambi, i fili [d’erba e poi pistilli e corolle che nell’alba sono ancora [tutti bagnati di buio e tengono gli occhi chiusi, nel fermo di un [silenzio come dopo una febbre. Saperli che esistono. Che si ammorbidiscono nella luce che schiara, che [riconoscono il volto della primavera, dell’estate. Il verde, le [piante, come una pittura, come essere ancora e sempre nella giovinezza, delicati della delicatezza [di uno stelo, di una gemma.

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E’ paltò

L’era mort su marè, Tonino, co’n brutt mêl in’t al stomeg e mé di tênt in tênt a’ i andeva a cà sua. Al doni sole a’ i pies e’dscorrer un pôg. Alora am dêva e’ VOV (marsala, zucher, alcol, ôvv e po’ basta, – t’al lassi lè). Tôleva e’bcer da la credenza – un sôl – al scoseva la buteja e pô a m steva a guardêr. At piês e’ross? Sélta fora ‘na volta. Mo si żia, c’am piês. Ma t’li porti i paltò? Si, ai pôrt. Perché me a’i aveva comprà un paltò ross, me al dgeva, a la mi’ età, via, ma Tonino compralo compralo e ai l’ho comprà – ma adess… e n’al fniss mja, al parol i ên un po’ tropp dimondi enc al parôl in t’una stênza già acsè grenda, vôda co sulament nuèter dû e cl’arloj c’am piaseva tênt da zninza Cu-cu – j ên bel al żenc, me alora a’vâg

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e via, a’ so beli in t e’ portôn co’un grênd fredd, un silenzi adôss E la sporta con e’ paltò in mên.

Il cappotto

Era morto suo marito / Tonino, di un brutto male allo stomaco / e io di tanto in tanto andavo / a casa sua. Alle donne sole piace parlare / un po’. Allora mi dava il VOV / (marsala, zucchero, alcool, uova e poi basta / – lo lasci lì). / Prendeva il bicchiere dalla credenza / – uno solo – scuoteva la bottiglia / e poi mi stava a guardare. / Ti piace il rosso? Salta fuori una volta / Ma sì zia, che mi piace. Ma li porti i cappotti? / Sì, li porto. Perché io / avevo comprato un cappotto / rosso, io dicevo, alla mia età, via, / ma Tonino compralo compralo / e l’ho comprato – ma adesso… / e non finisce, le parole / sono un po’ troppo / anche le parole in una stanza / già così grande, vuota / con soltanto noialtre due / e quell’orologio che mi piaceva da piccola / Cu-cu – son già le cinque, io allora vado / e via, son già nel portone / con un gran freddo, un silenzio addosso / e la borsa con il cappotto in mano.

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Con ordine

Disposte le cose stanno in un ordine da mano venosa la madonnina con l’orologio sopra il televisore e intorno l’odore di cucinato e il frigo che ronza. ordinaria è la mostra del tempo lo star dentro le ossa macinate un giorno poi un altro fino al lasciare tutto così – inasprito dal mancare.

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Il poeta non è una panchina

Il poeta non è una panchina. Il poeta non è un pezzo da vetrina. Il poeta non è resistente all’acqua e nemmeno al fuoco. Il poeta non è becchime per gli uccelli non è una lampada e nemmeno un portaombrelli. Il poeta non è comodo come un divano. Il poeta non è un attrezzo. Non si mastica il poeta. Il poeta si vede poco, sempre da distante. Scantona dalla strada e non è rassicurante.

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Per i vivi riparare è una misura. Da qui a lì. Di [sotto in su. Giù nella cantina il pericolo in forma di [incalcolato spazio, rottame, scarto di potatura. La chiusura del tetto, il getto di cemento, il pavimento da rifare. Guardare e [vedere solo un conto. Ma è una cosa diversa quella che viene e che si sente, somiglia di più a un pianto, a un fragile canto nuovo, al frutto maturo protetto dal rovo.

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Azzurra D’Agostino (Porretta Terme, 1977) ha pubblicato varie raccolte di poesia, tra cui D'aria sottile (Transeuropa, 2011; selezione Premio Viareggio), Canti di un luogo abbandonato (SassiScritti, 2013 – menzione speciale Premio Marrazza e vincitore Premio Carducci 2014, Alfabetiere privato (LietoColle-pordenonelegge, 2016; finalista Premio Carducci 2017). Ha pubblicato insieme a Barbara Vagnozzi i libri illustrati Piccoli amori, Intervista alla felicità (Fatatrac, 2018) e Luce (Fatatrac, 2019). Ha curato l'antologia Da grande voglio fare il poeta (Mondadori ElectaKids, 2019). Scrive per il teatro, conduce laboratori di poesia e si occupa di organizzazione culturale.

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Bernardo De Luca

Misura (2018)

La raccolta, suddivisa in due sezioni (Geometrie, di ventisei componimenti, e Superstiti, di otto), indaga la membrana tra l’esperienza individuale e un ambiente costituito da scenari urbani, perlopiù scorci di vita quotidiana fatta di piazze, sirene che non si capisce da dove arrivino, netturbini (muovere la scopa / è un gesto di speranza), autoblinde, caserme del commercio, ma quei luoghi appaiono privi di relazioni o addirittura vuoti, anche quando vi si accampano esseri umani, con l’effetto di chiederci cosa rimane di noi; guardare la città di silenzi e incubi è una possibilità per trattenere nella coscienza ciò che siamo, anche tramite i distici in cui ogni testo è scandito, quasi un modo per trovare un equilibrio, un sospendersi tra andare e restare. Misura il tempo, l ’evento che non vedi. Cammina. La conquista è dunque attraversare lo spazio nella propria condizione di vita superstite, spostando l’accento dalla volontà di cambiare allo stare in situazione, perché non siamo a un passo, ma nel passo.

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Geometrie I

Dimentichi qualcosa che va trattenuto ogni giorno si sfibra un tessuto nervoso.

Le diagonali degli aerei lasciano brevemente i segni delle rotte.

Lo spazio si dispone intorno senza precauzioni, muoversi significa modificarlo.

Prova a non muoverti trattieni.

Muoviti segui la scia.

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Geometrie III

Comprendi che ogni gabbia ti contiene l’incrocio delle rette rassicura.

Potrebbe bucarsi la parete e nel risucchio del suo vuoto essere fuori e dentro.

Stai fermo ti muoverai.

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Nel punto dove cambia la materia dopo lenti movimenti come crosta.

Uscire fuori, percorrere le strade, stare tra gli edifici nello spettro della città.

L’abitudine che nell’aspetto si disdice la tua singolarità che spaventa i muri

emana ombre di diniego. Provi a contare i luoghi, analizzi perché la trasformazione

ha tracce di passato. Siamo a un passo, ti ripeti. Sei nel passo, constati.

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L’allarme ha risuonato nelle tempie è passato di occhio in occhio, qualcuno

ha formulato ipotesi, nessuno ha chiara la natura dell’evento.

Inutilmente digitano le mani le porte chiuse dell’informazione.

Restano le facce che non si leggono i cerchi e le serpentine dei movimenti

questo camminare, aprire e chiudere di portoni, e in un sussulto tutta

la città si è aperta e chiusa nell’intermittenza delle sirene.

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La città coi suoi buchi neri si espande nei fumi dei polimeri.

Ancora dalla collina, lo sguardo dell’osservatore – l’incisione

della sua traiettoria. Vedere ti ferma a una possibilità, al paesaggio

e al suo particolare, alla scelta che tu ridiscenda nei silenzi a cercare.

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Il prezzo della calma, un desiderio muto come gli edifici che ora costeggi.

Il commercio degli uomini così assente ora, come l’indifferenza di ogni natura.

Hai provato le forme del silenzio questi spazi di calce.

Osservi lastre di acciaio lamiere dei capannoni sventrati.

Sei nel panico nel deserto dell’allarme.

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Muoversi sposta l’orizzonte, c’è altro oltre l’accumulo di questi

resti di cemento. Lei suggerisce di spostarsi, tu preferisci rimanere

perché stare fermo t’illude di proteggere quelli che dormono.

Sospetti che abbia ragione, che il movimento sia il resto che rimane.

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Ti orienti con minimi gesti nell’asfalto. Le auto oblique

segnano barriere, stoni nel camminare inciampi con il piede, conti senza

obiettivo. Due principi: stare fermo e muoverti.

Di fronte alle prime dissociazioni del cemento, al ferro freddo

e nell’assideramento della pelle cosa bisbigli, a chi.

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Le bottiglie cavalcano le onde nel ritorno della risacca vedi

i resti del tempo, le strutture sintetiche i ricordi-poltiglia l’immersione

nella discarica della tua memoria. È di tutti, oggi una nave obliqua

alla deriva, ruggine che si dilata sul filo della superficie

come il segno che non risponde l’ingegneria spiaggiata, la riva nera.

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Dentro e fuori

La mattina appena sveglio pensi di vedere i mostri. E allora misuri il tempo, l’evento che non vedi.

Quando poggi il piede a terra cominci a contare. Dovresti sapere che in alcuni incalcolabili momenti

puoi essere dentro e fuori, e i globi che ti circondano la testa sono indistinguibili. Misura il tempo, l’evento

che non vedi. Ti rimane questo: tenere fissa la pupilla sullo spazio inesistente, mettendoci i tuoi chili di corpo

passato senza badare alla cicatrice che ti marchia la fronte e che parrebbe renderti misura del presente.

I segreti vanno detti a bassa voce, scandendo bene la visione ed eseguendo la parola che s’attaglia

al cemento. L’hai visto infinite volte e non puoi che [serbare il resto: misura il tempo, l’evento che non vedi. [Cammina.

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Bernardo De Luca è nato a Napoli nel 1986. Ha pubblicato il libro di poesia Gli oggetti trapassati (d’if, 2014). È dottore di ricerca in Filologia italiana e curatore dell’edizione critica e commentata di Foglio di via di Franco Fortini (Quodlibet, 2018). Ha collaborato all’Atlante della letteratura italiana (Einaudi 2012) e pubblicato saggi su autori del secondo Novecento.

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Laura Di Corcia

In tutte le direzioni (2018)

L’esperienza del confine è molto forte nella raccolta (legata alla storia della famiglia dell’autrice, emigrata da Sud a Nord, quindi in Svizzera), che riesce ad assumere un impianto corale, come ad esempio nel racconto delle migrazioni che affondano in una dimensione mitica (gli Argonauti) e riemergono nel contemporaneo dramma dei migranti del Mediterraneo, nel tentativo di dare voce all’altro e alla sua identità in bilico. Anche l’impianto dialogico e teatrale sono volti a esplorare il solco tra l’appartenere e il sentirsi separati in un luogo, la cui tensione è acuita da un andamento versale a volte inarcato a volte più compiuto. La poesia di Laura Di Corcia è un rigoglio di immagini, di colori, di metafore, che riempiono di domande il lettore, perché lo straniero non è solo quello che vediamo, ma anche quello che tutti noi custodiamo dentro: è quel nucleo che ci tiene in vita e al quale sentiamo di appartenere.

 

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Dove si inerpicheranno i gufi da che distanza predicheranno l’alfabeto?

Tu picchierai la testa dieci volte, bambina, prima di scoprire il rotondo del rosso, la puntura del verde. Morirai di fame attendendo la promessa.

Le parole sono fatte per coprire asfaltare il dolore di un mondo crudele.

Sotterrerai mute vergogne in silenzio spaccherai pietre.

Si alzerà un grido, tu non chiedere niente.

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Apparvero come in un sogno lascive meduse giganti. Scomparvero poco dopo, all’alba.

Le pareti non abbracciavano i letti ma si assottigliavano sospirando nuovi dolori.

L’amore rimane appiccicato ai muri per sempre.

Sotto il mantello di uno sconosciuto erano nascoste vittorie. I sentieri non portavano da nessuna parte.

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Il giallo è quel meccanismo estraneo che non bagna la testa ai cuccioli si rifiuta di leccare i loro ventri.

Solo, come sfondo lascia che le cose capitino non aggrinzisce la palta degli eventi: ma nello stomaco è tutto diverso.

Nella pancia dei bambini nascono fionde, germogliano mostri. Il male si partorisce tutti i giorni.

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Avvelenammo le navi come se fossero corvi. Per un lungo periodo camminammo e le mete erano sempre diverse.

Nei nostri occhi bruciava tutta l’Africa. Eravamo gente come voi, forse meno scaltra: il passato ci cinghiava la schiena.

A un certo punto gli scrigni si chiusero per sempre. Dietro ai nostri occhi continuava violenta come un chiodo, la caccia alle streghe.

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Tradurre è gettare la schiena sui sassi guardare l’orologio compiere un giro su se stesso.

Portavamo bestiami dalle montagne alle pianure le rocce profumavano di salvia.

È stato un grido a squarciare l’ipocrisia a trasformare il nettare in cinghiale.

Abbandonammo i campi con la pioggia: rimasero le mucche, a testimoniare l’erba.

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Giù, in fondo al cuore le case si depositano sugli alberi i girotondi si espandono.

Tra azione e azione si aprono cose dolciastre

melograni uva pensieri di ieri le fibre si dilatano.

Se non mi avessi presa per mano che sarei ora? Io sono una che scrive e poi dimentica.

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Trilogia del rosso

I.

Non chiedi magie alla luna ma che riveli un punto di sutura fra i cimiteri delle pozzanghere e lo sbriciolarsi delle ossa.

Nel rosso si amalgama tutto, si riscoprono le punte arrotondate degli eventi e si annacqua ogni desiderio, rinascendo intatto.

Se dici che lo ami, menti ma nemmeno sai stare senza: in grembo porti storie di millenni le guardi cadere, non le puoi fermare.

Alla luna non chiedi magie ma che riveli cosa c’entrino i mozziconi di sigaretta con le lacrime di una ragazza.  

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II.

Non è facile per una bambina accettare che dal rosso si genera il verde e poi il mare, le barche che vanno.

La prima volta fu in bagno tutta la famiglia fu avvertita poi c’è stata la faccenda delle tette. Ma non era il corpo a spaventarti: la paura era tutta nel vedere tua madre inchiodata al muro mentre tu iniziavi a tessere la partenza.

Dal rosso prende inizio la storia: sul viso, un’amara vittoria.  

III.

Hai nascosto sotto la pancia la bambola coi capelli dipinti lo scalpore delle mele acerbe gli orecchini della prima comunione.

Di fianco, hai aperto le ossa

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al tempo, maledicendo l’umidità del sud.

(Devi pulirti così, vedi? Spolverare i mobili essere profumata vergognarti di non essere una pianta).

Tutto coincideva più o meno con l’accento di tuo padre ogni cosa era da rifare le stelle si impiccavano nel buio.

Ti salvava il libricino blu le cento poesie più belle Pascoli Leopardi Manzoni il sorriso – quando c’era – di tua madre.

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Qui – Un poemetto

Giovane coppia: lei

Non ti amo. Se ti amassi non ascolterei quanto gridano le ginocchia e i tendini, se ti amassi morirei qui, in croce, senza dire niente solo guardandoti sorridere per il mio sorriso, non ti amo sarei donna finalmente una donna libera, vorrei tornare indietro le cinghiate sulla schiena erano carezze se paragonate a questo tonfo, a questo rimanere che è erosione caledoniana portami via ricordami che esistono prati ampi case che esiste il pane appena sfornato non ce la faccio, soffoco.

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Laura Di Corcia (Mendrisio, 1982) è laureata in Lettere Moderne. Terminati gli studi, ha iniziato a frequentare il mondo del giornalismo;  dopo esperienze a Berlino e a Los Angeles, è ritornata nella Svizzera italiana dove collabora con diverse testate in qualità di giornalista culturale, occupandosi soprattutto di letteratura, teatro e servizi di approfondimento. Ha scritto a quattro mani con Giancarlo Majorino la biografia del poeta stesso, Vita quasi vera di Giancarlo Majorino (La Vita Felice, 2014), mentre è del 2015 la silloge poetica Epica dello spreco (Cfr, 2015). Alcuni dei suoi testi sono stati tradotti in inglese e pubblicati sul Journal of italian translation del Dipartimento di Lingua e Letteratura di Brooklyn.

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Tommaso Di Dio

Tua e di tutti (2014)

Le nostre imprese crepate dalle sconfitte, ci dice Tommaso Di Dio, arrivano alla coscienza quando diventano il compito che la vita ci chiede ogni giorno, come una riparazione, come un rischio assoluto, come accade a Germanico nella selva di Teutoburgo, sul luogo della grande disfatta. Le nostre imprese sono piccole, ma a renderle eroiche è proprio il nostro destino di sconfitti, che la vita ci chiede di affrontare ogni giorno. Dobbiamo dare un nome alla vita che vediamo posarsi accanto a noi, dobbiamo dare vita alla vita, curare le ferite per diventare padri, unire passato e presente. Lo sguardo orizzontale abbraccia l’esperienza, costruita con fatica, ma affonda anche nella verticalità dei millenni o degli strati geologici che si aprono sotto i nostri piedi. Sono proprio questi strati a interessare l’autore, poiché bisogna ripetere tutto, generare attrito per costruire un nuovo sguardo. Anche la lingua, morta perché sedimento che proviene dalle generazioni passate, è una cicatrice,

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un tatuaggio che porta realtà e chiede il nostro corpo per iscriversi nel presente. Più importante della vista in questo libro è il tatto, dove svanisce il confine tra l'umano e l'animale, dove il bisogno di scavare annoda il prima e il dopo dell'io con l'esperienza di tutti, in una voce che impara a perdere la prima persona.

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Tutto questo non possiamo noi dimenticare una volta cominciata questa impresa. Il giovane ragazzo down distribuisce i giornali. Tutte le mattine non li vende non li compra sotto la pensilina. Quando piove. Quando c’è il sole. Tiene il conto dei minuti che mancano, perché arrivi il pullman che ti scacci nella città verso un lavoro altrove. Ha trovato il suo compito; la sua fatica, il suo posto senza prezzo né guadagno. Prendi il giornale che ti porge; guardalo. Anche lui, mentre mette in opera il mondo sorride in nome di nessuno.

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Con gli anni la vita si complica si confonde si immischia la certezza non si dà nelle mani mai. Le persone dilatano s’allargano rughe pance gli anni sono ricordi nel parco la stessa strada che continui a fare e rifare e gli alberi. Dentro il ventre di una donna a godere steso con la faccia sporca sulla terra; nella montagna fragile delle paure che dilava cancella amici case paesi. E ogni mondo a cui hai creduto come cosa salda e vera è già di altri negli altri corpi come una bufera che non riconosci più; che non riesci ad amare di più.

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La città che splende. La notte. Il vuoto le strade. Gli angoli scavalcati dal fiato corto le poche donne sui marciapiedi e sembra tutto catrame questo tempo, senza rimedio senza soccorso. Ma poi alti sono gli uomini che dormono sui prati e le pietre delle fontane, slabbrate sono piene di muschi foglie ombre ed è notte però il vuoto, le strade. Lingua morta che nelle cose vive alberghi e lasci la tua crepa come uno stigma; fa’ che io possa mettere la testa tutta dentro che io vi spinga battendo reni cosce e petto un pugno di gioia terrena.

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Dove dormi. Tu sei dentro una faccia di alberi, una notte grande. Quando dormi tu addosso hai sempre le strade aperte luce d’acqua mossa cielo e bestie se

ti tocco respiri. Mi chiedo a cosa ci porta questa nostra ignuda natura; una cosa arcana e stupenda pelle se

ti tocco respiri.

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Quel che ammonirono i libri santi. Quel che scrissero i poeti. Le epigrafi. I ruderi. Le pietre le caverne scavate con le mani in gloria del sangue di bufali, di elefanti. Tutto questo essere stati non basta bisogna ripetere tutto, capitolare. Bisogna pagare.

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Il cielo sgombro; con gli alberi di castagno là. Il giorno che si svuota. Le strade di notte poi la linea bianca che verso le luci alte dei palazzi sfonda la ragione e il senso, l’impegno nelle mani che fanno. Cosa. Premono. Spingono trapassano il fogliame questi fiori stupidi di maggio; dicono che vennero le undicimila volte abbracciate facce d’amore in terra e tante andarono via. Cosa. Premono. Io voglio capire come splendono per la terra oscura tante vite.

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L’apertura delle foglie; gli alberi. E la bambina che va a piedi nudi sui ballatoi. La presenza dei colori cancellati, a brani sui cartelloni, sui muri poi sulle braccia.

Siamo deboli.

Se metti la faccia sulla terra ai limiti estremi della bocca c’è la nostra unica somiglianza infinita.

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La ricerca dell’esperienza. Andare dove. Sentire. Sotto la strada c’è un pezzo di terra. Erba grigio verde e polvere, sospesa fino alle rotaie del tram. La ricerca la faccia messa dentro, persa dove. Il bambino ha nella testa un tumore. Le vetrine non s’allacciano a questa calma di mondo inerte. Ridono. Si parlano. Non [cedere. Non andare. Né la luce mai si riposa. Allora dove; è persa. E dove poi. La luce si ritrova.

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Incedunt maestoso locos visuque ac memoria deformis Tacito

Queste sono le nostre imprese. Gli archi grandi fuori dall’asilo, nel parco di provincia. Il cerchio d’alberi, vicino al ponte vicino al bosco dove sotto rimane il canale svuotato d’acqua ormai, ma pieno di foglie, rami. Il tempo di allora; il tempo adesso. L’immagine rovesciata che ritorna in me di un me dal volto corteccia staccata di betulla e questa foga nel processo la luce azzurra dei lampioni, il vento, gli anni.

Cosa è stato; Varo prima, Germanico davanti alla foresta si disse che non avessero indietreggiato. Conficcati crani poi in questi alberi. E ogni volta ricomincia. Questa notte, domani; due millenni fa. La faccia che t’incontra bianca ricapitola e conclude la ricerca dell’esperienza.

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Io non riesco a ricordare il canto; e questa terra senza di me, prima di me. Le luci la voce la strada. Il bacio l’abbraccio la penetrazione mani urlo questa festa che comincia e non è data mai terra senza di me, dopo di me. Ci sono state grotte, torri, civiltà. Ma bisogna arretrare ancora; bisogna cercare. Stare nei muscoli addome contratto a spinta il passo prima. Nascere non è generare; oggi bisogna dare vita alla vita.

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Tommaso Di Dio (1982) vive e lavora a Milano. È autore del libro di poesie Favole (2009), Tua e di tutti (2014, tradotto in francese da Joëlle Gardes), Per il lavoro del principio (2015) in collaborazione con Il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna e l'Ospedale Sant'Orsola e infine della sua più recente breve raccolta Alla fine delle favole (2017). Dal 2015 è membro del Comitato Scientifico del Laboratorio di filosofia e cultura Mechrì. È di prossima pubblicazione la sua traduzione de La primavera e tutto il resto del poeta americano William Carlos Williams. È tra i fondatori della rivista di poesia e arte «Ultima».

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Sebastiano Gatto

Voci dal fondo (2015)

Si può compiere un percorso a ritroso, partendo dal fondo come (inconsapevolmente?) invita a fare il titolo e rientrando verso l’inizio; così, si possono immaginare gli infiniti passi di medici ed infermieri verso le corsie e le stanze, dentro e fuori, con itinerari mai preordinati ma debitori alle urgenze, alle crisi, ai bisogni di vite fragili ed esposte alla fine. Itinerari ripetuti con le stesse ritualità al cambiare degli oggetti/soggetti, perché un letto lasciato libero da una vita (ed una storia) viene immediatamente occupato da un’altra vita (e un’altra storia). Visto da fondo a capo e non da capo a fondo, il libro di Sebastiano Gatto sembra, più che un lavoro sulla nostalgia, un “breviario del distacco”, dove la questione delle terre di provenienza (e qui sì le nostalgie) si stempera nell’avviarsi verso la finitezza, che stacca ciascuno da ogni luogo. Partendo da un’esperienza fenomenologica ispiratrice come quella della migrazione, l’autore giunge con un autentico “viaggio al centro della terra (dell’uomo)” ad una serie di forme interpretative stratificate, con il fil

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rouge costituito da una pietas latina verso i protagonisti di sofferenze misurate nel corpo e nelle distanze.

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Il tarlo

Il tarlo lo senti in corsia, quando i parenti di chi muore invece che al dolore si abbandonano a ordinarie burocrazie. Lo senti nei lungodegenti che in vestaglia rimandano la morte inserendo centesimi per un altro caffè. Basta osservare, saltuariamente rubare parole, per rendersi conto che il tarlo non smette di rodere mai. Poi timbri, imbocchi l’uscita: già al primo barlume di vita il tarlo tace, non rode più.

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L’incidente

Dorme moltissime ore e da sveglio farnetica – voce intubata – di pesci bianchi. Gli amici, che niente più gli significano, chiedono cosa vuol farne dei pesci. Una festa, risponde, vuole fare una festa. Mentre ridono si agita, gli si imperla la fronte deturpata che con nervosa dolcezza la madre tampona: Ora scusateci, dovrebbe passare il primario, tornate un’altra volta.

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Tempi e modi

Il quando dipende da fibra e carattere, dall’area colpita o eventuale insorgere d’altra patologia. Il mentre si connota per sonnolenza, ritiro psichico e non appetenza; sguardo rivolto a una fonte di luce. Il dopo prevede si constatino l’assenza di respiro, di attività cardiaca e neuromuscolare. Della vita.

Coperto il corpo infine, – il tempo che il medico arrivi – un’ultima riga si aggiunge alla cartella clinica. Per chiuderla.

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L’odore delle case

Conosco l’odore di tutte le case, attraverso l’odore di una casa so se l’inquilino è gentile, solo, stanco, amato. Io che una casa non l’ho avuta mai non ho un odore: il solo che ho sentito familiare se n’è andato per sempre con mia madre.

L’odore delle case è sulla soglia: sa di miserie e di vecchiaia, solitudine vera. Mia madre è morta prima di essere vecchia, di diventare sola. Ha avuto me.

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Al paese di mia madre

Quando c’è un lutto, in casa del morto si appresta un banchetto e si apre la porta al viavai dei saluti. Il terzo giorno il corteo dei parenti scavalca per lo meno venti ponti sui quali il prete poggia un pane intrecciato e dell’acqua.

È il numero di ponti a stabilire se facile sarà – per il defunto – emigrare, da dove è sempre stato, all’aldilà.

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Tracce

Si fa carico della morte e della malattia, custode dell’anziano alla deriva. La morte le appartiene, l’ha avuta in esclusiva e non la cede. Non esiste abitudine a un malato che scende come sabbia fra le dita; si insinuano ovunque i granelli di affetti nati per sparire. Ricominciare sempre, ripetere ogni volta la salita, non farsi affossare dal peso della discesa.

Attorno non ci sono i muri asettici di un ospedale, ma le loro case, le tracce di vite in declino e di chi le accompagna.

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L’erba superstite

Non vuole non andare di traverso la spina delle aiuole, il parco d’una via Roma qualsiasi vicino alla stazione. Tenerezza incute il rossore dei visi e lo stringersi in gruppo in quelle che per gli altri sono ore di lavoro. Sfilando viene da pensare solo alle suole che calpestano l’erba superstite di cui si sono fatte casa e dolore.

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Seconda persona singolare

La seconda persona singolare possiamo usarla al posto della prima per maledirci o spronarci: seconda in grammatica, ma prima di fatto.

Persona è “maschera” in etrusco; “foro da cui fuoriescono suoni” in latino; “ufficio”, pare, in babilonese. Singolare è “l’unico”, ma anche “il folle”.

La gerarchia delle persone viene dalla prossimità a chi sta parlando e da dove guarda: ma prossimo è anche l’oggetto del mio approssimarmi.

Tu sei l’altro e il solo cui sono appresso la maschera che mi comprende e scopre; tua è la voce che mi pronuncia, l’eco che ho l’obbligo di pronunciare.

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A Svetlana Aleksievic

Bussa, Svetlana Aleksievic, dolcemente alla casa dei rimasti: preghiere per Cernobyl’, morti di perse liturgie. Delle lingue possibili, l’unica porge che sappia bendare a dovere corpi non benedetti. Fuori dalla finestra ogni cosa pare al suo posto: dritti i campi, dritte le case, dritta la faccia riflessa sul vetro. Non distrarti dalla voce del salvato, ascoltane fino alla fine la storia; vedi se ha fine.

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Ad Anna

Negli anni terribili della ežóvščina ho passato diciassette mesi di fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi “riconobbe”. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): – Ma questo lei può descriverlo? E io dissi: – Posso. Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto.

Diciassette mesi trascorsi davanti ai cancelli di Kresty, da Lev, figlio tuo detenuto. Per molto meno cantano i poeti.

Non tu, Anna, che per piangere versi hai bisogno di un’altra madre che sommessamente ti sradichi da dentro le parole.

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Accetterai solo se il Requiem non sarà per il tuo, ma per ogni figlio; dirai di sì solo se la tua tomba non sarà della Achmátova, ma di ogni madre.

Perché prendere parte significa sottrarsi, perché il solo gesto fondante, a Kresty come presso tutte le Croci, è la rinuncia.

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Sebastiano Gatto è nato a Mestre nel 1975 e vive a Venezia. È scrittore e traduttore. Ha pubblicato i libri di poesia Padre Vostro (Campanotto, 2000), Horse Category (Il Ponte del sale, 2009), Voci dal fondo (LietoColle – Pordenonelegge, 2015) e i romanzi brevi Le sette biciclette di César (Amos, 2013) e Blues delle zucche (Amos, 2015). Ha tradotto, tra gli altri, Julio Llamazares, Juan Benet, Leopoldo María Panero, Miguel de Unamuno.

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Alessandro Grippa

Opera in terra (2016)

Si entra con un volo nel libro d’esordio di Alessandro Grippa e col vento che grida, quasi in antitesi col titolo, che prelude a uno sguardo terrestre. Opera in terra di Alessandro Grippa appare lo spaccato di una “creazione minima” capace di raccontare un territorio nella trama dei suoi vissuti quotidiani, con un’epica della natura che trae il tutto dal perimetro entro il quale essa si manifesta e accade. Non vi è mai nostalgia in questo suo osservare un “alfabeto di lavori” ordinato per fotogrammi e dove chi parla sembra confondersi nella natura: è ombra sul muro, qualcosa che esiste e che trema. Il discorso riesce a rarefarsi e al tempo stesso addensarsi attorno agli oggetti dal forte sapore metaforico, così che il nitore delle immagini ha il potere di renderle paradossalmente inafferrabili.

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Primo posto (Sembrava che volatili)

Sembrava che volatili gridassero nel vento – vento! – vento! –

che fossero già l’albero planando lungo il platano, o fermi al corpo degli ippocastani.

Ho scritto una parola per ogni ala aperta nella stanza dello stormo.

Fermando tutto in tempo autunnale, sempre e solo.

Con tono di proiettili si addensano le nuvole la sera al buio del rovescio.

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Primo posto (Novembre)

Novembre è la direzione presa, venuta dall’argento delle creature nel rumore di una sorgente.

Scrive fitta l’edera l’agenda delle ante, il nucleo del cespuglio emette buio, i moscerini gonfiano l’aria alla velocità del sonno.

Ho ricevuto tutti i soldi del pensiero, le cascate sono cunei di ossa cave e ghiaccio; non c’è posto per nient’altro, solo il crepitio di questo sangue–Lombardia.

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Primo posto (Dì il tuo nome nella stanza)

Dì il tuo nome nella stanza vuota, qualcuno presto ti risponderà. Non è il colore scialbo dell’impermeabile né il corallo del menarca che devi nominare sulla soglia. Tra ogni nome insiste il tuo, e solo conta su di te.

Saranno fiato i passi nella neve questo inverno. Se salteremo sarà dal cielo, al contrario. Volando con le ali del colombaccio.

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Notte (Insonnia)

All’igiene del fuoco, alla sua fiamma rimanda la lampada. Mosche e falene si muovono interne al profilo dell’ombra sul muro, il mio, qualcosa che esiste e che trema.

Da dove vieni, animale scampato, non ferito del tutto? L’anima muta che passa all’aperto in un gesto imminente, calcareo, di pesce, sbadiglia di fronte allo specchio.

Con quale cura si siede, sfoglia le pagine, accende una diana alzando la mano sul ventre, masturba? Con nulla. Fallire, fallire, increspare la carta, scartarla.

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Via Mazzini

Amo il tuo corpo senza periferie, l’arco goto delle labbra, la parola bianca, nella voce dei vestiti che si attarda.

Guardo questa luce che spalanca dalle crepe di un fine settembre, i radi ombrelli passare, aspettarti qui.

La pensilina è silenziosa, il semaforo già rosso. Conosciuto questo mondo vanno ancora e oltre di noi le auto sulla strada, per oggi, del ritorno.

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Il vaso di orchidee

È sempre autunno dove lo posi. Non hai parole abbastanza distanti per dire una nascita così poco lacera. Al limite guardi, ed è una bellezza di miope, all’angolo in sala. Ricorda una goccia senza esperienza ne posizione, che ha solo la sete, come contagio e attrito. Immagini quelle radici premere ripide, discorsi deviati di pochi centimetri, labbra tenute più strette di un bacio. E i petali, aperti nell’assoluto rispetto di una moviola, gareggiano come sospesi in un flusso. Annegare d’altronde non è quasi mai un verbo singolare. Curali o lasciali alle grinfie di chi se ne intende. Non c’è cronaca ne maggioranza in questo vaso che ami. Non sta impietrito per ricordarti un profumo, ma la tua certa distanza dal nero.

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Su un modo di innaffiare i gerani

L’esercizio più difficile è trasportare l’acqua da una [stanza all’altra, quest’acqua tutta a mani nude. I palmi molli, le unghie come le [conchiglie. Il buio sta in cucina, sotto al tavolo. La luce si assottiglia in quella linea [da seguire, il fallimento che va dal bagno ai fiori sul balcone.

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Il chiostro

Non si può essere figli, lo si deve. Brera era qualcosa a cui appartenere meno, ma meglio. Vivere con questo, farsi come porte aperte, come isole discretamente naufragare dentro l’iride. Con il corpo chiuso di una copia il magma sogna ancora il sogno di una forma, seguita nel chiarore ellenico di un fauno; altri torneranno, per partire in uno scatto d’elitre. C’è chi ha detto io stringendo tra le mani cupole di erba raggelata, cadendo dietro i tetti la sera chiude gli occhi di Prussia. C’è chi ha detto di si a tutto questo, e chi dice di noi, tacendo. E ancora io non so di cosa andare fiero se mi applaude dal cortile il volo di un piccione.

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Ultimo posto (Quando febbraio)

Quando febbraio si chiude nel suo modo serale, a falena o soffitta, volano polline e cenere di sigarette, si alzano in spirito santo le rare poiane. Con foga estuaria il biacco riprende la specie nelle oasi, su argini fradici la neve s’immelma. Si incendia di erba e di scappamenti il Montizzolo, i gabbiani del Fontanello si immischiano alle sementi. La colza in arbusti, un morso di denti spaiati, la bocca dell’edera resta vorace, scardina linfa, la primavera annida di vespe le travi.

Mentre in un morse lontano forse le stelle ti parlano; o forse no.

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Ultimo posto (Accostiamo)

Accostiamo. Dove ha termine il raggio del bosco, alla cava, un controsole. La pista annerita, presa a memoria. Di fronte a una sorgiva, una fonte di antiche famiglie patrizie.

La quiete solerte del pesce siluro, l’abbaglio lanciato dal fondo, lontano, un giorno; e ora, Martina, tra i carici senza fare rumore. Dato che è eco quello che toccano i piedi. Il corpo cavo, il disgelo, di nuovo un lasciapassare.

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Alessandro Grippa (Treviglio, 1988) vive a Caravaggio, in provincia di Bergamo. Diplomato al biennio di Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Brera, nel 2009 è tra i fondatori di Caravaggio Contemporanea, collettivo di artisti e curatori. È inoltre vice presidente dell’Associazione GSI Lombardia Onlus, per la quale dal 2010 collabora come volontario a progetti di cooperazione tra Italia e Africa occidentale. Opera in terra (LietoColle-Pordenonelegge, 2016) è il suo esordio in poesia.

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Naike Agata La Biunda

Accogliere i tempi ascoltando (2017)

Le figure presenti in queste poesie rappresentano un mosaico di affetti che l’autrice convoca non tanto per ricordare - perché non si tratta di evocare addii già stati - quanto per immaginare addii futuri. Come si vive con questo pensiero del futuro addio? Come si riverbera nel nostro presente e sulla sostanza delle nostre relazioni? Se la prospettiva si sposta in avanti, se cioè domani è più di oggi, da un lato si ravviva il presente in questo scarto con l’assenza del futuro, dall’altro proprio questo concentrarsi sul bene che affiora dal pensiero della perdita cura quella ferita ancestrale, che segna come una continua mancanza i passi del presente. Poche volte la sintassi s’incrina e il ritmo incespica: non è lo stile, la parola strappata o accesa stranamente, la cifra di questa poesia tutta giocata su un ragionare strofico o su un andamento analogico (non estraneo alla tradizione letteraria siciliana). É nel muoversi tra infanzia e futuro che si dipana l’esistere di questo io lirico che raccoglie e accoglie tutto lo spazio del suo vivere, facendo delle sue parole un dialogo, una porta per far entrare il mondo tramite l’esperienza dell’altro.

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La nascita    Giunta alla torre di avvistamento non vidi che il cadavere di me. Avevo perso nel tunnel tutto il corpo, tutte le mani, le gambe, il petto il sesso.                   Dopo si diventa carne alfabetica e indolore. Una casa svuotata nessun bene innato, nessun male. Si è pronti ad accogliere i tempi ascoltando le forme universali, per scriverne a testimonianza della vita, oltre la vita.   

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Le bambine dagli occhi fermi avanzano fra i giocattoli col passo delle prede cacciatrici si innamorano lentamente delle cicatrici, vedono maniglie d’oro dove un tempo non c’erano neppure serrature. Si prendono cura del proprio corpo come ci si prende cura di un neonato: lo allattano lo pulisco lo vestono lo fanno sentire voluto.

Le bambine dagli occhi fermi si lavano i denti con tanta foga poi corrono sul letto a fare capriole per rompere la maledizione e quando ritornano a dormire mettono la testa sotto il cuscino per non sentire che è possibile anche l’amore.

 

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Racchiusa nel bocciolo della vecchia vestaglia scompari fra le pieghe del divano e nessuno ti vede, nessuno si accorge del tuo peso assente.   Riappari, epifania, solo prima della doccia quando nuda fino all’ultima vergogna mostri l’esile stelo che sei.  

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Hai lasciato scritto su un foglietto che si deve fare la spesa, che il frigorifero

è vuoto.

Hai appuntato tutto ciò che manca e anche quelle cose che ci fanno tanto ridere e che non mancano mai.

Spero tu non mi veda mentre piango con questo tesoro in mano unico testimone dei tuoi 18 anni adesso che sei donna e pensi a cosa cucinare.

 

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Quando si ripiega su se stesso il sangue, e sale nelle vene come una cascata inversa, e infuoca tutte le cellule – i nuclei, gli infinitesimi noi – abbi cura degli occhi:   Sugnu iu, nun mi viri? Chidda ca mancia l ’ossa co sali ppi m’pocu di to vrazza ca m’abbrazzunu. Sugnu iu! Chidda ca nun lassa finiri i junnati – No, nun è chissa l ’ura ppi moriri! – su prima tu nun si felici.   Quando si ripiega su se stesso il sangue, non servono specchi ma trasparenze.   [Sono io, non mi vedi? / Quella che mangia le ossa col sale / per un poco di tue braccia /che mi abbracciano. Sono io! / Quella che non lascia finire le giornate / – No, non è questa l’ora di morire! - /se prima tu non sei felice.]     

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La galassia sulla coscia è un grumo di sangue passato se solo tu vedessi, potessi vedere quante stelle si sono riversate dentro…   Al planetario – ricordi? si diceva che il tempo è quella distanza e se siamo troppo vicini adesso non è perché ti vedo né il tocco quasi raro ma perché qualcosa sempre attraversa sempre e quando può si poggia su questa coscia universale che puoi baciare, ti dico non mi appartiene.  

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Finiranno – si spera – le notti sveglie come giorni, le sigarette a decine spente ancora utili, i pensieri.

Deve essere così, Dino che non servirà più restare vigili per appigliarsi alla vita ma che lei ci porterà a dormire dopo averci preparati al sogno.

Spògliati, quindi, dei tuoi demoni lasciali a terra a contorcersi e tu non avere pietà di loro, non sentirne mai la nostalgia (Voglio stare solo, o una donna che…) non conformarti alla seduzione di ciò che appare facile, lotta sii ribelle al vuoto.

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Il corpo magro vuole lasciarsi andare.

Continua a stare sul divano e consuma il pranzo, se pranza consuma la cena, se cena si consuma.

Quanti anni s’affannano per umiliare la tua bellezza, ma non cedere al tempo perché non c’è decadenza:

tu, promessa al paradiso.

 

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Che tu sia mansueto, mio eterno palpitare più di adesso, domani. Lo ammetto al cospetto dell’asterismo estivo: in me ancora tanto da sfamare. Ma tu, palpitare stanco continua il canone inverso del più intimo inizio quando due volte la palla superò la soglia della porta e io le cosce stremate di mia madre.   Ammettilo nessuno ci viene a chiudere gli occhi la notte eppure, nella silenziosità degli insonni si ostina a rimbombare il muscolo e da quella finestra sul tetto su cui ogni tanto camminano i gatti non manca di entrare la luce:   Macari oggi po dormiri, pupa. Lu jornu ti voli frisca e senza piccatu! Biniritti li to peni, biniritta gioia antica. Dormi dormi, cacciatura!   [Anche oggi puoi dormire, piccina. / Il mattino ti vuole fresca e senza peccato! / Benedette le tue pene, benedetta gioia antica. / Dormi dormi, cacciatrice!]

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Al corpo

L’unica e innumerevole ragione per odiarti la dimentico e riconosco quelle volte che da te mi distacco e ti osservo come appena nato, dentro un vetro.

Sei la massa scelta per assomigliarmi coi segni raccolti in una vita ma non mi sei e per questo torto naturale ti abbandono e ti accolgo ad ogni pasto nella nostra comunione.

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Naike Agata La Biunda è nata a Catania nel 1990 e vive a Milano. Si laurea in lingue all’Università di Catania nel 2014 e nello stesso anno fonda il Centro di Poesia Contemporanea di Catania, di cui è direttrice fino al gennaio del 2016. Alcune sue poesie sono state pubblicate in riviste online, fra cui L’EstroVerso e Atelier. Vincitrice del Premio Onor D’Agobbio nel 2014, del Premio 13 nel 2015 e finalista al Premio Lerici Pea 2015. Ha tradotto e curato l’antologia di poesie della poetessa spagnola Raquel Lanseros, Fino a che saremo Itaca (CartaCanta, 2016). Accogliere i tempi ascoltando è la sua prima raccolta poetica (LietoColle-Pordenonelegge, 2017)

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Maddalena Lotter

Verticale (2015)

Maddalena Lotter ci mostra un’infanzia scavata nei ricordi delle vacanze, quando la natura è un abbraccio cui affidarsi per sciogliere le paure. In quel tempo e in quel luogo altro il corpo è sempre primavera, ma al contempo lo sguardo percepisce che invece la natura degli adulti è la testa mozzata di cervo, poiché essi hanno gli occhi pieni di buio e non vogliono nominare le cose per proteggersi dall’abisso. In quel tempo lontano nasce la malattia dell’immaginare più potente del vedere, che fa inseguire il silenzio e i mostri nel sonno che non arriva mai. Ma oggi quei luoghi non esistono più, scomparsi nell’imbuto della memoria, che forse li ha cambiati grazie al suo potere finzionale. E nel confronto tra quel passato pastorale e il presente si consuma l’obbligo di essere verticali, che ci porta a tenerci occupati, recitare la preghiera dei giorni, fare la guardia a chi si ama senza dormire la notte. Eravamo primavera, il corpo era una casa per i nidi di ghiri sul petto, mentre ora siamo legno di quercia, col timore di restare dimenticati nello stanzino. Diventare grandi non è una conquista,

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ma accettare questa mancanza, quando ci si rende conto che vivere è saper fare a meno, diventare distacco, tenere l’aria e saper lasciare, perché nessuno rimane più di un attimo, anche se ci sono attimi che durano di più. Eppure essere verticali è uno sforzo artificiale per mantenere l’equilibrio di fronte alla vulnerabilità, perché gli esseri umani nascono esposti, senza difesa. Pertanto, accettate le crepe, dovremmo ripensare i nostri giorni inclinandoci l’uno verso l’altro.

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More

I piccoli volevano andare alla secca delle more che si chiama così perché c’era un torrente. Ora bisogna badare agli scorpioni, camminare con il bastone avanti nel deserto di scheletri d’insetto.

Ma i piccoli sono diventati padri e alla secca non ci va più nessuno non si raccolgono le more nel roveto, non è nemmeno un cimitero ormai forse è scomparsa in un imbuto.

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Fratelli

Mi arrampicavo sull’albero di fico e un giorno l’odore repellente della sua malattia mi spaventò; noi della compagnia gli abbiamo tolto lo sporco con un legno ed urlavamo che la linfa sapeva di fegato e il gioco era di spingervi addosso il più debole di tutti. Il pianto muto di quei rami solo alcuni lo hanno avvertito; covavo in quel tempo la mia malattia.

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Veglia

Non volevano che vedessi il corpo dell’animale, mi risparmiarono la veglia gentilmente per goderselo loro, il pianto; pensavano tutti che la morte mi fosse così distante.

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C’è un rispetto fra i tronchi si può fiorire l’uno accanto all’altro ma piano, a dovuta distanza lasciare spazio al respiro dei rami; volevo imparare dagli alberi come si sta senza fusione ma poi è arrivata la tempesta, la stessa acqua, ho pensato, che ora bagna la tua casa a valle.

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Non avevo una casa a vent’anni, il mio corpo era la casa. Era sempre primavera, ma già vedevo, che sarò anch’io legno di quercia un giorno e non faranno più il nido i ghiri nel mio petto cavo, nessuno riposerà nella mia notte e starò nuda e disadorna con le foglie a terra. Sarà allora che mi metterai nello stanzino con gli stivali di una volta, perché l’amore non basta, dicevi, ma io a vent’anni non ho che me da darti.

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Come sei magra, dicono, un fuscello, ma mangi? Fosse questo, rispondo il nutrimento: la bistecca al sangue e gli integratori di vitamine, materia a tenerci in piedi di giorno per fare le azioni, gli affari, occupare un corpo finché si muore. Non ho appetito grazie spero un giorno di somigliare all’aria, allo spazio tra due cose o a un’idea che nasce.

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Saper fare a meno; si nasce per questo per sciogliere le mani lungo i fianchi diventare distacco. Nessuno rimane più di un attimo, ci sono attimi con diversa durata ma con la stessa procedura. Ce n’era una che pareva infinita e molto l’avevamo amata.

Ma una volta capito esercitarsi all’unità minima del respiro, tenere l’aria e anche quella, poi, lasciare.

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Sogno di pesare ogni giorno di meno e poi a sparire come le fate, piangeranno tutti anche quelli invidiosi perché lo spazio vuoto fa miseria.

Miseria nera la casa sporca e le piogge ormonali, questa mia voglia delusa.

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Mie amate mattine quando tutto vuole esistere! La domenica a teatro a godere della bellezza con il vento fra le orecchie, il passo snello, sicuro, Venezia mon amour. Sto in un film. A pranzo in due un’insalata di cozze e il bianco fresco che va giù da solo. Il mondo scivola, un gabbiano sull’argine divora le carcasse. Quanto tempo mi rimane? Ma non è neanche questa la domanda, ho nostalgia.

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A G.

La campagna annienta, tempo perduto questo mio riposo all'ombra di una pace d'albero. Avremo trenta e settant'anni e poi verrà. Come dirti la fede nell’illimitato, amico fragile è questa noia calda, ascoltare i merli e le leggi che tengono stretti i pianeti; un amore che non è un pasto, è desiderio e pur sapendo che si muore non sentire pareti.

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Maddalena Lotter è nata nel 1990 a Venezia. Il suo primo libro di poesie si intitola  Verticale (LietoColle.Pordenonelegge, 2015); suoi testi sono apparsi anche in antologie cartacee (Ladolfi, 2015; Osservatorio fotografico, 2016; LietoColle, 2018) e in diversi blog letterari, in Italia e all’estero. Ha recentemente pubblicato una nuova silloge di testi, d a l t i t o l o Q u e s t i o n i n a t u r a l i , n e l Quattordicesimo  Quaderno italiano della collana Quaderni di poesia Contemporanea (Marcos y Marcos, 2019), a cura di Franco Buffoni, con prefazione di Gian Mario Villalta. Insieme ai poeti Sebastiano Gatto e Giovanni Turra, è curatrice della collana di poesia A27 di Amos Edizioni.

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Daniele Mencarelli

Storia d’amore (2015)

1992, un paese della provincia romana. Gabriele è un ragazzo di anni sedici, rabbioso e disincantato; le droghe sintetiche sono forse il modo per sentirsi simile al suo gruppo di amici. Anna, bella di una bellezza semplice e stel lare, è l ’ innesco dell’esplosivo, capace di portare un evento sconosciuto e sorprendente nella vita del protagonista. “Una storia semplice, di oggi e antichissima, scandita con i tempi esatti di un teatro popolare, con la perfetta geometria di un tango. Ma di oggi, tutto e soltanto di oggi è l'esperimento poetico, di voce e di forma, di parola e di sentire: una lunga, potente ballata d'amore e disperazione sulla soglia dell'età, quando si crede di poter ancora essere tutto e si patisce il niente a ogni respiro. Volutamente, sfacciatamente ingenua, una ballata che è teatro della voce e dell'amore, questo sì pieno, sempre vivo, origine costante di un'altra vita dentro la vita, anche di quella più disperata” (Gian Mario Villalta).

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Undici Ottobre novantadue sedici gli anni appena scoppiati mille i cazzotti mille i baci strappati dalle labbra di un paese sgranato passo dopo passo, senza mai soddisfarla veramente questa fame infelice questo desiderio cane di carne e vita di voglie ubriache sempre in festa. Non arriverà il sonno ma una perdita di sensi un corpo sfinito che s’arrende a qualcosa dentro di feroce.

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Di lavoro vorrei fare il maledetto delle mie poche candeline farne un rogo più alto della notte, gli amici di sempre attorno alle fiamme intonerebbero una danza canterebbero il mio nome mentre io uno a uno guardandoli negli occhi li abbraccerei prima di partire, il mio amato branco di fratelli che ha colpito in mia difesa per cui avrei ucciso anche il mio sangue. Guardaci volare sugli scooter lungo il corso di questi anni che finiranno un millennio intero.

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Ogni sera un capodanno il fuoco d’artificio esplode nelle vene festeggiamenti da onorare in discoteche dai nomi di templi venerati dove in sacrificio si portano divieti. Lampi di luce e tenebre s’accoppiano soffiando sulla foia appuntita su corpi ballerini, È la techno-music signorina, è il basso dritto della cassa che raddoppia la velocità del cuore, è la chimica mangiata a intervalli regolari a darci questa gioia indurita alle mascelle, a fare di noi fratelli allo specchio occhi sgranati e denti di coltello.

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Il copione oltre al giro dei paesi su un fulmine andato di marmitta con te stretta neanche divertita ha il suo finale fisso sul sentiero dove i laghi sembrano due occhi e la capitale distesa giù nel centro una bocca famelica di luci, qui a forza si è romantici, il bosco alle spalle senza fine racconta l’altra parte della storia quella di corpi sciolti dai vestiti pezzo dopo pezzo come una vittoria prima che tutto senza freno avvenga. Con te per chissà quale ragione di vanitosa o forse d’impaurita andrà rivista la scrittura, tanto la mia bocca s’avvicina tanto la tua serra le sue labbra, la voce ti ricompare a sole spento solo perché l’ora è quella del ritorno. Non so quanto amaro esca dal sorriso ma da stasera mi è chiara una cosa, a questo gioco arriverò per primo.

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Il male sa quando aggredire non ama persone attorno, aspetta steso nel mio letto poi scatta togliendo fiato al bene allungando su ogni anima il niente come una morte vittoriosa, lì si è soli contro il gigante, perdersi è l’unico riparo stordirsi fino a dar via la mente, drogare le ore per giungere alla luce. Stanotte nel pieno della guerra mi sei spuntata sul soffitto mentre scappavi per difenderti dal cigno incazzato gonfio per le tue carezze. Per una volta non è stata la pazzia con la sua voce a dire buonanotte ma il tuo sorriso acceso dentro al buio ha vinto portandomi al mattino.

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Ti cerco come l’aria sotto l’acqua quando troppo a fondo si è sfidato il proprio corpo e la natura, a bracciate vago nel paese rovescio marciapiedi dietro le tue amiche che non sanno il tuo numero di casa, a casa andarci a notte cominciata morto di una stanchezza disperata che nel letto si risveglia, col buio riprendere la cerca scartare il paese per intero fino ad arrivare in cima al pianto. Quando si annuncia la tua figura piccola con la busta della spesa non so dire l’amorosa meraviglia, ti vengo incontro e nulla dico perché guardarti mi comanda tutto sono e vibro nei miei occhi, la mano che allungo sul tuo viso è cuore impazzito sulle tempie aria spezzata nei polmoni, tu guardinga resti silenziosa, senza dire niente t’incammini lasciando a me la busta della spesa.

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T’aspetto al sole del muretto intanto sragiono su cosa sia successo perché in quel pugno di minuti mentre affondavamo nella carne e i tuoi capelli d’oro a fili mi finivano a ciocche nella bocca lì in quella ubriacatura come una scoperta mai compiuta ho sentito il godimento farsi servo alla dolcezza del tuo viso ma questa servitù invece di ridurlo lo ha portato al totale stordimento tanto che costa fatica ricordare come i sogni svegliati la mattina, eccoti spuntare da lontano, arrivi e con te l’unica certezza entro e non oltre la giornata vorrei con cura ripassare la materia.

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Guardarti è domandare arriverò un giorno non lontano al significato del tuo corpo cosa ci faccia davvero al mondo perché la nuda bellezza che sei metta il cuore sempre in viaggio verso un dove senza nome, ma è muta la tua pelle chiede con la forza dei vulcani senza dare risposte in cambio, tu inconsapevole di tutto non sai a quale potenza corrisponda il tuo naso stellato di lentiggini e quanto stanco arrivi a sera da tanto baciare e interrogare.

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Il dolore poi è arrivato reclamato da ogni osso a gran voce da tutte le ferite, si aggiunga una febbre da delirio un letto fradicio di gelo e la tribolazione può dirsi realizzata, tu spunti partorita da mia madre intimidita ma più forte è il male che mi vedi e sfiori con le dita una vertigine sei fortissima da tenermi stretto alle tue mani tutto nella stanza è in balìa, tu rimani radice nella terra la tua forza non teme la natura, io prego la tua bellezza il tuo viso è la mia chiesa il tuo corpo un vivo crocifisso ti prego accogli il mio delirio toglimi questa febbre bestia, un miracolo ti sbocci dalle labbra.

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Amare nella lingua della luce io non sapevo poi tu a passo immacolato guerriera rintanata nel piumino hai bussato alla mia vita ed ecco fatta la rivoluzione d’amore innalzato ad altro amore di parole esplose di significato, cammino consumato dalla gioia niente al mondo mi è straniero da stonato canto agli animali ai vicini che mi pensano ubriaco un ballo dedico ai tuoi fiori ai colori una storta piroetta, tutto ha il vestito della festa anche l’eterno s’improvvisa ballerino.

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Daniele Mencarelli nasce a Roma, nel 1974. Vive ad Ariccia. Le sue raccolte principali sono: I giorni condivisi (poeti di clanDestino, 2001), Bambino Gesù (Tipografie Vaticane, 2001), Guardia alta (Niebo-La vita felice, 2005), Bambino Gesù, edizioni Nottetempo, 2010 (vincitore del premio Città di Atri, finalista ai premi Luzi, Brancati, Montano, Frascati, Ceppo) e Figlio (edizioni Nottetempo, 2013). Nel 2015 ha pubblicato Storia d’amore (per LietoColle-Pordenonelegge. La casa degli sguardi, uscito per Mondadori nel 2018, è il suo primo romanzo.

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Marco Pelliccioli

L’orfano (2016)

L’orfano è una raccolta sulla perdita e la possibilità di ritrovare ciò che abbiamo perso nella memoria e negli altri, ossia le innumerevoli vite minori, che si compongono ai margini della storia, nelle periferie. L’orfano allora è sia il poeta, così immerso, uomo come tutti, in questa continua esperienza di incontro e perdita, sia ciascuno di noi, orfano della relazione che in qualche modo legava ciascuno ad un sentire comune. La domanda che già s’impone nel testo d’apertura, quel Chi siamo? così accoratamente sgorgato dalla paura non solo della morte, ma dell ’imperante presente / che fagocita i padri, le radici, la storia, lasciando ogni uomo “orfano”, come recita il titolo della silloge, ritorna senza risposta nell’ultimo testo, in cui è l’acqua della Mörla ad invadere case, tetti e sottoscala, i luoghi dei vivi e dei morti, che, come scrive l’autore, hanno tentato la loro comunione. Pelliccioli sembra, dunque, affidare ad una scrittura poetica non desacralizzata, strutturalmente piana e comunicativa, non soltanto la classica funzione di

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custode del passato, ma anche quella più ampia e oggi non molto praticata di fede laica fondata sui valori umani.

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Non solo la morte, sai, mi spaventa ma questo eterno, imperante presente che fagocita i padri, le radici, la storia con un paio di clic e lascia me padre, il figlio nel ventre di lei orfani, soli... Cocci, detriti, vesti, fruscii, la terra spaccata: “Chi siamo?” mi chiedi ora tu...

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Cascina Malpensata

Legato al tronco senza muschio le mani lacerate, le rotule franate sulla terra, aspettava il padrone scolarsi la vinaccia; il ratto lì nell’aia sbranava affamato una carcassa lorda...

Un tempo nel cortile, poi sotto il porticato, rappreso nel lucore non c’è soltanto un uomo ma traccia di una croce: sangue che la terra sgorga nell’oblio...

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Tram n. 3

Un tempo passava di qui, il tram numero tre raccattava gli operai, le mogli, per giungere in città neppure fosse un aeroplano, o un animale strano: quando arrivava a capolinea la trattoria dell’Alba, i panni, i cenci appesi, i monelli dell’asilo correvano per strada all’osteria del Nino poggiavano i bicchieri sulle botti chi saliva a bordo notava risentito le Nazionali accese... Poi una mattina, un giorno, non sei più ritornato la Bruna alla fermata, i pugni stretti ai fianchi, ti aspettò tre ore con il biglietto in mano e ancora alla finestra in via Furietti a volte ascolta le porte, le ruote, i freni, i fari, che ormai non sono più e nella veglia stende i panni logori nel vento...

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Ettore

Chissà cosa sogna Ettore il cappotto vecchio, le mani giunte, le auto d’epoca in vetrina a poco prezzo. Abbaia un cane sul balcone, quasi volesse destarlo dal torpore, ma lui niente, nei suoi occhi brilla solo una vecchia Fiat celeste il volante in legno dell’Alfa Romeo. Non serve a Ettore la spesa le buste strette in mano da chi passa e non lo vede lui sorride, spalanca gli occhi, la bocca e poi sorride

ed è allora che mi chiedo chi i cani vogliono svegliare...

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C’è chi

Passi affondati nel principio detriti caduti sull’asfalto, senti come batte la voce della Mörla?

C’è chi aspetta le dita martoriate, il mozzicone acceso, assorbe lo stendersi del tempo lenzuola alla finestra, tram fuori servizio, il calice di vino poggiato sulla botte; chi interroga le orme affiorate in superficie cerchi disegnati sul torrente molliche di pane nel taschino la porta di un uscio ancora aperta...

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Giù in cortile

Appena le Autobianchi arrivarono in cortile la polvere di ghiaia entrò dalle finestre non c’erano le porte, i vetri, le persiane, solo scorribande di orfani e monelli: chi ‘l zögàa a sgarèla, il lancio del bastone, chi a scavalchina in alto con la corda chi lanciava i dadi, le bilie nel cortile, chi a fare la bradèla al fosso giù in ginocchio: la cenere nei panni per renderli più bianchi poi stesi in mezzo al prato ad asciugare a poco... Finché il gamba de lègn li riportava a casa sfiancati gli operai in via Furietti a sera: una farfalla bianca sui mozziconi accesi gli orfani, i monelli, gli occhi spaventati

che tremano, sai, ancora tra i panni di lei in lutto alla finestra abbandonati soli a interrogare ora l’intonaco ormai vecchio caduto sull’asfalto...

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La Perosa

“Attenti al cane”, c’era scritto, una bianca pennellata sul grande cancello arrugginito l’edera, le vacche, le stalle, una filanda, il fattore che sgranava a mano le pannocchie i monelli di soppiatto a rubarle di nascosto poi la grande fuga: chi tirava frecce, il legno delle ombrelle, chi le cerbottane, tubi tra i rifiuti, chi le figurine, bilie, statuine fatte con la palcia umida dei campi, mentre il Bersagliere ballava ciuco solo, una gamba, l’altra persa, la stampella... ...all’alba nella vasca piena di letame immersi fino al collo a rubare i fichi...

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L’orfano

Anche se ti nascondi, luna, dietro la polvere, il manto di cupole e binari, tu la conosci la scomparsa via Perosa la rauca solitudine delle orfane operaie all’alba in filanda, di notte ai magazzini: le cerate appiccicate come coperte i secchi, d’orina e pioggia colmi. E scovi orfano me, luna d’estate in ombra, disperso tra detriti, cocci di memoria... ...nel casolare abbandonato l’Angiolina, i figli: Wolly tredici anni, Cristina una bambina, Nino al campo santo...

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Settembre

I cortili di Settembre sono freschi faticano gli stracci, le lenzuola appese, il sole batte poco, le tapparelle chiuse... Qualcuno tira il fiato sulla panchina in pietra qualcuno piange chi è morto nell’estate: un cancro a dodici anni l’infarto che ha stroncato il benzinaio in moto chi a meno di vent’anni dal tetto è scivolato... Ma più forte è l’urlo dei bambini il grido, i campanelli, alla finestra aperta: “Arrivo!”

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Deserto

(Aprile 2014)

Con tutti i miei dinari all’alba la partenza due anni o forse più di fame, di fatica, stipati dentro un camion. E via per il deserto: il carro a cento teste gronda braccia e corpi appesi ai portelloni il cranio frantumato, il sole, il gasolio, in gola, sulla [faccia… ...sbocciano cadaveri ai piedi delle dune: a volte, altri viaggi, qualcuno è caduto...

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Marco Pelliccioli è nato a Seriate (Bergamo) nel 1982 e cresciuto a Brusaporto, piccolo paese della provincia bergamasca. Laureato in Lettere moderne e cinema alla Sapienza di Roma, lavora nell’editoria. Ha pubblicato le raccolte di versi: L’inganno della superficie (Stampa2009, 2019); L’orfano (LietoColle-Pordenonelegge, 2016, Premio Colline di Torino); C’è Nunzia in cortile (LietoColle, 2014, Premio Albero Andronico); Vapore metropolitano (Albatros, 2009, Premio Mario Pannunzio). Del 2015 è il romanzo A due passi dal treno (Edizioni Eclissi), segnalato dal Premio Italo Calvino. Un dandy a teatro. Oscar Wilde e Woody Allen (Edizioni MEF) è un saggio del 2008. Suoi testi sono apparsi su riviste e antologie. Cura la rassegna La poesia e la fontana al Teatro Fontana di Milano, dedicata a voci emergenti e maestri della poesia contemporanea.

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Eleonora Rimolo

La terra originale (2018)

La raccolta si apre con un incendio, quello che nel 2017 ha colpito vaste parti dell’Italia Meridionale e che qui diviene emblema di un trauma, ma al contempo di una soglia di crescita, poiché lo sguardo di adolescente primavera che era stato l’esordio di Temeraria gioia si fa più disincantato, in virtù della coscienza della tragicità del mondo. Nell’autrice non solo affiora la ferita cava, che già prima era un latente motore di inquietudine, ma si compie anche un movimento che conduce la mancanza verso un bisogno di qualcosa di meglio: la casa originale, la prima cellula essenziale, un ritorno dopo questo vagare. A tal proposito si vedano sia l’immagine del cerchio sia quella dell’orma, segni di un’origine, che talvolta si confondono con le tracce umide dei passi dell’altro. Anche l’incoscienza del mondo animale o la vastità indifferente della natura aiutano a cercare una vertigine che fermi il male e il disordine. Cos’è dunque l’origine in grado di resistere all’orrore dell’incendio? Forse è proprio la frase di Jaspers con cui si chiude il libro: quale che sia la nostra

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origine, esistiamo. Ci troviamo nel mondo con altri uomini. Il desiderio e la coscienza dell’altro, da cui una distanza ci separa, ci spinge a violarci e, in qualche modo, a proteggerci.

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Sono cresciuti insieme a te i miei capelli, io meno. Ancora sono tentata dallo svanire se ogni giorno scavo un lembo di pensiero e mi riduco a un liquido vischioso, irriflessivo, che non lascio bere a nessuno. Potremmo davvero esserci tutti senza nient’altro - solo nutrirsi ogni tanto - umane necessità. Cosa riempirebbe allora le coscienze, quale commento, quante penose idee.

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Ci hanno detto di uscire il meno possibile, solamente se urgente: polveri sottili, smog, troppe sirene moleste. Mi difendo così dai batteri, dalle spore, dai sorrisi che non avrei incontrato. Trascorro i giorni della malattia respirando la stessa aria di sempre, osservo la sua caparbietà la comparo alla mia penso a chi andrà via per prima. Intanto la plastica fonde cerca asilo nei polmoni dei superstiti, con la pioggia non si può deglutire, brucia l’ipotesi della resistenza, acre carità.

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Nella combustione l’obbedienza si perde a questo dovere o a quest’altro e accade che ognuno riguardi alla sua libertà più teneramente: come quei feticci invano adorati ci accordano il loro silenzio i gabbiani così volano alti senza il grido salvi dalle loro fascine: contano le ali, si ritrovano lacerati e leggeri, in numero dispari.

 

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I viali esposti alle luci dei fari come lunghi manuali dell’attesa: girarci attorno era ridurre il cerchio ad un’orma, avere ancora una scelta perché con l’ansia indecente del ritorno noi dobbiamo vagare, dobbiamo tornare in cerca della casa originale, della prima cellula essenziale.

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Quel poco che rimarrà saranno le lanterne del centro storico spente al mattino, circondate dalla distanza. Scale, marciapiedi in salita separano i pomeriggi assonnati dalle fughe nervose del corso principale, dalle risa nei caffè, dalle commesse che attendono annoiate. Ognuna di queste porte non ti vedrà entrare e invece io busso, poi esco almeno una volta al mese per rivederti dentro gli archi umidi, nel rombo continuo del sifone, dentro centinaia di carte in accumulo, lasciate lì come me nell’indifferenza, per aver desiderato troppo, con troppa poca prudenza.

 

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Con i muscoli rotti dall’umido passo trasciniamo le settimane, pronunciamo distintamente tre parole sole. Essere stanco significa soffocare dentro a un letto, spendere meno sangue possibile per non replicare il dolore: in questo modo non ricrescono le voglie, si eradicano tutti i contagi e in me non resta che il deserto asettico dove ci siamo contaminati, in cui siamo stati lasciati.

 

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Quelli che per lavoro non hanno meta ma tengono per loro un gran viaggiare portano nelle borse un cambio solo, qualche storia altrui: uno mi siede di fronte, toglie gli occhiali, i suoi gesti lenti non fermano la tensione dei cavi, l’attrito dei chilometri non scivola via dalle spalle strette così dentro se stesse. Studio la fronte del controllore, ne leggo la cura sincera mentre fissa una foto, piccole figure, paesaggi sullo sfondo. Desidero anch’io queste sagome dai teneri contorni, lasciarmi fasciare il ventre nel momento giusto, quello che non giunge ma si impone agli attori di questa scena, dove le ombre sono sipari pesantissimi che non si aprono mai.  

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Perché i giorni dobbiamo viverli tutti anche quelli in cui ci si chiede cosa ci faccio qui, adesso?

e poi una sera finalmente la senti anche tu questa sete che ha martoriato i campi: ora puoi berne, puoi bere stanotte ogni nostro imperativo senza temere l’aceto, davvero ogni cosa secondo natura, tesa alla vertigine carezzata dalla benedetta salvezza.

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Come scende la vita queste scale come si sottrae all’incontro, come affonda dentro la ferita cava, pulsante quando terminato il giorno guaisce il cane disperato col seme in eccesso. Vorrei che fossi tu, vorrei che nulla restasse inviolato, bere quanto trabocca ed infine ubriachi, prossimi alla partenza con le code che salutano e le lingue asciutte, noi educati viaggiatori noi bestie turbate, incontaminate.

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Accade. Senza rimedio come in un quadro dalla finestra l'uomo seduto ricurvo sul letto è una macchia di colore, una scala di grigi, tono su tono dentro questa cornice di pioggia. Qualcun altro se ne va senza essersi rialzato: non si dura molto fuori dai propri ospedali. Il Levante ha portato ai miei piedi un torsolo di mela, fradici scarti che dovrò ripulire con la tua voce annodata alla porta, quando la vecchiaia era un debito da saldare, e cadendo ogni volta non cercavi soccorso, solo più tardi domandavi un sorso d'acqua e con le labbra tumide chiedevi ancora.

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Eleonora Rimolo (Salerno, 1991), laureata in Lettere Classiche e in Filologia Moderna, è Dottore di Ricerca in Studi Letterari presso l’Università di Salerno. Ha pubblicato il romanzo epistolare Amare le parole (Lite Editions, 2013) e le raccolte poetiche Dell ’assenza e della presenza (Matisklo, 2013), La resa dei giorni (Alter Ego, 2015 - Premio Giovani Europa in Versi), Temeraria gioia (Ladolfi, 2017 - Premio Pascoli “L’ora di Barga”, Premio Civetta di Minerva). La terra originale è il suo ultimo libro, pubblicato nella collana Gialla LietoColle-Pordenonelegge (2018, Premio “Minturnae”, Premio Pordenonelegge Poesia). Con alcuni inediti ha vinto il Primo Premio Ossi di seppia (Taggia, 2017). È Direttore per la sezione online della rivista Atelier.

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Greta Rosso

Manuale di insolubilità (2015)

Già leggibile dai titoli emblematici e dai contenuti delle prime due opere (Cronache precarie e In assenza di cifrari), in Manuale di insolubilità Greta Rosso manifesta una chiarezza d’intenti ancora più consapevole, là dove la parola apre questioni irrisolvibili, non solubili appunto dal linguaggio. Il libro infatti incarna il nostro essere in attrito con la lingua, la cui cifra retorica è l’antitesi, il contraddirsi nei desideri e nella volontà, evidente quando l’autrice, più insiste nel modellare immagini, più la voce si imbriglia. È il mancato amore paterno, cercato con ossessione e sempre disatteso, a costituire, come un arto amputato, la radice della precarietà, che si estende ad ogni legame e rade al suolo ogni illusione. È una terribile e dolorosa battaglia quella che avvera la nevrosi dell’equilibrio di quest’elegia dissonante, scandita da un immaginario imprevedibile e da versi assillanti, martellanti, che più tentano di definire un pensiero più se ne discostano e si contraddicono, creando un effetto straordinario e straniante.

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un complesso sistema di eventi intempestivi le lacerazioni accurate a sentenziarne la lontananza le separazioni concatenate, devastanti, definitive l’avvicendarsi crudele di offerte fittizie e [impraticabili

era un piano inclinato che fuorviava [allontanandosi dalla vetta era la vetta vietatissima, desiderabile e increata.

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volevo un viso magro da trasportare nell’aria già colma di visi e corrugamenti volevo che non crescesse nulla del mio corpo, che si attenuassero le forme, che stazionasse infinitamente la quantità di spazio a me assegnata. volevo un viso per la bambina che non era mai bambina, una forma di linea per la iena che non ero. volevo annientare, allucinare, devastare le curve del tempo. volevo fermarmi nell’istante, epifanica, farmi statua.

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del padre non volevo saperne, non mi tangeva e restava una piaga nel fegato, una somma disumana priva di addendi. ero incarnata e disincantata, soprattutto era: evaporati i pianti da anni, il dolore, restava il prurito dell’arto amputato, ma non più di una coda – che stava dietro, seguiva, non ne vidi mai l’ombra. l’odore.

del padre sapevo nulla e tutto, non sapevo più il viso, era: lo lasciai essere ogni mattina di aprile, ancora fresca l’aria delle colline, stornarmi il cuore dagli occhi.

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atti colmi di logica e privi di spiegazione come i lividi bluastri sulle cosce in estate l’ansia feroce dei pomeriggi, lunghi al capo dolente, col sonno che pressa e non passa – partorì, in agosto, un’idea di tempo instabile mi tolse il padre e mi diede il temporale a tuonare fra le mani – tratteggio una mappa della mia pelle.

la galassia non conviene, resto analitica, coerente e impraticata.

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fingemmo di scaricare le unghie, scriverci in petto le notti luminose, il merito per i nostri disegni di gloria. come chiunque amavamo la vita.

temerari. assenti. sconclusionati. non sapevamo iniziare il giorno, ma ci arrendevamo alla luce.

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sulle porte azzurre inchiodiamo il mosaico dei giorni ormai è difficile notare la differenza fra vecchio e nuovo le spore che ci assegnano irritazioni a livello superficiale non è lo stesso materiale che compone gli occhi, non è assembrare le ansie adiacenti, non è essere più o meno in gamba. piccoli e pratici. oppure destinare le forze a problemi minori.

talvolta chiudiamo le finestre e da dentro guardiamo l’ombra del nostro capo sul cortile. è l’ennesima dimostrazione che il giorno non muore. ma noi lo seppelliamo.

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un presagio è un segno insolubile è un coccodrillo, un treno a vapore l’auto che sfreccia e non s’arresta una prostituta sottile e senza gambe una macchina per tingere gli occhi, il richiamo sordo della pioggia o la tua sordida assenza – non si stacca dal brogliaccio del vissuto: il presagio è non vissuto ma attanagliato, non lo rimuoveremo.

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un dolore riparato ad aghi, un divenire accelerato, viandante, rauco – un impero deludente, doloroso appunto, irricominciabile – a caccia dei nostri stessi passi finiamo in fallo molte, troppe volte, tribali, animosi, corali. non ci chiederemo dove né come. non ci faremo la domanda che separa i tempi e li rende uguali non batteremo il ritmo respirato delle stagioni.

saremo brina sul pelo dell’acqua, impossibili e tragici. un fiume che divora sé stesso scorrendo al contrario, la frase magica che anche non pronunciata annulla il mondo e i suoi convenevoli.

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il nostro amore al di fuori della legge nutrito con sondini tremendi, alimentato da droghe mai sentite prima, riservato, vitale schiaffeggiato dalle onde comuni che poi lo accarezzano, dispiaciuto, preoccupato, presente, il nostro amore privo di mansioni, denunciato, perdonato, reso esempio, fatto prova di stigmate e altre gelide guerre.

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quegli amori di capelli frammentati, amori desolati e assoluti come gli alberghi a novembre, quando tutto sembra finire o non poter cominciare. amori che si infrangono sugli specchi della pioggia, che si attorcigliano alle catenine ferite, finché non c’è salvezza se non tagliarli o farne una religione nuova.

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Greta Rosso è nata a Casale Monferrato nel 1982. Vive e lavora a Bormio; scrive da sedici anni. Ha pubblicato Cronache Precarie (Aìsara, 2009) e In assenza di cifrari (LietoColle, 2012). Sue poesie sono apparse nei siti internet Nazione Indiana, Absolute Poetry, Imperfetta Ellisse, Viadelledonne, Poetarum Silva, Words Social Forum, e nelle riviste cartacee Il Foglio Clandestino e Le Voci della Luna.

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Giulia Rusconi

Suite per una notte (2014)

Nell’elenco dei padri della sua prima brillante raccolta, Giulia Rusconi ci ha mostrato un gruppo di uomini inetti, un po’ sadici, fintamente buoni, certamente incapaci di amare, ma al più interessati ad appropriarsi di spoglie; erano allegoria del tempo presente, timoroso e disperso nella precarietà, celata nell’ossessione del corpo e nel percepirsi analfabeta. Così i padri erano specchi che, mentre li sezionava, mettevano a nudo la labilità dell’io, portando a galla la sua urgenza di padre, ovvero una direzione capace di soffiare via le ceneri del vivere. In Suite per una notte quell’io si polverizza ancora di più perché è scomparsa la fiducia di trovare una possibile fuga, pertanto non resta che filtrare il reale con disincanto: l’amore diviene una favola breve su fondamenta di carta, anche se ogni poesia è una continua illusione che si nutre della disperazione. Anzi, proprio questo procedere a fari spenti in un trasgredire fuggiasco accende la magia di stringere il meglio prima che finisca: Accanto a te sono sempre / la giovane sposa che hai scelto / e a letto la notte / le hai detto commosso Se

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muoio / ti stringo la mano, posso? Perché in verità non c’è cura alla malattia che è vivere, neppure la parola sostiene il nostro grido inceppato. Siamo degenti in piedi come cerini grazie ai bicchieri riempiti, il nostro difetto è muoverci inciampando ad ogni passo per dimenticare il baratro dei giorni. In una lettura serrata e una voce che è lama netta nella ferita, sembra quasi che prima prevalga la volontà di disfare tutto, perché non c’è rimedio, più nulla cui credere; poi invece la carne si ricompone vibrando nella corteccia della natura e, soprattutto, abitando il “sogno del reale”: solo così potremo consolarci quando l’altro, partendo, lascerà la sua traccia dentro di noi e noi inganneremo il buio giocando a fare i bambini.

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E non c’è cura forse sì accettare che non c’è cura abbracciare il difetto o forse proprio non c’è rimedio e allora ci si può illudere ci si può consolare.

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La miglior cosa che un uomo ha fatto per me è stata lavarmi in acqua tiepida sfregando forte e rivestirmi con cautela per non spezzarmi braccia gambe e collo e cullandomi dirmi che mai più avrei avuto bisogno di mangiare io fatta d’aria io sciolta nell’aria uno zeffiro dolce pronto ad amare tutto.

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Solo tu mi consoli, fingi che tutto sia intero – l’amore ha tanta pietà così tanta è così buono con me – che morbidezza – con le dita mi ridisegni il corpo, mio amore, anche il mio corpo all’improvviso mi sembra di nuovo intero.

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L’amore mio è un signore che non vuole fidanzarsi ma a volte mi incontra e alza bandiera bianca, mi dà tregua e il silenzio di una mano sulla bocca. Porta sensi di colpa crede di non darmi abbastanza. Ah sapesse lui la pace di trovarmi sanata da tutto fosse anche per un’ora o due.

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Si sta in fila indiana ad aspettare, l’impazienza mascherata in un frase una risata. In mano pronti i soldi – non siamo mica ladri noi noi poveri cerini sull’attenti – si ordina, poi si paga, sì, le pagheremo tutte.

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Io li conosco tutti i degenti di tutti i bar – c’è chi si abbandona a larghe risate chi costruisce filosofie complesse c’è chi piange su un amore finito chi improvvisa buffi pezzi di teatro. Io tra loro sono la più sfrenata anch’io con il mio camice di ordinanza anch’io uguale agli altri e la follia arriva a tali livelli che vorrei infermieri a tenermi braccia a gambe un morso in bocca una benda – meno male che i farmaci qui sono legali ed economici e in sere fortunate trovo qualcuno che mi offre tutto. Ah bizzarra confusione delle sere in cui si è tutti insieme col bicchiere pieno – ultimi a lasciar la festa.

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Amici vedete io ho un male che mi ostino a curare da me – al bar la notte si perde dentro il mio bicchiere che è fondo, non vedo mai la fine. Non dite che fa male al fegato ai reni, non capite, qualcosa si dovrà pur sacrificare. Mi ricovero ogni sera in qualche bar mi dimentico mi perdo via: questa la mia cura e la mia malattia.

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Tu uomo la notte mi porti nel bosco con le tue mani legnose, corteccia è il tuo cuore, ma piena di una resina dura e il tuo amore è scuro come le ombre lunari che fanno paura. Quando si fa mattina per mano mi conduci al prato per vedere che luccica, quando appena inizia a sciogliersi la brina.

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Che cosa gli dicevo? Prendiamo una suite per una notte come due fuggiaschi – Che cosa romantica, sì, come un tempo chi non si poteva incontrare. Anche un motel andrebbe assai bene, una cameraccia in cui guardare le tue fatture, compresa quella ruga un po’ fonda e la pancia che ingrassa. Come resistere tra la gente, o in macchina, quando tutto chiama a te, tutto chiama all’amore più puro più sporco e noi impettiti, tu che ti riesce meglio io che chissà come con te fingo male e sembro sempre una che finge. Prenoto io, dicevo, pago io, tu non devi far altro che venire. E venire e venire.

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Mi cambio le mutande, dicevo, prima di venire a letto. Il cane ai piedi sul tappeto di fuori il nero delle notti e le montagne. Un bivacco che ci dava le candele, noi tornati piccoli, impacciati e malsicuri nelle ombre. Tu già nudo me le toglievi subito, si faceva l’amore respirando forte, i letti erano navi di latta, il bagno lontano, le finestre vibravano.

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Asciugati la fronte, gli dicevo. Era tutto bagnato di amore, dopo l’amore. Era bellissimo restare nel letto uno accanto all’altro, come due feriti, attoniti e felici, respirando. Ma andavo oltre. L’amore vero, pensavo, è questo andare via di qui, è questo andar lontano, lasciarlo libero quest’uomo che possiedo, abbandonarlo è l’atto mio supremo l’ultimo regalo che gli faccio.

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Giulia Rusconi è nata a Venezia nel 1984. Ha pubblicato tre libri di poesie: I padri (Ladolfi editore, 2012, Suite per una notte (LietoColle-Pordenonelegge, 2014) e Linoleum (Amos edizioni, 2017).

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Francesca Serragnoli

Aprile di là (2016)

Vi è un profondo senso religioso che coinvolge le figure presenti nel testo, così carico di dolore ma anche di aperture vitali. Questo perché sull’inquietudine che attraversa il reale prevale la grazia e la fiducia nella possibilità di rinnovarsi, perché tutto ciò che la vita ci porta, sotto forma di enigma, è comunque un dono. In tal modo Aprile di là celebra il tempo nella speranza della sua infinitezza, accanto alla coscienza del suo scorrere prima e dopo il vissuto. In quest’opera l’autrice svela e ripercorre il proprio itinerario di scrittura, che va inteso come sequenza di atti dentro un mosaico di scoperte, esperienze, incontri che si compiono e di alterità che si attraversano, sempre con un occhio alla terra e l’altro a ciò che la trascende e la sublima.

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Non sai cosa vuol dire girare il tramonto come un foglio di giornale avere un occhio rosso nella mente il picchiatore è il sangue la strage ha il rossore dei vini d’annata. Non c’è pazienza di lavorare spalla a spalla con i sassi. Quando si staccherà la parola solo ormai un sussurro, una bolla una frasca che sfrega il ventre e lascia al sangue il clamore di un’occhiata quella gigante ombra d’angelo avrà la pronuncia di un bicchiere d’acqua i grani sciolti di un amore il bianco lino nel volto trasparente commuoverà solo il vento.

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Come sbiadisci infranto evapori spento da lunghe litanie resisti e con le mani cerchi di frenare la danza della sfioritura istanti pietrificati hanno in cima corone di neve ed è tutto qui sventrato il pollo che girava beccando felicità. Non è ridere incidere col coltello una bocca morta. Dentro questo vietnam girato a spalla lascio all’abatjour indicare un fioco pallore di luna attendere bambina piegata sul prato i grilli uscire dal buco del cuore.

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Il buio è un insetto che fa il morto rivive se lo bacia il fuoco se la voce tigrata attraversa gli scuri e scuote il cuore con le unghie.

Laggiù la ferita è un fiore le pareti fra noi cadono come petali distratti da una manata di vento il volto di cartone si piega come un vecchio amore e ricomincia a stringere con i pugni l’aria.

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Da una parte all’altra del vivere giriamo come pazzi condannati a sostenere il cielo con tronchi di polvere. La voliera fra nascita e morte curva come un cerchio.

Nella grotta della mia natività una luce imbianca paglia, scalda la roccia lì vado spesso e piango nulla è mai stato così vivo.

Guardo l’inizio spaccare una faglia fra la madre e il buio due torri storte lasciano alla quasi notte la precisione blu dello splendore.

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Ci vorrebbe proprio tutto il tempo di cucire un bottone. Quel fermarsi in quel punto della camicia su e giù con l’ago e il filo lungo che va in alto e scende. Quel andare al di là e tornare, basterà?

Il viaggio di una madre il puntino luminoso della sua mano che dal cielo scende e sale un filo che fra le dita sembra attraversare niente.

Io ti avevo stretto la mano nella panca della chiesa dei Servi sentivo che piangevi non sapevo come ricucire il fiore sdraiato del tuo respiro con tutte quelle radici al vento.

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L’alba è una donna che s’infila le calze lentamente come sapesse di essere guardata. La luce batte sugli zoccoli degli uccelli è un grido che non cade nel cielo, nel corridoio di una casa è una madre chiamata entra in camera, ti copre le gambe le spalle ti sveglia e se ne va scuotendo il muro ballando biondissima alla Marilyn Monroe.

Ti volti appena nato come se niente fosse accaduto i tuoi occhi sono così blu da ingannare i fiori il loro andare ogni mattina incontro al cielo mentre il giorno sembra mio nonno che fa un cenno con la mano come dicesse vieni e sorride.

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Tu li sbagli spesso i momenti della vita le carezze troppo forti, i baci che svegliano, le domande che irritano. Ma io non li voglio cambiare quei tratti di violetta nel muro slabbrato quello sbagliarsi limpido del vento che non distingue il cappello dalla polvere. Non avere paura di me tiro i sassi per vedere volare gli uccelli e ricadere la rotta verso di me. Dopo l’esplosione della mia voce ascolto il cinguettio non più mio oh mio sole tiepido d’ottobre che ritorni sempre come se fossi una vetrata trasparente.

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Non sono tipo che sviti con un un’unghia non rimango in mano scendo in angoli torno in urti brevi come spigoli per entrare poso i pugni in porte socchiuse non so nemmeno se sarò chi sono.

Non amo i legni nudi i nidi in vista ai vivi non cerco le cascate di quelli in piena fra i volti nelle folle. Adoro chi riparte e batte il piede insieme all’onda, io nel quadrato di un bagno piango i piatti prenotati a vita che una voce timida disdice privata, per non essere ascoltata.

È un’ora di punta uno stridore di ruote ferme davanti a un viso nudo nelle dolci fiamme umane.

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Dalle topaie escono stirandosi gatti scuri.

E se fosse un elenco la vita? Lanciare i sogni sui pavimenti ripartire poveri e ingordi dal cerchio tagliato d’un ramo qualunque.

La catena tira tutto torna dentro rapidi soffitti respira forte se puoi allontana da me quest’aquila che sento rigare l’aria unghie più calme vorrei nel viso

intravedere fra le dentate onde accavallarsi un tempo a pancia nuda.

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Sul pelo dell’acqua come un cigno scendevi nel secolo

settembre le lunghe marce degli uccelli la neve, le rose assenti poco maggio nude giravolte di rami ossari da cui fissavo la tua coda d’acqua.

Stringo il sonno come vecchia corda ogni pagina danza lentamente sembra che nulla capovolga la sera. La notte è un ragno che si lascia toccare.

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Francesca Serragnoli (Bologna, 1972) è laureata in Lettere Moderne e in Scienze Religiose. Ha lavorato presso il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna fino al 2007. Ha pubblicato le raccolte Il fianco dove appoggiare un figlio (Bologna, 2003, nuova edizione Raffaelli, 2012), Il rubino del martedì (Raffaelli, 2010) e Aprile di là (LietoColle – Pordenonelegge, 2016).  

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Giulio Viano

Iridi Artiche (2014)

Il mondo cantato da Iridi Artiche ha un’incredibile potenza mitica e cosmica, capace di radunare sulla pagina bianca reminiscenze cosmologiche classiche, astronomiche, epiche, per dare vita a una lingua vibrante e grandiosa, decisamente insolita nel panorama poetico attuale, in cui si osserva la lezione dei maestri mitomodernisti nel desiderio di r i fondare un nuovo ordine nel la realtà contemporanea. Una poesia lontana dal lirismo canonico, tesa a trasgredire librarsi sul quotidiano al fine di misurarsi con una dimensione più vasta, “cielica”, nella quale la vita comune può però riconoscersi e trasfigurarsi.

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Fata Morgana

Hai mai chiamato per il suo nome di atomi incantati quella donna che non si volta mai lontana dall’alba al mattino, estranea nel tramonto ad ogni notte?

Fata Morgana dallo sguardo immobile vestita di antimateria fra due ali di roccia che si aprono

sgretolando un colore dopo l’altro al ritmo dei tuoi passi divori luce, rapisci montagne, uccidi con un cenno qualsiasi varco verso il visibile

e contro chi vuole il tuo spazio apri di scatto ventagli magnetici cantando rune, catene nell’aria

e inseguendo chi indietreggia sorpreso da cerchi di pietre e faggete con vortici e linci di ghiaccio

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eppure, una sera deserta ho potuto ascoltarti, senza crederlo, vestita di antimateria suonare il flauto, scolpita nel nulla

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Guardando scorrere

Cavalli di pensiero sopra il grano visto di lato scorrere, lo spazio perde, forse, una o due dimensioni nell’attrito con l’aria ma canta come un flauto suonato dallo sguardo, se lo osservi

e lui osserva te, lingua di linee deposte al tuo cospetto in un’eterna spirale vetrata

ma spiegami perché dovrei trattenerne la mano se prima ancora di afferrarla è addio

ora che il treno è un’eco ritorna padrona la nebbia e un’altra notte altra brina ricopre.

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Incerto Autunno

Incerto che cosa s’inquadri nel cogliere foglie che cadono se colore o caduta

Artigli pettinando il pomeriggio arano legno vivo come condanne da un anello d’aria

Condanne a vita nuova, allo strapparsi da ciò che è stato, a qualsiasi costo

È così che si sconta la rinascita non solo tra le foglie e non sempre colori ci accompagnano.

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Ali, voi

un plurale che arde, anima mia dietro le quinte uno sfuggire incredulo

cede lo spazio fra la seta e il vetro che l’occhio come un indice attraversa

per buona parte della notte, ali voi muse, abisso dinamico

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Elfa

intuita sul perimetro di un petalo

gravità non conosci

felce sottile, a picco sullo spazio

ricavi sentieri di brina

guardando al cielo come

per contare le Pleiadi

e trascinando con te luci sismiche

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La Luna e la riva

Atto mancato sospeso nell’ambra di un mare più lunare che terrestre visuali frammentarie ripetute sull’infinito ardere strapiombi orizzontali che tramuta in onde sera e vertigine, sacerdotesse in tenue processione di respiro

Sorride, isolato diadema satellite riflesso sulla Terra luce senza risposta, un’equazione fine a se stessa in aria

e a riva solo ipotesi

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Orestea

Vista di umana strage, quelle prime pietre di trama eredi della nebbia voltate dall’aratro della morte

morte su morte, chine su Agamennone le fiere al sacrificio della colpa veglia vibrata in un vortice nero da mano che a sua volta morirà di vendetta in vendetta, sotto al filo del figlio ritorto da Apollo

Quanto mancava mai, o dei e dee, quanto mancava mai alla risposta che avrebbe fatto scivolare il grigio dal corpo inascoltato di Cassandra?

Ma voi diceste buio e libero corso alle furie lasciaste sopra Oreste, perché sangue su sangue ancora scorresse, ma in alto, stretto nella clessidra del rimorso fino a strozzare la mente in un grido.

Per quanto ancora, preda delle Erinni,

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il coro si sarebbe propagato se Atena non fosse discesa lancia fra la sentenza e la rinascita

e dorme il coro, ora che tutto è quiete, dorme il coro, ora riscritta sul disco d’argento saettante del dio.

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Gilgameš

“Questo il significato del sogno: dio solo per metà.”

Oltre le stelle stesse tu bramavi, Ninsun la dea ti disse: “Figlio mio, grande sarai nel regno dei mortali, ma la tua fine i tuoi occhi vedranno, argine alla tua forza.”

Ultimo sulla piana il Re di Uruk dalle forti mura allunga un’ombra, ormai morto Enkidu e sempre più si estende il mare della sera e Šamaš il Glorioso si ritira.

“Vulcani in lontananze senza nome e pioggia e pioggia, grigia come argilla, spinta fino alle vertebre del giardino del mondo.

Oh, se un leone avesse dilaniato l’umanità, invece del Diluvio!

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Ma quel giorno sibilò sul creato dai cieli neri la frusta di Ereškigal.”

Questo il racconto che ti narrerà Utnapištim Lontano una volta varcate le viscere della più nera

montagna, che accumulano giorni più neri ancora sul tuo urlo ignaro di quanto nero ancora resti fino alla luce.

Solo e mai più dio, colui che fu forte come una stella aprì un varco nei giorni più neri verso Dilmun, la Terra degli Eterni.

Alla luce riemerso prestò ascolto al racconto di Utnapištim, il Lontano che scampò alla rovina. E colse una rosa sott’acqua, ma un serpente venne e la divorò.

“Quanto a te, o Gilgameš,” gli dissero le stelle quella sera,

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“ti è divenuto odioso questo approdo? Non avevi che da vincere il sonno per sei giorni e sei notti, o vincitore dell’invincibile Toro del Cielo...” E allora Gilgameš sedette e pianse.

Visse, regnò, varcò ogni lontananza vide cose segrete e ne fu esausto il figlio di Ninsun e alla morte si arrese.

O Gilgameš, Signore del Remoto, dell’orizzonte solo testimone, riposi la tua ombra che sfidava sull’orizzonte Šamaš il Glorioso.

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Hecate

Hai un effetto ipnotico, sai

signora, signora dell’anima chiamata Luna Piena

splendida nel tuo manto, Ecate bianca perla reclusa dalla gravità

bianca e incrinata, emersa dallo sfondo dura come un’acropoli

dalle colonne fragili e per sempre marmo non detto che va sgretolandosi

mentre sorridi e artigli altri destini

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Mare Nubium

Millennio, cono ignoto quasi come l’umore del futuro

cosa che può apparire lentamente tesa fra due riverberi come non mai veloce accelerando verso il suono muto

e niente più da festeggiare all’ombra di una bandiera immobile di onde emozionali restituite in foto nettissime rispetto allo sgomento

di ora in ora vento

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Giulio Viano è nato a Genova nel 1973. Laureato in Lingue e Letterature Straniere, è traduttore professionista. Nel 2010 ha esordito con la raccolta Ala d’Aquila si Stende, finalista segnalata per la sezione Libro d’esordio al concorso nazionale Premio Fiera dell ’Editoria di Poesia 2011. Presente con letture performative a numerosi reading e festival, nel 2011 ha ricevuto il primo premio per la sezione Composizione poetica al concorso internazionale Le Culture del Mediterraneo. Per la Gialla, ha pubblicato Iridi Artiche (LietoColle–Pordenonelegge, 2014), una delle quattro opere di esordio della Collana. Fra le partecipazioni recenti, presenze ad eventi nazionali con letture e traduzioni dai Romantici inglesi ed alcuni appuntamenti solisti. Suoi brani e una sua traduzione compaiono nella raccolta Poesia mitomodernista oggi – Per un nuovo Romanticismo.

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Kabir Yusuf Abukar

Reflex (2017)

L’epigrafe di Emilio Rentocchini, scrivere è andare in cerca, riassume forse il senso di questo esordio assoluto. Andare in cerca di cosa? Viene da dire di sé, dal momento che molte poesie della raccolta cercano di definire un io, anche quando si posa sul mondo esterno, che è tra l’altro un carattere tipico del nostro tempo: cercarsi negli altri, farsi avanti e poi ritrarsi. Non è un caso che uno dei temi centrali dell’opera sia lo schermo, declinato in vari modi, tutti con un portato chiaramente evocativo: ad esempio i riflessi, la fotografia, l’esposizione, la dissolvenza. Lo schermo è la cifra di questo sguardo giovane sul mondo, che cerca in un ritmo a tratti più battuto, quasi rap, una direzione da seguire, un posto dove stare.

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Ho visto che da solo riesco meglio a immaginarmi come punto, fisso nella moltitudine di tutti con un sogno: tutti a rincorrere nel prossimo se stessi dimenticando di esserlo per primi andando a letto ad ore deficienti a fare finta di morire la mattina. Ho deciso di darmi alla vita a poco a poco perché non mi consumi e faccia prima i conti con quegli altri e li pareggi nessun escluso: carenze ed eccessi pregi e difetti: che si facciano la guerra tra di loro! Ho sempre voluto essere la Svizzera. Apatico, al centro, ma distante da ogni sorta di influenze; per dirmi poi di essere stato presente, sì! ma così: superficialmente…

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Farsi avanti per poi farsi da parte questa la mia arte, anzi contemporaneamente la mia sorte.

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Eccomi esposto: prima poco poi, pian piano sempre di più. E tu, forse davi per scontato un braccio, una mano (chiari segnali di fuoco). Preso da combustione io, ma tu…

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Eccoci arrivati: il molo ancora caldo accoglie altri nei vapori, accartocciati zuppi sull’asfalto: i vasi dilatati il corpo flesso, gli occhi chiusi cuciti dal sale e il sole sadico li cuce ancora. Ma venga, venga un’ora in cui brucino a noi gli occhi e si chieda, all’ultimo, in ginocchio salva almeno la coscienza.

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La mia ombra si vede dappertutto, sì è l’ultima uniforme che mi resta, che mi lega a questa forma esterna detta corpo, ma che dentro come un guanto ha il suo rovescio: spazio vuoto, buio. Sono solo il pezzo d’ombra, pazzo dentro che mi marchia, mi condanna a questa irraggiungibile uguaglianza con il mondo. Sciolta questa pena mando nella gola proiettili di carta per la calma che divora giorno dopo giorno i giorni fossili di prima quando avevo dodici anni e ancora la saliva.

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Spesso in auto al posto passeggero guardo fuori i pali delle luci, le bici: mi ricordano le tue iniziali. Nel silenzio che porto fino all’arrivo, lo sguardo mi si perde sui filari: con gli occhi ripeto il movimento circolare degli anni come saltassero la corda nel vigneto.

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Mi rimane l’ossessione: svegliarmi col sobbalzo mentre sogni di cadere.

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Le voci dentro non le sento ma certo ce ne sono tante intorno che sento e risento entrano poi escono di colpo sul foglio sporcano la carta.

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È vero, ci sono proprio nato e ci vivo in quel chilometro quadrato di abitato chiamato casa, odiato e amato, fatto e sfatto, tutto di mattina abbandonato cresciuto come la gramigna sul selciato voluto e poi lasciato andare. E posso ricordare il colore degli infissi in via Marsala la panchina assassina dell’infanzia che squarciava netta la piazzetta con un grido. Lo vedo, è ancora vivo con un filo di voce ogni bambino che conta a nascondino tra le case dove la sera a volte si parlava adesso si tace perfino una preghiera. Ora che resta tutto com’era nella memoria e solo fuori tutto cambia, voglio sapere chi è che lo sopporta?

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Kabir Yusuf Abukar (Modena,1993) laureato in Filosofia, attualmente studia Cinema e Televisione all’Università di Bologna e si occupa di attività laboratoriali nelle scuole. Ha pubblicato Reflex (LietoColle-pordenonelegge, 2017) finalista al Premio Rimini 2016, al Premio Camaiore Proposte 2018 e vincitore del Premio Giovani al Poesia Città di Trento 2018 e del Premio Under 35 dell’Unione Terre di Castelli 2019. Suoi testi appaiono sui siti di Parco Poesia, Atelier, YAWP – Giornale di letterature e filosofie. Una silloge estratta da Reflex è stata pubblicata sul numero LXXXIII della rivista Atelier con il titolo Mirrorless introdotta da una nota di Marco Bini.

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Nota biografica del curatore

Roberto Cescon (Pordenone, 1978) ha pubblicato Vicinolontano (Campanotto, 2000), Il polittico della memoria. Aspetti macrotestuali sulla poesia di Franco Buffoni (Pieraldo, 2005) e le raccolte La gravità della soglia (Samuele Editore, 2010), La direzione delle cose (Ladolfi Editore, 2014) e Distacco del vitreo (Amos Edizioni, 2018).  Sta svolgendo un dottorato presso l’Università di Malaga. Insieme agli studenti del Gruppo Poesia del “Liceo Leopardi-Majorana” di Pordenone, cura il blog ipoetisonovivi.com. Collabora all’organizzazione del festival letterario Pordenonelegge.

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