DATEMI UN NOBEL!4 INDICE Conversazione con Roberto Benigni pag. 7 Introduzione Be a clown pag. 16...

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GIORGIO SIMONELLI GAETANO TRAMONTANA DATEMI UN NOBEL! L’OPERA COMICA DI ROBERTO BENIGNI FALSOPIANO CINEMA 10

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  • GIORGIO SIMONELLIGAETANO TRAMONTANA

    DATEMI UN NOBEL!

    L’OPERA COMICADI ROBERTO BENIGNI

    FALSOPIANO CINEMA

    10

  • Le parti di cui si compone questo libro sono opera, rispetti-vamente, di: Giorgio Simonelli (Be a clown , Datemi un Nobel, Mi piacela moglie di Roberto Benigni)e Gaetano Tramontana (L’artista e la valigia, Un essereimmondo, ma bellissimo!)

    Alla fine di questa divertente fatica, non ci resta che ilpiacere di ringraziare gli amici, e soprattutto le amiche,che ci hanno disinteressatamente aiutato:

    Giampaolo Accardo, Alvaro Casali, Ludovica Fonda,Elena Pigozzi, Vanina Pezzetti e Marcello Pezzetti, diretto -re della videoteca del Centro di Documentazione EbraicaContemporanea.

    © Edizioni Falsopiano - 1998via Baggiolini, 3

    15100 - ALESSANDRIA

    Per le immagini, copyright dei relativi detentoriProgetto grafico: Falsopiano

    Impaginazione e stampa: Impressioni Grafiche s.c.s. a r.l. - Acqui T.

    Prima edizione - Aprile 1998

  • a Giusi, che ha riso (e pianto)perché la vita è bella

    a Emiliano, per i sogni che ci ha lasciato

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    INDICE

    Conversazione con Roberto Benigni pag. 7

    Introduzione Be a clown pag. 16

    Cap. I L’artista e la valigia pag. 23Benigni e gli esordi teatrali

    Cap. II Datemi un Nobel pag. 41Benigni in televisione

    Cap. III Un essere immondo, pag. 81ma bellissimo!Benigni attore cinematografico

    Cap. IV Mi piace la moglie pag.136di Roberto BenigniBenigni regista

    Teatrografia pag.160

    Filmografia pag.164

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    CONVERSAZIONE CON ROBERTO BENIGNI

    A cura di Vanina Pezzetti

    La vita è bella presenta la vicenda di una famiglia diebrei toscani, o meglio una famiglia “mista”, deportatiin un lager. Perché ti sei interessato ad un soggetto cosìdifferente rispetto ai precedenti?

    Anche se può sembrare un’asserzione tremenda, que-sto film non è differente rispetto ai miei precedenti. Pen-so che il comico dovrebbe occuparsi sempre di cose stre-pitose. Tutti i soggetti dei film dei grandi comici nasconoda cose tragiche. Si pensi a Chaplin, i cui soggetti sonotutti tragicissimi. Questo film è nato così: non l’ho pen-sato, mi è arrivato. Volevo lasciarmi pigliare da una cosache m’avvolgesse tutto. Ciò che sento forte in questomomento e che mi impressiona di più è l’Olocausto. Ionon ho una famiglia ebraica, ma mio padre è stato in uncampo di lavoro, non di concentramento. Nei suoi rac-conti non me l’ha fatto rivivere come un trauma, me l’hasempre raccontato con leggerezza. Questa cosa mi èrimasta dentro. Quando ho cercato un soggetto m’èvenuto fuori quest’orco che il mi’ babbo non m’avevamai fatto vedere, ma che c’era. Tuttavia ne parlo a modomio, che non è da giullare, anche perché io sono una per-soncina abbastanza sensibile. Sai, la cosa che mi fa piùpaura dell’Olocausto è la mancanza di spiegazione.

    Datemi un Nobel!

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    Che personaggio rappresenti nel film?

    Sono un antifascista, non solo col cuore, ma anchefisicamente: come appaio si capisce che non posso esserefascita, perché il mi’ sopracciglio, il mi’ dente incisivo, lami’ panza sono antifascisti. Io rappresento la libertà tota-le, la sgangheratezza dell’essere, la generosità. Tu t t a v i anon ho nemmeno esagerato in una critica postuma al fa-scismo, che sarebbe stata troppo facile, retorica e brutta.

    So che hai letto molte opere della letteratura yiddish.C redi che Guido, il protagonista da te interpretato, siavvicini alla figura dello “schlemiel”?

    No, non gli si avvicina. Io volevo creare un ebreo chenon si riconoscesse da segni precisi, ma fosse uguale ame. Volevo che lo spettatore si chiedesse: “perché pren-dono Benigni?”, come se potessero pigliare anche lui. Ilmio è un ebreo che vive la sua vita, che non si occupa dipolitica, che fa il suo lavoro ed improvvisamente gli arri-va quest’ascia che spacca la sua vita, come è avvenutonella realtà. Proprio per questo ho voluto creare un per-sonaggio con cui tutti potessero identificarsi. Del restosomiglia a tutti gli ebrei che conosco.

    Guido, dunque, non ha un’identità ebraica?

    No. Guido rappresenta la libertà totale, lo scintillìo, illuccichìo della vita, è colui a cui vorreste fare tutto, tran-ne che del male. E’ così come vedo gli ebrei, ovvero co-me tutti gli uomini del mondo. Si sente che ci sono delletradizioni ebraiche, soprattutto nella seconda parte delfilm, ma è un ebreo assimilato.

    Chaplin in Il grande dittatore, Lubitsch in Vo g l i a m ov i v e r e, Brooks in Essere o non essere sono riusciti a

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    c re a re situazioni di una comicità irresistibile, pur par -lando di Hitler e del nazismo. Come sei riuscito a conci -liare il tono comico con quello tragico, soprattutto nel -l’ultima parte del film, ambientata in un Lager?

    Questa è una domanda che mi sono posto spesso, daquando è nato il soggetto del film. E il soggetto è natoproprio dall’idea di stare solo in un campo di concentra-mento con un bambino di cinque anni. Questo bambinoviene a sapere che gli ebrei sono uccisi e bruciati neiforni e il padre, per proteggerlo, prova a scherzare sul-l’assurdità di questa cosa, talmente incommensurabile.Tuttavia questo film non si pone nella farsa o nella paro-dia, pur poetiche, di Chaplin, Lubitsch e Brooks: è reali-sta anche se non è mai realistico nello stile.

    La vita è bella può essere considerato una favola?

    Si, è una favola reale. La storia di questa famiglia e-braica è vera, ma ho costruito un campo che è un’idea dicampo, l’antro del male, e l’Italia dell’Impero che è tuttaun luccichìo, tutta inventata. Per esempio, non ho fatto lacaricatura dei soldati tedeschi, anzi, ho usato attori tede-schi. Il terrore è sempre presente, ma mai mostrato diret-tamente. E’ evocato. Non c’è niente di più potente e ter-ribile del terrore evocato. Qualsiasi cosa vedi non avràmai la potenza di ciò che puoi vedere. Poi, da quello cheho letto, visto, sentito nelle testimonianze dei deportati,mi sono reso conto che non c’è niente che possa esserevicino alla realtà di quello che è accaduto. Non potevofare niente che ripetesse ciò che è già stato fatto emostrasse realisticamente ciò che non ho nemmeno ilcoraggio di dire. E’ meglio evocarlo, farlo immaginare.Del resto, non ho voluto neanche spiegare l’Olocausto,ho solo mostrato le persone più indifese del mondo inuna vita qualsiasi.

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    Guido protegge il figlio Giosuè dagli orrori del cam -po. Credi che questo fosse veramente possibile?

    Questo è avvenuto, ed è narrato in Il bambino diBuchenwald. Una storia straordinaria, anche se lì il bam-bino e più piccolo (ha tre anni) e il campo non è un cam-po di sterminio. Nel mio caso, il mio bambino ha cinqueanni ed è in quell’età dove si capisce e non si capisce.Guido, da quando si rende conto che l’idea del carrarma-to può salvare la vita del bambino, non l’abbandona più,anche quando è distrutto. Quindi, in un certo senso, que-sta storia è vicina a quella del bambino di Buchenwald.Del resto, non s’inventa mai nulla, nemmeno nelle cosepiù paradossali. Si pensi alla scena del film in cui miamoglie non ebrea mi segue di sua volontà sul treno delladeportazione. Marcello Pezzetti, del Centro di Documen-tazione Ebraica di Milano, mi ha confermato che questoè accaduto davvero.

    Già in Chiedo asilo, di Ferreri, hai lavorato con ung ruppo numeroso di bambini. Hai avuto qui difficoltànella direzione di una bambino di cinque anni?

    Si, certamente! Ho scelto questo bambino, il cui nomeè Giorgio Cantarini, perché assomigliava a me e a Nico-letta, e poi rappresentava nel viso l’innocenza, la bellez-za, la vispezza, la furbizia. Lui non ha mai recitato. Ho a-vuto difficoltà nel fargli impersonare le emozioni forti:ha vissuto per la prima volta dal vivo le urla, le torture, ifucili. Lui non sapeva nemmeno che cosa significasse laparola ebreo, conosceva solo la distinzione tra buoni ecattivi. Allora ha identificato i buoni negli ebrei, i cattivinegli altri. Ciò che mi ha più colpito è che ha capitoquello che è veramente accaduto: il bambino è diventatouno storico!

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    Come ben sai, la quasi totalità degli ebrei italiani èstata deportata nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Tu hai rappresentato un lager ideale. Che tipodi lager hai voluto ricostruire? A quali modelli cinema -tografico-letterari hai fatto riferimento per la ricotruzio -ne del campo?

    Ho visto quasi tutti i film sull’argomento. Sapevo chegli ebrei erano trasferiti da Fossoli ad Auschwitz e sape-vo anche dell’esistenza della Risiera di San Sabba. Ho ri-costruito un archetipo del campo senza le baracche di le-gno, ma in muratura. Per la scenografia, mi sono avvalsodella collaborazione di Donati (Nedo Fiano, sopravvissu-to ad Auschwitz, ha fornito la sua preziosa consulenzaper il vestiario dei deportati), e per la fotografia di DelliColli. Con Donati si è deciso di costruire una scenografiache desse l’idea della favola e al tempo stesso dell’orroredel campo di concentramento. Però la potenza dell’im-magine del campo non è mai farsesca. E’ per questo chenon ho introdotto l’immagine di un sidecar. Non l’hovoluto perché è buffo, pensa un po’. Il sidecar, dallaG u e rra lampo dei fratelli Marx a Lubitsch, a Brooks èun “topos” della gag.

    Per la realizzazione della scena in cui gli ebrei si spo -gliano, prima di essere assassinati col gas, ti sei avvalsodell’aiuto di Shlomo Venezia, unico italiano sopravvissu -to a un Sonderkommando di Birkenau (era costretto a la -vorare negli impianti di messa a morte). Inoltre, hai vo -luto un aiuto da parte di Marcello Pezzetti, storico delC e n t ro di Documentazione Ebraica di Milano. Perc h él’esigenza di una tale precisione?

    Per essere più libero, più creativo, evitando però gros-si errori. Non potevo non sapere, non leggere, non docu-mentarmi. Sarebbe stato un errore terribile, oltre che una

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    mancanza di rispetto. Il fatto di documentarmi è fonda-mentale, perché si ha a che fare con una ferita sempreaperta. Quello che mi premeva era non tanto la ricostru-zione filologica, ma il senso del tutto. Venezia, quando èvenuto sul set, aveva pensato: “Benigni sta facendo unfilm in un lager, bisogna fermarlo”. Ma, di fronte allascena della spoliazione, si è commosso e mi ha detto dinon farcela a continuare a vedere. Io, comunque, dovevofare questo film perché nessun soggetto reggeva a con-fronto con una cosa così potente.

    Vuoi che la gente rifletta su ciò?

    Sì. Non dovremmo dimenticare e non vorrei nemme-no che questo diventi uno slogan. Dovremmo “non di-menticare” come se “non dimenticare” fosse detto oraper la prima volta. Bisogna ricordare soprattutto le con-dizioni che hanno portato alle deportazioni. All’inizio delfilm, due goliardi fanno uno scherzo allo zio di Guido, equesto evento è contrassegnato dallo stesso tema musica-le che troveremo di fronte ai forni. Da quella goliardia,da quelle sciocchezze che vengono sottovalutate, il miopersonaggio è stato deportato. Sono quelle sciocchezzeche aprono lo spiraglio alla barbarie. Come diceva PrimoLevi, l’uomo non dovrebbe mai perdere la dignità.

    Che cosa hai provato di fronte a Shlomo Ve n e z i a ,quando è venuto sul set?

    Non mi aspettavo di vederlo. E’ stata una generosasorpresa di Marcello. E’ stato come toccare Abramo. Eromolto emozionato. Mi ha colpito il suo sguardo, ma so-prattutto la voce, la maniera di parlare, come se fosseancora in quella camera a gas. La voce di Shlomo non sistaccherà facilmente dalla mia testa. Lui non mi ha rac-contato quasi niente. Conoscevo la sua storia, perché ho

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    visto quel meraviglioso film: Memoria.

    A Proposito del film Memoria di Ruggero Gabbai, ilpersonaggio di Guido si avvicina a Romeo Salmoni, nel -l’unione tra comicità e tragedia ?

    Romeo è molto buffo e vispo, ha voglia di vivere. E’estremamente meraviglioso. Il mio personaggio è un pòdiverso: è un intellettuale. Non riesce a fingere, non metteallegria agli altri, è allegro solo con il bambino. E’ tal-mente toccato da quello che accade che non ce la fa. E’vinto dalla follia, da ciò che non comprende. Per me,Guido riassume tutti i deportati. Vorrei che il pubblico siidentificasse con il mio personaggio e con tutti i deportati.

    Dopo i successi dei tuoi film precedenti e in un perio -do di comicità disimpegnata, non temi di essere seguitodi meno dal pubblico, con un soggetto di questo tipo?

    L’opposto. E poi, anche se non mi segue più, sonoconvinto di avergli dato una cosa. E’ come un falegnameche dà la cosa più bella che sa fare. Io gli ho dato la cosapiù bella che avevo in questo momento. Potevo fareanche il conto degli incassi o dei produttori. Quando dicoad un produttore: “faccio un film su un deportato”, midice: “lascia perdere”. Ma uno fa ciò che gli piace di più,e poi mi sarei sentito più in colpa se avessi scelto un’al-tra cosa per paura di questa. Anche cinematograficamen-te, questa è una storia straordinaria.

    Hai o hai mai avuto rapporti con il mondo ebraico?

    Ho avuto la fortuna di avvicinarmi alla letteraturaebraica attraverso Shalom Aleichem, Singer, il mio pre-ferito per tanto tempo, e poi l’umorismo ebraico in gene-re, che è il più grande del mondo e a cui ho rubato molte

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    cose, soprattutto riguardo al “prendersi in giro”. Ho avu-to sempre il desiderio di incontrare Singer e una voltal’ho veramente incontrato a New York. Però sapevo daisuoi libri che non amava essere disturbato. Era uguale aGeppetto. Sono stato un’ora a osservarlo, ma non sonoandato da lui. Avrei voluto mettere in scena molti deisuoi racconti, penso per esempio a Gimpel l’idiota .Anche il mio film Il piccolo diavolo è nato un pò daSinger: il piccolo diavolo, come diceva Walter Matthau,è un dibbuk, un diavoletto scherzoso.

    Sei mai stato in Israele?

    Sì. Ci sono stato due o tre volte. Mi sono successi an-che dei fatti curiosi. Quando sono arrivato all’aeroportodi Tel Aviv, mi hanno chiamato al microfono. Mi hannofatto salire su una Mercedes con tre rabbini che parlava-no in ebraico. La macchina mi ha accompagnato fino allameta del mio tragitto. Sapevano esattamente dove dove-vo andare. Poi ho letto sul “Jerusalem Post” la notizia delmio arrivo. Alla fine credo di avere capito il motivo ditutto il gran bene che mi hanno voluto: quando a Romaci fu l’attentato in sinagoga, manifestai la mia indigna-zione a due giornalisti. Ero l’unico personaggio delmondo dello spettacolo che lo aveva fatto. Non se losono scordato. Ne sono rimasto colpito.

    Tua moglie Nicoletta ama come te questo film?

    E’ il film che lei ama di più in assoluto. Il suo perso-naggio è straordinario. Poi questa è soprattutto una storiad’amore, come Maus di Spiegelman. Il mio personaggioama lei e pensa sempre a lei, è innamorato di questa don-na perdutamente, per sempre.

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    BE A CLOWN

    Il clown è il poeta in azione.Egli è la storia che recita.

    E si tratta sempre della stessa, eterna storia: adorazione, oblazione, crocifissione.

    Henry Miller, Il sorriso ai piedi della scala

    Due brevi premesse, una riguardante il titolo di questaintroduzione e un’altra la condizione psicologica in cuigli autori si apprestano al lavoro. Cominciamo dalla se-conda.

    Ogni volta che si inizia a scrivere un libro, lo si fasempre con un certa apprensione, pensando inevitabil-mente a cosa ne diranno i lettori, i critici, gli esperti inmateria, gli studiosi. Ma se l’oggetto del libro non è unproblema generale, un tema astratto, ma un personaggio,anzi una persona viva, allora la prima cosa a cui si pensaè cosa ne dirà “lui”. E da questo punto di vista - ci siconcederà - la nostra posizione è tra le più difficili. Comeaccingerci a questa impresa senza avere davanti, comeun fantasma, il soggetto del nostro lavoro, “lui”, ilBenigni, anzi il Benignaccio? Come non pensare, mentresi scrive, mentre si fanno ricerche, mentre si analizzano itesti, a quello che potrebbe dire di questa nostra interpre-tazione della sua opera, lui, il comico che, senza mai per-dere quel suo fare bonario, è in grado, con una battuta,con una smorfia, di distruggere ogni cosa gli si presential cospetto.

    Introduzione Be a clown

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    Né è possibile, mentre si scrive, evitare di immaginar-selo con questo libro tra le mani: lo soppesa, lo guarda ditraverso, come fa lui; enfatizzando con il tono della vocei titoli, i nomi, denuncia tutto il ridicolo che c’è in un’im-presa del genere, poi lo fa a pezzi, magari non solo meta-foricamente, lo mangia ....

    Insomma - i nostri lettori ci devono capire - non cisiamo messi in una bella situazione. Forse sarebbe piùfacile scrivere di Chaplin, o di Keaton, o di Wo o d yAllen, che dal suo empireo newyorkese neppure vedequel che si scrive di lui, o di Massimo Troisi che, pur-troppo, non c’è più e la cui opera attende una definitivaconsacrazione a livello critico. E invece noi a parlare diBenigni: ed è come scrivere con una pistola puntata allatempia, con una bomba a orologeria posata sotto il tavo-lo, con quel fantasma, il folletto che se la ride, che ci sipara davanti all’inizio di ogni frase.

    Tanto più che l’impresa non è solo vulnerabile per edal suo stesso oggetto, ma è anche ambiziosa. L’ a m-bizione consiste nel tentare una lettura trasversale dellamultiforme attività del comico. (“Trasversale”, “mul-tiforme”, pensate cosa ci potrebbe fare Benigni con dueaggettivi così, riprendendoli all’infinito con tonalitàdiverse ci potrebbe costruire un’intera serata, come facon certi nomi, ricordate “Berlìnguer o Berlinguér”? Mascacciamo il fantasma e torniamo al nostro lavoro). Chesi propone di cercare una linea che attraversa una carrie-ra non solo ormai lunghissima, ma giocata su piani moltodiversi: la performance teatrale e l’interpretazione cine-matografica, la partecipazione televisiva e la regia difilm. Esistono, dunque, tanti Benigni diversi?, ognunodei quali è legato a un momento, a un periodo della vitadel personaggio e alla storia della cultura italiana, secon-do una successione che non è difficile proporre: l’uomodi teatro diventa personaggio televisivo, si trasforma inattore cinematografico e assume la direzione completa

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    della sua realizzazione filmica. O, al contrario, esistesempre un solo Benigni? un personaggio, una mascherache riempie di sé, della sua presenza e del suo significatoogni manifestazione in cui fa la sua comparsa, si tratti diuno spettacolo teatrale off, di un varietà televisivo o diun film hollywoodiano. La domanda non è oziosa, alme-no si spera, e le risposte che questo libro cerca e proponedovrebbero riuscire a spiegare quello che si presenta co-me uno dei fenomeni più singolari nel contesto di solitoun po’ prevedibile della comunicazione di massa inItalia.

    E veniamo alla seconda premessa, riguardante il titoloe che forse si rende necessaria, almeno per i lettori piùgiovani. “Be a clown” è il titolo di una vecchia, indimen-ticabile canzone scritta da Cole Porter per un musical diVincente Minnelli, Il pirata. Si tratta di un film del 1947le cui singolari vicende vale la pena di ricordare anche inquesta occasione, in quanto non del tutto estranee al temaspecifico della nostra attenzione, la comicità.

    Il film, dunque, che fu uno dei più clamorosi flopdella MGM, - in Italia fu distribuito solo nel 1980 comereperto archeologico destinato a un improvviso revivaldel genere - narra le rocambolesche avventure del saltim-banco Serafino in un improbabile paese dei Caraibi: trascambi di persona e inattese scoperte, fughe, insegui-menti e pratiche ipnotiche, l’attore conquista l’amore diuna nobile fanciulla del luogo che, promessa al corrottodon Pedro, ama il pirata Mococo, ma alla fine si concedea Serafino che, grazie alla sua arte, si è fatto passare peril pirata. L’arte dell’attore, la sua capacità illusoria mapiù vera della realtà è, dunque, il vero tema del film,un’esaltazione dell’arte comica che ritorna esplicitamen-te due volte nell’ultima parte del film, cantata e ballata,proprio nel finale, da Gene Kelly e Judy Garland vestitida pagliacci, e, poco prima, già accennata dallo stessoattore in una delle scene più significative: quella in cui

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    Serafino, salito sulla forca preparata per lui, la trasformain palcoscenico sul quale recita un monologo in cui, trafinte citazioni di Shakespeare e di Sofocle, rievoca come,di fronte alle preoccupazioni materne per il suo futuroprofessionale, abbia fatto una scelta precisa, riassuntanella formula “faccio/ e neanche malaccio/ il mestierepiù serio/ il pagliaccio”e intona:

    “I got your future sewn up/ if you’ll take this advice:/ bea clown, be a clown,/ all the world loves a clown./ Actthe fool, play the calf/ and you’ll always have the lastlaugh./ If you became a dentist/ they’ll be glad whenyou’re dead/ you’ll get a bigger end/ if you can stand onyour hand/ be a clown, be a clown, be a clown.”

    “Ho in mano il tuo futuro/ se accetti il mio consiglio:/ faiil pagliacccio, fai il pagliaccio,/ tutti amano i pagliacci./Fai lo scemo, fai la parte del “vitello”/ e avrai semprel’ultima risata./ Se diventerai un dentista/ saranno feliciquandi morirai;/ farai una fine migliore/ se sai cammina-re sulle mani/ fai il clown, fai il clown, fai il clown”

    E’ un tema, quello dell’importanza della comicità, ca-ro a Minnelli, che lo riprenderà in maniera ancor più arti-colata in Spettacolo di varietà, e, in generale, a tutto ilmusical americano. Basti pensare al film più amato e co-nosciuto, quasi antonomasticamente, di tutto il genere,Cantando sotto la pioggia, dove il protagonista e coregi-sta Gene Kelly canta e balla, invitato dal partner DonaldO ’ C o n n o r, un motivo che riprende, nella musica e neltesto, molto da vicino quello composto da Porter, “Make‘hem laugh”.

    “Falli ridere”, dunque, “fai il clown”, se vuoi raggiun-gere attraverso la finzione la vera essenza della vita,senza perderti dietro la pretenziosa e vana intelletualitàdel teatro colto.

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    Che la figura del clown metta in gioco e in scena unodei temi fondamentali della cultura moderna, non è intui-zione solo di Minnelli, Porter o di Arthur Freed, il pro-duttore di Il pirata e di Cantando sotto la pioggia, a cuiverosimilmente si deve la scelta dei due numeri tantosimili nel testo musicale e verbale. Vi è, sull’immaginedel clown, una linea di riflessione certamente più artico-lata e approfondita che deriva dalle osservazioni elabora-te da Michail Bachtin, nel suo celebre testo su L’opera diRabelais e la cultura popolare, a proposito di quello cheegli definisce “corpo grottesco” in opposizione alla rap-presentazione di un “corpo canonico”. Un corpo -quellogrottesco- iperbolico, sincretico e ibrido (tra maschile efemminile, tra bambino e adulto, tra bestia e uomo), uncorpo in cui sono accentuati gli elementi che superano ilconfine, la levigata compiutezza e la separazione e dellasuperficie (il naso, la bocca, i piedi, il sesso spesso allusodalla gestualità), rivestito da un abito fuori posto, fuorimisura e proporzione, fuori forma, un corpo che si espri-me in alcuni movimenti-chiave come la caduta e la ca-priola che sono metafora del suo stato di liminalità e delpassaggio attraverso la morte e il pericolo verso una rige-nerazione vittoriosa sulla iniziale situazione di disagio, dicostrizione, di opacità goffa e greve. E’ questa immaginedel corpo e i significati a cui, secondo la lettura bachti-niana, fa riferimento, che hanno affascinato gli artistiche, nel corso del Novecento, hanno costantemente rap-presentato il clown: i pittori come Toulouse-Lautrec o Pi-casso, gli scrittori come Apollinaire o Boll, gli uomini diteatro come Copeau o Majakovskij e quelli di cinema co-me Chaplin o Fellini.

    E questa linea, da cui siamo partiti con la canzone diCole Porter interpretata da Gene Kelly e con il significa-to che assume nel cinema di Minnelli, segna profonda-mente l’opera di Roberto Benigni. L’immagine del clownsembra essere un modello di espressione, un punto di

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    riferimento culturale decisivo nel percorso artistico del-l’attore e del regista, soprattutto se intesa nella sua formaessenziale, lontana da certe rappresentazioni edulcorateche hanno fatto la loro comparsa in alcuni spettacolirecenti e strettamente legata, invece, alla definizione eall’analisi bachtiniana del corpo grottesco. In questosenso, è già una presenza clownesca quella del primoBenigni, quello del personaggio Cioni che rielabora l’u-niverso del clown nelle sue ossessioni verbali, quel suoriferirsi continuamente al sesso, al cibo, al “basso mate-riale e corporeo”, alla sua vitalità, alla sua naturalezza, inuna visione gioiosa e, al contempo, tragica dell’esistenza.E’ l’irruzione di un tipo di comicità così ancestralmentepopolare in un ambito, come quello teatrale o televisivo,in cui da tempo dominavano modelli comici borghesi opopolareschi, che fa di Benigni un personaggio nuovo,diverso. Ma dopo questa prima fase in cui il corpo grot-tesco è oggetto di riferimenti verbali, c’è la seconda fase,quella della sua manifestazione fisica. Ad essa è legatauna parte molto consistente dell’attività comica diBenigni, nel cinema e nella televisione, molto della suaoriginalità e anche del suo successo. La scoperta di unacomicità giocata sul piano corporale, spesso in manieraprorompente, è stato un fatto decisamente nuovo, almenoin Italia. Lo è stato per lo spettacolo leggero televisivoche ruotava - e continua a ruotare - attorno agli sketch,alle autoparodie, alle imitazioni, lo è stato per il cinemacomico italiano, che, una volta superato e rimosso Totò,è vissuto, nella lunga e felice epoca della “commedia”sulle celebri battute e sulle facce dei suoi mattatori.

    La comicità di Benigni si è scostata da questa tradi-zione e ha abbandonato anche i compagni di strada, icomici della sua stessa generazione, come Verdone eTroisi, che hanno tentato, spesso con successo, di conti-nuare la tradizione della commedia, rivitalazzandola eaggiornandola negli ambienti, nei personaggi e nelle for-

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    mule narrative. Benigni ha cercato, invece, i suoi modellipiù lontano, alle radici della storia della comicità, in unarchetipo comico, quale è il clown, nelle sue rappresenta-zioni assolute di vita e di morte. E di lì ha tratto la forzaper andare oltre l’osservazione della quotidianità che èpropria della commedia, per portare il discorso comico interritori estremi, compiendo - mettendo rischiosamentein scena quella “capriola” di cui parlava Bachtin, quelpassaggio attraverso la morte che garantisce un futuroalla vita.

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    Capitolo Primo

    L’ARTISTA E LA VALIGIABenigni e gli esordi teatrali

    Come in un film nemmeno tanto originale, la carrieradi Roberto Benigni inizia con una forte e indefinita pas-sione per il palcoscenico, le prime timide esperienze nel-la provincia operaia e contadina, il sogno della grandecittà e infine il grande passo della valigia, l’addio allaterra d’origine - quasi sempre dopo un’estate in cui ledecisioni maturano e il fervore cresce - e l’approdo nellametropoli, con tanta grinta e le tasche vuote.

    Da qui si parte di nuovo da zero e si riprende a salire,se la buona sorte lo consente. Quante volte storie del ge-nere sono state raccontate, messe in film, hanno fornitola struttura per un romanzo di successo? Tante volte dadiventare uno stereotipo, con la tipica escalation daangusti monolocali ad attici al centro, da pasti saltati aricevimenti da vip, da fumose cantine a show di succes-so; se poi aggiungiamo anche un tirocinio al seguito diun piccolo circo viaggiante, il tutto appare fin troppo per-fetto, e soprattutto già visto, per essere vero. Ebbene, c’èchi ce la fa. E Benigni è uno di questi.

    Il 1966 segna la prima uscita dalla piccola provinciatoscana che aveva visto nascere e crescere Benigni.Terminate le scuole medie a Ve rgaio, dove la famiglia,originaria di Misericordia, si era trasferita dopo varietappe all’inizio degli anni Sessanta, Roberto si iscrive al-l’Istituto Commerciale Datini di Prato, dopo una brevis-

    Capitolo primo L’artista e la valigia

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    sima “prova” al Collegio dei Gesuiti di Firenze.In questo periodo si colloca anche l’esperienza circen-

    se col Modin, un piccolo circo che Benigni frequenta de-dicandosi particolarmente alla clownerie e all’acrobatica.

    Certo, Prato non è una grande metropoli, e lo studentefa ancora il pendolare da Ve rgaio, ma sicuramente rap-presenta un passo avanti in direzione di un fermento cul-turale più stimolante; simbolo di questo passaggio è lostorico Teatro Metastasio, proprio in quegli anni protago-nista di una rinascita che lo porterà ad essere punto diriferimento per l’attività teatrale della zona.

    Il Metastasio diventa un po’ il centro gravitazionaleper il giovane Benigni: nel Ridotto del teatro terrà le sueprime serate di cabaret insieme ad amici e compagni discuola, segue con attenzione anche fin troppo partecipegli incontri del Teatro Studio, un gruppo fondato anniprima da Paolo Emilio Poesio e in seguito guidato daPaolo Magelli, facendosi tanto notare, con i suoi com-menti e le sue curiosità, che proprio con il Teatro Studiodebutterà nel 1972, a vent’anni (Benigni è nato, infatti,nel 1952), in Una favola vera, a fianco di un altrettantogiovane Pamela Villoresi.

    E’ importante considerare il clima sociale e culturalein cui tutto questo avviene. Sono i primissimi anniSettanta, sull’ondata del Sessantotto la spinta di rinnova-mento per le giovani generazioni è ancora molto forte.Per quelli, fra loro, più attenti ad un nuovo modo di in-tendere il teatro e il linguaggio della scena, le elaborazio-ni del convegno di Ivrea del ’67 sono state dirompenti,anche se in alcuni ambienti - la provincia italiana, adesempio - risulteranno complessi da tradurre e magaritroppo all’avanguardia.

    Inoltre in Toscana, terra tradizionalmente di sinistra,un tipico coinvolgimento emotivo ed autenticamenteideologico riveste tali elaborazioni di un significato tuttoparticolare e consente loro di giungere fino alla provincia

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    tradizionalmente sonnolenta, seppur con inevitabili limitie le dovute proporzioni.

    Nella cerchia di Benigni, entusiasta di questo climaculturale era Donato Sannini, che diventerà l’anima di ungruppo formato da Roberto, lo scenografo Aldo Buti eCarlo Monni, un contadino che aveva frequentato ilTeatro Studio di Firenze, dotato di una recitazione istinti-va ed efficace, e che Benigni porterà con sé nel grandesalto cinematografico.

    Nel ’72 i quattro fanno le famose valigie e partono perRoma; obbiettivo: l’avanguardia teatrale tanto osannatada Sannini e che faceva confluire nei grandi centri diRoma e Milano centinaia di giovani artisti da tutt’Italia,pronti a tutto pur di approdare agli spazi deputati dellascena “alternativa” e del cabaret.

    Il riferimento romano di Sannini e Buti era Lucia Poliche, giovanissima, era stata insegnante di lettere di Buti alliceo artistico di Firenze. Tramite lei conoscono SilvanoAmbrogi, autore dei Burosauri, che Sannini aveva visto an-ni prima nella versione del Piccolo Teatro di Milano direttada Ruggero Jacobbi e interpretata da Ernesto Calindri.

    La compagnia del Fantasma dell’Opera - così Sannini ecompagni avevano deciso di chiamarsi - debutta con I bu -ro s a u r i diretto da Sannini nel ’72 al Teatro dei Satiri diRoma.

    Roberto Benigni - ricorda Silvano Ambro-gi - gracile e scattante, attentissimo e pungen-te, appena ventenne, il più giovane del grup-po, mi colpì subito per lo straordinario acumedi certe osservazioni. Impersonava un perso-naggio di spicco non molto particolare, da cuiinsomma era difficile uscire fuori in modoevidente (...)

    Ma Robertino sfruttò al massimo la trovatadella regia suggerita da un fattore occasionale,

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    risultata poi di incredibile, spiazzante arguzia.Donato Sannini utilizzando lo straordinariopatrimonio di costumi teatrali, avuti in ereditàdalla nonna e approfittando del suggerimentodel capufficio nella commedia, di vestirsi cioèal meglio, per l’arrivo del capo del personale,fece indossare nel secondo tempo costumi ditutte le epoche, lui stesso sfoggiò una goldo-niana con lunghissime code e Roberto Be-nigni la divisa di ufficiale dei dragoni, con lespalline dorate che scuoteva ogni poco (fraaltre, innumerevoli gag) rivelando un contra-sto esilarante con la squallida attività impiega-tizia attribuita al personaggio. Fu un grossosuccesso che non riuscirono a sfruttare, per-ché avevano fissato il teatro per quindici gior-ni soltanto, timorosi dapprima di non chiama-re pubblico neppure per quel breve periodo. 1

    Traspare, quindi, pur se in embrione, il carattere delcomico arguto, pronto ad afferrare lo spunto occasionalee trasformarlo in motivo conduttore e dirompente per tes-sere infinite variazioni e creare originali giochi comici.Un naturale istinto all’improvvisazione che rappresenteràla chiave del successo di Benigni nei one man show daCioni in poi, unito, come si vede, ad una propensione a“far parlare il corpo”, ad occupare la scena da protagoni-sta a prescindere dal ruolo riservatogli dal testo, tramiteun’attitudine tutta clownesca nell’appropriarsi dei codici- quelli del vestiario, ad esempio - e rielaborarli coerente-mente alle proprie capacità espressive.

    1 Silvano Ambrogi, “Le antiche radici di un comico moderno”, inQuando Benigni ruppe il video, a cura di S. Ambrogi, Nuova Eri,Torino, 1992; pp.10-11.

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    La collaborazione con Lucia Poli fornì certamente unaspinta propulsiva decisiva all’attività del Fantasma del-l’Opera e al suo inserimento nella realtà della sperimen-tazione teatrale romana. I piani espressivi dei due gruppi,quello che faceva capo a Sannini e quello della Poli,rimasero però costantemente paralleli, registrando colla-borazioni e affinità più sul piano dell’impegno attorialeche sulla ricerca drammaturgica ed espressiva.

    Il fuoco che alimentava lo spirito di Sannini era l’a-vanguardia più tipica, quella delle cantine; egli stesso inseguito, con stile tipico dei tempi, teorizzerà i principi dipartenza del gruppo:

    Inizialmente il gruppo ha tentato di verifi-care il rapporto testo-interprete attraverso unasorta di improvvisazione stimolata dal testo eostacolata da condizionamenti di vario tipo(fra i quali la sparizione di alcuni personaggi)per sollecitare l’attore a interrogarsi e a pro-blematizzarsi. 2

    Da queste proposizioni nasce, nel 1974, La corte dellestalle di Frank Kroetz, che debutta al Beat 72 di Roma,tempio del teatro d’avanguardia.

    Lucia Poli, insieme a Giuseppe Bertolucci, suo com-pagno a quei tempi, tendeva invece ad una ricerca chenon rinunciasse del tutto alla tradizione del teatro diparola, cercando quindi una sorta di innovazione dal didentro, superando l’avanguardia più estrema:

    .....più o meno a tutti sembrava esaurital’avventura del teatro-immagine così come

    2 Donato Sannini in: Franco Quadri (a cura di), L’avanguardia tea -trale in Italia, Einaudi, Torino, 1978; p.640.

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    andava definendosi in una sorta di paradossa-le accademismo anti-accademico. Vo l e v a m orimettere in gioco la parola. L’obiettivo co-mune di lavoro allora è stata la ricerca diregistri nuovi di linguaggio. Prima di tuttol’analisi dei segni: dal gesto, all’uso mimicodel corpo, dalla frase incerta e frammentaria(o dialettale) del discorso vissuto, al sensodella parola letteraria usata oggi, fino al lin-guaggio matematico e cioè simbolico. 3

    Nasce così il gruppo “Le parole, le cose”, che coinvol-ge attivamente Benigni e Buti, e solo parzialmente San-nini e Gianfranco Varetto.

    In questo periodo Benigni appare impegnato su piùfronti: prosegue il sodalizio col Fantasma dell’Opera, èsempre più coinvolto nel gruppo “Le parole, le cose”,che esordisce con La festa sempre al Beat 72, inoltre col-labora ad alcuni spettacoli di Marco Messeri, anche luivicino all’entourage della Poli.

    Si crea, dunque, un ambiente estremamente dinamico,percorso da forti legami artistici e personali, una sorta di“clan toscano” sostenuto da una coesione costantementebilanciata da interessi diversi, grazie ai quali emerg o n odi volta in volta stili e tipi di collaborazione differenti.

    In questo clima si fa sempre più strada la collaborazio-ne di Benigni con Giuseppe Bertolucci, dalla quale nasceCioni Mario di Gaspare fu Giulia, che debutta nel ’7 5all’interno di un circolo Arci nella provincia Toscana.

    Cioni Mario è il prototipo di tutte le performance tea-trali e televisive di Benigni, quello che dà l’impronta allasua comicità. Il percorso attraverso l’avanguardia sfociaper Benigni nel monologo, un monologo dirompente, che

    3 Lucia Poli in: Franco Quadri, op.cit., p.649.

  • 26

    fa piazza pulita di tutte le convenzioni sorte attorno aquesto tipo di intervento teatrale.

    Catalogare gli show di Mario Cioni come cabaretsembra riduttivo, sebbene nascano nel medesimo am-biente ed entrambi rappresentino l’esito di un’urg e n z acomunicativa che metta in gioco l’attore, solo, davanti adun pubblico che diventa parte integrante del mondo diriferimento della performance. Queste di Benigni sonoautentiche prove teatrali, dove il monologo evita a prioriil soliloquio, scandaglia molteplici potenzialità espressi-ve e sempre più spesso si trasforma in dialogo con perso-naggi immaginari ai quali l’attore fornisce di volta involta il proprio corpo e la propria voce.

    Il filo conduttore è l’invettiva, il motto arguto, l’eleva-zione del turpiloquio a codice comico, sempre e comun-que distante dalla parolaccia come intercalare, quindifine a se stessa e svuotata di significato. Nell’eccentricitàdi questo personaggio, nel suo rapporto fra parola egesto, fra sperimentazione linguistica e uso del corpo,confluisce buona parte dei motivi di ricerca perseguitidal gruppo e teorizzati da Lucia Poli.

    In Cioni Mario la toscanità del protagonista risultaelemento imprescindibile. Confluisce in esso tutto unclima culturale fatto di tradizione e fermenti contempora-nei: la prassi dei fescennini, lo scambio rituale di offeseed insulti osceni dei contadini italici in occasione del rac-colto, il canto a contrasto, la novellistica toscana, chetanta familiarità ha con aneddoti scabrosi e frasari boc-cacceschi, la denuncia sociale e le rivendicazioni politi-che della base in pieno clima di contestazione.

    .....Roberto Benigni, nel suo monologo, simostrava inconsapevolmente erede (anche sela sua cultura è molto più solida di quantovoglia far apparire) di certi moduli espressivi.Non aveva paura di usare le parole dei suoi

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    compagni di ventura, appunto perché il con-tadino è abituato ad avere paura casomaidelle ‘cose’ (la fame, la carestia, le disgraziefamiliari, l’invidia dei meno fortunati) e nonpuò avere paura anche delle parole.

    Nei fescennini i dialoganti si mascherava-no in modo primitivo, impiastricciandosi ilviso con il mosto o coprendolo con la scorzadegli alberi. E Benigni ripeteva miracolosa-mente, all’inizio del suo monologo, l’anticogesto rituale, rimanendo a lungo in silenzio,col volto sollevato e coperto da un fazzoletto,prima di dare il via alla sua tiritera scoppiet-tante. 4

    In questo aggancio, più o meno consapevole, a tradi-zioni arcaiche e popolari, riconosciuto da più osservatori,si innesta il lavoro drammaturgico di Bertolucci e la na-turale propensione e perizia di Benigni nel rielaborareoriginalmente fonti, spunti e una dose di autobiografiache ricorrerà sempre più spesso, in maniera più o menoesplicita, nella sua opera.

    Si innesta, inoltre, quel senso del rischio e di curiositàche sin da subito lasciano trasparire, pur se ancora vela-tamente, la verve clownesca che Benigni sviluppa daquesto momento in poi.

    Il rodaggio di Cioni Mario in provincia fu tutt’altroche esaltante dal punto di vista dell’accoglienza del pub-blico. Istintivamente i contadini e gli operai dei piccolicentri esprimevano senza mezzi termini un rifiuto cheforse i due autori non si aspettavano.

    Il “popolo comunista” - spiega Massimo

    4 Silvano Ambrogi, op.cit., p.12-13.

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    Martinelli - era allora uno dei più tradiziona-listi; due metri più in là, ai tavoli della brisco-la o al bar si ‘bociava’ e si urlava ogni tipo dibestemmie e parolacce con la massima tran-quillità, ma non si era ancora preparati a sen-tir dire le stesse cose da un palcoscenico. Ilpopolo, anche nel cosiddetto teatro popolare,raramente aveva parlato con la propria voce,ed il teatro ufficiale era sempre stato unacreatura della classe intellettuale. Il popoloera stato perciò abituato ad ascoltare la vocedella classe media come fosse la propria enon riconosceva le proprie parole, come unoche non riconosce la propria voce nel regi-stratore. 5

    Ma ad incoraggiare Benigni e Bertolucci fu Paolo Po-li, presente ad una replica dello spettacolo, e così il soda-lizio andò avanti, fino a sbarcare, nel dicembre del ’75, aRoma, inaugurando il Teatro Alberichino. Anche questavolta, dopo alcune repliche pressoché deserte, fu la pre-senza in sala di un critico teatrale a decretare il successodello spettacolo.

    L’anno successivo Benigni esordisce in televisione, inOnda libera, dove l’esperienza teatrale di Cioni Mario,alquanto insolita per la Rai dell’immediata post riforma,risulta efficace anche sul piccolo schermo.

    Sebbene affiancato da vari personaggi, da ospiti musi-cali e inserito in una situazione immaginaria ben precisa 6,

    5 Massimo Martinelli, “Un uomo ed una lampadina”, in Martinelli,Nassini, Wetzl, Benigni Roberto di Luigi fu Remigio, Leonardo Arte,Milano, 1997, p.83

    6 L’immaginaria emittente libera Televacca. Cfr. il capitolo succes-sivo.

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    lo stile e l’esibizionismo verbale di questo Mario Cioni èfiglio diretto del suo antecedente teatrale, nonostante ine-vitabili “ripuliture” per il passaggio televisivo.

    Quando nel ’77 il medesimo personaggio si trasferisceal cinema con Berlinguer ti voglio bene, il cambiamento èradicale, come se Mario Cioni fosse cresciuto e l’impetoche caratterizzava la sua giovinezza fosse stato a forza ri-dimensionato dal mutare dei tempi e dagli esiti della lottapolitica di base, trasformato in malinconia e dis-integra-zione. Il piano ideologico sembra allora influire profonda-mente su quello artistico, provocando uno scarto tra il Cio-ni teatrale del ’74/’75 e quello cinematografico del ’77.

    Forse al cinema, più che alla televisione, è affidato unmandato più complesso, un compito in cui il peso dellariflessione politica - al di là di vaghi “messaggi” e mani-festi - equilibri costantemente il piano comico, o meglio,ironico della narrazione.

    Ritornando sulle scene molti anni dopo, nell’83, con ilprimo Tu t t o b e n i g n i, di Mario Cioni resta ben poco e,naturalmente, questo modello di giovane anarcoide, pro-letario con ascendenze contadine, traspare sempre menonegli show di Benigni. Resta però come una sorta di sot-totesto, ispira il tono, il linguaggio fisico e verbale del-l’attore, e in qualche maniera anche la tematica principe,l’obiettivo della cruda invettiva: le istituzioni e il poterein tutte le sue declinazioni.

    Mario Cioni, come personaggio, si stacca, allora, pro-gressivamente da Benigni, si trasforma in esperienzasedimentata, ormai, nelle fibre dell’attore; un mezzo, untramite con il quale tradurre il reale e renderlo materialedi scena. Cioni ha permesso a Benigni di riconoscere lapropria strada, già segnata, ma in maniera indistinta, dal-le serate di cabaret dei liceali al Ridotto del Metastasio,dall’origine contadina, dalle riunioni nei circoli, dall’abi-tudine ad emigrare ed a ricreare ogni volta un habitat ilpiù possibile congeniale.

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    E il ruolo di Giuseppe Bertolucci in tutto ciò è stato difondamentale rilievo. Il lavoro di costruzione del perso-naggio, afferma egli stesso,

    .....ricalcava la situazione del set psicoana-litico: da una parte il paziente-attore chevomita fuori tutto il suo vissuto infantile ado-lescenziale paesano, dall’altra il terapeuta-regista che glielo organizza secondo deimodelli. 7

    L’occhio di Bertolucci guida il giovanissimo Benigni -ha ventitré anni ai tempi del primo Cioni - lungo un per-corso di autocostruzione, scomparendo dietro l’attore e ilpersonaggio nelle performance teatrali, ma riapproprian-dosi in pieno del suo ruolo di autore in Berlinguer tivoglio bene, dove tutto il retroterra culturale che ha con-tribuito alla costruzione di Cioni viene esplicitato,mostrato al pubblico quasi per consentirgli di capire esondare meglio l’anima di un tipo come Cioni. E lo stes-so personaggio nel film sembra guardarsi con maggioreattenzione, scoprire le proprie sconfitte e gli aspetti piùamari della propria condizione.

    Al tempo di Tuttobenigni, edizione 1983, la realtà arti-stica di Benigni è profondamente mutata, il suo impegnonel cinema è ormai costante e si prepara ad esordire nellaregia con Tu mi turbi.

    In questo one man show, via di mezzo fra il più teatra-le Cioni Mario e formule più vicine al cabaret, emergonogià i nuovi temi della comicità di Benigni, oltre ad unarevisione delle prove trascorse. Temi in qualche manieragià “assaggiati” dal pubblico in occasione dei passaggi

    7 Giuseppe Bertolucci, “Vi presento Benigni”, in Si fa per ridere...Ma è una cosa seria, Firenze, 1985, p.106.

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    televisivi e di un film, Il Pap’occhio, di Renzo Arbore(1980), che sfrutta moltissimo l’esperienza televisivadell’intero clan dell’Altra domenica.

    Lo show rappresenta un nuovo battesimo teatrale perBenigni, alle prese questa volta con platee stracolme econ repliche che registrano il tutto esaurito. Il suo elo-quio si snoda su due tematiche principali: la politica -colpita nei suoi rappresentanti al governo: la Dc di Fan-fani e il Psi di Craxi - e la tradizione cattolica, con i suoicomandamenti, vizi capitali e prerogative divine, masoprattutto con la rielaborazione delle storie del VecchioTestamento, che forniscono a Benigni una trama sullaquale tessere originali invenzioni e dove la sua comicitàincandescente sembra agire al meglio.

    E’ uno spettacolo basato su un ritmo continuo, incal-zante, come al solito il protagonista non si risparmia, sal-tella da una parte all’altra del palco, quasi senza accor-gersi che adesso il suo spazio di manovra è dieci voltemaggiore che nei circoli e nelle cantine, ma Benignisembra rubare l’energia dal pubblico: si sbraccia, suda,senza mai perdere i tempi dello spettacolo.

    Appaiono, e torneranno sempre di più negli anni suc-cessivi, gli intermezzi musicali, che consentono di pren-dere fiato, ma anche di variare il codice espressivo senzarinunciare al riso e alla satira, come nel caso di quel-l’Inno del corpo sciolto che presto diventerà la canzonepiù popolare di Benigni.

    Una delle cose più interessanti dello spettacolo, dalpunto di vista del lavoro di Benigni attore è, appunto, ilrapporto che tende ad instaurare con lo spettatore. Pergran parte dello show, pur rivolgendosi palesemente alpubblico, questo non sembra entrare nell’orizzonte diriferimento dell’attore. Il distacco, non emotivo ma, percosì dire, istituzionale, resta abbastanza marcato. Sulpalco non c’è “uno di noi”, bensì un tribuno stralunato,un fustigatore di costumi, un insegnante folle o, in alter-

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    nativa, un giullare del tutto distaccato dalla nostra quoti-dianità. Lui conosce, ad esempio, particolari sul Giardinodell’Eden che noi non sapremo mai: lui c’è stato. Il limi-te, il bordo del palcoscenico equivale, quindi, al limitedella cattedra, alla soglia che, convenzionalmente, separachi apprende da chi sa. La carica verbale di Benigni su-pera disinvoltamente questa soglia, ma tale condizioneresta pressoché immutata fino alla fine, subendo unascossa in occasione dei bis.

    Quando Benigni ritorna in scena, a spettacolo virtual-mente concluso, chiamato a gran voce dal pubblico, ècome se realmente scendesse dal palco e si mischiasseagli spettatori. Non può sfuggire questo scarto, i bis sonoprevisti, ma qui risalta una dose di improvvisazione fino-ra accantonata. Svelandone i meccanismi di costruzione,Benigni si mette ad inventare storie ispirate a frasi lan-ciate dal pubblico, fissando all’inizio soltanto quella checoncluderà definitivamente lo show. Instaura, così, unasorta di suspense comica, rinviando continuamente l’arri-vo della “formula magica”, giocando e fintando con lospettatore, fino a sorprenderlo con un accostamentoinimmaginabile che chiude la partita.

    Ritroveremo la medesima struttura - tranne i bis - inTuttobenigni 95/96 8; sono passati dodici anni, ma soprat-tutto sono passati nove film, nove successi, cambiamenti

    8 Anche se chi collabora ai testi (e alle sceneggiature dei film)adesso è Vincenzo Cerami, a dimostrazione della funzione di comple-ta rielaborazione dell’esistente a propria misura operata da Benigni.Sembra instaurarsi una sorta di osmosi creativa: l’attore “acchiappa”lo spunto fornito dal collaboratore, lo amplifica, ci ricama sopra usan-do il filo resistentissimo della propria originalità; ma lo stesso colla-boratore sa che il proprio spunto zampilla dalla continua osservazionedel lavoro di quell’attore, dentro e fuori la scena; l’imput fornito èbuono per quell’attore e per lui soltanto.

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    sostanziali nella vita privata e professionale dell’attore,Benigni è uno degli artisti italiani più conosciuti all’este-ro; adesso sono i palasport a contenere a malapena ilpubblico.

    Le linee guida sono le stesse: siamo in piena tangento-poli, Craxi è ad Hammamet, il governo Berlusconi ècaduto da poco, cambia qualche nome ma i discorsi sonsempre quelli; a dispetto di un’eventuale monotonia,Benigni pesca nel suo repertorio espressivo spunti di ori-ginalità che vivificano il soggetto, la sua carica comica ela sua istintiva e caustica avversione per le istituzioninutrono da sé il tema; i nomi, i riferimenti a fatti o perso-ne concrete sono pretesto.

    Ancora una volta la tradizione cattolica offre gli spun-ti più originali: Benigni dilata le storie del Ve c c h i oTestamento 9 e arrivando fino al Giudizio Universale (ri-vedendo alcuni precedenti del Pap’occhio) miscela i duetemi principali: politica e religione, creando una secondaparte dello show in cui sempre più velocemente e inmaniera sincopata si succedono gag fra Dio, Pietro, Mo-sè, Noè e riferimenti a Craxi, Berlusconi, Ferrara, Sgarbiecc.

    Sembra di poter affermare che la satira di Benignisulla religione giochi più volentieri e più eff i c a c e m e n t esulla tradizione delle Scritture e su alcuni atteggiamentiufficiali della Chiesa cattolica - peraltro criticati ben piùduramente da altre fonti - cercando di tenersi sufficiente-mente lontana da problemi più strettamente spirituali e difede. Non ci sono molti elementi di paragone con la sati-

    9 Il cruccio che Adamo ed Eva avessero due figli maschi da cui tuttidiscendiamo continua a tormentarlo; come nello spettacolo dell’83,Caino e Abele diventano protagonisti di invenzioni comiche e verbalitra le più originali del testo, dando il via alle divagazioni sulleScritture.

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    ra religiosa, ad esempio, di Dario Fo, che assume spessoun carattere accusatorio, dettato da convinzioni politicheestranee, pare, a Roberto Benigni.

    Una delle cause può probabilmente essere rintracciatadalla diversa estrazione dei due autori-attori. Anche Foproviene dalla provincia, dal varesotto, ma presto inseri-to in una realtà milanese direttamente coinvolta nellelotte operaie. Benigni, pur avendo abbandonato giovanis-simo la provincia, ad essa resta profondamente legato,come ad una cultura familiare tipicamente costituita daatavico comunismo e stretta osservanza religiosa, specienelle donne come Isolina, la mamma di Roberto moltevolte citata da Benigni stesso.

    Il legame con le classi popolari in Fo assume prestoun carattere intellettuale, e lo dimostra il tipo di attenzio-ne riservata ad un autore come Ruzante, attenzione,peraltro, espressa teatralmente in una fase avanzata dellacarriera. Più autenticamente ruzantiano appare Benigni,specie in Cioni Mario, legato “carne e sangue” al suomondo d’origine, non delegatosi a parlare a favore delpopolo, bensì come questo autenticamente sofferente eincazzato.

    Come spesso avviene anche in alcuni testi cinemato-grafici (i finali di alcuni episodi di Tu mi turbi, ad esem-pio), Dio è un riferimento fondamentalmente positivo,benché anche lui fallibile e con qualche debolezza “uma-na” 10, e nell’ultimo spettacolo appare forse con maggiornitidezza. Tornato da una vacanza, Dio si accorge che isuoi comandamenti sono stati fraintesi dagli uomini(anche a causa della sordità di Mosè che non li ha tra-scritti bene), che hanno fatto una gran confusione senzacapirli e tantomeno applicarli, prende allora una decisio-

    10 Sulla tradizione cattolica come tema comico in Benigni, cfr. ilcapitolo su Benigni attore cinematografico.

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    ne drastica:.....tutte queste regole! La gente è confusa,

    ne bastano poche di cose, sennò il Paradiso èvuoto (...) Sant’Agostino ha detto un coman-damento solo che li raggruppa tutti, ha detto:‘Ama e fa’ ciò che vuoi’. E’ inutile scriverenon rubare, non ammazzare... Se io vi amo,non ti rubo, non t’ammazzo, ne basta uno:Ama e fa’ ciò che vuoi! Scriviamo solo que-sto, giusto?

    E’ uno slogan che mette a posto le cose, forse un po’ruffiano, con intenti ecumenici, per far capire che “...si faper scherzare eh! Per farci due risate!” 11

    Tra le due edizioni di Tu t t o b e n i g n i si collocano, nel1990, due performance molto particolari: Pierino e illupo ed un’insolita Lectura Dantis.

    E’ lo stesso Claudio Abbado che propone Benignicome voce recitante dell’opera di Prokofiev, ruolo prece-dentemente sostenuto da nomi storici del teatro comeJohn Gielguld, Eduardo e Tino Carraro, o popolarissimicantanti come Aznavour, Sting e in seguito Lucio Dalla.

    Forse per la prima volta Benigni si impone - o loimpone la circostanza - un’inedita compostezza scenica,che traspare nella voce, quasi priva dell’usuale inflessio-ne dialettale, e nei gesti, sempre tipici ma mai stravagan-ti. Nonostante questo, le critiche, specie da parte deipuristi musicali, non sono mancate.

    La performance con l’orchestra di Abbado si collocaal centro di un periodo in cui lo status professionale diBenigni registra un ulteriore salto di livello. Si è appenaconclusa l’esperienza della Voce della luna, che gli con-sente di recitare da protagonista in quello che sarà l’ulti-

    11 Benigni a Dio in Tuttobenigni, 1983.

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    mo film del Maestro Fellini, e si giunge alla “consacra-zione accademica” della Lectura Dantis.

    Invitato da Luigi Berlinguer, allora Rettore dell’Uni-versità di Siena, per festeggiare i 750 anni dell’ateneo,Benigni stupisce tutti recitando a memoria l’VIII cantodell’Inferno e, come bis, il V, quello di Paolo e Fran-cesca.

    Nonostante l’ufficialità dell’occasione, qui Benigniappare più a suo agio, l’argomento gli è noto e indubbia-mente più congeniale; il personale commento con ilquale accompagna i canti tende a disegnare un Danteerotico e trasgressivo, anche lui figlio di quel territorioche secoli dopo partorirà Cioni. Neanche in questo casomancano le solite accuse di dissacrazione, ma a dispettodi queste il Dante versione Benigni non solo diverte mapiace nel complesso, tutto sta nell’accettare che l’attore,in quanto tale, rielabori la materia secondo le propriecorde, e la recitazione a memoria lo consente molto piùdelle compassate letture così frequenti in questi casi.

    Insomma, se si chiama Benigni a recitare si sa a cosasi va incontro: non è la parolaccia e neanche la dissacra-zione intravista da alcuni che va considerata, bensì, comespiega Cesare Garboli, rendersi conto che è la scatologiail campo d’azione del comico toscano.

    La scatologia, il corpo e le funzioni delcorpo, come agisce il corpo, che cosa pensa ilcorpo, quali relazioni, quali conflitti, qualidiscussioni ha il corpo col mondo, questo èper Benigni il regno del comico. Non si escedalla fisiologia, non si esce dalle budella. Inostri pensieri hanno la stessa cecità dellenostre viscere. Disegnano lo stesso percorsoacciambellato dei nostri intestini. Ma ilnostro corpo si fa domande. Non può starfermo, si agita, vuole sapere e conoscere. La

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    scatologia invade abusivamente le regionialte, usurpa un recinto privilegiato, il palazzodella cultura. Le domande che si fa il corpoinvestono la religione e la politica, i due tor-mentoni, le idee fisse della comicità di Be-nigni: come è fatto il mondo, chi l’ha fatto (lareligione) e come funziona (la politica) 12

    E’ il caso, allora, di scomodare illustri ascendenze let-terarie per concedere a Benigni uno status artistico sem-pre difficile da concedere a un comico?

    Si potrebbe nominare Boccaccio, Rabelais, il Belli, isatiri greci, la letteratura picaresca, la tradizione goliardi-ca e via dicendo, o forse, ed è questo che suggeriamo,riaprire le porte alla tradizione dei clown, dei giullari,con le loro risate amare e le loro scomode verità: castigatridendo mores. 13

    12 Cesare Garboli in: Roberto Benigni, E l’alluce fu, a cura di MarcoGiusti, Einaudi, Torino, 1996.

    13 Per la ricostruzione delle prime esperienze teatrali di Benigni, undebito di riconoscenza va alla citata ricerca di Martinelli, Nassini,Wetzl, alla quale il presente contributo deve numerose informazioni.