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Fordismo e crisi del fordismo Le analisi della “nuova sociologia economica”a livello micro

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Fordismo e crisi del fordismo

Le analisi della “nuova sociologia economica”a livello micro

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Trasformazioni del lavoro industriale• Artigiano = “imprenditore che conduce la sua impresa

prevalentemente con il lavoro proprio e dei suoi familiari, con l’eventuale assunzione anche di dipendenti” (Bagnasco, Barbagli, Cavalli 1997)– Ci si serve di utensili che “estendono le possibilità di chi lavora”:

sono molto flessibili (= servono per fare molte cose diverse)– L’abilità nell’uso diretto dell’utensile sui materiali (es. tornio per

creare vaso…) è decisiva per la produzione– L’abilità richiesta si apprende con un lungo tirocinio

• Putting-out system: coordinamento di artigiani che lavorano a domicilio, ai quali l’imprenditore-mercante ricorre a seconda delle richieste del mercato (es. tessitori)

• XVIII sec.: prime concentrazioni di manodopera in uno stesso luogo, sotto il controllo di un imprenditore (factory system, organizzazione di fabbrica)

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Le origini dell’organizzazione di fabbrica

• Vengono introdotte le prime macchine utensili– Ancora flessibili (come i vecchi utensili): “macchine

universali”– L’operatore deve conoscere le varie possibilità della

macchina, predisporla (es. fresatrice) e poi finire il pezzo a mano

• “Operai di mestiere”– Spesso organizzati in squadre composte di anziani e

apprendisti• Sistema “disorganizzato”

– Tempi poco prevedibili– Modalità differenti per realizzare lo stesso prodotto– Ruolo fondamentale dell’operaio di mestiere e del

caposquadra nell’organizzazione del lavoro…

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L’organizzazione “scientifica” del lavoro• Taylor (1911) – per ottenere efficienza sono necessari:

– Un’organizzazione centralizzata con una netta divisione dei compiti di decisione/pianificazione e quelli di esecuzione

– La “scomposizione” del lavoro in operazioni più semplici, ad ognuna delle quali corrisponde un posto di lavoro

– La standardizzazione delle singole operazioni (per ogni operazione possono essere fissati tempi e metodi precisi)

• Le operazioni diventano così estremamente prevedibili– Importanza della selezione del personale (“l’uomo giusto al posto giusto”)

• Tentativo di stabilire “scientificamente” il modo migliore di fare una cosa (one best way) – A volte il taylorismo diventa semplicemente un modo per comprimere i

tempi di lavoro– Una produzione più efficiente doveva garantire salari maggiori, tuttavia, il

sistema provocò vivaci reazioni, perché sottraeva ai lavoratori potere e autonomia…

– Si tratta comunque del primo tentativo di introdurre in azienda il problema dell’organizzazione del lavoro

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L’organizzazione “scientifica” del lavoro

• Introduzione delle “macchine speciali”– Compiono una sola o poche operazioni– Non richiedono interventi di regolazione– Funzionano con continuità– Sono veloci e non flessibili– Richiedono lavoro molto più semplice di quello dell’operaio di

mestiere (aumentano gli operai poco qualificati o non qualificati)– Breve tirocinio– Possibilità della lavorazione a catena

• La catena di montaggio fu applicata da Ford alla produzione di auto in grande scala nel 1913

• Nasce il modello “fordista-taylorista”

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Il modello “fordista-taylorista”• Imprese verticalmente integrate

– Includono tutte le fasi produttive, dall’acquisto delle materie prime alla distribuzione del prodotto finito

• Produzione di massa– Beni standardizzati prodotti in grande quantità con macchine

specializzate• Organizzazione del lavoro “tayloristica”

– Parcellizzazione delle mansioni (lavoro diviso in compiti molto semplici e ripetitivi)

– Separazione netta e rigida tra progettazione e realizzazione dei prodotti

– Impresa = grande organizzazione burocratica basata sul controllo gerarchico

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Il modello “fordista-taylorista”• “Non è un caso che il fordismo sia nato in

America”:– Grande mercato nazionale precocemente uniformato

dalle infrastrutture (ferrovie)– Immigrazione, popolazione in crescita

(differenziazioni sociali minori che in Europa)– Forte carenza di manodopera specializzata

• Diffusione più discontinua in Europa– Dove persistono anche forme di organizzazione

produttiva differenti (come i distretti industriali…)

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Il modello “fordista-taylorista”• Altri aspetti del modello (esigenze di

stabilizzazione dopo gli anni ’30):– Estensione della contrattazione collettiva e

istituzionalizzazione delle relazioni industriali (per controllare il conflitto e garantire la collaborazione)

– Intervento dello stato nella regolazione della domanda (stato sociale keynesiano)

→ Relazioni industriali e intervento pubblico stabilizzano il mercato (stretto legame tra stato sociale keynesiano a livello macro e fordismo a livello micro)

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Tensioni e trasformazioni del modello fordista a partire dagli anni ’70

• La saturazione del mercato dei beni di massa riduce lo stimolo alla crescita del consumo

• Cresce la concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione (con più basso costo del lavoro, soprattutto nelle produzioni più semplici e di minore qualità)

• Cresce il prezzo del petrolio e delle materie prime• Maggiore instabilità dei mercati (fine del regime di cambi

fissi)• Esplosione della conflittualità sociale nei primi anni ’70

– La piena occupazione rafforza il potere della classe operaia– L’intensificazione dell’organizzazione del lavoro tayloristica, per far

fronte alla crescita della competizione, rende il lavoro più “alienante” e meno gratificante

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Tensioni e trasformazioni del modello fordista a partire dagli anni ’70

• L’esistenza di sistemi di rappresentanza neocorporativi piùstrutturati e di pratiche di concertazione hanno reso meno dirompenti gli effetti del cambiamento (che sono stati invece più forti negli Stati Uniti, in Gran Bretagna o in Italia…)

• In ogni caso, ovunque si sviluppano nuovi modelli produttivi– Saturazione dei mercati → domanda più diversificata e di

beni di maggiore qualità (anche per crescita redditi e formazione nuovi gruppi più istruiti e nuovi stili di vita)

– Esigenze di flessibilizzazione dell’organizzazione industriale (rivoluzione organizzativa)

– Ma anche nuove possibilità di sviluppo per le imprese proprio nel campo della produzione diversificata e di qualità

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L’evoluzione della grande impresa

La sfida della flessibilità dal modello Toyota all’impresa-rete

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Trasformazioni delle grandi imprese• Riorganizzazione che mira a:

– Offrire più prodotti (non si sa in anticipo quale avràsuccesso)

– Produrre rapidamente ciò che sarà richiesto dal mercato (tipo e quantità di prodotto)

• Le grandi imprese devono1. Ridurre la separazione tra concezione ed esecuzione 2. Cambiare organizzazione interna e organizzazione del

lavoro3. Modificare il rapporto con i subfornitori4. “Capovolgere” il rapporto con il contesto istituzionale

locale (fattori culturali e normativi)

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Trasformazioni delle grandi imprese1. La separazione tra concezione ed esecuzione rende

l’introduzione di nuovi prodotti lenta, complicata e rigida

– Decentramento dell’autorità– Strutture centrali più snelle– Laboratori più piccoli a livello di unità operative– Le unità operative diventano “aziende semiautonome”– La grande impresa si trasforma in una holding che

controlla società specializzate in diversi prodotti2. L’organizzazione del lavoro

– I modelli tayloristi vengono rimessi in discussione– Just in time per rispondere velocemente alla domanda– Ridurre il magazzino (accumulo di scorte)– Ridurre scarti, tempi morti e risorse ridondanti– Uso di macchinari meno specializzati– Qualificazione più polivalente, gruppi, coinvolgimento…

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Trasformazioni delle grandi imprese3. Rapporto con i subfornitori

– l’impresa si apre verso l’esterno, potenziando la collaborazione con i subfornitori

– Siccome i prodotti aumentano e il loro ciclo di vita si accorcia, le imprese non possono più fare tutto da sole

– Si concentrano su alcune tecnologie chiave, sul design, sull’assemblaggio finale…

– …mentre le parti vengono prodotte da una rete di subfornitori

4. Rapporto con il contesto istituzionale locale– Le imprese dipendono di più dall’ambiente, sono “radicate”

(embedded) nel contesto (locale)– Si sviluppano modelli locali di riorganizzazione produttiva– Ad es., le capacità di apprendimento e di cooperazione

sembrano più sviluppate dove i processi di dequalificaizonedel lavoro sono stati più deboli (come in Giappone e in Germania)

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Es.: il sistema Toyota• Lo schema organizzativo fordista viene “rovesciato”:

– L’ordinazione di un certo numero di auto mette in moto la produzione

• L’ordinazione arriva agli uffici commerciali• Lungo la linea produttiva viene messa in moto la richiesta dei pezzi

necessari• I pezzi necessari vengono prodotti solo nella quantità necessaria

– Produzione just in time (Hono 1978, trad.it. 1993)– In caso di errore la macchina viene fermata e il problema risolto

direttamente dall’operaio (i controlli di qualità non avvengono solo alla fine, ma durante il processo produttivo)

• Il sistema Toyota richiede responsabilizzazione e partecipazione da parte di tutti i lavoratori– Resa possibile da un particolare sistema socio-economico (es.

garanzia del posto di lavoro “a vita”; differenze fra paghe di operai e dirigenti più basse che in occidente…)

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Il sistema Toyota

• Lo studio del modello giapponese ha smentito la tesi della continua dequalificazione del lavoro:– Le nuove forme di organizzazione possono

richiedere maggiore qualificazione e maggiore autonomia dei lavoratori

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NOTA:Modelli di regolazione a livello “micro”

• La grande impresa verticalmente integrata ha “internalizzato” attività che prima erano (o potevano essere) svolte da attori tra loro indipendenti– Es. Ford acquista ingranaggi o li produce al proprio interno?

• Alternativa tra mercato e organizzazione (Williamson1975):– Mercato (il ricorso ai meccanismi di mercato ha un peso variabile

nella regolazione)– Gerarchia = “comandi imperativi dello stato o delle grandi

imprese”, a livello micro significa controllare (attraverso la gerarchia aziendale) tutto il processo produttivo…

–> Scelta tra produrre e acquistare (make or buy): problema dei costi di transazione

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NOTA:Modelli di regolazione a livello “micro”

• Quali fattori definiscono i costi di transazione?– Fattori economici

• fornitura complessa, dilazionata o mutevole nel tempo…– Fattori sociologici

• comportamenti opportunistici del venditore, informazione imperfetta dell’acquirente…

– NB: ruolo delle reti di relazioni nel generare la fiducianecessaria per una transazione difficile

• Conoscenza diretta• Appartenenza ad una stessa subcultura (meccanismi di

socializzazione e controllo sociale possono essere garanzia di correttezza negli affari)

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L’impresa-rete• Soluzioni intermedie tra mercato e gerarchia:

– Contratti di lunga durata– Franchising– Impresa-rete

• L’impresa-rete è un’impresa che coordina una rete di imprese minori, collegate da rapporti di “quasi-mercato” e “quasi-organizzazione”– Le fasi produttive possono essere svolte da imprese diverse,

collegate tra loro in un modello a “rete”– Ruolo delle macchine a controllo numerico (effetto

“centrifugo” sulla produzione)– Ruolo degli strumenti di comunicazione e dell’informatica

(possibilità di centralizzare le funzioni di coordinamento, e di controllare complessi processi di produzione decentralizzati)

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Riscoperta (e persistenza) dei sistemi di piccole imprese

Specializzazione flessibile e distretti industriali

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La (ri-)scoperta dei distretti industriali• Piore e Sabel The Second Industrial Divide 1984

(trad.it. Le due vie dello sviluppo industriale 1987)• Nel corso degli anni ’70, crescita delle piccole

imprese, – Concentrate in sistemi locali (in aree urbane di dimensioni

ridotte, costituite da uno o più comuni vicini)– Specializzazione settoriale (soprattutto nei settori

“tradizionali” come tessile, abbigliamento, calzature, mobilio, ceramica, ecc., ma non solo)

– Mercato del lavoro integrato• “Terza Italia” (Bagnasco 1977)

– Aree di specializzazione produttiva che in alcuni casi esistevano da molto tempo, convivendo con la produzione di massa, e che in altri casi si formano o crescono sotto lo stimolo delle nuove opportunità per le produzioni flessibili

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I distretti industriali• Divisione specialistica del lavoro –> integrazione tra

piccole imprese molto elevata– Integrazione verticale tra le imprese: ogni impresa si

specializza in una particolare fase (o in un particolare componente del prodotto)

– La produzione è decentrata– e presuppone un’elevata collaborazione tra unità produttive

• La flessibilità dei distretti non dipende solo dall’uso di nuove tecnologie da parte delle singole aziende, ma soprattutto dai rapporti di cooperazione tra le aziende

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I distretti industriali• La capacità di innovare e migliorare la qualità dei

beni prodotti è sostenuta da economie esterne alle singole imprese, ma interne all’area in cui esse sono localizzate:– Disponibilità di collaboratori specializzati– Disponibilità di manodopera specializzata– Disponibilità di servizi e infrastrutture collettivi

• Ma anche di fattori immateriali che influiscono sulla produttività (Marshall “atmosfera industriale”)– Risorse cognitive che si formano nel tempo e che creano

“conoscenze tacite” (Becattini 2000)– = “saper fare diffuso” e “linguaggio condiviso” che

sostengono la capacità di adattamento e di cooperazione

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Origini e condizioni di successo dei distretti industriali

• Perché i distretti si sviluppano solo in certi contesti?• Lo sviluppo dell’economia diffusa e dei distretti è

sostenuto da alcuni fattori istituzionali (Bagnasco 1988; Trigilia 1986):– Una rete di piccoli e medi centri urbani, caratterizzati da

tradizioni artigianali e commerciali diffuse (spesso anche da scuole tecniche)

– L’eredità dei rapporti di produzione in agricoltura prima dell’industrializzazione (mezzadria e piccola proprietàcontadina) e il rapporto città-campagna, che sostengono l’imprenditorialità

– La presenza di aree caratterizzate da subculture politiche territoriali, che rafforzano il tessuto fiduciario senza il quale i distretti non possono svilupparsi (N.B.: rinuncia a massimizzare l’utilità a breve termine da parte di clienti e subfornitori)

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I distretti come “sistema economico”• La costruzione sociale del mercato è un elemento

fondamentale per la comprensione e per lo sviluppo dei distretti industriali– Cooperazione tra imprese (es. tempi di consegna,

investimenti per innovazione, ecc.)– Cooperazione all’interno del mercato del lavoro (elevata

flessibilità interna in termini di orari e di disponibilità a svolgere mansioni diverse; mobilità tra le imprese; propensione a “mettersi in proprio”)

– Formazione professionale, informazioni sui mercati e sulle tecnologie, promozione delle esportazioni ecc. non possono essere sostenute dalla singola impresa: è il “sistema economico” che se ne fa carico

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I distretti come “sistema economico”• I distretti si basano sulla presenza di specifiche

risorse:– Tradizioni artigianali e/o presenza di istituzioni di ricerca

pubbliche o private che alimentano il “saper fare” diffuso– L’“innervamento” del distretto in una comunità locale

garantisce interazioni più dirette e circolazione delle informazioni (sanzionamento ed esclusione di chi non si adegua alle norme e alle aspettative condivise)

– Il “saper fare” e la circolazione delle informazioni possono essere sostenuti anche dalle istituzioni (centri per la diffusione della tecnologia, per la formazione imprenditoriale e del lavoro, per la promozione delle esportazioni, per la raccolta di informazioni sui mercati…)

– Relazioni industriali poco presenti o molto cooperative

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Insegnamenti del caso dei distretti: i beni collettivi locali

• La possibilità di intraprendere un certo percorso di sviluppo è data dalla presenza di beni collettivi locali(BCL)

• Il ruolo dei BCL è particolarmente evidente nel caso delle piccole imprese, – che non hanno al proprio interno le risorse necessarie per

svolgere tutte le funzioni di cui hanno bisogno per essere competitive (beni collettivi locali per la competitività)

• Ma ogni modello organizzativo ha bisogno di risorse “locali” (provenienti dal sistema istituzionale e sociale in cui è inserita l’impresa)

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Beni collettivi locali per la competitività• Secondo Crouch, Le Galès, Trigilia e Voelzkow [2004]

l’elemento mancante nella spiegazione del successo delle economie locali sta in quelli che vengono chiamati beni collettivi locali per la competitività

• Questi beni sono definiti dagli autori come i vantaggi che la prossimità geografica e la relativa densità delle comunicazioni possono offrire alle imprese

• I contesti locali sono importanti proprio in quanto offrono BCL:– fattori intangibili (“risorse cognitive e normative, come la conoscenza

implicita, i linguaggi specializzati, le convenzioni e la fiducia”)– e tangibili (“infrastrutture e servizi”)

• “Il problema centrale delle piccole imprese non sembra essere dato dalle loro dimensioni, bensì dal fatto di essere isolate”

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I nuovi modelli organizzativi flessibili: una tipologia

(strategie di “riaggiustamentoindustriale”)

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Una proposta di analisi

• Crisi fordismo → differenziazione (modelli “locali”)• Quali sono questi modelli, e perché sono locali?• Regini [1995] suggerisce una tipologia di modelli

organizzativi flessibili:1. (+ Multinazionalizzazione)2. Produzione di massa flessibile (Pmf)3. Produzione diversificata di qualità (Pdq)4. Specializzazione flessibile (Sf)

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1. Multinazionalizzazione• Modello fordista (idealtipo):

– imprese verticalmente integrate– produzione di massa (standardizzata: grandi serie e grandi volumi)– manodopera scarsamente qualificata e organizzazione “tayloristica”

• Nuove condizioni:– saturazione mercati– concorrenza paesi a più basso costo del lavoro– instabilità mercati internazionali (venir meno regime cambi fissi)– conflittualità industriale anni ‘70– difficoltà sostenere spese welfare

• Strategia = investire nei paesi in via di sviluppo per “ritrovare le condizioni di vantaggio prima presenti nei paesi più avanzati: mercati in crescita e condizioni di piùbasso costo del lavoro”[Trigilia 1998: 366]

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2. Produzione di massa flessibile

• Strategia delle imprese che puntano sulla produzione di massa di una varietà di beni

• Possibilità di competere sul prezzo e sulla diversificazione ← automazione programmabile (cn)

• Nuove tecnologie informatiche per adattare il modello fordista: “neofordismo” [Arrighetti 1988: 82]; “produzione flessibile di massa” [Boyer 1988]

• Risorse umane: polarizzazione tra personale a bassa qualificazione e ad alta qualificazione – Riduzione della domanda di figure a medio-bassa

qualificazione e di competenze tecniche (domanda crescente di adattabilità al mutamento e cooperazione)

– Domanda di qualificazioni elevate per quadri, tecnici e personale dell’area commerciale

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3. Produzione diversificata di qualità• Strategia delle imprese che puntano sulla qualità e

sulla diversificazione, ma non sul prezzo• Per evitare la concorrenza delle economie a bassi

salari, puntano su segmenti di mercato più elevati e sulla (semi-) customizzazione dei prodotti ← elevate capacità organizzative e di coordinamento + elevati livelli tecnologici e standard di qualità

• Alla forza lavoro è richiesta ampia qualificazione a tutti i livelli, capacità di integrare diversi compiti e di imparare rapidamente nuove mansioni, coinvolgimento negli obiettivi aziendali di miglioramento costante e di innovazione

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4. Specializzazione flessibile• Strategia delle imprese che competono su un’estrema

flessibilità e adattabilità– Piore e Sabel [1984]: “modello neoartigianale” = produzione di

beni non standardizzati con macchine utilizzabili per modelli diversi, realizzati con manodopera più qualificata

– Modello dei distretti: integrazione verticale tra le imprese del sistema locale e divisione specialistica del lavoro (tra le imprese), che richiede un’elevata collaborazione tra unità produttive specializzate

• “La capacità di rispondere in modo flessibile ai cambiamenti del mercato si basa non solo sull’uso delle nuove tecnologie da parte delle singole aziende, ma soprattutto sui rapporti di cooperazione” [Trigilia 1998: 369]

• La capacità di innovare e di migliorare la qualità dei beni prodotti è sostenuta dalla presenza di beni collettivi locali (per la competitività)

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Modelli flessibili e contesto locale• Il successo dei diversi modelli organizzativi non dipende

(solo) dalle dimensioni aziendali, ma (anche) dal contesto istituzionale: determinati contesti locali favoriscono alcuni modelli organizzativi e non altri. Per questo i modelli di produzione spesso sono concentrati localmente (tipicamente nei distretti, ma anche nei cluster…)

• Il contesto istituzionale è tanto più rilevante quanto piùsono ridotte le dimensioni aziendali: la grande impresa èpiù “indipendente” dal territorio, mentre la piccola impresa ha bisogno di trovare sul territorio tutto ciò che non può produrre (o acquistare) autonomamente (= i beni collettivi locali per la competitività)

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Modello Beni collettivi locali per la competitività

Multinazio-nalizzazione

Basso costo del lavoro, basso costo degli stabili e dei servizi, accessibilitàdei mercati di sbocco, infrastrutture(nel paese di origine: sostegno all’internazionalizzazione)

PMF Mercato del lavoro “polarizzato”, accesso al credito per investimenti in ricerca e innovazione, infrastrutture

PDQ Mercato del lavoro qualificato, formazione professionale, istituti di ricerca e trasferimento tecnologico, infrastrutture

SF Collaboratori e manodopera specializzata e disponibile, servizi e infrastrutture collettivi, ma soprattutto “atmosfera industriale”…•Beni collettivi MATERIALI: aree industriali attrezzate, sostegno alla formazione professionale, servizi alle imprese, sostegno all’export•Beni collettivi IMMATERIALI: saper fare condiviso, linguaggi comuni, fiducia, propensione all’imprenditorialitàOriginate da:

•Subculture politiche territoriali•Mezzadria e piccola proprietà contadina•Tessuto urbano di piccoli e medi centri con tradizioni artigianali•Modelli familiari…