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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BERGAMO – FACOLTA’ DI INGEGNERIA – CORSO DI INGEGNERIA TESSILE Economia e Organizzazione Aziendale 1 Economia e Organizzazione Aziendale 16 GESTIONE STRATEGICA E GESTIONE OPERATIVA UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BERGAMO – FACOLTA’ DI INGEGNERIA – CORSO LAUREA TRIENNALE IN INGEGNERIA TESSILE

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GESTIONE STRATEGICAE

GESTIONE OPERATIVA

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la strategia tra scienza ed arte

E’ una scienza che coadiuva le decisioni e che ha valore qualunque sia la dimensione aziendale.

• Storicamente nasce rivolta ai problemi dell’organizzazione della produzione e si evolve successivamente verso la contabilitàdirezionale.

• Alcuni fattori inibiscono il manifestarsi del bisogno di strategiaancoraggio conservativo a scelte strategiche superateorganizzazione costruita sul quotidianodubbi sull’utilità del ricorso ad analisi strategiche

Ogni strategia parte da un’analisi: gli strateghi che compiono le analisi più corrette sono anche quelli che hanno la maggior

probabilità di successo

Generale Beauffre (Introduction à la strategie): “Lo stratega non può fondarsi su nessun precedente; non dispone di alcun criterio fisso; deve fare i conti con una realtà in continua evoluzione…… Anziché deduzioni certe ed oggettive, la strategia è costretta a procedere per ipotesi e a trovare le sue soluzioni mediante vere e proprie invenzioni…. La strategia non conosce routine, deve fare continuo appello all’immaginazione e alla riflessione…. Quello che conta non è più il presente ma il futuro, conseguentemente la preparazione diventa più importante dell’esecuzione. In conclusione: è necessario essere informati e saper prevedere” Claude Sicard (La pratica della strategia aziendale, Franco Angeli): “Si possono formulare solo regole a posteriori, consigliate cioè dall’osservazione di situazioni già note e di casi realmente avvenuti. Non è facile fissare delle regole. In un ambiente reale sono presenti troppi parametri per il quale è difficile valutare il contributo dato da ciascuno al conseguimento dei risultati. E poi l’ambiente in cui opera l’azienda è in continua mutazione e non permette di stabilire correlazioni esatte fra un determinato elemento della strategia, considerato come una possibile variabile significativa, e il successo o il fallimento della strategia stessa”. Pertanto in tema di strategia i fattori soggettivi assumono un’importanza decisiva. Cercheremo di presentare i principi più sicuri elaborati nel corso degli ultimi 40 anni. Questi principi sono stati accolti più estesamente nelle grandi aziende che non nelle piccole, essendo le prime più ricche di mezzi e soprattutto “policefale”, cioè con più teste che rendono necessario dotarsi di un corpo di procedure codificate e omogenee per analizzare le situazioni e accordarsi sulle più opportune decisioni da prendere. Le piccole e medie si affidano ai riflessi e all’intuito del capo, le cui capacità hanno un ruolo determinante in ogni processo decisionale.

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Ma gli studi e le regole sul management sono utili anche per le PMI, trattandosi di metodi di analisi delle situazioni e di criteri per orientare l’azione. Nella scienza del management i teorici si sono occupati prima di mettere a punto gli strumenti per organizzare efficacemente la produzione, attraverso autori come il Taylor e il Fayol. In un secondo momento sono stati elaborati i metodi di gestione, in particolare in materia di contabilità, da affiancare alla contabilità generale mercantile, che invece è apparsa molto presto nella storia dei grandi paesi mercantili. Nascono così i moderni sistemi di contabilità e di controllo. La concorrenza crescente rende necessario essere in grado di determinare i prezzi di costo di ogni prodotto in forme via via più analitiche e sofisticate. Prima contava soprattutto produrre non vendere. Dalla fine del XIX secolo fino agli anni relativamente recenti lo sviluppo delle imprese dei paesi occidentali si è svolto in condizioni estremamente favorevoli: si doveva produrre per soddisfare i bisogni di mercati in tumultuosa crescita. Anche la crisi economica del 1929, che pur arrestò bruscamente lo sviluppo, fu dimenticata da una ripresa che non tardò molto. Si pensi al grandioso sforzo bellico dei paesi coinvolti nel secondo conflitto mondiale, alla miracolosa opera di ricostruzione del dopoguerra, all’industrializzazione dei paesi del Terzo mondo decolonizzato, convinti che il loro sviluppo economico e sociale dovesse passare necessariamente attraverso lo sviluppo industriale. In questo clima di rapida e continua espansione (bastava vendere a prezzi superiori a quelli di costo), alle aziende dei paesi sviluppati non si ponevano certo problemi di pianificazione strategica, o meglio non si sentiva la necessità di disporre di strumenti di analisi relativamente sicuri né di sofisticate teorie. Lo sviluppo aziendale era quasi automatico, si poteva assumere e licenziare liberamente, le tecnologie crescevano a ritmi controllabili. I gruppi industriali in questa situazione si sviluppavano costantemente e i loro dirigenti erano convinti di essere ottimi strateghi. Oggi le cose sono cambiate. I mercati sono al limite della saturazione, la concorrenza si fa sempre più serrata e de-localizzata in tutti i mercati nazionali e internazionali, la regolamentazione si fa sempre più soffocante e il ritmo dell’evoluzione più incalzante, sia per le tecnologie e per il comportamento dei consumatori, sia per le condizioni socio-politiche dell’ambiente in cui operano. La crisi economica che oggi incombe sui paesi occidentali, la cui origine si fa risalire per semplicità di analisi allo shock petrolifero del 1973, ha creato per i capi d’azienda un bisogno nuovo: raggiungere una perfetta capacità di adattamento all’evoluzione dell’ambiente esterno. Molti sono gli ostacoli nella formulazione di una pianificazione strategica o per chi cerca nuove prospettive di diversificazione delle attività aziendali. Ogni previsione appare sempre più incerta. Come è possibile formulare ipotesi chiare e attendibili sui modi di evoluzione dell’ambiente, a medio e lungo termine? I fattori ostili al bisogno di strategia possono essere individuati nei seguenti casi:

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Uno sviluppo riuscito fino a quel momento senza aver seguito criteri formali di

comportamento. E’ il caso più frequente di molte PMI, specialmente con imprenditori di prima e seconda generazione, che si sono sviluppate, almeno fino a quel momento, senza troppe difficoltà. Ma lo si riscontra anche in alcune grandi aziende. Chi ha fondato l’azienda non ha bisogno di procedere ad analisi accurate tese a formulare criteri permanenti di strategia aziendale. Il creatore di un’azienda d’altra parte, almeno al momento della fondazione, una chiara strategia l’aveva. Ha avvertito ad esempio l’esigenza di un nuovo bisogno prima di chiunque altro o ha messo a punto un nuovo processo di fabbricazione che gli ha consentito una maggiore penetrazione nel mercato. Aveva dunque ben presente il vantaggio strategico di ogni pioniere che giustifica la nascita di ogni azienda. Ma le ragioni che stavano alla base della nuova creazione sfumano con l’andare del tempo: i prodotti e i processi di fabbricazione perdono gradualmente la loro originalità, il vantaggio sulla concorrenza diminuisce progressivamente fino a scomparire. E intanto anche l’ambiente si trasforma soprattutto in fatto di condizioni di mercato. La congenita fedeltà alla strategia di partenza impedisce ai fondatori di adattarsi agli sviluppi negativi. “Nessuno meglio di me conosce questo mestiere”. Si rifiutano interventi esterni e consigli degli stessi collaboratori. Einstein diceva: “spezzare un atomo è meno difficile che estirpare un pregiudizio dalla mente di un uomo”. Anche gli imprenditori/ dirigenti di seconda generazione (successori del fondatore) sono molto spesso conservatori, influenzati dai predecessori e fedeli ai loro principi. Tutto ciò non significa che la cultura propria di un’azienda non sia un importante fattore di successo. E’ una cultura da conservare e da sviluppare ai fini di una sua utilizzazione nella pianificazione strategica. Ma i valori hanno significato universale e vanno distinti dagli elementi materiali che ne sono l’espressione concreta: i prodotti e le tecniche di fabbricazione.

Un’organizzazione viene concepita innanzitutto per gestire il quotidiano. Implicitamente, tuttavia, nel momento in cui viene costituita, un’organizzazione riflette sempre, in un modo o nell’altro, una strategia. Ma la struttura di un’azienda ne condiziona le scelte strategiche future, soprattutto perché la raccolta delle informazioni e le motivazioni dei singoli sono fortemente condizionate dal sistema di organizzazione esistente. Il peso dell’abitudine induce a formulare strategie che sono un’emanazione passiva del già fatto e quindi un ostacolo alla formulazione di strategie di sviluppo valide. Serve, in conclusione, un’organizzazione flessibile, che garantisca la massima efficienza nelle operazioni di routine e si riservi la flessibilità necessaria per operare, al momento opportuno, gli adattamenti strategici necessari per mantenere in vita e sviluppare l’azienda.

Molti capi d’azienda non sono ancora del tutto convinti della reale utilità di una strategia aziendale. Evidentemente non sanno che decenni di lavoro di ricerca e di

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applicazioni hanno consolidato metodi e principi capaci di rispondere molto correttamente alle necessità del più pragmatico degli imprenditori.

Purtroppo non molti sono gli studi ed i trattati validi in tema di strategia aziendale, diversamente da quanto accade per la strategia militare. Gli scettici potrebbero ironizzare sul fatto che i trattati di strategia militare non sempre hanno insegnato ai militari a vincere le guerre. E faranno anche notare che fino a qualche anno fa in Europa si proponevano modelli ispirati alle tecniche manageriali americane, le stesse che negli anni 70 sono state mese in crisi dai successi clamorosi conseguiti dai giapponesi con le loro nuove metodologie. Ma quando si è sconfitti, sia sul terreno militare che su quello economico, è sempre perché l’avversario disponeva di una strategia migliore: i generali francesi degli anni 40, per esempio, si mantenevano fedeli a concezioni statiche che non tenevano in alcun conto le possibilità offerte dalla tecnologia moderna (aerei, mezzi blindati veloci, truppe paracadutate, ecc.), mentre lo stato tedesco fondava la sua strategia proprio su queste tecniche nuove. Sul versante economico , analogamente, le aziende americane non si sono preoccupate, negli anni 70, di cercare le ragioni della superiorità delle rivali giapponesi, proprio mentre queste ultime analizzavano i punti forti e deboli del mondo occidentale: una volta diagnosticato che il taylorismo stava diventando il tallone d’Achille dei sistemi di organizzazione industriale dei paesi industrializzati dell’Occidente, i giapponesi sono passati ad elaborare strategie nuove fondate su tale diagnosi. Ogni strategia parte da un’analisi: gli strateghi che compiono le analisi più corrette sono anche quelli che hanno la maggior probabilità di successo. Le nostre conoscenze in materia di strategia aziendale si affinano continuamente, perché ogni generazione fa tesoro delle esperienze e degli errori precedenti. Oggi conosciamo i criteri strategici che permisero alla Wehrmacht di vincere le battaglie dei primi anni della seconda guerra mondiale e conosciamo anche perfettamente le strategie che hanno consentito alle aziende giapponesi di conquistare sul piano mondiale posizioni dominanti in alcuni settori-chiave dell’attività industriale. Per generazioni gli strateghi militari hanno ammirato Annibale, che pure finì sconfitto da Scipione. Per decenni le scuole di guerra hanno fatto tesoro delle lezioni offerte dalle campagne non solo di Napoleone, ma anche dei suoi nemici Wellington, Blücher e Kutusov.

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Il contributo della strategia militare

• conoscere i punti forti e punti deboli propri e dell’avversario•scegliere il terreno di battaglia e costringere il nemico su quel terreno•guadagnarsi dei vantaggi attraverso la scelta:

•del momento•del terreno•dei mezzi da impiegare

•attaccare battaglia solo sul terreno favorevole, altrimenti disimpegnarsi: abbandonare le posizioni strategiche deboli

•sul terreno favorevole concentrare tutte le forze per sfondare•guadagnarsi pazientemente vantaggi particolari, come posizioni di

interesse strategico, innovazioni utili, ecc

impresa

La strategia aziendale è una scienza giovane e in buona parte ha preso spunti dalla strategia militare (“obiettivi, strategia, tattica,…, stato maggiore, guerra dei prezzi, penetrazione nel mercato, sortita,…”) Un autore di opere di carattere militare è il tedesco KARL VON CLAUSEWITZ (opere pubblicate nel 1970, 1973), maestro colto ed indiscusso, formato sulle opere di Machiavelli, Montesquieu, Kant e Fichte, che ha influenzato la strategia e la tattica politica e militare di Lenin e Mao Tze Tung. Anche Hitler ne fu ispirato. Un francese contemporaneo, il generale BEAUFRE, è noto per le sue lucide analisi in materia di strategia militare. Per Beaufre due sono gli elementi sempre dovunque riscontrabili, comunque vadano le cose: 1. Il concetto

- Scelta del punto vitale, dettata dalla vulnerabilità dell’avversario; - Scelta della manovra necessaria per raggiungere quel punto vitale;

2. La manovra, che può essere: • Offensiva • Difensiva

Beaufre sottolinea poi la necessaria grande capacità di analisi e di sintesi, la determinazione nel raggiungere gli obiettivi (i veri condottieri furono uomini “di pensiero e di azione”), la capacità di anticipare le mosse dell’avversario grazie proprio alla capacità di pensiero e quindi di analisi (Napoleone resta il modello insuperato).

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J. GIROIRE, in un’opera che tratta di aziende reattive studiate negli Stati Uniti e in Giappone, ha ricavato il concetto dell’ ”integrazione strategica”, già formulato da De Gaulle fin dal 1934 nell’opera L’armée de métier (1934).

I ricercatori delle business-schools americane e degli istituti specializzati europei si sono rivolti alle opere dei grandi strateghi militari solo molto tardi.

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La scuola di Harvard

Metodo:•determinare i punti forti e i punti deboli di un’azienda•effettuare un’analisi completa del suo ambiente esterno

•occasioni favorevoli da cogliere•minacce da sventare

Scopo:•analizzare le diverse possibilità di azione•valutare i probabili effetti di ciascuna•scegliere le più promettenti in relazione agli obiettivi aziendali

LONG RANGE PLANNING

“Non vi è buon vento per chi non sa dove andare” (Seneca)

Tutti gli autori concordano nel far risalire la nascita della scienza del management al 1911, all’inaugurazione del primo corso di business policy presso la Harvard Business School. I primi anni furono dedicati ad elaborare tecniche di gestione aziendale, che all’epoca miravano essenzialmente a risolvere i problemi operativi. Metodo:

• determinare i punti forti e i punti deboli di un’azienda • effettuare un’analisi completa del suo ambiente esterno

• occasioni favorevoli da cogliere • minacce da sventare

Scopo: • analizzare le diverse possibilità di azione • valutare i probabili effetti di ciascuna • scegliere le più promettenti in relazione agli obiettivi aziendali

Con l’approccio metodologico della scuola di Harvard le imprese americane (le maggiori: General Motors, General Electric, ecc.) cominciarono a sviluppare dei servizi interni specializzati nel long range planning. Uno dei maggiori contributi fu di convincere queste aziende della utilità di stabilire degli obiettivi, in termini non semplicemente finanziari. I problemi della strategia aziendale furono affrontati molto più tardi, nel corso degli anni ‘50. Ricorderemo le 4 tappe fondamentali.

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•Qual è la funzione economica della mia azienda?•Qual è il mio mercato? E chi sono i miei clienti?•Cosa aspiriamo a fare nei prossimi 5 anni? E nei prossimi 10?•Quali problemi urgenti dobbiamo risolvere? Quali di essi sono così criticida influire decisamente, una volta risolti, sull’avvenire dell’azienda?

•Quale dovrà essere la remunerazione del capitale investito fra 3, 5, 10 anni?•Quale immagine aziendale mostriamo ai nostri soci? Risponde alle nostre aspettative?•Quale politica del personale stiamo adottando e quale politica intendiamo adottare?•Quale peso desideriamo avere fra 3, 5, 10 anni?•Quale dovrà essere il nostro tasso di crescita annua?•Quale quota di mercato desideriamo acquisire per ogni singolo nostro prodotto fra 3, 5, 10 anni?

•Come intendiamo svilupparci? Per acquisizione, fusione, ricerca, migliorandola qualità del prodotto, o adottando una politica commerciale più incisiva?

•Come finanzieremo il nostro sviluppo?•In che modo potremo migliorare la nostra produzione sul mercato?

(Bruce Payne)

Bruce Payne, consulente di numerose aziende americane, racconta che la reazione abituale dei dirigenti, quando chiedeva loro quali fossero gli obiettivi dell’azienda, era generalmente: “Ma certo che abbiamo chiari i nostri obiettivi! Siamo qui per guadagnare, vendendo la nostra merce. Conosciamo benissimo il nostro mestiere, dopo tanta gavetta, e sappiamo benissimo dove vogliamo arrivare”. L’esperienza dimostrava che simile atteggiamento era del tutto ingiustificato nella quasi totalità dei casi. Le domande sottoposte da B. Payne ai manager americani sono ancora attualissime. La Johnson, nota produttrice di articoli di largo consumo, fu capace di formulare i propri obiettivi fin dal suo primo piano di sviluppo. In questo periodo (del “Long Range Planning”) vennero formulati modelli di decisione strategica. Nacquero nuovi concetti e nuovi strumenti di analisi: Andrews (SWOT Analysis- Strenghths, Weaknesses, Opportunities, Threats), Ansoff, Mintzberg, Boston Consulting Group -Bcg, Arthur D. Little -Adl, ecc. ( Poi ripresi da McKinsey, Porter) Tutti questi modelli godono ancora oggi di un certo successo. Combinano in tabelle a doppia entrata le variabili della competitività e del valore dei settori in cui vengono esercitate le attività aziendali. Permettono di evidenziare gli elementi-chiave della diagnostica strategica e orientano quindi utilmente le scelte programmatiche. Si basavano sui principali concetti elaborati fino a quel momento dalla scienza di management: • Lo stadio del ciclo di vita di un prodotto • La posizione concorrenziale di un’impresa nel suo campo d’impegno • La crescita e, contemporaneamente, il concetto di esperienza cumulata • I fattori di successo di una strategia in ciascun campo d’impegno

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Matrice Boston Consulting Group

Peso morto(Cane)

Mucca da latte

Dilemma(Question Mark)

Star

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Quota di mercato occupataalta bassa

MATRICE CRESCITA QUOTA. Ancora oggi una pietra miliare tra le teorie di allocazione delle risorse. Con essa è possibile identificare le attività in cui è impegnata un’azienda, associando a ciascuna di queste un potenziale flusso di cassa. Il modello raccoglie le attività in quattro categorie:

1. Pesi morti (cane) 2. Mucche da latte (cow) 3. Problematiche (question mark) 4. Vedette (star)

L’ipotesi di base è che l’azienda non usufruisca di finanziamenti da strutture esterne e quindi debba mantenere un portafoglio di attività equilibrato in termini finanziari I parametri di riferimento sono la quota di mercato occupata, rapportata a quella del leder di mercato, ed il tasso annuale di crescita. I legami tra questi parametri ed i potenziali flussi di cassa sono ricavati dalle seguenti assunzioni: • A quote di mercato alte è sempre associato un margine elevato (per l’effetto della

curva di esperienza = il costo unitario di un prodotto diminuisce all’aumentare del livello di produzione).

• I settori in crescita necessitano di essere finanziati con iniezioni di liquidità • Quote di mercato elevate possono essere raggiunte o comprate. In caso di acquisto

servono forti investimenti. • Non esistono aree di affari in continua espansione. La crescita dell’ASA (Area

Strategica di Affari) di un’impresa deve essere coerente con la crescita del mercato. E’ possibile stabilire pertanto un legame tra crescita del mercato e flusso di cassa riferibile alle corrispondenti ASA.

Situazioni:

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1. Quota di mercato alta e tasso di crescita basso: mucca da latte

- Settore in lenta crescita non richiede alcun investimento per nuove esigenze del mercato né per acquisirne una maggiore quota. L’azienda si finanzia con i flussi di danaro ricavati dalle mucche da latte. Solida base finanziaria per supportare i settori in espansione che necessitano di investimenti.

2. Settore in debole crescita e quota di mercato bassa: cane

- Non è pensabile un miglioramento delle condizioni aziendali in quanto qualsiasi manovra è vincolata dalla debole crescita del mercato. Le aziende che hanno ASA con queste caratteristiche dovrebbero cederle.

3. Settore in forte crescita e alta quota di mercato: star

- Aree di affari molto interessanti che promettono futuri guadagni. Servono cospicui flussi finanziari per gli investimenti necessari.

- Nessun mercato può registrare perennemente un alto tasso di crescita. Mantenendo un’alta quota relativa di mercato, le stelle raggiungono la condizione di mucca da latte. Prospettiva che consente all’impresa di garantirsi una futura solida base finanziaria.

4. Settore con alto tasso di crescita e basse quote di mercato: dilemma

- Sono settori con un alto livello di incertezza per la modesta occupazione del mercato, che necessitano di forti investimenti legati allo sviluppo del settore. Occorre muoversi per aumentare la quota relativa di mercato portandosi nell’area delle star.

Vi sono interessanti analogie tra il ciclo di vita del prodotto e le quattro attività della matrice della BCG. L’introduzione sul mercato di un nuovo ciclo corrisponde ad un’attività classificabile nella matrice come Question Mark (mercato con alto potenziale di crescita ma in situazione di generale incertezza. Servono intense campagne pubblicitarie per favorire la conoscenza del prodotto). La seconda fase del ciclo di vita del prodotto è quella della crescita (star). La maturità del prodotto corrisponde alla mucca da latte (solo piccoli investimenti per il restyling del prodotto). La fase di declino corrisponde alla condizione del cane (si limitano i costi e si raccolgono gli ultimi guadagni). Per percorrere il ciclo del successo occorre che, quando il mercato comincia a declinare, il prodotto sia già diventato una mucca da latte. Cioè deve fruttare, una volta terminato il periodo di ammortamento, più cassa di quanto non ne consumi. Insomma tagliare i pesi morti e concentrare tutti gli sforzi sui propri punti di forza, piazzandosi sui mercati in forte crescita. Anche la matrice BCG, pur essendo ancora un importante riferimento tra le teorie classiche di corporate strategy, presenta dei limiti e appare concettualmente rigida. Non contempla le strategie di nicchia, non condizionate dai volumi immessi sul mercato, ma da una serie di variabili più ampia.

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Viene tutt’ora utilizzato insieme ad altri strumenti complementari per individuare e comporre i portafogli di attività.

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CaneMucca da latte

Dilemma(Question Mark)

Star

Matrice Boston Consulting Group

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Percorso del successo

forte debole Quota di mercato dell’azienda

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CaneMucca da latte

Dilemma(Question Mark)

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Matrice Boston Consulting Group

Tass

i di c

resc

ita d

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tode

bole

forte

Percorso del fallimento

forte debole Quota di mercato dell’azienda

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la gestione strategica

Come applicare in pratica la strategia aziendale?

• Eliminare il fossato tra i pianificatori e il resto della gerarchia• Non separare la formulazione della strategia dalla sua applicazione

pratica• Necessità di organizzarsi in modo adeguato

Teoria delle organizzazioni“L’azienda è un mondo eterogeneo popolato di personaggi e di gruppi costituzionalmente disinteressati al progetto strategico dei dirigenti, per cui diventa imperativo individuare e raccogliere tutte le condizioni capaci di far accettare all’organizzazione il progetto strategico più conveniente per l’azienda e più accettabile dall’ambiente”

A.C. Martinez (Management stratégique: organisation et politique, 1984)

Nel corso degli anni 70 ci si rese conto che nella grande azienda si era creata una contrapposizione tra il gruppo di pianificatori, chiuso in se stesso e assorto nelle sue analisi, e tutto il resto della gerarchia, assillata dai problemi del quotidiano e quindi caratterizzata da resistenze, riflessi e modi propri di pensare. La crisi economica scoppiata nel 1973, l’anno del primo shock petrolifero, produsse un effetto destabilizzante sull’ambiente e indusse ad affrontare il serio problema del delicato passaggio dalla pianificazione a lungo termine a quella denominata “gestione strategica”. Si cominciò a diffidare delle previsioni a lungo termine e si scoprì che per rendere efficace la pianificazione occorreva ridurre il distacco fra i responsabili delle decisioni e gli esecutori, oltre che possedere un’organizzazione con i riflessi prontissimi. Prima si era ragionato troppo in termini di variabili tecnico-economiche e troppo poco in termini di compromesso tra esigenze dell’ambiente esterno e la capacità di adattamento e di reazione delle aziende. Nel 1981, W. Kiechel sulla rivista Fortune riassunse molto bene l’opinione della generalità dei pianificatori: “al giorno d’oggi tutti sanno fare della strategia, ma nessuno è capace di integrarla nella pratica della gestione aziendale”. Si giunse così a sviluppare la teoria delle organizzazioni. Il suo profeta è stato uno dei più noti teorici della materia, H. Igor Ansoff. Ha introdotto un concetto nuovo: la gestione strategica in tempo reale. Per adeguare i propri metodi alla necessità di prevedere i rapidi cambiamenti dell’ambiente esterno, Boston Consulting Group ha proposto matrici nuove.

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I clamorosi successi delle aziende giapponesi hanno gradualmente convinto le aziende occidentali della necessità di assegnare ai problemi umani una posizione centrale nella gestione delle aziende.

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Il segreto del successo delle più competitive aziende statunitensi:

1. Deciso orientamento verso l’azione2. Orecchio sempre teso alle esigenze del cliente3. Promozione dell’autonomia e dello spirito di iniziativa4. Associazione della produttività alle motivazioni del personale5. Mobilitazione attorno ad un valore fondamentale6. Diffidenza nei confronti di iniziative che esulano dalle proprie capacità7. Struttura semplice e flessibile8. Associazione di duttilità e rigore

Thomas J. Peters e Robert H. Waterman Jr. (Alla ricerca dell’eccellenza – lezioni dalle aziende meglio gestite)

“Alla ricerca dell’eccellenza” è un libro di sull’arte del management, record nella storia dell’editoria americana e quindi mondiale. In soli 15 mesi aveva venduto oltre 1.500.000 di copie in edizione rilegata. E’ uscito in versione italiana nel 1984 con Sperling & Kupfler Editori. E’ stato pubblicato a conclusione di una accurata ricerca promossa dalla McKinsey per individuare i rapporti esistenti fra strategia, struttura e efficienza di una direzione. 8 sono stati gli attributi riscontrati invariabilmente nelle maggiori aziende di successo statunitensi. 1. Un alto dirigente della Digital Equipment affermò: qui da noi, quando c’è un

problema, rinchiudiamo per una settimana dieci funzionari in una stanza; quando ne escono hanno un’idea e la mettono in pratica. Molte aziende utilizzano dispositivi efficaci per vivacizzare l’organizzazione ed evitare la sclerosi tipica delle grandi dimensioni aziendali;

2. Le imprese competitive imparano molto dai loro clienti. Speso le idee migliori in fatto di produzione sono suggerite dai clienti;

3. Viene premiato lo spirito d’iniziativa e l’amore per il rischio dei collaboratori, sostenute le iniziative promettenti, evitate le sanzioni troppo dure;

4. La Texas Instrument dichiarò: ogni nostro operaio viene considerato come fonte d’idee, non come un semplice paio di braccia;

5. Thomas Watson jr. (figlio del fondatore della Ibm) ha dichiarato: la filosofia di base di un’organizzazione contribuisce ai buoni risultati aziendali più delle sue risorse economiche;

6. Salvo rare eccezioni, le aziende che hanno migliori probabilità di successo sono quelle che rimangono fedeli alla propria competenza specifica.

7. Le strutture di base delle aziende vincenti sono risultate dotate di una elegante semplicità;

8. Le aziende vincenti hanno saputo organizzarsi in modo da essere ad un tempo centralizzate e decentrate.

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Le tendenze attuali

Visione globale e dinamica della strategia aziendale

Integrare i vecchi concetti seguendo due vie:

• considerare l’ambiente esterno nella sua globalità, ivi comprese le suedimensioni tecnologiche e quelle legate all’informazione

• riconoscere la centralità dell’elemento umano e della “cultura” aziendale

Oggi si tende a ridimensionare l’utilità delle matrici di analisi strategica, che non suscitano più gli entusiasmi del periodo precedente. I successi conseguiti da certe aziende smentiscono le conclusioni di quel tipo di analisi. I costruttori giapponesi di automobili, per esempio, non avrebbero mai dovuto svilupparsi se fossero veri i postulati del percorso del successo de Bcg. Insomma si è dato troppo peso a quelle che in fondo erano semplici matrici. Si è commentato che occorre diffidare di criteri di giudizio tanto meccanici da presentare le aziende come organizzazioni in cui, in maniera quasi caricaturale, da una parte stanno gli specialisti incaricati di prevedere le grandi evoluzioni e formulare i programmi per il futuro, e dall’altra gli esecutori che dovrebbero obbedire meccanicamente. Ma i vecchi concetti non sono da rigettare, bensì da integrare:

• valutare l’ambiente esterno significa allargare l’analisi anche sulle dimensioni tecnologiche e su quelle legate all’informazione;

• Serve la partecipazione di tutto il corpo sociale e considerare la cultura d’azienda come una vera e propria forza: essa è un dato di fatto che agisce da freno se ignorata, da potente trampolino di lancio se convenientemente sfruttata.

Insomma si recupera la visione dei più illuminati strateghi militari che sostenevano la necessità di:

• Un progetto (per noi aziendale): sono necessari obiettivi precisi e definizione della filosofia aziendale e del suo sistema di valori;

• Apertura sul mondo: mercati, concorrenza, tecnologia, ecc.; • Capacità di prevedere i cambiamenti: non solo della domanda, ma anche della

tecnologia, della concorrenza, dell’ambiente socio-economico e socio-politico in cui l’azienda opera;

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• Notevole reattività strutturale che permetta di scoprire in tempo le minacce ed escogitare le mosse necessarie per sventarle, oppure di cogliere le occasioni favorevoli.

Quali i limiti delle politiche proposte in passato? Politica del long range planning • Si basava su cambiamenti del tutto prevedibili, affidandosi più alle tecniche

budgettarie che a riflessioni strategiche; • Si presentava come una struttura rigidissima, incapace di rispondere

immediatamente a bruschi cambiamenti dell’ambiente esterno, dato che non concedeva a diversi settori gerarchici possibilità di rapido adattamento;

• Trascurava i fattori psicologici, tanto che venne battezzata “pianificazione tecnocratica”

Nel secondo periodo Le tecniche di pianificazione erano basate direttamente sull’amministrazione di un portafoglio prodotti. Ma erano troppo meccaniche e trascuravano lo studio dell’ambiente e gli sviluppi tecnologici. Nei primi anni 80 Rifiutavano tutte le conquiste precedenti, limitandosi a sviluppare una “cultura interna” per garantire all’azienda un adattamento automatico all’evoluzione dell’ambiente esterno. Queste tecniche si sono ormai dimostrate inadeguate. E’ infatti necessario che le grandi decisioni si inquadrino in una prospettiva di lungo termine, anche se è estremamente difficile prevedere con certezza gli sviluppi futuri. Non basta più essere semplicemente reattivi. Occorre ricordare che la previsione a lungo termine è stata la chiave del successo giapponese. IN CONCLUSIONE Oggi si tende ad una sintesi degli elementi più positivi ricavabili da ciascuna delle tre fasi precedenti: • Chiara definizione degli obiettivi aziendali a lungo termine; • Utilizzazione a livello diagnostico dei potenti strumenti rappresentati dalle matrici di

analisi strategica; • Riconoscimento dell’interesse a sviluppare in ogni azienda una vera “cultura interna”

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Le tendenze attuali

Long rangeplanning

Gestione degli imprevisti

Gestione strategica in tempo reale

Pianificazione strategica

Pianificazione di tipo budgettarioTIPO DI

PIANIFICAZIONE

5432

Il futuro ètotalmente imprevedibile

Il futuro èprevedibile: minacce e occasioni

1Scala di turbolenza

Il futuro èprevedibile solo in parte

Possibili per estrapolazione

RicorrentiPREVISIONI SUL FUTURO

Più rapido del tempo di trasformazione dell’azienda

Pari al tempo di risposta dell’azienda

Più lento del tempo di risposta dell’azienda

RAPIDITA’ DELCAMBIAMENTO

Discontinui e nuovi

Discontinui ma sempre in relazione col passato

Estrapolazione possibile da esperienze passate

Si riproducono normalmente

AVVENIMENTIFAMILIARI

La scala di turbolenza di Ansoff

Igor Ansoff, nella sua opera Implanting Strategic Management, propone un concetto nuovo, quello dell’adattamento dello stile di pianificazione strategica al tipo di ambiente. A tal fine ha fissato una “scala di turbolenza”, una sorta di scala sismica del Richter, e affermato che non esiste pianificazione senza un’analisi preventiva della situazione esterna che permetta di stabilire su quale gradino della scala di turbolenza ci troviamo. Col crescere della turbolenza diventa sempre più conveniente orientarsi verso i sistemi di ascolto e di allarme e creare task forces incaricate di stabilire le mosse strategiche da compiere. Quando il grado di turbolenza diventa troppo elevato, allora è necessario ricorrere a provvedimenti eccezionali. In Francia Una ricerca condotta nel 1973 da Michel Montebello sulla Pianificazione strategica delle PMI ha messo in evidenza che il comportamento “pianificatore” ha ottenuto risultati decisamente superiori a quelli cosidetti “intuitivi”. Un’altra ricerca (Philippe de Woot e Xavier Desclee de Maredsous), durata sei anni e condotta su un campione di 343 importanti aziende europee, dipendenti da 9 grandi gruppi industriali, ha chiaramente riscontrato che i gruppi più competitivi hanno sviluppato applicazioni pratiche di strategia dinamica.

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“Progetto aziendale”

• La filosofia di fondo dell’azienda• La visione (“credo”) dell’azienda• La missione o vocazione dell’azienda

filosofia

visione

missione

Definire gli obiettivi è uno dei compiti più ardui e importanti per un capo d’azienda. Cosa si intende per “obiettivi vitali”? Non basta rispondere “realizzare dei profitti” o “espandersi”, oppure “raggiungere una redditività dei capitali propri pari al 12% al netto delle imposte”, oppure ancora “realizzare una crescita media annua del 6% nei prossimi 5 anni”. Questi sono obiettivi buoni per una pianificazione quinquennale, ma non gli obiettivi fondamentali di un’azienda. In fondo si potrebbe dire che l’obiettivo finale di ogni azienda è, molto semplicemente, sopravvivere. Il pianificatore deve individuare il perno su cui impostare tutte le grandi decisioni. Deve stabilire obiettivi di valore permanente, a lunghissimo termine, verso i quali indirizzare l’azienda con i vari piani triennali o quinquennali che si accinge ad elaborare. Occorre stabilire che cosa l’azienda vuole essere, dove vuole arrivare, secondo quali principi generali ritiene più opportuno operare e quali saranno le principali condizioni restrittive da rispettare. Occorre giungere a formulazioni abbastanza generali ma pertinenti, concrete, convincenti e stimolanti, evitando di cadere nelle solite banalità. Occorre proporre una visione, un messaggio capace di mobilitare l’intero corpo aziendale. Anziché di obiettivi generali gli autori preferiscono parlare di vocazione o missione (nella letteratura anglo-sassone) economica dell’azienda. FILOSOFIA Illustra i caratteri comportamentali costanti e qualificanti: es. la generosità verso il personale aziendale o l’enunciazione di un codice di condotta. E’ opportuno siano formulazioni esplicite diverse dalle … “promesse di operare nell’interesse comune, di agire in perfetta lealtà, ...”.

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Principi dell’IBM (ereditati dal suo fondatore Thomas Watson) • Rispetto dell’individuo: rispetto della dignità e dei diritti di ciascun membro del corpo

aziendale; • Servizio del cliente: fornire alla clientela il miglior servizio del mondo; • Azionisti: riconoscere i doveri dell’azienda nei confronti degli azionisti, garantendo

loro una conveniente remunerazione dei capitali investiti; • Ambiente esterno: partecipare al benessere degli abitanti delle regioni che ospitano

gli impianti dell’azienda; • Lealtà nazionale: accettare le responsabilità nazionali americane e di ogni altro

paese in cui opera l’azienda. VISIONE Non si ispira ai valori morali ma si identifica in una sorta di filosofia dell’azione. In un certo senso è un atto di fede, una scommessa sul futuro e sulla relazione fra un comportamento generale deciso dall’azienda e la risposta del consumatore. E’ un modo di vedere dell’azienda su evoluzioni profonde (bisogni dell’uomo e modi di soddisfarli, evoluzioni tecnologiche o sociali). In questo credo ci sono gli elementi che l’azienda ritiene, sul piano generale, decisivi per il successo. Visione dell’IBM • Sviluppare le nostre tecnologie, perfezionare i nostri prodotti e crearne di nuovi; • Servire i nostri clienti il più efficacemente e il meglio possibile E’ una visione semplice e concisa. Visione Hewlett-Packard E’ una visione più dettagliata ed è articolata sui vari elementi fondamentali: podotti, uomini, organizzazione generale. Prodotti: • Offrire alla clientela prodotti e servizi della migliore qualità, al fine di conquistarne e

conservarne il rispetto e la fiducia; • Entrare in nuovi settori di attività solo quando si abbiano idee che, unite ad una

competenza elevata in fatto di produzione, di tecnica e di marketing, garantiscano tanto una perfetta risposta aziendale ai bisogni della clientela quanto un profitto.

Uomini: • Ad ogni incarico debbono essere assegnati uomini con un elevato grado di

competenza e di creatività. Questi uomini devono inoltre migliorare attraverso un aggiornamento continuo la loro competenza e le loro potenzialità, ecc.

• E’ necessario l’entusiasmo di tutti: coloro che occupano i posti più importanti debbono non solo avere entusiasmo, ma debbono anche essere scelti per la loro capacità di suscitarlo nei collaboratori. Nella nostra azienda non c’è posto per un interesse od un impegno limitati, specialmente nel caso di quadri superiori.

Organizzazione: • Evitare un’organizzazione rigida, di tipo militare; avere piuttosto obiettivi generali ben

formulati ed accettati, e lasciare a ciascuno completa libertà sul modo di raggiungerli nel settore di sua competenza;

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• Promuovere lo spirito di iniziativa e la creatività, lasciando a ciascuno libertà d’azione nel raggiungimento di obiettivi ben precisi.

Produzione di strumenti tecnici del più alto valore possibile (al punto da voler ispirare nella clientela addirittura il rispetto) e organizzazione fondata su uomini entusiasti ed efficienti, sorretti da strutture duttili in grado di promuovere la creatività, lo spirito d’iniziativa e la crescita professionale. MISSIONE Rispecchia la scelta operata dall’azienda in fatto di funzione economica da svolgere. Risponde alla domanda: a che serve la vostra azienda? What business are you in ? Occorre fare riferimento ad un mercato generico (alimentazione, abbigliamento, trasporti, ecc.) e precisare quale sarà l’originalità dell’azienda nel modo di svolgere la funzione economica che si è proposta come missione. E’ un errore fare riferimento a mercati specifici. Si ricorda l’esempio delle compagnie ferroviarie americane, le quali sono andate incontro a gravi rovesci per non aver ben definito il loro mercato generico: il mercato generico in un’azienda ferroviaria è il mercato dei trasporti in generale e non solo quello dei trasporti per ferrovia. La concorrenza esistente in Francia fra Sncf e Air Inter, specialmente dopo la comparsa del Tgv (Train grand vitesse), illustra perfettamente il concetto di mercato “generico”. La vocazione fa dunque riferimento all’adempimento di una funzione economica. Quella diretta, per esempio, al trasporto dei passeggeri o delle merci, senza un preciso riferimento ad una specifica tecnica di trasporto, poiché questo riferimento, se esistesse, limiterebbe la vita dell’azienda al solo periodo di esistenza di tale tecnica. E’ necessario definire anche la maniera specifica, e possibilmente originale, in cui l’azienda intende adempiere la sua missione. Il creatore dell’impresa molto spesso è un innovatore.

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Missione (vocazione) di un’azienda

La vocazione di un’azienda è quella di soddisfare un bisogno e non èuna particolare tecnica diretta a soddisfare tale bisogno. Le tecniche cambiano, ma la vocazione dell’azienda resta immutata finchè quel bisogno esiste. Proprio per non aver saputo cogliere la differenza tra mercato generico e mercato specifico, molte aziende sono scomparse quando è scomparso il loro mercato specifico.

Claude Matricon, Le marketing du réel

Cristian Dior Ha affermato che la chiave del suo successo è stata la “scelta del bello”. Per C. Dior l’estetica è un valore ed è anche la posizione specifica che il grande sarto ha scelto per assolvere la sua missione. Filosofia: la creazione artistica è una finalità dell’uomo, l’estetica rientra nel sistema di valori dell’azienda. Visione: l’azienda è convinta che gli esseri umani hanno bisogno di abiti di lusso. Vocazione: la funzione dell’azienda è quella di creare abiti di lusso assegnando all’estetica un’assoluta priorità; siccome il fondatore dell’azienda postula che un bel prodotto è sempre funzionale, il prodotto si venderà senza difficoltà. Ibm La nostra missione è quella di creare macchine capaci di risolvere problemi sempre più complessi degli affari, dell’amministrazione, della scienza, dell’esplorazione spaziale, dell’istruzione, della medicina e, in definitiva, di ogni impresa umana. Bic Il barone Bic, fondatore di quest’azienda, ha dichiarato che il successo della sua impresa è nato dall’originalità stessa della sua vocazione: “mettere la ruota al servizio della scrittura”. La funzione della Bic è dunque quella di soddisfare il bisogno di scrivere e la Bic ha svolto questa funzione mettendo a disposizione del cliente uno strumento nuovo basato sul principio della ruota, cosa assolutamente inedita fino a quel momento. New York Times Adolph Ochs, al momento di assumere la direzione del giornale nel 1896, definì così la missione del suo quotidiano: “Curerò anzitutto che il New York Times presenti le notizie, qualunque notizia, in forma concisa e piacevole, e almeno contemporaneamente agli altri giornali, quando non sia possibile prima. Metterò ogni impegno nel dare le notizie con imparzialità, quali che

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siano gli interessi in gioco. Le colonne del N.Y.T. diventeranno il foro in cui trattare ogni questione più importante, in modo da facilitare il confronto di tutte le opinioni.

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La segmentazione del mercato

Settore omogeneo di attività nel quale l’azienda può esercitare il suo business

ASA (Area strategica di attività) SBA (Strategic Business Area)

Categoria omogenea di clienti che presentano caratteristiche molto simili

Segmenti di mercato sui quali il prodotto puo’ essere venduto

Tutti i prodotti destinati a soddisfare uno stesso bisogno

Mercato generico di un prodotto

In materia di analisi strategica è fondamentale la nozione di ASA. Negli anni 60 gli esperti ragionavano in termini notevolmente diversi da oggi. Le analisi partivano dalla ricerca di una definizione di tipo strettamente operativo del campo di attività prescelto da un’azienda (“What business are you in?”). Solo più tardi è stata introdotta la nozione di segmentazione del mercato da parte degli esperti di marketing. Ed è stata utilizzata in strategia dal Boston Consulting Group, che ha messo a punto delle matrici di analisi fondate sul concetto di “portafoglio” delle attività strategiche di un’azienda. Il merito del BCG è stato quello di aver posto il concetto di Sba a fondamento della moderna analisi strategica.

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mercato generico

mercato specificoA

mercato specificoB

mercato specificoC

segmenti di mercato segmenti di mercato segmenti di mercato

Funzione economica

Mercato generico di un prodotto E’ rappresentato da tutti i prodotti destinati a soddisfare uno stesso bisogno. Si tratta non solo di bisogni primari, ma anche di quelli indotti dal progresso tecnico. Nozione essenziale per definire la missione di un’impresa. Esempio delle tre bevande: aranciata, vino e birra. Appartengono tutti e tre al mercato generico delle bevande, perché destinati a soddisfare un unico bisogno, quello del bere. Ma ai fini di una corretta analisi, il mercato generico delle bevande deve essere suddiviso in un certo numero di mercati “principali” o specifici: bevande gassate, aperitivi, bevande alcooliche, acque minerali, birre. Segmenti di mercato Dall’esame di un mercato principale risulta quasi sempre la necessità di distinguere parecchi segmenti di clientela. “I prodotti di uno stesso segmento rispondono allo stesso bisogno e sono legati dai prezzi, dai canali di distribuzione e dai modi in cui vengono consumati”. (Claude Matricon: le marketing du réel) Spesso i più gravi errori di previsione dipendono esclusivamente da una scarsa conoscenza dei segmenti studiati. Si comincia con una cattiva identificazione del mercato generico del prodotto da cui si intende condurre un’analisi di mercato, e si passa senz’altro, con fretta eccessiva, ad un’analisi che parte dal prodotto in esame o, quando va bene, dal mercato specifico del prodotto, senza risalire al mercato generico. Uno studio previsionale rivolto, ad esempio, alla domanda di penne a sfera in un determinato paese, deve essere inquadrato nel contesto più generale del mercato generico degli strumenti per scrivere (matite, pennarelli, stilografiche, ecc.). Lo studioso deve interpretare l’evoluzione del mercato generico di quel prodotto sulla base di una o più variabili macro-economiche e le loro correlazioni. Se, ad esempio, si volesse entrare nel mercato generico dell’abbigliamento, occorrerebbe innanzitutto cercare una correlazione fra questo mercato e l’evoluzione

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dei redditi familiari. Poi occorre articolare la previsione sulle grandi categorie di spese possibili (abiti, calzature, accessori, ecc.). Per ciascuna di queste categorie si distingueranno parecchi segmenti (calzature di lusso, da lavoro, per il tempo libero, militari, ecc.). E’ una catena, quasi una cascata, che scende dall’alto della macro-economia per dividersi infine nei mille rivoli della micro-economia. Ciascuno dei mercati particolari individuati, ad esempio quello delle calzature per il tempo libero, risulterà suddiviso in diversi segmenti che sarà necessario identificare, tentando di raggruppare i clienti in categorie il più possibile omogenee: per esempio sulla base del tipo di utilizzazione, del prezzo, dell’età, ecc. Come si vede, la segmentazione di un mercato è un’operazione che ha luogo all’interno di un mercato specifico, il quale si inquadra a sua volta in un mercato generico corrispondente ad una funzione economica precisa e quindi ad un bisogno primario.

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ASA - SBA

Per Area Strategica di Attività si intende un settore di attività omogeneo nel quale un’azienda può esercitare pienamente il suo business.In genere una SBA può essere scomposta in più segmenti di mercato.

Le strategie vanno elaborate nell’ambito delle SBA.

Criterio del trinomio prodotto – mercato – rete

Il concetto di “mestiere”

I “fattori di successo” di una SBA

Per aziende operanti nel settore dei condizionatori d’aria, ad esempio, le SBA sono tre: 1. Condizionatori d’aria per famiglia 2. Condizionatori d’aria per piccole collettività 3. Condizionatori d’aria per grandi collettività In alcuni casi si può avere una quarta SBA, quella dei componenti destinati alle fabbriche di impianti di riscaldamento. Non è facile segmentare un mercato e non è facile neppure individuare chiaramente le aree strategiche elementari aperte a un’impresa. Può all’uopo essere molto utile ricorrere al trinomio prodotto–mercato–rete, che consente di individuare degli insiemi omogenei che possono diventare aree strategiche di attività ben distinte. L’arte di delimitare le SBA è una delle doti che meglio rivelano le capacità di uno stratega aziendale. Purtroppo non esistono regole precise e non è detto che due esperti impegnati ad analizzare lo stesso problema finirebbero per suddividere in un’identica rete di SBA le attività di un’azienda. Non è corretto ricorrere alle nozioni di settore di attività elaborate da organismi ufficiali quali l’Istat o da organizzazioni sindacali, neppure a quelle degli economisti, che appaiono troppo generiche: prodotti di largo consumo, beni strumentali, materie prime, prodotti agricoli, ecc. Sono una vera trappola per il manager impegnato ad elaborare una strategia. Ogni azienda deve elaborare una sua specifica classificazione delle “aree strategiche”, da utilizzare come quadro di riferimento perfettamente rispondente alle necessità aziendali. Nozione di mestiere: è l’insieme delle attitudini e del Know how di un’azienda. Da una parte le diverse componenti del mestiere, dall’altra le SBA: è auspicabile una certa identità e correlazione.

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In genere gli insuccessi vengono proprio nelle attività che esigono mestieri diversi da quello specifico dell’azienda. A meno che non vi sia stata una preparazione mirata ad affrontare la nuova situazione (acquisizione di aziende o assunzione di figure già padrone del nuovo mestiere). L’insieme delle SBA che un’azienda può coprire, grazie al proprio mestiere, rappresenta il naturale campo d’impegno dell’azienda stessa. I fattori di successo Per riuscire in ciascuna delle SBA, partendo dal mestiere di base, è necessario che l’azienda sappia perfettamente quali sono i fattori di successo di ciascuna area strategica (SBA). Per avere successo in un mestiere dato e in un settore strategico specifico, l’azienda deve assicurarsi i vantaggi necessari in quella SBA, ma non altrettanto utili in altre. E’ per questo motivo che, in genere, un’azienda non entrerà mai in tutti i campi d’impegno aperti al suo mestiere e, nel caso lo faccia, non arriverà mai ad eccellere in tutti, dato che ciascun settore ha i propri fattori specifici di successo. Esempio: industria automobilistica Tutti i costruttori automobilistici hanno lo stesso mestiere di base che consiste nel progettare vetture perfettamente corrispondenti alle necessità del mercato, nel fabbricare queste vetture col concorso di numerosi sub-fornitori e costruttori di componenti, e infine nel commercializzare il prodotto lottando contro una concorrenza molto agguerrita. In questo mestiere le SBA sono almeno 4:

1. Vetture di piccola cilindrata 2. Vetture di media cilindrata 3. Vetture di grossa cilindrata 4. Vetture della gamma superiore

In ciascuna delle quattro SBA i fattori di successo non sono evidentemente gli stessi. Nella categoria 1 il principale fattore di successo è senz’altro la massima competitività in fatto di prezzi, che dipende strettamente da grandi volumi di produzione. Nella categoria 4 il fattore di successo è la “classe” (Rolls Royce, Maserati, ecc.) che è legata all’immagine della marca, e si traduce in finiture di lusso e in elevati standard qualitativi. Alcuni costruttori si sono orientati, almeno inizialmente, sui segmenti strategici delle piccole cilindrate che una quarantina d’anni fa venivano dette “popolari”: Renault, Fiat, Volkswagen, ecc. Altre invece verso vetture della gamma superiore: Mercedes, Bmw, Volvo, ecc. In questi ultimi anni però si assiste ad un crescente interesse dei costruttori di vetture popolari per le vetture della gamma superiore, e viceversa. La combinazione di competenze e di Know how necessaria per ogni singolo caso non è la stessa in ciascun settore di attività. Non è escluso che un costruttore possa avere successo in tutte le aree strategiche di attività a lui aperte, ma si tratta di un risultato molto difficile da conseguire e, comunque, raggiungibile solo creando aziende, joint venture, o quantomeno divisioni autonome. Ford e General Motors dispongono di divisioni apposite, ciascuna orientata verso specifiche ASA. Pensiamo all’Audi per la Volkswagen. Pensiamo al fenomeno Smart (nato dal binomio Mercedes-Swatch).

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Ciclo vitale di un prodotto

ETÀ DI UN PRODOTTO

1. Nascita2. Crescita

3. Maturità4. Declino

Apparsa agli inizi degli anni ’50, questa espressione è ormai d’uso corrente in tutti i corsi di marketing e di gestione aziendale. Tale nozione è anche alla base delle matrici di analisi strategica proposte da alcuni autori nella seconda fase di elaborazione dei metodi di pianificazione strategica aziendale. 1. Nascita

Periodo del lancio sul mercato. Il successo dipenderà dalla rete commerciale e dalla campagna pubblicitaria. Un certo numero di consumatori acquista il prodotto e lo prova. Se il prodotto non ha successo, viene abbandonato o modificato nelle sue caratteristiche per renderlo più rispondente alle necessità del consumatore e rilanciato sul mercato.

2. Crescita In caso di successo del lancio, il prodotto entra in uno stadio in cui le vendite aumentano molto rapidamente. Il consumatore lo gradisce perché soddisfa un bisogno nuovo o perché offre vantaggi tecnici o economici interessanti. In questo stadio normalmente altre aziende lanciano sul mercato prodotti simili. Questa emulazione nell’offerta accelera il ritmo di crescita delle vendite per una corrispondente emulazione nella domanda

3. Maturità In tempi più o meno brevi si verifica la saturazione della domanda sul mercato. Inoltre si può assistere alla comparsa di un prodotto nuovo e più interessante che mette fine al successo del vecchio. A questo punto gli sviluppi possibili sono 2: o il prodotto imbocca la via del declino, oppure viene modificato. A questo punto assistiamo di fatto alla nascita di un nuovo prodotto (fase A).

4. Declino Allo stadio della maturità segue quello del declino, nel quale il prodotto viene soppiantato da prodotti con caratteristiche migliori e/o prezzi più competitivi. La fase

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del declino si trascina spesso lungamente, perché un gran numero di consumatori, assuefatti al prodotto, gli restano fedeli.

La durata dei cicli è estremamente variabile, anche se l’attuale rapidità dello sviluppo tecnologico e dei cambiamenti dell’ambiente esterno tende a ridurre notevolmente la durata del ciclo vitale dei prodotti. Le conseguenze derivanti dal ciclo vitale del prodotto per la gestione aziendale si misurano sia in termini di Tesoreria che di Investimenti. Tesoreria • Gli stadi 1 e 2 consumano risorse finanziarie. • Gli stadi 3 e 4 le restituiscono. Investimenti • Lo stadio 1 richiede investimenti: messa a punto del prodotto, impianto pilota per il

lancio di prova, prima commercializzazione. • Lo stadio 2 richiede investimenti soprattutto di capacità: occorre soddisfare il

mercato senza concedere alla concorrenza la possibilità di inserirsi nella breccia. Prima si investe e maggiore è la quota di mercato che si acquisisce. Non sempre è facile individuare il punto di inizio della fase 2 e qui sta il rischio dell’imprenditore. Se gli investimenti si fanno troppo presto, si rischia una remunerazione insufficiente, specialmente quando il ciclo vitale del prodotto è breve. Se si fanno troppo tardi, si permette a concorrenti più pronti di attestarsi su posizioni di mercato dominanti.

• Nello stadio 3 non si fanno più investimenti di capacità ma di produttività. Le vendite sono in fase di stanca e spesso le capacità produttive sono sotto regime, per non avere saputo prevedere il ristagno del mercato o per avere investito oltre misura durante lo stadio 2. E’ il momento delle rovinose battaglie dei prezzi, delle grandi campagne promozionali, dell’offerta di servizi speciali alla clientela, ecc. La posta in gioco è, naturalmente, l’aumento della competitività.

• Nello stadio 4 si fanno solo i cosidetti investimenti “protettivi”. Può a volte essere strategicamente interessante assorbire un concorrente in vista di una possibile posizione di quasi monopolio.

La nozione di ciclo vitale offre quindi utili indicazioni ai responsabili della politica di investimento aziendale. I teorici hanno messo a punto diversi strumenti di analisi, i più noti dei quali sono le tre matrici seguenti:

• Crescita-quota di mercato (Boston Consulting Group) • Maturità-posizione concorrenziale (Arthur D. Little) • Interesse del settore-posizione concorrenziale (General Electric-

McKinsey) Queste matrici presentano dei limiti: non rilevano le sinergie fra diverse attività, non danno indicazioni su possibili diversificazioni, non tengono conto degli investimenti effettuati in ciascuna SBA, né degli utili marginali prodotti dagli investimenti aggiuntivi. Sono utili nell’indirizzare la politica di gestione di un portafoglio d’affari, ma non di determinare da soli una strategia.

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La lezione dei giapponesi

E’ davvero squallida la fabbrica in cui gli operai con la loro professionalità sono considerati come un’appendice delle macchine e impiegati in un lavoro ripetitivo, perché ciò che distingue l’uomo è la capacità di pensare. Una fabbrica dovrebbe essere un luogo d’incontro dove gli uomini possono pensare e dar prova della loro saggezza. Si deve ricordare che:•Gli uomini sono capaci di pensare;•Sanno utilizzare la loro saggezza;•Occorre dunque offrir loro l’occasione di manifestarla;•Ogni singolo individuo – operaio, caposquadra, novellino senza esperienza – ha accumulato in sé saggezza: i responsabili ad ogni livello non possono ignorare quanto sia importante questa dote.

Dal manuale della Union Scientists and Engineers

Thomas Peters e Robert Waterman (autori inglesi de “Alla ricerca dell’eccellenza”) affermano: Centrale è il problema della motivazione degli uomini nella vita aziendale. Gli elementi psicologici e comportamentali hanno un ruolo assolutamente determinante ai fini del successo di un’impresa. Un manager moderno deve essere un leader carismatico, oltre che un eccellente stratega. Una strategia di successo non ha vita lunga senza il contributo creativo di uomini motivati che comunicano tra loro. E in un’azienda è stimolante anzitutto la comunicazione che aiuta ogni suo componente a fare meglio il proprio lavoro rendendolo partecipe in definitiva delle strategie dell’impresa. Dichiarazione di Matsushita Konosuke, presidente dell’azienda giapponese Matsushita Electric (1984): Noi vinceremo e l’Occidente perderà: ormai non potete più evitare la sconfitta, perché le ragioni di questa sconfitta sono dentro di voi. Le vostre organizzazioni sono tayloristiche, ma il peggio è che lo sono anche le vostre teste. Voi siete convinti che è prova di buona direzione mettere da una parte i capi e dall’altra gli esecutori, da una parte quelli che pensano e dall’altra quelli che avvitano i bulloni. Per voi il management è l’arte di travasare le idee dei capi nelle braccia degli operai. Noi invece il taylorismo l’abbiamo superato: noi sappiamo che il business è diventato così complesso e difficile, e la sopravvivenza di un’azienda così problematica, in un ambiente sempre più pericoloso, imprevedibile e competitivo, da costringere un’azienda a mobilitare tutti i giorni tutta l’intelligenza di tutti i suoi uomini se vuole avere una probabilità di cavarsela. Per noi il management è proprio l’arte di mobilitare e incanalare tutta l’intelligenza di tutti, al servizio del progetto aziendale. Siccome abbiamo compreso meglio di voi

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l’importanza delle nuove sfide tecnologiche ed economiche, noi sappiamo che l’intelligenza di pochi tecnocrati – pur brillanti – d’ora in poi non sarà più sufficiente per raccogliere quelle sfide. Solo l’intelligenza di tutti i suoi membri può permettere ad un’azienda di affrontare le turbolenze e le difficoltà di un ambiente esterno in continua trasformazione. E’ per questo motivo che il nostro personale ha una preparazione 3 o 4 volte superiore a quello del vostro; è per questo che all’interno delle nostre aziende corre un dialogo così fitto e intenso da sollecitare senza posa il suggerimento di tutti; è soprattutto per questo motivo che le aziende chiedono al sistema scolastico nazionale sempre più diplomati e sempre più laureati illuminati e colti, linfa vitale di un industria che deve nutrirsi di intelligenza. I vostri patrons sociaux, i vostri imprenditori, così pieni di buone intenzioni, credono che si debba “difendere l’uomo all’interno dell’impresa”. Noi, molto più realisticamente, pensiamo, al contrario, che si debba “far difendere l’impresa dai suoi uomini”, e che essa renderà loro il centuplo di quel che avranno dato. Così facendo, noi finiamo per essere più “sociali” di voi. Fortunatamente questo modo di vedere post-tayloristico comincia ad affermarsi anche in Occidente, modificando la concezione tradizionale dei rapporti di lavoro nell’impresa. Ma si tratta di un processo ancora troppo lento. E’ stato dimostrato che oggi i maggiori successi vanno proprio alle aziende che hanno adottato questa visione post-tayloristica, denominata the new age attitude (la nuova mentalità). L’efficacia di un’azienda dipende sempre da un numero di elementi di base, proprio quelli che la cultura giapponese ha saputo valorizzare:

• Fedeltà assoluta dell’individuo al gruppo sociale di appartenenza; • Rispetto dell’uomo; • Autonomia.

Questi valori discendono da Confucio e dalla filosofia Zen, e stanno alla base di un comportamento sociale che spinge: gli individui • A dare al proprio gruppo sociale il meglio di sé, attribuendo un’importanza

fondamentale alla propria formazione e all’aggiornamento continuo; • Ad operare con tutte le energie per il bene del proprio gruppo sociale. Ciò che più ha

colpito noi occidentali dei giapponesi è il culto del lavoro della gente, la serietà con cui assolve i compiti che gli sono affidati e i tassi di assenteismo incredibilmente bassi (0,3 – 0,4 contro un 9-10% della Francia);

• A guadagnarsi la stima dei membri del gruppo sociale cui appartiene. Sappiamo che il giapponese non punisce mai: disapprova. I buoni elementi godono della stima dei loro colleghi, ed è questa la loro principale soddisfazione. La riprovazione del gruppo, al contrario, è per il giapponese una sanzione morale intollerabile che può condurre addirittura al suicidio;

• A rispettare la gerarchia. Una gerarchia credibile, perché le promozioni si ottengono solo per merito, sulla base della competenza e della “saggezza” di ciascuno;

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• A considerarsi solo come l’ingranaggio di un meccanismo. “Tutto è vuoto” insegna Budda. Là dove l’occidentale cerca la personalità più nascosta, l’io profondo, il giapponese vede solo il nulla, perché per lui l’uomo è il punto di incontro di forze esterne.

le aziende • A rispettare profondamente i loro collaboratori e a considerarsi responsabili del loro

destino. Armonia e concordia sono concetti radicati nella mentalità della gente, perché sono i principi stessi del Budda. Ecco così che nelle aziende giapponesi il padrone è “lo sposo” e la direzione “la sposa” e il personale “i figli”. Gruppo dirigente e personale vivono dunque in reciproca fiducia;

• Ad affidare i compiti da svolgere non ai singoli individui, ma a un gruppo. Il manager giapponese non stabilisce delle funzioni ma delle responsabilità e i gruppi cui sono affidate queste responsabilità si organizzano per svolgerle in piena autonomia, nel quadro di un’autoresponsabilità condivisa da tutti i membri di una squadra;

• A sentire il parere dei collaboratori. Contrariamente al modello messianico, tipico delle strutture occidentali, secondo il quale la verità scende dall’alto, la filosofia Zen invita ad ascoltare in silenzio l’eco del mondo. Secondo una leggenda giapponese giunta fino a noi occidentali, più si risalgono i gradini della gerarchia, più si tace. Nell’impresa giapponesi le decisioni si prendono attraverso un processo che va dal basso verso l’alto, con numerose tappe di riflessione. Naturalmente è il vertice che stabilisce gli obiettivi generali. Il “consenso”, cioè l’armonia, si raggiunge però discutendo in comune i modi per conquistarli. Il processo decisionale è più lento, anche perché mira a riscuotere l’adesione di tutto il personale dell’impresa;

• A far regnare la concordia e l’armonia. Per spiegare il tipo di relazioni esistenti fra impiegati e operai, Ichiro Hattori, presidente della Seiko, è ricorso all’immagine di un treno: “le due rotaie – l’interesse degli impiegati e quello degli operai – non possono incontrarsi, ma non possono nemmeno andare ognuno per conto suo. Entrambe vanno nella stessa direzione e le traversine che le congiungono sono la fiducia”;

• A ritenere che la vera ricchezza dell’uomo sia l’uomo, che dunque non deve essere né trattato come un oggetto né ingannato. L’azienda deve essere il luogo dove l’uomo può esprimersi ed educarsi. Proprio per questo motivo i processi decisionali sembrano così lenti agli occhi degli occidentali; ma la contropartita è la partecipazione incondizionata dell’individuo, che è la fonte stessa della produttività; questa, come la creatività cresce col crescere della preparazione professionale e culturale del personale.

Il primo modello giapponese sperimentato dalle aziende europee è stato il “circolo di qualità”, che in Giappone è una forma quasi spontanea di organizzazione di base del lavoro. I circoli di qualità sono una fonte di perfezionamento permanente della produttività e rappresentano lo strumento per arrivare a livelli di qualità che rasentano la perfezione, dato che l’obiettivo finale, raggiunto spesso dalle grandi aziende giapponesi odierne, è lo “zero difetti”. I circoli di qualità sono certamente una tecnica di lavoro trasferibile anche da noi, ma rappresentano soltanto una delle infinite facce della cultura giapponese applicate al mondo del lavoro.

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Gli occidentali vorrebbero utilizzare le ricette giapponesi partendo da atteggiamenti filosofici molto differenti; purtroppo, come si è detto, i comportamenti sono solo l’espressione dei valori cui si è sempre ispirata una società. Il trapianto dei metodi giapponesi non darà dunque frutti, fino a quando non si riusciranno a sviluppare dei “valori” capaci di ispirare atteggiamenti e comportamenti nuovi. E’ proprio ciò che si comincia a fare negli Stati Uniti, dove ci si comincia ad accorgere che le loro aziende avevano tradizioni non meno solide di quelle giapponesi.

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Il modello californiano

Silicon Valley: una nuova filosofia aziendale:

•Un ambiente molto familiare;•La disponibilità dei dirigenti e la loro continua presenza in azienda;•L’onnipresenza dell’informazione;•Lo sviluppo costante delle capacità individuali.

Nel 1984 un gruppo di ingegneri francesi, dopo una visita effettuata nella Silicon Valley, riporta quanto fosse straordinaria l’adesione del personale alla filosofia aziendale, favorita da: • Ambiente molto familiare: compito della gerarchia è consigliare piuttosto che

decidere, perché i risultati aziendali dipendono dal contributo volontario di tutti; • Disponibilità dei dirigenti: scendono spesso in mezzo ai collaboratori, e qualunque

salariato può rivolgersi direttamente a loro senza timore di circuitare la gerarchia; • Onnipresenza dell’informazione: compito fondamentale della gerarchia è di garantire

che le informazioni necessarie vengano convenientemente trasmesse - verso l’alto e verso il basso – e comprese. Tutti sono informati dei risultati aziendali (grandi tabelloni che illustrano gli andamenti della produzione, dell’indice di gradimento della clientela, del fatturato, degli investimenti, ecc.);

• Sviluppo permanente delle capacità individuali: “sapere è potere”. Grande importanza è assegnata alla formazione di base e all’aggiornamento permanente. La professionalità è un valore fondamentale.

Gli straordinari successi delle aziende giapponesi congiunti all’esperienza delle aziende americane oggi più competitive sul mercato, soprattutto nel settore delle nuove tecnologie, hanno condotto alla generale convinzione che: i fattori del successo vengono dal connubio fra la cultura (valori) e la strategia aziendale. In Europa siamo ancora lontani dal tipo di cultura oggi più produttivo ai fini dell’efficacia e della competitività aziendale. Da noi i valori più diffusi sono in contraddizione con gli imperativi strategici della concentrazione, della specializzazione e della mobilità che si impongono alle aziende in periodi come questi, in cui i prodotti si rinnovano continuamente e le situazioni concorrenziali mutano di colpo.

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L’ORGANIZZAZIONE AZIENDALE

EVOLUZIONE DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

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Modelli di struttura organizzativa: Scuola Classica

1. Scuola dello Scientific Management (Taylor)

• Studio dei tempi e dei metodi di lavoro• Salari commisurati ai rendimenti• Schema organizzativo di tipo “funzionale”• Separazione tra lavoro di studio/programmazione e quello di

esecuzione• Pluralità di capi per ogni operaio

2. Scuola dell’Amministrazione Generale (Fayol)• Organizzazione articolata in gruppi funzionali• Schema organizzativo di tipo “gerarchico”• Organi di staff

La Scuola cosìdetta Classica (inizio secolo – 1930 circa) progetta una struttura organizzativa regolata da due principi di fondo:

• la specializzazione del lavoro, ossia la parcellizzazione dei compiti (per le mansioni esecutive di livello più basso: compiti elementari e ripetitivi). L’obiettivo è di incrementare la produttività del lavoro.

• il coordinamento del lavoro, basato sui principi dell’ordinamento gerarchico.

Scientific Management E’ un movimento di pensiero iniziato da Frederick Taylor (1856-1915) con la sua “organizzazione scientifica del lavoro” . Si occupa prevalentemente dell’organizzazione del lavoro d’officina. Nasce dall’esigenza di migliorare l’efficienza aziendale, cioè ridurre i costi di produzione. Vengono applicati i metodi più rigorosi dell’organizzazione del lavoro. Il sistema scientifico adottato è fondato sui seguenti elementi: • Realizzare il massimo benessere dell’imprenditore e del lavoratore, che sono

portatori di interessi antagonistici; • Il mezzo consiste nel migliorare i rendimenti dei lavoratori; • Combattere il sistema tradizionale di organizzazione del lavoro empirico (basato

sull’iniziativa personale e sull’esperienza dei lavoratori e stimolato da incentivi monetari) e inefficiente (“tendenza a fingere di lavorare” per il timore di licenziamenti e per carenze organizzative);

• Studio rigoroso dei tempi e dei metodi di lavoro da parte della direzione d’officina, nel convincimento che esista per ogni attività un metodo “ottimo” di organizzazione (one best way);

• Distinzione netta del lavoro di studio e di programmazione da quello di esecuzione;

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• Salari commisurati ai rendimenti raggiunti, mediante opportune forme di incentivazione;

• Schema organizzativo di tipo “funzionale”, ritenuto più idoneo di quello allora più diffuso, di tipo “gerarchico”;

• Lavoro direttivo di fabbrica distribuito tra più persone, di cui alcune addette alla programmazione, altre all’istruzione e alla guida degli operai. Conseguenza: ciascun operaio riceve ordini ed istruzioni da più capi, ognuno dei quali svolge una particolare funzione.

L’ordinamento gerarchico viene contestato perché il capo che dirige un’officina è oberato da troppe incombenze, mentre occorrono conoscenze ed esperienze difficilmente ritrovabili in una sola persona. Amministrazione Generale Henry Fayol (1841-1925), al contrario di Taylor, elabora una teoria più generale, che riguarda tutte le funzioni di un’impresa. Individua cinque tipi di operazioni:

• Funzioni tecniche (produzione) • Funzioni commerciali (ricerca e gestione dei capitali) • Funzioni di sicurezza (protezione dei beni e delle persone) • Funzioni contabili (inventari, bilanci, statistiche, ecc.) • Funzioni direttive (le più importanti: programmazione, organizzazione, comando,

coordinamento, controllo) Man mano che si passa dai livelli inferiori a quelli superiori, sono richieste sempre minori qualità specialistiche e maggiori qualità direttive. Fayol critica l’ordinamento funzionale di Taylor (in quanto compromette l’unità di comando) e sostiene la superiorità di quello gerarchico. Suggerisce inoltre il ricorso ad organi di” stato maggiore”, cioè di “staff” con i seguenti mandati:

• Aiuto al capo nel lavoro corrente • Coordinamento e controllo • Studi e ricerche

Si può affermare che Fayol, richiamandosi alla suddivisione in funzioni delle specializzazioni presenti nell’impresa e concentrando l’attenzione sulle attività del management, enunciò i principi di direzione dell’impresa:

• Previsione e programmazione • Organizzazione • Comando • Controllo • Coordinamento

Analisi critica alla Scuola Classica Quelle di Taylor e Fayol (e di altri: Mooney, Gulick, Urwick, Davis, ecc.) sono teorie abbastanza omogenee, al di là delle posizioni individuali dei singoli. I loro contributi derivano prevalentemente dall’esperienza maturata direttamente presso le aziende industriali del settore meccanico: allora non esistevano ancora processi automatizzati, la manodopera era scarsamente qualificata e poco sindacalizzata, la produzione prevaleva sul marketing e sulle altre funzioni aziendali. Le imprese erano

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concepite come sistemi chiusi nei confronti dell’ambiente esterno con cui si intrattenevano esclusivamente scambi di mercato (cioè di tipo economico). L’effetto grafico è quello di una piramide. Sotto la direzione generale si aprono le funzioni amministrative (produzione, marketing, acquisti, finanza, ecc.) che a loro volta si articolano in unità organizzative e di comando di livello inferiore sempre più specializzate ed esecutive. Ancora oggi questo modello è assai diffuso nella pratica aziendale col nome di modello plurifunzionale, dove alla base prevale l’ordinamento gerarchico. Si basa su alcuni principi: Il principio scalare chiarisce la fondamentale caratteristica dell’ordinamento gerarchico: autorità e responsabilità devono confluire in una linea chiara e continua dal più alto livello di dirigente all’esecutore al livello più basso. Deve esistere una scala di posizioni fatta di superiori e di subordinati, attraverso i cui gradini devono transitare gli ordini, le disposizioni, le informazioni, ecc. senza saltare livelli intermedi ed in modo formalizzato. Questo passaggio può appesantire il flusso delle comunicazioni e ridurre il grado di efficienza organizzativa, per cui è consigliabile limitare il numero dei livelli gerarchici, compatibilmente con le dimensioni ed altre esigenze aziendali. Il principio dell’ampiezza del controllo che tende a limitare il numero di subordinati soggetti all’autorità di un medesimo capo. (numero ottimale individuato da 3 a 8). Questo principio non può avere valore assoluto ed ha ricevuto numerose critiche. Non contempla la presenza di organi di staff come supporto alle unità di controllo, non tiene conto che i lavori semplici e ripetitivi consentono una maggiore ampiezza di controllo, è un incentivo alla crescita del numero dei capi e quindi dei costi, i controlli finiscono per diventare più stretti e l’autonomia concessa ai controllati si restringe, ecc. Il principio dell’unità di comando significa che nessun membro dell’organizzazione dovrebbe ricevere ordini da più di un superiore, onde evitare disposizioni contraddittorie. Alle line si affiancano i cosidetti organi di staff (con capacità specialistiche) per integrare la preparazione dei capi, che devono garantire una preparazione molto estesa. Ma nella realtà non c’è questa distinzione netta tra i due tipi di organi: gli uni che decidono, gli altri che consigliano od assistono privi di poteri decisionali. Le conoscenze e le informazioni possedute consentono loro di sostituirsi a volte alla “line” nelle decisioni, esercitando un’autorità non solo nei confronti dei propri subordinati diretti, ma anche verso i membri della stessa “line”. E’ un’autorità di fatto, non formale, derivante dalla competenza professionale. Spesso c’è una confusione terminologica e concettuale, visto che spesso si fa una distinzione a priori tra i due tipi di organi. Si classificano “line” l’area della produzione e quella commerciale, più direttamente rivolte al perseguimento degli obiettivi aziendali, mentre tutte le altre sono definite di “staff” (Personale, Amministrazione, Finanza, ecc.). Sulla delega di autorità (di prendere determinate decisioni) lungo i vari livelli gerarchici, due sono le modalità:

• Attraverso la fissazione di regole e procedure; • Mediante la fissazione di precisi obiettivi da raggiungere.

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Modelli di struttura organizzativa:Scuola comportamentistica

Scuola delle relazioni umane• soddisfare i bisogni sociali del lavoratore per incrementare la

produttività

Studi sulla motivazione del lavoro• favorire l’autorealizzazione del lavoratore per incrementare la

produttivitàLa scala dei bisogni di Maslow

1. fisiologici2. di sicurezza3. sociali4. di stima5. di autorealizzazione

Le ricerche di Herzberg• bisogni di “crescita psicologica” del lavoratore

Con la scuola comportamentistica vengono introdotti negli studi e nella pratica dell’organizzazione i concetti propri della scienza del comportamento (1930 – 1960 circa), insieme con quelli della Management sciences, che fa parte della stessa corrente di pensiero. Si possono individuare due filoni: 2 Scuola della relazioni umane (impostazione psico-sociologica)

Trae origine dagli esperimenti compiuti da Elton Mayo e la sua équipe di studiosi di Harvard tra il 1927 e il 1932 presso gli stabilimenti della Western Electric a Chicago. Nella logica della teoria classica, si trattava di misurare le relazioni esistenti tra l’intensità dell’illuminazione e l’efficienza dei lavoratori, nel presupposto che un miglioramento della prima avrebbe consentito una maggiore produttività. La conclusione fu che tra le due variabili non esistevano le relazioni ipotizzate. Allora si allargò l’esperimento con altre variabili (lunghezza della giornata lavorativa, frequenza e durata delle pause di riposo, ecc.), ma non furono individuate relazioni precise, pur rilevando una crescita costante dei rendimenti. Si ipotizzò allora che l’incremento di produttività fosse una conseguenza della mutata situazione sociale dei lavoratori e della modifica della loro soddisfazione psicologica, dovuta al fatto che le operaie sotto osservazione si trovavano al centro dell’attenzione degli studiosi. Ciò segnò la rottura con la tradizione dello Scientific Management che riteneva esistesse un rapporto diretto tra le variabili (illuminazione, condizioni di lavoro, ecc.) e la produttività. Gli esperimenti continuarono e si estesero anche all’osservazione del comportamento di gruppo.

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Emersero fenomeni quali la formazione di gruppi sociali spontanei che stabilivano autonomamente delle norme di comportamento che fissavano il giusto livello di produzione, spesso in contrasto con le direttive ufficiali dell’azienda, nonostante il sistema di remunerazione si basasse su premi commisurati alla produzione del gruppo. Emerse inoltre la forza della cosìdetta “organizzazione informale”, difficile da rimuovere. Conclusioni dello studio: • Con lo sviluppo della civiltà industriale, solo nei rapporti sociali che si creano in

azienda sta il significato intrinseco nel lavoro; • La produttività dei lavoratori è più influenzata dal soddisfacimento dei bisogni

sociali che da incentivi economici o da condizioni fisiche di lavoro più favorevoli; • Determinante è il ruolo del gruppo a cui il lavoratore appartiene, il cui leader non

è necessariamente designato dalla direzione aziendale (leadership democratica); • Fondamentali risultano le comunicazioni tra i vari livelli dell’organizzazione e la

partecipazione dei subordinati ai processi decisori.

Nella pratica le imprese hanno adottato una serie di tecniche delle relazioni umane: sedute di “lamentele”, richiesta formale di consigli ai lavoratori, consultazioni psicologiche, lettera ai dipendenti, giornale aziendale, circoli ricreativi, ecc. Critiche E’ una teoria unilaterale perché trascura le componenti strutturali, tecnologiche ed economiche, forse troppo enfatizzate dalla Scuola classica; Il senso di appartenenza al gruppo non elimina i conflitti tra le parti, che in realtà possono aver dei riflessi positivi sulla stessa organizzazione; I mezzi usati dalle “Relazioni umane” sono spesso strumenti di manipolazione dei lavoratori, al fine di integrarli più facilmente nel sistema aziendale. In definitiva questa scuola ha inteso colmare le lacune e temperare gli eccessi della Teoria Classica, più che sostituirsi ad essa.

2 Teorie motivazionali (America, anni 60)

Questi studi hanno evidenziato l’importanza dell’autorealizzazione degli individui e del contenuto del lavoro. Al contrario del passato, si è pensato che lo stesso lavoro, di per sé, potesse motivare fortemente le persone, purchè adeguatamente riorganizzato. Viene affermato che l’organizzazione formale, finalizzata ad un massimo di razionalità, si basa su principi che possono ostacolare il processo di sviluppo della personalità umana. Quindi occorre evitare: • La specializzazione molto spinta del lavoro, che inibisce l’autorealizzazione degli

individui; • Il principio gerarchico e l’unità di comando, che rendono gli individui dipendenti,

passivi e subordinati al capo e limitano l’ampiezza della loro visuale temporale; • La limitata ampiezza di controllo, che può accrescere la dipendenza, la

sottomissione, la passività.

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Mc Gregor sostiene che esistono due modi opposti di concepire la natura umana e, conseguentemente, di organizzare il lavoro in azienda. La Teoria X si basa sulla visione “tradizionale” dell’uomo pigro, passivo e irresponsabile e va motivato, controllato e il suo comportamento modificato per adeguarlo ai fini dell’organizzazione. Ricorda “il fingere di lavorare” di Taylor. Molto praticata negli anni 60, ancora oggi questa impostazione è diffusa nel mondo industriale, forse solo inconsapevolmente. Esiste poi una Teoria Y (sempre di Mc Gregor) che sostiene che i lavoratori dovrebbero essere concepiti come forze capaci di autoregolarsi in quanto, per natura, non sono né passive né ostili verso le esigenze aziendali. Esse sono diventate tali a causa delle esperienze vissute in azienda. Devono essere coinvolte nella definizione delle proprie funzioni e degli obiettivi da raggiungere. E questo è compito fondamentale della direzione.

Scala dei bisogni di Maslow A.H. Maslow, (Motivation and Personality, New York, 1954 - A Theory of Human Motivation, 1943) sostiene che esiste nell’uomo una “scala di bisogni” non separati e indipendenti tra di loro, ma legati da una sorta di gerarchia.

1. Fisiologici: riguardano l’alimentazione, il riposo, il riparo… 2. Di sicurezza: l’assistenza contro la disoccupazione, le malattie, gli infortuni… 3. Sociali: bisogno di ricevere amicizia, solidarietà, di essere “accettati” dagli altri, di

senso di “appartenenza”… 4. Di stima (e autostima): esigenza di definire la propria identità rispetto

all’ambiente; 5. Di autorealizzazione: sono posti al vertice della scala ideale e consistono nel

volere essere ciò che si può essere, in base alle proprie capacità, alla propria vocazione, ecc.

I rapporti che legano i bisogni sono: • Un bisogno regolarmente e continuamente soddisfatto non possiede elevata forza

motivante; • Un bisogno non è motivante se non sono soddisfatti i bisogni di livello inferiore nella

scala gerarchica. Mentre i bisogni di livello “inferiore” nelle società industriali sviluppate sono spesso sufficientemente soddisfatti, i bisogni di stima e di autorealizzazione sovente restano inappagati. Pertanto con il progredire del livello economico e professionale delle persone, generalmente le motivazioni alla stima e soprattutto all’autorealizzazione tende a prevalere su tutte le altre. Le ricerche di F. Herzberg (1966) Nel lavoro esistono fattori che danno forte insoddisfazione quando sono “negativi”, mentre hanno scarsa efficacia motivante quando sono “positivi”: sono i fattori “igienici” o “di mantenimento” (hanno a che vedere con l’ambiente in cui si svolge il lavoro: condizioni di lavoro, retribuzioni, rapporti interpersonali nel gruppo di lavoro, stile di supervisione, politiche aziendali), perché è come se fossero in grado di prevenire le malattie, ma non di dare la buona salute.

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Esiste un’altra classe di fattori che, se “positivi”, hanno forte effetto motivante, mentre se sono “negativi” non procurano elevata insoddisfazione. Sono i fattori “motivanti” (hanno a che vedere con il contenuto intrinseco del lavoro: la consapevolezza di avere raggiunto un obiettivo, il riconoscimento dei risultati raggiunti, la responsabilità, la possibilità di “crescita “ personale, ecc.). Questi ultimi fattori sono legati al soddisfacimento dei bisogni superiori della scala di Maslow, definibili bisogni di “crescita psicologica” provata sul lavoro. Conclusioni sulle ricerche sulla motivazione:

a) Le motivazioni legate ai bisogni più elementari perdono incisività quando tali bisogni sono già relativamente soddisfatti. (es. mediante alti salari);

b) Le azioni intraprese dalle direzioni aziendali su fattori come il salario, l’ambiente di lavoro, le relazioni umane, ecc. non possono quindi generare una reale motivazione;

c) Le direzioni devono, al contrario, intervenire sui fattori motivanti e soddisfare i bisogni superiori (es. l’autorealizzazione derivante da compiti significativi e non parcellizzati), sempre che i bisogni posti alla base della piramide di Maslow risultino soddisfatti, al fine di accrescere la soddisfazione psicologica degli individui e quindi migliorare le loro prestazioni sul lavoro;

d) Se non appagati, i bisogni superiori non generano elevata insoddisfazione, però possono indurre l’individuo a cercare una compensazione nell’appagamento di esigenze già soddisfatte (es. richieste di aumenti salariali da parte di lavoratori già ben retribuiti).

Queste teorie motivazionali sono alla base di alcuni dei principali esperimenti di riorganizzazione del lavoro esecutivo, in situazioni dove dominano la ripetitività, l’assenza di responsabilizzazione, la monotonia. A loro è riconosciuto il merito di aver fatto evolvere le teorie sulle “Human Relations” sottolineando la necessità di migliorare realmente i contenuti del lavoro in azienda e di far partecipare effettivamente le persone ai processi decisionali. Sono state mosse anche alcune critiche. Ricordiamo soltanto quella che lamenta che teorie motivazionali trascurano variabili importanti come i caratteri ambientali, la tecnologia adottata dall’azienda, ecc. che condizionano il disegno organizzativo del lavoro al di là delle semplici e pure esigenze psicologiche dei lavoratori. Questa critica è tipica dell’approccio “per sistemi”.

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Modelli di struttura organizzativa:Scuola delle Management Sciences

Tende a sviluppare la razionalità del processo decisionale, ricorrendo a strumenti idonei, in particolare alle tecniche quantitative della Ricerca Operativa.

Sostiene che il comportamento umano nelle organizzazioni è solo limitatamente razionale e ciò si riflette negativamente sui processi decisionali. E’ comunque possibile intervenire sui meccanismi, che rappresentano le premesse delle decisioni.

Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, oltre alla Scuola Comportamentistica, si sviluppano le cosidette “Management Sciences” che rappresentano un’evoluzione assai più sofisticata e rigorosa dello “Scientific Management” (Taylor) dei primi decenni del secolo. A differenza degli scienziati “del comportamento”, questi scienziati non hanno un atteggiamento psico-sociologico, ma piuttosto “economico-tecnico”, con ampio ricorso alle discipline matematiche, statistiche, ingegneristiche ed economiche, nel tentativo di rendere sempre più razionale l’amministrazione dell’impresa. Hanno grande importanza dal punto di vista strettamente organizzativo, in quanto danno grande risalto al processo decisionale e agli strumenti idonei a renderlo razionale, tra cui spiccano tecniche quantitative della cosidetta “Ricerca Operativa”. H. Simon parla di meccanismi di influenza (l’autorità, la comunicazione, il criterio di efficienza, l’identificazione del lavoratore con l’organizzazione ed i suoi obiettivi, lealtà organizzativa) che condizionano i processi decisionali e che costituiscono delle vere e proprie “premesse” della decisione. Sostiene inoltre che il comportamento umano nelle organizzazioni è solo limitatamente razionale, generando: incompletezza della conoscenza, difficoltà di previsione, impossibilità di considerare tutte le possibili alternative. Nei confronti di questi limiti è tuttavia possibile intervenire, mediante opportune azioni sui meccanismi d’influenza.

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BERGAMO – FACOLTA’ DI INGEGNERIA – CORSO LAUREA TRIENNALE IN INGEGNERIA TESSILE

Modelli di struttura organizzativa:L’approccio per sistemi

Un sistema è un insieme di elementi in interazione che formano un complesso unitario.

• Approccio globale, che considera tutte le variabili cheinteragiscono con la struttura organizzativa dell’impresa;

• L’azienda come entità in continuo rapporto con l’ambiente esterno• Strutture organizzative più flessibili:

meno relazioni formalizzatemeccanismi di coordinamento diversi dalla gerarchiaridimensionamento dell’unità di comandopresenza di organi temporaneiecc.

Le scuole e i modelli precedenti ponevano l’accento ora su un aspetto ora su un altro della complessa realtà aziendale. Dopo il 1960 prende piede l’approccio “per sistemi” in campo organizzativo. Trae la sua origine dalla “Teoria Generale dei Sistemi”, fondata quasi cinquant’anni fa per opera del biologo L. Von Bertalanffly. La teoria dei sistemi è applicabile a numerosi fenomeni del mondo fisico, biologico e sociale e, date le sue caratteristiche, rappresenta uno strumento per integrare le conoscenze di varie discipline. Un sistema è un insieme di elementi in interazione che formano un complesso unitario. I punti fondamentali della teoria sono: a) Esistenza di relazioni di interdipendenza fra gli elementi costitutivi; le caratteristiche

dell’insieme non sono spiegabili semplicemente con le caratteristiche delle singole parti costitutive e quindi il complesso è diverso dalla somma delle singole parti (proprietà olistica dei sistemi);

b) La varietà dei sistemi esistenti nell’universo può essere classificata secondo una certa “gerarchia” di livelli con complessità crescente:

Sistemi fisici o meccanici 1. Livello della struttura statica (es. di un minerale); 2. Livello del sistema dinamico con movimenti predeterminati (es. orologio) 3. Livello del sistema “cibernetico”, dotato di “autoregolazione” nel mantenimento

dell’equilibrio (es. termostato);

Sistemi biologici 1. Livello del sistema “aperto”, in cui la “vita” comincia a differenziarsi dalla “non

vita” (definibile livello della “cellula”);

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2. Livello corrispondente ai sistemi studiati dalla botanica (definibile livello delle “piante”);

3. Livello dei sistemi animali;

Sistemi umani e sociali 1. Livello “umano”, cioè dell’essere cosciente di sé e capace di usare il linguaggio e

il simbolismo; 2. Livello dei sistemi “sociali”, cioè delle organizzazioni umane (es. le aziende);

Sistemi trascendentali 1. Livello dei sistemi “trascendentali”, cioè le entità assolute, ultime, non conoscibili.

c) Esiste quindi una scala di crescente complessità dei sistemi, dovuta al passaggio

progressivo da sistemi statici a sistemi dinamici, da sistemi chiusi a sistemi aperti e, nell’ambito di questi ultimi, dalla crescente complessità delle interazioni con l’ambiente.

d) Tutti i sistemi viventi sono sistemi aperti (anche se non sempre vale il reciproco), cioè ricevono “energie” dall’ambiente esterno (inputs), le trasformano in “prodotti” (outputs) e trasmettono questi all’ambiente stesso. La teoria generale dei sistemi è quindi applicabile anche alle imprese, le quali fanno parte dei “sistemi sociali” . Con le seguenti precisazioni: • L’impresa è un sistema non spontaneo, in quanto progettato dall’uomo, finalizzato a

uno o più scopi; • L’impresa è un sistema aperto, in relazione dinamica con il proprio ambiente

(mercati, istituzioni politiche e sindacali, progresso tecnologico, ecc.); • Dall’ambiente l’impresa riceve vari “inputs” (fattori produttivi, norme di legge, vincoli

sindacali, “valori culturali”, ecc.) che vengono opportunamente “trasformati” e trasmessi di nuovo all’ambiente come “outputs” (beni, servizi, “cultura”, ecc.);

• Il processo di cui sopra è la condizione necessaria per contrastare il processo di entropia (indice della degradazione dell’energia in un sistema fisico – grandezza usata in termodinamica), a cui l’impresa sarebbe altrimenti soggetta. Nelle imprese si manifesta sotto forma di degradazione per incapacità di percepire gli stimoli della domanda, ignoranza del progresso tecnologico, ecc.

• Le imprese, come tutte le organizzazioni sociali in genere, sono in grado di combattere indefinitivamente i processi entropici, trasformandoli nella cosidetta entropia negativa. Lo stesso non può dirsi dei sistemi biologici.

• Al concetto di entropia negativa è strettamente collegato quello di stabilità (equilibrio dinamico, cioè in grado di adeguarsi a nuove esigenze di mercato: es. potenziamento dell’organico di una unità funzionale e conseguente riequilibrio con il resto dell’organizzazione funzionale). Per questo il sistema si deve dotare di un meccanismo di “autoregolazione” o “feedback”. Esso costituisce un meccanismo di controllo per segnalare e correggere disfunzioni. Gli “outputs” delle operazioni di trasformazione possono essere confrontati con gli obiettivi prefissati, allo scopo di correggere le eventuali disfunzioni nei singoli processi o di ridefinire gli obiettivi – controllo budgetario;

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• I sistemi “aperti” ed il loro livello di organizzazione tendono a diventare sempre più complessi. Ciò vale anche per le imprese (politiche di integrazione verticale, fusioni, diversificazioni produttive, ecc.);

• Tutti i sistemi sono a loro volta composti da sub-sistemi, disponibili in un ordine “gerarchico”. Per l’impresa si tratta di unità organizzative di dimensioni decrescenti: divisioni, dipartimenti, reparti, ecc.

Nell’organizzazione aziendale l’approccio per sistemi si è rivelato particolarmente appropriato da quando l’ambiente è divenuto così dinamico e discontinuo da rendere inadeguati i modelli organizzativi fondati su un concetto di azienda come sistema “chiuso”, adatto in situazioni aziendali ed ambientali statiche. Questo approccio negli anni recenti ha ricevuto numerosi contributi spesso fondati su ricerche empiriche: “sistema socio-tecnico” (Tavistock Institute di Londra), “contingenze organizzative” o “teoria situazionale” (Kast-Rosenzweig, Lorsch, …)