(disegno di copertina di Fabio Pistolesi) · Capitolo I Ci sono tre cose fondamentali da tenere a...
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Prologo
Quella notte, come ogni notte, il Primo Anello della città era immerso nel silenzio.
Non si udiva nemmeno il rumore dei grilli, né qualcun altro dei suoni più o meno
misteriosi che popolano il buio: solo, talvolta, il cigolio attutito di qualche finestra.
Immobile sotto un cielo terso, Qadath si stagliava al centro della pianura con la
maestosità che solo una capitale del Regno avrebbe potuto avere. Le luci all'interno
degli edifici, tutte provenienti dal centro della città, sembravano voler imitare i bagliori
celesti: una replica in terra dello splendore siderale, tesa verso quell'eternità che è
propria degli astri. Alcuni, in luoghi lontani e sottovoce, avrebbero mormorato con
disapprovazione dell'affronto che la città recava ai cieli: ma erano voci di un passato
sepolto da tempo. Nel presente non v'era spazio per la paura del cielo o degli dèi che
lo abitavano: il potere dei Triumviri aveva segnato l'avvento di un timore nuovo e ben
diverso.
L'ennesimo cigolio di una finestra spezzò per un attimo il silenzio: il palazzo da cui
proveniva non aveva luci accese, perciò non vi era modo di distinguere chi o cosa
l'avesse provocato.
Su un tetto adiacente all'edificio, intenta a sonnecchiare, vi era però una gatta: era un
esemplare anziano, con abbastanza furbizia ed esperienza da sapere che di notte –
nella città – non c'era spazio né per miagolii inopportuni né per avventatezze. Fu perciò
con estrema pacatezza e nella più piena immobilità che, svegliata da qualche pensiero
ignoto, osservò l'esemplare femmina di umano sgusciare con lentezza e fatica fuori
dalla finestra. La luna, quella notte, era cieca, ma all'animale bastava il vago bagliore
delle stelle per riconoscere l'ambiente che la circondava. Gli odori e la sagoma di lei la
mossero per un attimo al ricordo, e a qualcosa di simile alla simpatia: fu un sentimento
passeggero, presto vinto dal rinnovato desiderio del sonno. Si limitò ad osservare con
vaga curiosità le sue acrobazie per scendere dal tetto, goffe ed impacciate, per poi
tornare ad accoccolarsi e dormire.
La donna percorse lentamente i tre metri che separavano la finestra dal bordo del tetto:
da lì si calò su un balcone sottostante, e dal balcone – con un ultimo sforzo
sovraumano – riuscì ad arrivare fino alla strada. Il tonfo del suo corpo fu quasi
inudibile: il dolore che le causava camminare a piedi scalzi era un piccolo prezzo da
pagare, per la grazia della discrezione che quella nudità le concedeva. Indossava una
tunica a malapena sufficiente a non farla congelare, il che la costringeva ad uno sforzo
ulteriore per non battere i denti.
Restò immobile per qualche attimo contro il muro, raccogliendo le forze. Quindi si
staccò dalla parete e scivolò nel buio di un vicolo dall'altra parte della strada: si mosse
con quanta rapidità le era possibile, senza paura. Il coprifuoco non veniva rotto da
nessuno, nemmeno nel primo Anello.
Venne inghiottita dai meandri della città, volando sul selciato con la leggerezza di un
fantasma. Un fantasma silenzioso, malvestito e scalzo.
Capitolo I
Ci sono tre cose fondamentali da tenere a mente, quando si parla con un Elfo.
La prima è che tutti gli Elfi sono piuttosto permalosi. Cancella il piuttosto: molto
permalosi. Non che sia colpa loro: arroganza, permalosità e la sottile convinzione che
se non hai le orecchie a punta dovresti guardarli dal basso delle ginocchia fanno parte
del loro retaggio genetico tanto quanto i capelli biondi. Ci sono voluti secoli di sesso
inter-razziale per diluire certe convinzioni nelle generazioni più giovani.
La seconda è che le femmine del popolo Elfico sono molto più permalose dei maschi.
Dove risieda il perché di ciò – se nell'attributo di genere o in quello razziale – è oggetto
di diatriba dalla notte dei tempi.
La terza ed ultima cosa è che non esiste un popolo maggiormente predisposto alla
pratica delle Arti Arcane. Sebbene maghi si nasca, le statistiche suggeriscono che siano
gli Elfi a detenere il primato di nascite magiche, almeno negli ultimi cento anni.
Quanto alla pratica, pochi possono negare che un'Evocazione del Fuoco umana non
possa competere, in maestosità e fantasia, con il suo equivalente elfico.
Nel rivolgere alla propria assistente un colorito invito ad infilarsi le sue richieste dove
nessuno le sarebbe mai più andate a cercare, Balthasar doveva aver dimenticato
almeno due delle tre citate considerazioni. Il sibilare di un modesto globo di fuoco a
pochi centimetri dal suo orecchio sinistro gliele ricordò di colpo. Mentre le fiamme si
spalmavano sul muro di granito alle sue spalle, chiamò a raccolta tutta la sobrietà
residua necessaria ad alzarsi, tirare fuori il suo collaudato sorriso da seduttore ed
andare verso la stanza attigua, dove si appoggiò al muro nella posa più languida
possibile – cosa non facile, vista l'ostinazione con cui il suolo tentava di spalmarsi sulla
sua faccia.
– Keria, tesoro, lo sai che nessuno ti apprezza più di me. Non volevo essere brusco, ma
è stata una giornata lunga. Vogliamo dimenticare questa sciocchezza e tornare alle
nostre occupazioni, ora? Prima che l'ufficio prenda fuoco?
La donna, seduta al tavolo di legno sommerso per metà da pergamene, era intenta a
scrivere su una di esse con una penna d'aquila; la intinse nel calamaio ricolmo di
inchiostro bluastro, quindi gli rivolse un'occhiata altera da dietro il proprio monocolo.
– Uno, quello che tu chiami "ufficio" è una catapecchia di roccia sgretolata e legno
fradicio, dimenticata dal Dio nel recesso più umido del Terzo Anello e probabilmente
in procinto di crollare. Perciò nell'improbabile ipotesi che questi quattro sassi
prendano fuoco, dubito che qualcuno li piangerebbe.
– Non essere cattiva, in fondo il laboratorio...
– DUE – lo interruppe lei alzando la voce di un tono – Non credo che in nessun
anello, nemmeno nel Primo, un arretrato di quaranta sesterzi d'oro possa essere
considerato "una sciocchezza". E tre, il sole non è ancora a picco e tu hai già trangugiato
più caraffe di Lykeòn di quante un Nano è solito bere in una settimana. Considerato
che ovviamente non le hai pagate, ciò porta i tuoi debiti complessivi all'ammontare di –
disse finendo di scrivere sulla pergamena con un gesto stizzito – Trecentosedici sesterzi
d'oro, dodici quarti d'argento e tre libbre di bronzo.
Balthasar allargò il sorriso, speranzoso che questo e un protratto silenzio potessero
magicamente risolvere quell'imbarazzante situazione. Sembrò funzionare perchè l'Elfa
si limito ad arricciare il naso, per poi rituffarsi con uno sbuffo fra le sue pergamene.
– E levati quella smorfia dalla faccia, sembra tu stia per vomitare.
Fu profetica: dieci minuti dopo il suo datore di lavoro era chino su un secchio di rame
in un angolo della propria stanza, a tu per tu con i liquidi della mattina. Rimase in
ginocchio fino ad essere sicuro di star meglio, quindi si rialzò con un grugnito
afferrando il manico del secchio e ciondolando verso l'uscita. Keria, ancora immersa
nel suo lavoro, si limitò a gettargli un'occhiata di sdegno che lui nemmeno notò.
Fuori l'aria era fredda, il cielo grigio come la pelliccia di un topo. Nonostante fosse solo
l'inizio della stagione invernale, il gelo sembrava avere fretta di avvolgere la città nella
propria morsa inesorabile, dal Terzo al Primo Anello, per i lunghi mesi che sarebbero
seguiti. In cima ai bassi tetti di paglia e mattoni d'argilla alcuni corvi si contendevano
qualcosa, forse un brandello di carne. Non si udiva altro suono che il loro gracchiare:
continuo e martellante.
Per Balthasar quel rumore era come l'urlo di mille Banshee. Dal fondo del vicolo
arrivava un'odore di immondizia e decomposizione, lì dove stavano accatastati mucchi
di frutta marcia e altri scarti della vicina taverna. Si turò il naso con la mano libera,
andando verso l'origine del fetore e scaricando il contenuto del suo secchio più in fretta
che potè. Il che fu la sua rovina: metà del contenuto gli si rovesciò sui piedi,
insozzando i suoi stivali.
– Dannato sia Rl'yeh! Non proprio questi stivali!
Cercò attorno a sé qualcosa per pulirsi, ma la cosa più simile ad uno straccio sembrava
essere appena uscita dal fegato sanguinante di una vacca, perciò decise di tornare in
ufficio e sperare che Keria potesse rimediare.
Mentre camminava, si domandò distrattamente come avesse potuto essere così stupido
da indossare i suoi stivali preferiti in un giorno qualunque. A quella domanda oziosa il
suo cervello diede una risposta tanto ovvia quanto temuta: quello non era un giorno
qualunque. Seguì la presa di coscienza del perché, e la conseguente corsa a rotta di
collo verso l'ufficio.
– L'accordo con quel dannato ciccione di Pintus scade oggi! – ringhiò sbattendo la
porta e rivolgendosi all'Elfa, come se la colpa fosse sua. L'uomo sbronzo e sorridente
di poc'anzi era sparito, lasciandosene dietro uno dalle occhiaie infossate, la barba
incolta e la voce rauca per il vomito, simile al ringhio di un vecchio randagio. – Se non
trovo... l'articolo entro il tramonto posso dire addio al compenso – La donna si limitò
a fissarlo. – Un compenso che ho già abbondantemente speso, capisci?!
– Presumo sia troppo sperare che questa spesa pertenga ai miei stipendi, vero?
Il commento cadde nel vuoto, mentre Balthasar si precipitava nella stanza accanto con
un lamento. Rovistò nel ripiano inferiore della propria scrivania, un caos di fogli di
pergamena contenenti gli appunti più svariati, fino a trovare quello che cercava.
Quando l'ebbe letto l'espressione corrucciata della fronte si distese parzialmente,
mentre le labbra si piegavano in un ghigno di soddisfazione. Ciò che aveva appena letto
riattivò i centri della sua memoria: se quel giorno aveva indossato gli stivali, era perché
era certo che sarebbe stato giorno di paga. Ora sapeva dove andare.
Capitolo II
Pintus Caius Atreius era un uomo dalla mole immensa e dagli immensi appetiti. A
Balthasar era bastata una sola occhiata per capirlo. Portava un anello ad ogni dito della
mano e il collo già quasi invisibile era avvolto da un gigantesco medaglione d'argento
inciso; sudaticcio e sgradevole alla vista, il suo inaspettato cliente si era asciugato la testa
quasi pelata con un fazzoletto di seta ricamata , tossendo rumorosamente e sedendosi
di fronte a lui.
– Vi siete scelto una sistemazione pittoresca, messer Balthasar. Invero, pittoresca a dir
poco.
– Perdonatemi se non vi offro nulla, mio Lord; è solo una, uhm, soluzione provvisoria,
questa. Conto di trasferirmi nel Secondo Anello entro la prossima luna.
Quello aveva sorriso con aria untuosa – Ne sono certo. Ma vi prego, lasciate certi
appellativi a chi li merita: un mercante non è che un uomo del popolo.
– Come desiderate. Dunque messer Pintus, cosa vi porta qui?
L'uomo si era leccato le labbra – Mi siete stato consigliato da una mia cara amica,
madama Lt'hk; è rimasta decisamente soddisfatta del vostro precedente servizio e vi ha
indicato come un uomo in grado di gestire questioni... spinose.
Per un attimo Balthasar era apparso confuso. Madama chi? – Oh, aspettate, intendete
madama Litika? – Quello aveva assunto una posa altezzosa. – Volendo usare la
dizione barbara. Non mi direte che siete fra quelli che incontrano difficoltà nel
pronunciare correttamente i nomi della Nobile Stirpe?
– Si, vabbè. Madama Litika, eh? – Il ricordo della donna gli aveva dipinto un sorriso
affilato sul volto: gomiti sul tavolo e punte delle dita unite, era diventato consapevole
che da quel momento in poi la conversazione avrebbe preso una piega interessante. –
Ricordo bene il suo caso. Devo supporre si tratti di qualcosa del genere?
Il grasso mercante gli era parso improvvisamente molto più sudato di prima. Gli occhi
erano corsi alla porta dietro di lui, quindi nuovamente a Balthasar.
– Vi prego, parlate liberamente. Nessun orecchio indiscreto qui.
Rassicurato, si era avvicinato di qualche centimetro. – Mi è stato sottratto qualcosa di
vitale importanza. Ma voi capite, la delicatezza del problema è tale che... E anche il
tempo non ci è amico...
– Discrezione e rapidità sono il mio motto. Andate avanti.
Dopo che il mercante si fu spiegato, il sorriso sul volto di Balthasar esprimeva la
soddisfazione di un lupo che che ha appena intravisto una pecora molto grassa e molto
lenta. Si era appoggiato con aria lasciva allo schienale della sedia, tanto rilassato quanto
il suo interlocutore era teso.
– Mi è tutto chiaro. Posso garantirvi che riavrete ciò che è vostro. Vogliamo parlare del
mio onorario, ora? – Il ghigno sul suo voto sembrava voler sottintendere che sarebbe
stata una cifra indecorosamente alta. E l'aria rassegnata del mercante sembrava indicare
che lo sapeva, e che l'avrebbe accettata comunque. In quei casi accettavano sempre.
Il Tempio della Settima Vergine si trovava a circa un chilometro ad Ovest della città;
era lì che Balthasar era diretto. Oltrepassando il cancello meridionale del Terzo Anello
di Qadath accarezzò alcune ipotesi su come avrebbe speso la sua ricompensa. Avrebbe
potuto saldare qualche debito, certo; oppure avrebbe potuto affittare una stanza del
Paradiso e godere di tutto ciò che quel posto aveva da offrire a delle tasche generose.
Propendeva decisamente per la seconda ipotesi.
La strada che conduceva al tempio era in terra battuta, larga quanto bastava per far
passare due carri uno accanto all'altro. Balthasar la percorreva a piedi, e di tanto in
tanto incrociava il carretto di qualche mercante diretto verso la città. Oltre a questi
sporadici incontri la strada era deserta e attraversava la pianura in curve e volute come
un solitario ed immobile serpente marrone.
Fu dietro una di queste curve che Balthasar si ritrovò a tu per tu con un quadretto assai
poco edificante. Sul ciglio della strada stavano quattro uomini: l'armatura in cuoio nero
e metallo brunito, insieme con le lance e il gladio appeso alla cintura, non
permettevano di sbagliarsi: era una pattuglia della Guardia Cittadina, il corpo di
pubblica sicurezza meno amato del Regno. Fra i suoi ranghi annoverava perlopiù
cadetti che avevano fallito l'addestramento dell'Accademia Militare, criminali in fuga
bisognosi di un nuovo inizio e semplici violenti non abbastanza stupidi da sfogare i
propri impulsi andando contro le leggi Triumvirali. Insomma, una schiera di elementi
dal notevole spessore morale e dotati di ugual affabilità. Di fronte a loro stava una
coppia di giovani, un uomo e una donna: sembravano umani, ma ad un secondo
sguardo si rivelarono essere due mezz'elfi.
Due delle quattro guardie erano intente a frugare dentro alcuni sacchi,
presumibilmente i bagagli dei giovani, mentre le altre due squadravano la lei della
coppia con un sorriso identico ed ugualmente sgradevole.
– Balthasar, il ratto di fogna più amato del Terzo Anello, mette il muso fuori dalla tana.
Quale importantissimo compito ti trascina fuori dal tuo stesso sudiciume?
Quella voce, strascicata e sprezzante, gli scivolò sulla nuca come le zampe di un insetto.
Fissare con ostentato interesse il campo di girasoli dall'altro lato della strada, e
camminare il più velocemente possibile, non era bastato a Balthasar per evitare di
essere riconosciuto. Si voltò verso un volto noto che avrebbe preferito non vedere.
– Gita di piacere, Ascros. – rispose con voce piatta, rivoltandosi e continuando a
camminare.
– Allora hai qualcosa in comune con questi due mezzosangue. A differenza del fatto
che loro non hanno un lasciapassare, né i soldi per pagarselo. Ma tu lo sai, noi siamo
uomini di buon cuore. Troveremo un modo per metterci d'accordo. – continuò
l'uomo chiamato Ascros, rivolgendo quell'ultimo commento alla donna che gli stava
davanti. Lei, dal canto suo, si limitò a stringere la mano del compagno, sul volto
un'espressione di terrore.
Balthasar stava giusto per svoltare una curva nella strada, quando qualcosa lo afferrò al
polso. Si voltò, trovandosi di fronte il volto del giovane mezz'elfo. Negli occhi
spalancati c'era una supplica intensa come solo quelle mosse dalla paura potevano
essere.
– Vi prego, noi non ci conosciamo ma io e mia moglie abbiamo bisogno di entrare in
città e non possiamo spendere quel poco che abbiamo in bustarelle, e voi sembrate
conoscere questi uomini perciò forse, potreste parlare con loro o – o, anche solo
anticiparci i soldi n-necessari, lavorerò per ripagarvi, sono un uomo onesto e – Balbettò
la sua preghiera affrettandosi dietro ogni parola, incespicando sulla metà di esse.
Balthasar si liberò dalla sua morsa, distogliendo lo sguardo e riprendendo a
camminare.
– Spiacente, sono al verde. Quanto a quei gentiluomini, non ho mai avuto il piacere di
incontrarli prima d'ora. – Era una risposta laconica e poco onesta, seppur solo a metà.
Il mezz'elfo rimase lì, come pietrificato. Alle sue spalle risuonò una risata, ma Balthasar
non perse tempo a voltarsi. No, rifletté: decisamente non gli mancavano, i giorni spesi
a servire nella Guardia Cittadina.
Quell'episodio, se non altro, servì a distrarlo: si ritrovò di fronte al Tempio senza quasi
rendersene conto. Era un edificio maestoso: una scalinata in marmo bianco terminava
sul lato di un vasto peripato rettangolare; le colonne che lo costellavano recavano
tuttavia il segno del tempo, così come l'edificio a forma di U che cingeva gli altri tre lati
del peripato.
Una donna stava seduta su una panca, ad occhi chiusi; non appena Balthasar mise
piede sul peripato li aprì e li posò su di lui. Indossava l'abito delle appartenenti al culto,
una tunica color crema lunga fino alle caviglie con ricamato un intricato simbolo
all'altezza del ventre, il cappuccio floscio che ricadeva sulle spalle. In un attimo fu così
vicina a Balthasar che lui potè contarle le rughe del volto, osservare le radici biondo
paglia dei capelli già imbiancati. Gli occhi erano castani, con una leggera sfumatura
giallastra delle cornee.
Lei dal canto suo squadrò il nuovo arrivato con sospetto: aveva di fronte un uomo più
vicino ai trenta che ai venti, alto e secco come una spiga di grano. I capelli erano una
massa compatta di riccioli neri, incorniciavano un volto segnato da molteplici vizi
moltiplicati per molteplici anni che tuttavia non intaccavano il verde degli occhi
irreverenti.
Sorella Ana processò tutte queste informazioni in un solo termine: pericoloso.
Balthasar lo sapeva e si concesse di immaginarne anche un secondo, affascinante.
Anche se quest'ultimo derivava dall'altissima opinione che lui aveva di sé stesso e che
riteneva il mondo dovesse avere di lui.
– Madre, Silas dell'Accademie delle Scienze porge i suoi saluti a voi e al vostro riverito
ordine. – disse eseguendo un perfetto baciamano. Le dita di lei erano ossute e notò
che recavano alle estremità macchie di un colore simile a quello della cornea. La
donna non diminuì la carica di sospetto della sua espressione ma accennò un sorriso.
– E Sorella Ana ti porge i suoi, figlio. Cosa ti porta nel nostro Tempio? Sei qui per
pregare la Vergine?
– Non esattamente. Mi chiedevo se fosse possibile visitare il Tempio e avere qualche
informazione sul vostro ordine.
La donna corrucciò la fronte. – Per quale motivo? Questo è un luogo di preghiera e
meditazione, non di visite.
– Ne sono consapevole ma, vedete, l'Accademia delle Scienze di Qadath sta redigendo
per conto dell'Autorità Triumvirale una versione aggiornata della "Storia del Regno" e
in merito al vostro ordine è stata avvertita la necessità di fare chiarezza su alcuni punti.
– Sciorinò quella menzogna spudorata col più onesto dei sorrisi. – Ovviamente ci
rendiamo conto che per un simile disturbo sarà d'uopo contribuire con un adeguato
obolo.
La donna chinò il capo con umiltà. – Il nostro ordine vive solo della misericordia
altrui. – Il sospetto era sparito dal suo volto: si era trasformata in un'anziana signora
gentile.
– Già, già, esatto. Volete farmi strada?
Dopo alcuni minuti avevano percorso il Peripato già due volte, mentre la donna
sciorinava con voce monotona le origini dell'Ordine. Balthasar finse di prendere
appunti, cercando di vincere la noia.
– Dopo sei vergini, il signore di Kalh'az non era ancora soddisfatto. Toccò dunque alla
settima schiava sacrificarsi alla sua cieca brama di carne e sangue. Ma ella, a differenza
delle altre, era di animo onesto e puro. Stesa sul letto del tiranno levò una muta
preghiera al Dio affinché la salvasse dalla fine orribile che le si prospettava, arrivando a
promettere finanche sé stessa pur di non essere toccata dall'uomo. La forza della sua
fede venne ricompensata e il tiranno cadde prima di poterla violare, il suo cuore nero
dilaniato dalla giustizia divina. Dopo di che Lei ascese al cielo, e da quel giorno siede
con l'Eterno vegliando su tutte le donne di questo mondo.
– Salvata da un tiranno per servirne un altro, insomma. – mormorò Balthasar in mezzo
a uno sbadiglio.
– Come dici, figliolo?
– Nulla madre, nulla. E' molto interessante ma ciò che all'Accademia preme è di
conoscere l'attuale stato dell'ordine. Per esempio – disse fermandosi di fronte ad un
ampio portone in bronzo – qui è dove pregate, giusto?
– Il luogo più sacro del Tempio. Si. – Spinse con fatica i battenti verso l'interno, ed
entrarono. La sala era più lunga che larga e terminava in uno spazio circolare dotato di
alcune panche poste attorno ad una statua dalle fattezze femminili. Balthasar valutò con
un'occhiata che c'era posto per cinquanta, sessanta persone al massimo. Il soffitto era
più alto delle colonne esterne e non vi erano finestre. Solo centinaia di candele
illuminavano il luogo, dove la visibilità era resa ancor più difficoltosa dal fumo dei
braceri di incenso posti ai lati di un lungo tappeto. Camminando verso il centro
Balthasar inspirò profondamente i fumi stordenti che lo avvolgevano, rischiando di
sentirsi male. All'odore di incenso, notò, ne era misto un altro.
– Qui è dove inizia e comincia la giornata di ogni novizia. La sveglia è al sorgere del
sole e dopo le abluzioni mattutine vi è la prima delle sette orazioni della giornata. La
donna continuò in una lunga e noiosa descrizione della routine delle fedeli, fatta di
preghiere, pasti scarni e ancora preghiere, mentre Balthasar esplorava con lo sguardo
lo spazio circostante.
– Quella porta dove conduce? – disse indicando una porta in legno a metà del muro
ad est.
– Alle stanze delle appartenenti all'ordine. – rispose la donna con noncuranza. –
Vogliamo tornare fuori?
Una volta che furono usciti Balthasar si fece mostrare il refettorio e alcune delle stanze
vuote, quindi tornò all'ingresso del Tempio con Sorella Ana.
– Dunque figliolo, sei soddisfatto?
Grattandosi la nuca, lui annuì lentamente. Era ora di andare in scena.
– Sapete che esiste una versione alternativa della storia che mi avete raccontato? – disse
fissando il vuoto. La donna restò in silenzio. – Pare – continuò lui senza guardarla –
che la settima vergine non fosse poi così onesta e pura. Si, ok, era vergine. Però era
anche la figlia di un pirata delle acque meridionali. Uno dei più spietati. Catturata e
venduta come schiava, aveva giurato che nessun uomo l'avrebbe mai avuta. Quando il
signore di Kalh'az la fece portare nelle sue stanze, lei lo lasciò stendere su di sé,
fingendosi inerme e terrorizzata. Poi gli sfilò dalla cintura una daga che l'idiota si era
dimenticato addosso, conficcandogliela alla base della nuca e arrivando a trafiggere la
propria stessa gola. Lui non fece nemmeno in tempo a tirare fuori l'uccello.
Sorella Ana aveva ascoltato Balthasar con sdegno crescente, finò a sospirare inorridita
all'ultimo commento. – Ti prego di non proferire simili blasfemie all'interno dei nostri
sacri confini! – sibilò. Sembrava molto meno fragile e gentile di prima. Lui schioccò la
lingua, voltandosi a guardarla. I suoi occhi verdi sembravano scrutare la donna fino al
nocciolo dell'anima. Le si avvicino fino a farle sentire il proprio respiro. Sarà anche
stata anziana, ma non poteva resistere alla tentazione di mettere in imbarazzo una
vergine.
– Sorella, avete degli occhi meravigliosi. – Lei indietreggiò, infastidita più che
imbarazzata. – Ma soprattutto molto gialli. Come le vostre dita. E soprattutto –
aggiunse mostrandole i palmi delle sue mani. – Come le mie. – La donna guardò le sue
mani, le labbra serrate sottili come la lama di un coltello.
– Mi chiedo in che modo un'appartenente al vostro ordine possa avere a che fare con
l'Alchimia..
disse incrociando le braccia e spostando il peso su una gamba sola. – Che tutto questo
abbia qualcosa a che fare con la notevole sproporzione fra le dimensioni della sala di
preghiera e il numero di alloggi presenti nell'edificio?! Non mi ci raccapezzo.
Sebben all'inizio sembrasse pietrificata, Sorella Ana aveva riguadagnato la propria
compostezza ed era tornata a sorridere come una maestra paziente di fronte ad un
alunno indisciplinato. – I vostri sforzi sono ingiustificati: non vi è alcun mistero. Il giallo
delle mie mani deriva da ciò che maneggio in cucina; quanto alle dimensioni dovete
tener presente che molte delle stanze sono attualmente vuote. L'edificio risale a prima
che l'ordine vi si stabilisse ed è persin troppo spazioso per noi.
Aveva abbandonato il "tu" in favore di un ben più formale "voi". Balthasar registrò il
fatto come positivo: iniziava a prenderlo sul serio. Sembrò aver di colpo realizzato
l'ovvietà della situazione, ed annuì comprensivo. Subito dopo però aggrottò la fronte e
sollevò un dito, come fulminato da un nuovo dubbio. – Eppure il refettorio è ben più
grande della sala di preghiera, e dalla sporcizia che ho notato su tutti i tavoli direi che
viene utilizzato ampiamente.
La donna non si arrese. – Le novizie sono pigre e aspettano che tutti i tavoli siano stati
usati prima di pulirli a dovere. Dove volete andare a parare?
Si strinse nelle spalle. – Più stanze del dovuto, più persone che apparentemente le
occupano senza far parte dell'ordine.. Non sarebbe azzardato pensare che questo non
sia un semplice luogo di preghiera e meditazione. Che offriate servizi di altro genere,
magari a donne disperate e prive di un altro posto dove andare.
– E con questo? Coloro che desiderano dedicarsi alla meditazione sono le benvenute
da noi. Il mondo fuori da qui può essere crudele e gravare i loro spirti oltre l'umana
sopportazione. Siamo anche disposte ad ospitarle per brevi periodi se è questo che
desiderano.
– Certo, e sono sicuro che in questi brevi periodi vengano tutte quante alleggerite del
fardello che le grava. Sono pronto a scommettere che delle vostre occasionali ospiti
non ce ne sia una senza un bel pancione gonfio. – Dall'espressione della donna fu
certo di aver colto nel segno. – Come pensavo. Certo saprete che simili pratiche sono
severamente vietate dalla legge Triumvirale.
– Non potete provare niente.
Balthasar assunse un'aria corrucciata. – E' vero, non posso. Quello che potrei fare è
non tornare a Qadath entro mezz'ora e lasciare che la mia assistente mandi a cercarmi
una pattuglia delle Guardie Imperiali, alle quali suggerirei di cercare per l'edificio le
donne incinta che nascondete. Una presenza difficile da giustificare in un ordine di
vergini.
Sorella Ana aveva abbandonato ogni pretesa di falsa tenerezza e lo guardava ora con
occhi duri. – Non troverebbero nulla.
– Già, sono sicuro non ci mettereste molto a nasconderle o a farle fuggire. – Scrollò le
spalle con un sospiro, apparentemente all'angolo. Poi sfoderò la sua carta migliore. –
Quello che invece vi richiederebbe molto più tempo sarebbe smaltire il laboratorio al
quale si accede direttamente dalla sala della preghiera. L'incenso è una buona idea, ma
un naso sottile come il mio sa riconoscere l'odore dell'infuso di silfio.
Era fatta: sorella Ana sembro perdere di colpo tutta la propria solidità, afflosciandosi
come un sacco vuoto. – Si può sapere chi siete? – disse con voce spezzata.
Gli occhi verdi di Balthasar mandarono lampi di vittoria, mentre un ghigno soddisfatto
gli si spalmava sul volto. – Il mio nome è Balthasar Von Urs. Investigatore. Ed ora che
ne dite di ascoltare ciò che voglio?
Era una domanda retorica, ma gli piaceva sempre porla.
La ragazza era ben diversa da come se l'era immaginata. Guidato da una scorata Sorella
Ana, la trovò seduta a capo chino su un letto di paglia, in una stanza bianca e vuota,
con le braccia attorno al ventre evidentemente gravido. Avrà avuto a malapena
venticinque anni. Sollevò la testa di scatto, rivelando due occhi acquosi e un volto dai
tratti vagamente cavallini. Se mai avesse dovuto sorridere, il suo sarebbe stato un
sorriso più roseo che bianco.
Un ipotesi destinata a rimanere tale: come vide Balthasar nel suo sguardo dilagò la
paura.
– Chi siete? Lavorate per lui, non è vero? – chiese con voce tremante.
Lui restò in silenzio, quindi si sedette accanto a lei sul bordo del letto. Delicatamente le
prese una mano, mentre la donna lo guardava con terrore misto a incomprensione.
Con un movimento misurato le rimboccò la manica della tunica di lana grezza. Il
braccio recava due lunghe cicatrici che correvano dal gomito fino al polso.
– Già, è proprio lei. – disse semplicemente.
La giovane si alzò con un lamento, allontanandosi dalla presa di lui e aggrappandosi a
Sorella Ana, in una muta supplica. L'anziana non la guardò nemmeno.
– Certo che è lei. Avete ciò per cui siete venuto. Andatevene ora.
Indifferente ai singhiozzi della ragazza uscì dalla stanza, mentre Balthasar si alzava e
posava una mano sulla spalla della giovane. Era una spalla magra e fragile quanto
l'essere a cui apparteneva.
– Avanti sorellina, è tempo di tornare a casa.
Lei lo guardò, il terrore scomparso e sostituito dalla rassegnazione. In fondo non era
che una schiava: per quanti sforzi avesse compiuto, era stata spezzata troppe volte e
troppo a lungo per poter contrastare l'ennesima avversità.
– Fate strada, mio signore.
Mentre si allontanavano in silenzio dal Tempio Balthasar si tenne a mezzo metro
dietro di lei, guardingo. Difficilmente avrebbe tentato la fuga, ma era meglio stare
attenti: quella donna valeva più oro di quanto pesasse. Ciò nondimeno si sentiva
decisamente più rilassato, ora che il lavoro era quasi al termine. Una volta riportata la
schiava sarebbe stato pagato: c'era solo da sopportare mezz'ora di cammino in
quell'atmosfra funebre.
Dopo qualche minuto il silenzio si fece teso come la pelle troppo sottile di un tamburo
millenario. Stava riconducendo una donna ancora nemmeno adulta, incinta e disperata
dal suo grasso e laido padrone: un po' di conversazione, pensò, non poteva che
alleggerire la situazione.
– Allora splendore, com'è che ti chiami? – disse lui con forzata (e inopportuna)
allegria. Come si chiamasse, ovviamente, lo ricordava benissimo.
– Corthea, mio signore.
– Bene Corthea, ti consiglio di stirare un sorriso sul tuo bel volto per quando
arriveremo a Qadath! Non essere tanto affranta: il tuo padrone deve volerti bene, ha
persino assunto il sottoscritto per ritrovarti.
Nessuna risposta. Poteva immaginare quegli occhi vuoti fissare il terreno; forse persi
nel nulla, forse nella fantasia di una vita che non avrebbe mai avuto – immolata a quella
che avrebbe generato.
Forse intenti ad elaborare una fuga.
Si avvicinò di un passo, cingendole le spalle con un braccio. Lei rabbrividì, visibilmente
a disagio.
– La vita della madre di un bastardo non è poi tanto male. Forse un giorno potrebbe
anche liberarvi, chissà. – insistette con un sorriso di calce. Un demone maligno gli si
insinuò sul fondo della coscienza: chi stai cercando di convincere, Balthasar? Lei o te
stesso? Lo cacciò sostituendolo con l'immagine di un grosso sacco pieno d'oro.
– Per quando è previsto il lieto evento?
Occhi inchiodati a terra, la donna mormorò – Questione di giorni, mio signore.
– Giorni! Fantastico. Davvero fantastico. È una fortuna che io ti abbia trovata. Sai,
detto fra me e te, non sono molto d'accordo sulle politiche triumvirali in tema di
nascite. Ma ehi, anche un figlio non amato può crescere su in modo più o meno
decente. Guarda me, che...
Mentre sciorinava quella sequela di opinioni non richieste la vide vide mordersi un
labbro e mormorare qualcosa di inudibile.
– Come dici?
– Amo mia figlia più della mia stessa vita, mio signore.
– Bé, non per essere pignolo ma non credo tu lo stessi per dimostrare nel migliore dei
modi.
Per la prima volta da quando si erano incontrati nella stanza del Tempio, lei alzò gli
occhi e lo guardò dritto in faccia. Inaspettatamente Balthasar non vide alcuna paura:
solo orgoglio, e cieco disprezzo.
– Il mio padrone vi ha reso edotto della posizione che ricopro fra i suoi schiavi?
– Uhm.. No, non mi pare che lo abbia fatto.
Sorrise. Un sorriso amaro. – Non ne dubito. Sono lo strumento della sua quotidiana
catarsi dagli impulsi del Nemico.
Scandì quel titolo con stolida lentezza, ma Balthasar poté cogliere la portata di orrore
celata dietro ogni parola. Deglutì.
– Oh. Già, si - cioé, no, non capisco che intendi, la religione non è il mio forte. – disse,
rivolgendo la sua attenzione ad un punto apparentemente molto interessante situato
all'orizzonte.
– Ad alcuni basta il sesso. Al mio padrone no. "Il Nemico esige sangue", è solito
ripetermi. Il suo strumento preferito è il rasoio – Parlava con voce monocorde, come
se stesse ripetendo un testo a memoria. Come se ciò che raccontava non la riguardasse.
– Quando scoprì di avermi messa incinta... Ne fu contento. Molto. Disse che avrebbe
badato lui alla bambina - il responso dell'Oracolo di Thul è stato chiaro - e che ne
avrebbe fatto un uso più che adeguato. Non vedeva l'ora di poterla stringere fra le sue
braccia, così mi disse.
Balthasar si concentrò intensamente sul sacco pieno d'oro di poco prima. Fu come
mettere un alto muro a ventiquattro carati fra sé e le parole della schiava.
– Piuttosto che la vita che l'aspetta, avrei preferito donare a mia figlia la morte. Ma non
mi è stato possibile. Perciò guidatemi pure al mio destino, mio signore: lo accetto. Ciò
che non accetto sono le vostre insinuazioni.
Non disse più una parola per tutto il resto del tragitto.
Capitolo III
Nonostante il caos che lo circondava Balthasar scorse subito il proprio cliente,
intabarrato in un logoro mantello verde ed intento a fingersi parte integrante della
marmaglia che lo circondava. Un tentativo inutile che sortiva solo l'effetto opposto,
perché tanto la mole quanto l'evidente disagio di Pintus Caius Atreius lo facevano
spiccare fra braccianti e contadini come una moneta d'oro in un campo di rape.
– Mi offrite da bere, mi auguro.
Era arrivato alle spalle dell'uomo senza farsi notare e a sentirsi parlare nell'orecchio
quello sobbalzò. Rasserenato dall'identità del misterioso bisbigliatore gli fece cenno con
la testa di seguirlo presso il bancone, dove con un gesto un po' goffo lo invitò a
scegliere lui l'ordinazione.
– Due caraffe di Lykeòn.
Il barista - un giovane elfo dai tratti efebici e dal sorriso gentile - versò il liquore e si
allontanò. Caius Atreius lo divorò con lo sguardo, gli occhi appannati da fantasie che
Balthasar non osava nemmeno intuire ma che temeva andassero ben oltre ciò che il
suo partner immaginario avrebbe mai potuto apprezzare. Si rese conto di provare un
profondo disgusto per quell'uomo.
– Messer Atreius, se avete finito di fissare il taverniere.. .
– Certo, certo. – disse lui spostando lo sguardo sul suo impiegato. – Chi l'avrebbe mai
detto che in un posto così sudicio potesse esistere una creatura simile. Il canto degli
angeli non potrebbe renderebbe grazia a...
– Già già già. – lo interruppe Balthasar agitando una mano, infastidito. – Sono sicuro
che volete uscire da qui al più presto, no? Quindi concludiamo.
L'uomo ne convenne, dopo di che restò in silenzio. Lui e Balthasar si guardarono per
almeno mezzo minuto, prima che uno dei due si decidesse a parlare.
– Allora?
– Allora cosa?
– L'oggetto! L'articolo! La mia preziosissima Corthea... L'avete ritrovata? Dov'è?
– Certo che l'ho ritrovata. E' qui con me.
L'uomo si guardò attorno, confuso. – Qui dove? Non vi capisco. – Balthasar annuì,
indulgente. – Uno smarrimento comprensibile. Questione di attimi... ecco.
Si frugò in una tasca del gilet per qualche attimo, quindi tiro fuori una mano chiusa a
pugno. Quando l'aprì rivelò ad uno stupefatto Caius Atreius un meraviglioso esemplare
di Latastei nana, un anfibio noto per infestare le paludi a sud della città. L'essere fissò
con occhi curiosi il grasso umano che le stava davanti.
– E' stato difficile scovarla, ma alla fine le mie ricerche hanno dato i dovuti frutti.
La confusione negli occhi del mercante si trasformò lentamente in una gelida calma.
Balthasar, dal canto suo, continuava a sorridere mostrando quanti più denti possibile.
– Non apprezzo gli scherzi, messer investigatore
– Oh no, nessuno scherzo!
– Non ricordo di avervi chiesto di trovare una rana.
– Certo che no, quale idiota pagherebbe una cifra come quella che mi avete promesso
per una rana?
Una vena sul collo del mercante prese a pulsare con ritmica furia. – Dunque perché
me ne mostrate una? Dove-è-Corthea?
– Ma è proprio qui! Si è trattato di uno sfortunato incidente sulla via del ritorno. Un
incontro con uno stregone della Scuola dei Mutaforma, purtroppo. Ancora non mi
spiego cosa lo abbia tanto infastidito, forse è stata la capigliatura della vostra giovane
schiava. Fatto sta che l'ha trasformata.
– La mia schiava è stata trasformata in una rana. – ripeté il mercante.
– Esattamente. A questo punto vorrei portare la vostra attenzione su quanto segue. –
Con un gesto Balthasar posò la rana sul bancone, carezzandole la testa con il mignolo,
per poi sventolare con l'altra mano una pergamena ingiallita. Sul fondo c'erano due
firme, una delle quali recava una grossa "A" svolazzante. – Come potrete notare la
clausola 7 bis, comma 1, paragrafo C, recita chiaramente che nessuna responsabilità
derivante da artefatti magici, stregonerie o cataclismi naturali è da imputarsi al
prestatore di servizio durante lo svolgimento dell'incarico. Incarico che io ho concluso,
per quanto possa dolermi dell'incidente. – Si appoggiò con i gomiti al bancone,
sorridente. – Sono sicuro che troverete una soluzione. Dunque, si era detto cinquanta
sesterzi, no?
Il mercante non rispose. Continuava a fissarlo, due iceberg al posto degli occhi. Quindi
alzò un braccio e schioccò due dita. Dalla folla emersero due ammassi di muscoli alti e
larghi dalla forma vagamente umana, più simili ad armadi.
– Nonostante io apprezzi l'umorismo, messer Investigatore, troverete che ai miei
collaboratori il vostro spirito sarà meno gradito.
Stringendosi nelle spalle, Balthasar si scolò il Lykeòn rimasto con una sorsata avida;
quindi balzò giù dallo sgabello, rapido come un gatto. I due uomini indietreggiarono di
un passo, mentre lui gli offriva quel ghigno a metà fra il folle e lo sprezzante.
– Che posso farci? È la mia natura. Guardie in alto, ragazzoni. Vediamo che sapete
fare.
Quando Keyra lo trovò era già notte inoltrata. Il fremito della magia lo scosse dal
sonno in cui era piombato, riportandolo bruscamente ad una realtà di dolori
lancinanti. Doveva essere rimasto steso in quel vicolo per delle ore: o erano stati
giorni? A giudicare dal suo stato dovevano avergli rotto tre costole, qualche dente e
lasciato una discreta dose di lividi sparsi. L'orgoglio, per fortuna, era intatto. Vide il
volto della sua giovane segretaria, illuminato dalla luce delle due lune, fissarlo con una
sorta di delusione mista a pietà.
– Sei davvero un idiota, lo sai?
Lui tentò un sorriso, rischiando così di ingoiare un dente. La giovane lo aiutò a
rialzarsi, continuando a tenergli una mano premuta contro la schiena nuda. Dal punto
di contatto l'incantesimo curativo fluiva in ogni sua cellula, lenendo il dolore.
– Lo sai che non me la cavo bene come infermiera. Ti resterà qualcosa di rotto.
Zoppicante e con un braccio attorno alle fragili spalle di lei, lui mormorò qualcosa.
– Non ti capisco, parla più forte.
– ... Salvami i denti. Le donne vanno... pazze... per i miei denti.
Nonostante la confusione e la penombra lunare, gli sembrò di vedere un sorriso
stendersi sul volto della giovane. O forse era proprio il buio ad ingannarlo. In ogni
caso, non lo avrebbe mai scoperto.