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1 Corso di laurea specialistica in “Organizzazione sociale e no profit” Dispensa del corso di “Sociologia del Welfare Mix e delle Professioni” EVOLUZIONE STORICA DELLA POLITICA SANITARIA E SOCIALE IN ITALIA

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Corso di laurea specialistica in

“Organizzazione sociale e no profit”

Dispensa del corso di “Sociologia del Welfare Mix e delle Professioni”

EVOLUZIONE STORICA DELLA POLITICA SANITARIA E SOCIALE IN ITALIA

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INDICE

I. PROBLEMI DI CONFINE II. SOCIETA' E SALUTE DA CRISPI AL FASCISMO

III. LE BASI SOCIALI DELLA POLITICA SANITARIA IN ITALIA

DALLA LEGGE 833 AL DLGS 229

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INTRODUZIONE

Nel settembre del 1956 all'incontro annuale dell'American Sociological Society, Robert Straus illustrò i risultati di una indagine che il comitato informale per la Sociologia medica aveva svolto al fine di giungere ad una definizione della natura e dello status della disciplina, di cui si intendeva chiedere il riconoscimento ufficiale. L'indagine evidenziò la pluralità degli interessi scientifici e delle aree tematiche emergenti, relative sia ai fattori sociali influenti nell'insorgere della malattia, sia al rapporto medico-paziente, alle professioni mediche, alle organizzazioni e alle modalità dell'assistenza sanitaria. Su questa base, Straus propose di distinguere la "sociologia nella medicina" dalla "sociologia della medicina", individuando nella prima un ambito di ricerca utile alla formazione e alla prassi medica e nella seconda un'area di analisi teorica volta all'esame delle organizzazioni e delle professioni sanitarie. Si trattava di una distinzione per certi versi formale, ma non priva di fondamento poiché Straus evidenziava il pericolo che il sociologo perdesse la propria autonomia e la propria specificità conoscitiva nei riguardi dei medici e della scienza medica e prospettava, come correttivo, lo sviluppo di un forte apparato teorico di riferimento.

Questa distinzione è sopravvissuta agli sviluppi della disciplina, tanto che Donald Light, a trenta anni di distanza, la utilizza per denunciare la vulnerabilità della sociologia medica nei riguardi non solo della medicina, ma delle scienze economiche e politiche. Mentre, infatti, riconosce che sono andati con il tempo sfumando i confini tra sociologi, medici e psicologi nell'analisi dei fattori sociali della malattia, con conseguente perdita di distinzione dell'approccio sociologico, ammette che la specificità della disciplina ha stentato a proporsi anche sul versante opposto delle istituzioni e professioni sanitarie, dove economisti e politologi hanno esteso il loro campo di interesse.

Un destino non dissimile sembra conoscere la storia della medicina, che secondo William Rothstein ha sviluppato, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, tre principali oggetti di studio: le conoscenze mediche, lo stato di salute della popolazione e i medici quali intermediari tra le conoscenze scientifiche e le persone malate. Gli storici della medicina - scrive - si sono rivolti tradizionalmente all'esame del primo ambito di studio e in particolare allo sviluppo di un sistema conoscitivo scientificamente fondato. Il secondo campo, certamente meno seguito del primo, è stato affrontato attraverso l'epidemiologia e lo studio dell'igiene pubblica. Il terzo ambito ha riguardato il comportamento dei medici e delle loro istituzioni ed è stato affrontato in studi biografici di singoli medici ed associazioni mediche, meno spesso attraverso ricerche sulle istituzioni sanitarie e sui medici come membri di una professione. Anche la storia della medicina è stata, dunque, a lungo studiata dai medici per i medici, mentre, più di recente, è andata condividendo con i politologi l'analisi delle organizzazioni e dei sistemi sanitari.

Questi orientamenti, mutano, per certi versi, nel corso degli anni Settanta quando le due discipline sviluppano un proprio e più consolidato terreno di analisi. In ambito sociologico, le dimensioni soggettive della malattia, l'autonomia dei cittadini-utenti, il ruolo giocato dalle comunità primarie, oltre che dalle associazioni medico-sanitarie, circoscrivono un'area di interesse squisitamente sociale che contribuisce a modificare l'accezione della disciplina da "sociologia della medicina" a "sociologia della salute". In pari tempo, in ambito storico, cresce l'interesse per un approccio che guardi alla medicina attraverso la prospettiva dell'uomo comune, basato, cioè, sulla percezione della salute, della malattia e degli stessi medici, nonché sul rivolgersi a rimedi tradizionali e popolari.

All'interno delle due discipline, tuttavia, continuano ad occupare una posizione di confine le politiche sanitarie e l'organizzazione dei sistemi di welfare che rimangono più spesso oggetto di

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analisi di economisti e politologi che di sociologi e storici. Ciò di per sé non avrebbe un grande rilievo se non determinasse una attenzione eccessiva verso fattori esplicativi di carattere economico e politico con una marginalizzazione delle spiegazioni di carattere sociale. Troppo spesso la nascita e lo sviluppo delle politiche sanitarie in Europa sono letti alla luce dei mutamenti strutturali e politici connessi all'imporsi della società industriale e delle democrazie di massa, senza cogliere l'impatto che queste stesse hanno sui ruoli opposti e convergenti del medico e del paziente, così come sulle conoscenze e tecnologie utilizzate per garantire un maggior livello di salute. Manca, in altri termini, nello studio delle politiche sanitarie una specifica attenzione per le aree di interesse tradizionali della storia e della sociologia della medicina, nonchè sulle problematiche affrontate più di recente dalle due discipline.

E' in questa direzione che ci si è proposti di lavorare tentando di valutare, nel lungo periodo, l'impatto che hanno avuto, sulla configurazione della politica sanitaria in Italia, il tipo e il livello delle conoscenze mediche, ma anche le idee, gli orientamenti e i valori che da queste sono scaturite o che da esse sono stati sostenuti. Al tempo stesso, ci interessava comprendere l'influenza di alcuni gruppi sociali e di alcune categorie a rischio, in base all'ipotesi che le modalità e il livello di associazionismo (associazioni professionali, di mutuo aiuto, di volontariato, di self-help, ecc. ), le forme tradizionali di comunità (la famiglia e la parentela), le fasi socialmente riconosciute del corso di vita (infanzia, giovinezza, vita adulta, vecchiaia) contribuiscono a creare classi, strati e posizioni sociali che direttamente o indirettamente pesano sulle scelte di politica sanitaria.

Se, in altri termini, borghesia e proletariato hanno giocato un ruolo importante nella promozione di un sistema di protezione sociale in Europa, questo va imputato anche alla pluralità di categorie a rischio (donne, bambini, anziani, malati di mente, ecc) e di classi sociali intermedie (medici, operatori sociali, piccola borghesia autonoma, ecc) che hanno trovato nella politica sanitaria ora vantaggi ora svantaggi sentendosi, per questo, di sostenerla o abbandonarla .

Con questa ottica ci si è posti l'obbiettivo di individuare il filo conduttore che unisce le politiche sanitarie del secondo Ottocento e del primo Novecento, un periodo cruciale dello società italiana, che si presta, per diversi motivi, a far riflettere sul presente. Ovviamente, nessun evento si ripropone mai negli stessi termini, né questa è la lettura che qui si è inteso proporre, tuttavia il ritardo con cui si è proceduto, in Italia, alla individuazione di politiche a sostegno del benessere fisico e materiale della popolazione, nonché le modalità con cui sono state realizzate, hanno avuto un impatto determinante per la configurazione del successivo sistema di welfare.

Lo spazio assicurato agli enti privati di beneficenza, il ruolo costantemente attribuito alle solidarietà familiari, il potere professionale a lungo negato ai medici, la dominanza politica di alcuni grandi organismi pubblici e semipubblici, le crescenti diseguaglianze territoriali e sociali nella distribuzione e nell'accesso ai servizi, il fervore partecipativo, ma spesso frammentato della società civile, sono alcuni tratti che emergono fin dalle prime fasi di sviluppo delle politiche sanitarie, che si caratterizzano per la lentezza della elaborazione legislativa e le difficoltà di applicazione. In questa prospettiva, le parole di Giolitti, secondo cui occorre "concedere sempre con la maggiore lentezza e cautela possibili e quando un rinvio non sia più concedibile senza reale pericolo", ben si prestano ad individuare una modalità di governo che si è estesa assai oltre il primo Novecento.

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I. PROBLEMI DI CONFINE

1. Le politiche sanitarie hanno una storia Una storia, di lungo periodo, della protezione sociale non è stata scritta e lo stesso concetto

non appare ancora elaborato, né accreditato sul piano teorico. Eppure le società preindustriali affrontano in vario modo il problema della scarsità delle risorse disponibili e l'imprevedibilità1 delle condizioni ambientali e vitali che incidono sulle modalità di sopravvivenza degli individui [Sori 1991-92].

Naturalmente, come ricorda Sori, non c'è nulla di più variabile socialmente, culturalmente, epocalmente, di ciò che si intende per bisogno di difesa sociale, né è scontato che si tratti, prima di tutto, del bisogno elementare di sussistenza, tanto è vero, che tra le prime forme di associazionismo di tutela, si trovano i collegia funeralia volti ad assicurare e rendere dignitosa non la vita terrena, ma quella ultraterrena. Non agevole, d'altro canto, appare l'individuazione di un unico concetto di povertà cui correlare le forme della protezione sociale, poiché le società preindustriali elaborano un' idea complessa e variegata di "povero" capace di includere il questuante2, chi non possiede beni di riserva3 [Gutton 1974], nonchè il nobile decaduto (il povero vergognoso) al quale le classi dirigenti dell'ancien regime dedicano particolare attenzione4.

Altrettanto variabile ed arbitraria si presenta l'offerta istituzionalizzata di protezione sociale, le cui priorità appaiono determinate e condizionate dai più disparati criteri e dai più diversi fattori socio-politici e culturali. Uno dei pochi tratti generalizzabili è da individuare nella diseguale distribuzione dei benefici a favore della popolazione dei grandi insediamenti urbani, dove più manifesto è il bisogno di difesa sociale e dove l'accumulazione della ricchezza e l'accentramento delle funzioni di governo rendono più agevole e al tempo stesso obbligata la distribuzione di aiuti e sussidi. In pari tempo sembra ipotizzabile che l'intervento pubblico e privato si accentui in quei 1 Sull'importanza del dono nella società romana e quindi sulla generosità obbligata dell'oligarchia e dell'imperatore nei riguardi del popolo si veda il volume di P.Veyne [Veyne 1984] 2 Gutton fa notare come tra i vagabondi si debba individuare, nell'Europa del XVI e XVII secolo, non solo gli zingari, ma i falsi infermi, gli eterni nomadi in cerca di lavoro, alcune categorie professionai come gli scrivani, i maestri, i musici, i sarti i disertori, i militari in congedo semestrale, i pellegrini, e soprattutto i braccianti e i contadini cacciati dalla terra. Si tratta di vagabondi che mendicano l'elemosina, spesso con insolenza, cioè con violenza e che tendono facilmente a confondersi con i banditi e i briganti [Gutton 1977] 3 Se i vagabondi e i mendicanti rappresentano le frange estreme della povertà, la gran massa dei poveri è costituita da coloro che vivono alla giornata, senza riserve e con il solo lavoro. Questi soggetti quando si ammalano o restano soli (vedove, orfani, esposti, trovatelli) cadono ancor più sotto la soglia della povertà. Sulla base di tali distinzioni concettuali, introdotte da Gutton e anche da Pullan, si può individuare, a parere di Woolf, una fascia di poveri "strutturali" impossibilitati a guadagnarsi da vivere e quindi totalmente dipendenti dall'assistenza o dall'accattonaggio che potevano oscillare dal 4 all'8% della popolazione urbana; i poveri "congiunturali" di solito il prodotto dei bassi salari e dell'occupazione occasionale che erano circa il 20%, quindi un terzo cerchio di artigiani, piccoli commercianti e piccoli funzionari che potevano cadere facilmente al di sotto del livello di sussistenza, i quali nei momenti di crisi potevano comprendere dal 50 al 70% delle famiglie [Woolf 1988; Pullan 1982] 4 Gli storici hanno dedicato un interesse crescente allo studio della natura e della estensione della povertà nelle società preindustriali, tuttavia secondo Lis e Soly, troppo spesso essi hanno adottato un approccio neo-malthusiano secondo cui la povertà è un fenomeno naturale consono ad "una società della penuria". Un'analisi comparata e diacronica di lungo periodo, dimostrebbe, invece, che la povertà non può essere spiegata prescindendo dai rapporti di classe e di produzione nel settore agricolo ed industriale, anche se è vero, come argomenta Sori che l'accumulazione della ricchezza nelle mani di pochi, fungeva da risparmio forzoso cui attingere in caso di necessità [Lis e Soly 1986]

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momenti della storia europea in cui la popolazione aumenta, portando ad una recrudescenza del pauperismo5, soprattutto nelle aree urbane.

Tuttavia l'intervento dello Stato, per quanto cospicuo possa essere in alcune fasi della storia locale e nazionale, costituisce un pezzo relativamente piccolo del sistema di sicurezza sociale, che fa perno sulle attività di protezione della famiglia6 e che si allarga in cerchi concentrici verso ambiti solidaristici plurifamiliari e associativi i cui vincoli di solidarietà poggiano, a seconda delle epoche e delle formazioni economico-sociali, su basi professionali, religiose, politico-difensive, clientelari [Sori 1991-92]. Se sono i clan familiari e le consorterie ad assicurare, in un primo tempo, ai nuclei domestici in difficoltà gli strumenti per far fronte alle proprie funzioni riproduttive7, in seguito, sono le associazioni su base professionale, confessionale e di ceto (corporazioni e confraternite) a farsi carico di attività assistenziali differenziate.

Queste prefigurano "piccoli sistemi di sicurezza sociale", che vengono istituzionalizzati e che, gradualmente dal terreno caritativo passano a quello previdenziale mediante forme di assistenza ai malati, di ricovero degli inabili, di distribuzione di sussidi a vedove, orfani, partorienti, anziani e disoccupati. Le confraternite religiose che, a partire dal XII e XIII secolo, si espandono, ad esempio, nelle campagne e nei piccoli centri di tutta l'Europa, alle funzioni elemosiniere accompagnano attività crescenti di ospedalizzazione dei vecchi, degli esposti e dei malati8.

E' la Chiesa, dunque, che assolve, assieme alla famiglia, la maggior parte delle funzioni di protezione sociale in epoca pre-industriale. Alla concentrazione della ricchezza nelle mani delle istituzioni ecclesiastiche, infatti, si accompagna un'ideologia religiosa secondo la quale la carità da un lato e l'assistenza dall'altro divengono gli strumenti per meritarsi la vita eterna e per glorificare Cristo [Gutton 1974]9. Nel corso del Medioevo e dell'età moderna, si crea, di conseguenza, un sistema di sicurezza sociale di matrice religiosa che vede coinvolti enti diversi (monasteri, conventi, parrocchie, seminari, mense vescovili, opere pie, ospizi, ospedali, congregazioni, arciconfraternite ecc. ), tutti impegnati a sostenere i processi di produzione e di controllo sociale, mediante un poderoso apparato solidaristico e finanziario.

Infatti a partire dalla fine del Medioevo, la povertà perde il carattere etico e salvifico che gli avevano attribuito il primo cristianesimo e gli ordini monastici, per assumere i tratti di una maledizione e di una pericolosità alle quali occorre far fronte in termini repressivi o preventivi. Si tratta di un grande cambiamento socio-culturale che ha tra le sue cause la crisi economica che sconvolge l'Europa a partire dalla metà del XIV secolo e che è accompagnata da un crollo demografico di grandi dimensioni. E' da questo momento che viene effettuata una distinzione tra i poveri che hanno diritto all'assistenza in virtù delle proprie condizioni fisiche e i mendicanti sani, cui non va fatta l'elemosina poiché , per essi, è doveroso il lavoro.

In questa direzione saranno i ceti aristocratici e i Comuni ad impegnarsi di più nelle erogazioni caritative in quanto le classi dirigenti locali sono direttamente coinvolte nella 5 Questi periodi in Europa sono il 1000-1348, il XVI secolo, gli ultimi 3/4 del XVIII secolo [Sori XXX] 6 La famiglie dimostravano una forte vulnerabilità economica a seconda della loro collocazione urbana e rurale e in funzione del tipo di lavoro svolto dai diversi componenti. L'artigianao urbano, ad esempio, poteva essere assai meno preparato ad affrontare una crisi di breve durata di un lavoratore agricolo o manifatturiero, nelle cui famiglie, la mancanza di qualificazione, spingeva tutti i componenti a salari bassi e ad una adattabilità elevata a cambiare spesso lavoro. Una causa strutturale di debolezza era spesso costituita dalla piccola dimensione delle famiglie nelle classi lavoratrici, dove l'instabilità del lavoro era una condizione per la rottura dei legami parentali e dei pochi averi [Woolf 1988] 7 I clan possono disporre, come ricorda Sori, di una "cassa di soccorso" destinata ai malati, ai poveri e ai clienti bisognosi le cui finalità sono molteplici: dalle elemosine alla edificazioni di case per i poveri, dall'assistenza delle fanciulle sole ai sussidi per studenti in difficoltà economiche 8 Gli ospizi di villaggio, costituiti da un edificio a corpo unico, accolgono indistintamente tutti i poveri e contengono in tutto quattro o cinque letti 9 Come evidenziano Lis e Soly nel Medioevo i ricchi avevano bisogno dei poveri per effettuare quelle buone azioni che avrebbero assicurato loro la salvezza eterna, i poveri, dunque, doveva restare tali anche perchè solo così potevano garantire ai loro benefattori la stabilità del mercato del lavoro e la conservazione dell'equilibrio sociale [Lis e Soly 1986]

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legittimazione della propria funzione pubblica e dei propri interessi economici, oltre che nel controllo degli strati più indigenti della popolazione dai quali provengono spinte ribellistiche, rivendicative o insurrezionali. Saranno molte città, ad esempio, a perseguire quella centralizzazione dell'assistenza10 e quella esaltazione del lavoro contro la povertà che si consolida nel XVI secolo, quando la ripresa demografica provoca un'espansione dell'agricoltura (ma a rendimenti decrescenti) e dei commerci trascontinentali, nonchè un incremento dell'urbanizzazione e del pauperismo ad essa collegato.

Gli eserciti sempre più folti dei poveri spingono gli umanisti e i riformatori religiosi ad affrontare il problema di come alleviarne i bisogni, spingendo i principi e le autorità municipali dell'Europa occidentale a radicali riforme della politica sociale11. Secondo Lis e Soly, è in tutti i centri in cui la produzione industriale viene asservita al capitale mercantile, che l'assistenza si trasforma da una serie di interventi discontinui ed indiscriminati, affidati in massima parte alla beneficenza spontanea dei privati, in un sistema continuo e selettivo, attuato in gran parte da uffici pubblici, che spesso dispongono della facoltà di procurarsi i fondi necessari; un'attività finalizzata a garantire, ad alcuni settori produttivi in crescita, la manodopera necessaria a buon mercato [Lis e Soly 1979]12.

Tuttavia, tra i molti fattori, che nel Cinquecento contribuiscono a identificare il povero con un pericolo sociale, va posta anche la paura della peste per la quale guadagna terreno la teoria della trasmissione del morbo per contagio, nonchè le più generali condizioni igieniche delle città, soffocate dalla pressione degli immigrati e vagabondi. Infatti in una società che non è in grado di controllare i fenomeni epidemici "la presenza di una popolazione fluttuante e sconosciuta mette in crisi l'unica protezione possibile contro il contagio: l'isolamento" _[Giusberti 1986]

Va notato che l'intero sistema assistenziale che si realizza in Europa occidentale in questo periodo, con una somiglianza ed una rapidità sorprendenti, gioca un doppio ruolo: quello sostitutivo della famiglia nel caso in cui manchi o sia troppo deteriorata, e quello di salvaguardia del nucleo domestico, procurandogli sistemazioni materiali ed economiche capaci di arrestarne o procastinarne la dissoluzione [Woolf 1988].

Gli stati centrali, le signorie e i ceti borghesi appaiono molto meno coinvolti nel finanziamento dell'assistenza, affidando alla Chiesa un'azione vicaria e surrogatrice; d'altro canto nelle stesse città l'assistenza ai poveri si realizza mediante strutture, talvolta sofisticate, poggianti su organizzazioni sia religiose, sia laiche [Woolf 1988]. Queste agiscono facendo ricorso a strutture specializzate, soprattutto ospedaliere, che si diffondono ad esempio nelle città italiane del Centro-Nord. In campo medico, le istituzioni di carità e assistenza, attive a Bologna in età moderna si distinguono in ospedali per ammalati comuni, malati di mente, convalescenti, incurabili, sifilitici, esposti e contagiosi; una rete che si intreccia e si sovrappone ad una miriade di enti di ricovero dei poveri, dei mendicanti, dei vecchi, dei giovani delinquenti e delle donne in pericolo13, nonchè ai istituzioni finalizzate al sostegno economico dei non abbienti, quali i Monti di pietà e i Monti 10 In molte città da questo momento diviene obbligatorio compilare con cura elenchi nominativi di ogni persona che chiedesse l'assistenza pubblica, il che non solo permette un rigido controllo ma anche la possibilità, variando il sussidio, di fornire rapidamente agli imprenditori la manodopera necessaria [Lis e Soly 1986] 11 La segregazione dei poveri che si diffonde in Europa a partire dal XVI secolo presenta, da un paese all'altro, notevoli differenze in merito all'organizzazione e al finanziamento delle strutture necessarie. Se in Inghilterra e in Francia sono le autorità locali a gestire le workhouses e gli ospedali generali, in Italia sono generalmente le confarternite. Ugualmente se le risorse neceaarie possono essere assicurate da una tassa come in Inghilterra, esse possono derivare da donazioni pubbliche e private come in Francia e in Italia [Gutton 1977]. 12 Se questo può apparire vero per alcuni centri di lavorazione della seta come Lione o Bologna, non lo è per altre situazioni territoriali dove la produzione realizzata entro gli ospedali generali o le workhouse risulta poco concorrenziale e volta soprattutto a forniture per l'esercito, la marina ed altre istituzioni pubbliche. _In tal senso avrebbero risvolti economici molto minori di quanto si è ipotizzato [Woolf 1988] 13 Come nota Giusberti il pacchetto di offerta assistenziale di una città come Bologna si presenta differenziato rispetto all'utenza e alla qualità dei servizi, ad esempio mentre le ragazze che entrano al Conservatorio del Baraccano debbono essere oneste, belle e in salute potendo così aspirarae ad un buon matrimonio borghese, le ragaee dei Bastardini sono raccolte in modo più casuale e destinate a pretendenti di più bassa estrazione sociale [Giusberti 1986]

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frumentari. E' pur vero che i soggetti pubblici mantengono una forte giurisdizione sugli strumenti volti

ad assicurare alla popolazione una alimentazione sufficiente in circostanze congiunturali critiche. Da qui il monopolio pressochè assoluto sui problemi annonari, realizzato dai comuni e dagli Stati a dimostrazione dell'importanza che si accorda al problema delle scorte alimentari e alla loro distribuzione. Nel corso del Medioevo e dell'età moderna, inoltre, i Comuni si dotano di una strumento di controllo e di assistenza sanitaria che è rappresentato dal medico condotto, la cui istituzione risale, seppure con molto ritardo, all'epoca romana14 e si protrae nell'alto Medioevo. Due documenti pistoiesi dell'inizio dell'ottavo secolo fanno menzione di un medicus regis publicus, senza peraltro specificare quali siano le sue funzioni e lasciando nel vago il significato dell'aggettivo publicus. Ma dal Duecento i dottori della comunità, pagati dall'erario pubblico, sono un fatto normale nella vita cittadina italiana. Questa istituzione si diffonde presto anche nei centri minori, mentre le maggiori città sono impegnate a fornire alla loro popolazione una sempre crescente quantità di servizi medici15. Nei primi decenni del XVII secolo a Pisa e Pistoia, città in cui i redditi privati sono cresciuti e la gente spende con maggiore larghezza, i medici condotti risultano sostituiti da medici e chirurghi con "obblighi fermi", con un impegno, cioè, a servire la città (per le prigioni, la fortezza, l'arsenale), gli ospedali, le famiglie nobili, le comunità religiose in cambio di un compenso fisso comprendente anche beni in natura.

Tra la metà del Trecento e i primi del Cinquecento, inoltre, le regioni dell'Italia centro-settentrionale creano le magistrature della sanità, istituti avanzati di organizzazione sanitaria che producono una documentazione straordinariamente ricca sulle condizioni igienico-sanitarie ed economico-sociali del tempo16. Si tratta di strutture decentrate sul territorio, a carattere permanente, cui compete l'obbligo di emanare leggi, bandi e decreti ma anche comminare pene ai trasgressori, da cui il titolo di magistrature. Il carattere di stabilità e permanenza che assumono nel quadrilatero Venezia, Milano, Genova e Firenze, a differenza di quanto avviene a sud di esso (ad esempio a Perugia e Roma dove ebbero carattere di eccezionalità), da loro un ruolo preminente nell'igiene pubblica e nella prevenzione, tanto che nella grida generale del 1590 il magistrato milanese "cercò di regolamentare l'affollamento delle abitazioni dei poveri e gli scarichi delle case" [Cipolla 1986, 14Secondo Plinio i Romani vivono nei primi seicento anni della loro storia senza medici e affidandosi per la terapia ai semplici rimedi della medicina domestica del pater familias. Ben prima dell'avvento dei medici, però, e certo con assai maggiore efficacia rispetto alle condizioni sanitarie collettive, i Romani dedicano cure assidue all'igiene pubblica, che accompagna le tappe della loro espansione imperiale costituendone un marchio e un vanto [Vegetti e Manuli 1989]. Quando, poi, nella Roma tardo-repubblicana e imperiale, di fronte ai problemi sanitari posti dal rapido incremento della popolazione urbana e dalle esigenze dei ceti agiati ed acculturati, ci si risolve all'uso dei medici e della loro arte si sceglie una strada di tipo liberistico, incoraggiando, attraverso tutta una serie di facilitazioni e privilegi, l'immigrazione e la stabilizzazione nella città di sempre più numerosi medici privati stranieri, soprattutto greci ma anche giudei e in qualche caso egiziani" [Vegetti e Manuli 1989, 391]. Mentre, dunque, nelle città ellenistiche il medico pubblico è un'istituzione ben consolidata, a Roma i medici assmono una posizione libero-professionale seppure via via garantita e protetta in termini giuridici e finanziari. Se in un primo tempo è la cittadinanza che viene concessa ai medici che accettano di risiedere a Roma, in un secondo tempo, in concomitanza con un'epoca di accentuata fiscalità, le immunitas garantiscono ai medici esenzioni da obblighi costosi e gravosi in cambio della loro presenza. Tali immunitas vengono, nel tempo, riconosciute ad un numero limitato di medici così che si formano collegi ristretti di sanitari autorevoli e privilegiati scelti dai loro eminenti concittadini 15Nel 1288, a Milano, che conta circa 60.000 abitanti, vi sono tre chirurghi pagati dalle casse comunali con il compito specifico di occuparsi di tutti i poveri che abbisognassano di cure chirurgiche. A Venezia nel 1324, in aggiunta ad un numero imprecisato di medici e chirurghi che esercitano privatamente, ci sono 13 medici e 18 chirurghi ad salarium nostri communis" [Cipolla 1986, 297].La documentazione toscana del 1630 offre l'eccezionale possibilità di calcolare la frequenza e la distribuzione dei dottori comunali in una vasta area rurale. "Se si escludono i sanitari che esercitavano a Firenze, Arezzo, Pisa e Pistoia, rimane un totale di 55 medici e 62 chirurghi. Dei 55 medici 30 erano condotti e 25 esercitavano la libera professione; dei 62 chirurghi, 24 erano condotti e 38 esercitavano liberamente. In altre parole circa il 55% dei medici e il 39% dei chirurghi che praticavano nelle piccole città, nei villaggi e nelle zone rurali erano stipendiati dal pubblico denaro" [Cipolla 1986, 300] 16 Tale documentazione, se non da risultati specifici sul piano curativo, implica la formulazione di concetti che noi siano erroneamente portati a ritenere frutto di elaborazione recenti quali, ad esempio, il carattere sociale oltre che biologico delle malattie [Cipolla 1986, 8]

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18]. Sebbene sia probabile che i governanti italiani nell'istituire tali magistrature sanitarie siano

sollecitati o abbiano consiglio da personalità del mondo medico, l'abbondante documentazione superstite lascia intendere abbastanza chiaramente che il sorgere degli uffici di sanità e della relativa legislazione sanitaria non sono opera della professione medica, quanto piuttosto dell'efficiente ed evoluta tradizione amministrativa degli Stati italiani del Rinascimento. D'altro canto i rapporti delle magistrature sanitarie con la professione medica sono generalmente buoni, sia perché, pur avendo giurisdizione su di essa, ne sollecitano i consigli, sia perché, in talune città, uno o due rappresentanti del collegio medico fanno parte di diritto della magistratura sanitaria. Con il tempo il controllo sulla professione si fa più rigido tanto che nel 1630-31 il Magistrato della Sanità di Firenze, non solo realizza un censimento completo di tutti i medici e chirurghi professanti nei territori fiorentino e pisano, ma ordina il loro trasferimento nei luoghi particolarmente colpiti [Cipolla 1986].

Al tempo stesso i magistrati prendono ad espletare compiti anagrafici, di registrazione ed analisi dei decessi, nonché a legiferare ed esercitare opera di controllo sulle condizioni igieniche dei mercati alimentari e soprattutto delle macellerie, la destinazione dei rifiuti umani, animali ed industriali, le risaie e le condizioni dei cimiteri e delle sepolture. Un'opera che viene spesso coordinata e svolta in collaborazione con le magistrature degli altri Stati della Penisola. . .

Tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, tuttavia, si verifica un brusco cambiamento nella geografia sociale della proprietà fondiaria, al quale si lega la tendenza ad avocare al settore laico (centrale e locale) molte delle funzioni precedentemente svolte dalla Chiesa. In particolare, alla lenta erosione del patrimonio ecclesiastico, largamente dovuta ai risvolti economico-sociali della rivoluzione francese, si affianca un affievolimento del fervore religioso e con esso il declino di molte istituzioni che poggiavano sulla munificenza privata. Contemporaneamente si diffonde la volontà di conoscere le cause del pauperismo, che, per la prima volta, vien fatto dipendere da fattori demografici, finanziari, economici e sociali, con la conseguenza che emerge un'opinione diffusa secondo cui la beneficenza è dovere dello Stato. Tale funzione, che rappresenta una nuova virtù, deve sostituirsi, secondo Voltaire, alla carità, dal momento che quest'ultima trae "la sua forza dalla pietà e dal desiderio di amministrare nel migliore dei modi i beni affidati da Dio", mentre la prima "è basata sull'amore per gli uomini - la filantropia - e sul desiderio di rendersi utili"[Gutton 1974, 132]. La beneficenza praticata dallo Stato o dai privati sotto il suo controllo, non deve, tuttavia, favorire l'ozio, quindi la parola d'ordine è ancora quella dell'assistenza per mezzo del lavoro, magari attraverso un preliminare corso di educazione professionale e adeguati sostegni economici.

In questa cornice, i pubblici poteri tendono ad accrescere le proprie funzioni assistenziali senza, però, riuscire a coprire i grandi vuoti che si creano nel sistema tradizionale di protezione sociale, tanto più che si deve far fronte ai nuovi bisogni derivanti dagli incipienti processi di industrializzazione. Quindi, nonostante gli sforzi e gli orientamenti innovativi del secolo dei lumi, il pauperismo continua a crescere e a riproporsi per larga parte del secolo seguente, quando cominceranno a modificarsi i meccanismi strutturali che lo hanno reso, per lunghissimo tempo, un fattore endemico legato ad una economia frazionata, debole, a composizione prevalentemente agricola. Solo a partire dal 1850, "questi meccanismi cominciano veramente a modificarsi. E solo con molta lentezza essi spariranno sotto l'effetto congiunto delle leggi sociali, dei progressi medici e chirurgici, del miglioramento del tenore di vita, dell'urbanizzazione collegata all'industrializzazione"[Gutton 1974, 156]

Di questo cambiamento sono testimonianza le nuove configurazioni organizzative ed istituzionali che si delineano in tutti i paesi occidentali che, pur nella diversità dei caratteri, appaiono dominate da un più marcato impegno degli organi statali e laici nella protezione sociale [Flora e Heidenheimer 1981]. I provvedimenti che in campo sanitario vengono, ad esempio, presi in Europa a partire dalla fine del XIX secolo, si esprimono attraverso forme di assicurazione malattia che vanno a coniugarsi con importanti interventi nel campo dell'igiene e della sanità pubblica, oltre che con nuove modalità di regolazione dell'attività medica e delle organizzazioni sanitarie. Si tratta di politiche che mirano al benessere individuale tentando di scongiurare i mali collettivi (la malattia,

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gli infortuni, la perdita del lavoro, la morte precoce e la vecchiaia) e che si contrappongono per forma e per obbiettivi agli interventi del secolo precedente, in cui i nascenti stati nazionali e le prime forme di economia industriale miravano ad intervenire sui singoli individui (in caso di pestilenze, povertà, vagabondaggio) per scongiurare più ampi mali collettivi. Non più, dunque, provvedimenti di emergenza e di assistenza ristretta, ma erogazione di servizi e di trasferimenti a masse crescenti di popolazione, secondo criteri standardizzati e di routine. Una pratica sempre più finalizzata al controllo e alla regolamentazione del lavoro, sulla spinta dei nuovi processi di industrializzazione.

Se, in questa prospettiva, le moderne politiche di welfare prendono avvio nel secondo Ottocento, esse si sviluppano nel Novecento, giungendo approssimativamente alla metà degli Settanta. Secondo alcuni autori, infatti, dopo una prima fase sperimentale (dal 1870 agli anni '20), esse entrerebbero in una fase di consolidamento (dagli anni '30 agli anni '40) e, quindi, in una fase di espansione (dagli anni '50 agli anni '60) [Alber 1983], fino a giungere ad un nuovo stadio di trasformazione collegato ai grandi mutamenti economici e politici di questo periodo. L'economia dei servizi e la crisi delle democrazie di massa attribuirebbero, infatti, alle politiche sociali una configurazione nuovamente differente sulla cui essenza si va attualmente indagando.

A partire dalla metà dell'Ottocento, dunque, si dispiegherebbe in Italia, come in Europa, un modo di far politica a favore della salute peculiarmente nuovo, cui bisogna guardare se si vuole comprendere le trasformazioni e i mutamenti più recenti. Ciò non significa che non vi siano linee di continuità con il passato che meritano attenzione e che dimostrano come le politiche socio-sanitarie risultino da un complesso di fattori economici, politici e culturali, la cui influenza è determinante per le scelte operate da alcune élites dominanti, da alcuni ceti emergenti, nonché da alcune istituzioni chiave della società politica e civile (le famiglie, gli enti religiosi, le strutture di governo locale e centrale, le grandi corporazioni ed associazioni economiche). Peraltro come sostiene Geremek, grande importanza dimostra, per la spiegazione della politica sociale, la storia delle idee e dei sentimenti. Una storia che spesso è diacronica rispetto agli interessi economici e politici, ma che è ugualmente cruciale come è dimostrato dall'ethos medievale della povertà, che si indebolisce o si scompone alle soglie dell'età moderna, ma fissa un'impronta fondamentale nella civiltà cristiana, perdurando, per questa ragione, nella cultura europea [Geremek 1986].

2. Come spiegare i moderni sistemi di protezione sociale

Le politiche socio-sanitarie sviluppatesi in Europa a partire dal secondo Ottocento, sono

state oggetto di una mole crescente di studi e di ricerche che hanno consentito tanto l'accumulo di dati comparativi a carattere quantitativo e qualitativo, quanto la messa a punto di ipotesi esplicative.

In termini generali, due approcci caratterizzano le spiegazioni del welfare state. Il primo sottolinea l'impatto della crescita economica e i fenomeni demografici e burocratico-amministrativi ad essa connessi, il secondo sposta l'attenzione su fattori di natura non economica connessi ai conflitti e ai bisogni di legittimazione delle nuove democrazie di massa.

Sul primo versante, sia che si utilizzino teorie pluraliste oppure marxiste, vengono collocate, a spiegazione delle nuove politiche sociali, le condizioni di vita imposte dall'industrializzazione e dall'urbanizzazione. I bisogni di sicurezza originati dalla separazione dei produttori dai mezzi di produzione, dalla differenziazione dei luoghi di lavoro e di residenza, dalla distinzione tra reddito individuale e reddito familiare, dall'allentamento dei rapporti di parentela e di vicinato avrebbero reso più acute ed intollerabili le carenze del vecchio sistema assistenziale promuovendone la modifica. Senza negare l'influenza dei conflitti politici, questo approccio considera le prestazioni sociali come dei provvedimenti necessari al sistema per conservare ed incrementare le risorse sociali.

Le teorie conflittualiste sottolineano, invece, la necessità che i bisogni sociali trovino nell'arena politica una qualche interpretazione e legittimazione per divenire oggetto di rivendicazioni e di politiche mirate: la reazione dello Stato non si deduce immediatamente partendo

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dall'entità o dalla gravità dei problemi sociali, essa è il risultato dell'equilibrio delle forze esistenti nei vari gruppi che se ne fanno interpreti e portavoce. Da qui l'importanza attribuita alla mobilitazione sindacale e politica dei lavoratori, oppure agli interessi dei gruppi sociali che più disponevano di organizzazione e di mezzi di pressione, non ultime le élite dominanti alla ricerca di una nuova legittimazione. Se, infatti, i vecchi stati nazionali riuscivano ad ottenere legittimazione garantendo la sicurezza dei confini e l'ordine giuridico interno, le nascenti democrazie di massa, in difficoltà nel nuovo sistema internazionale, trovano nelle politiche sociali uno strumento efficace per sottoporre la vita dei cittadini alla regolazione e alla amministrazione pubblica, con l'aiuto degli apparati burocratici.

Quest'ultima interpretazione trova un forte sostenitore in Alber il cui lavoro si pone come uno dei tentativi più interessanti di verifica storica e comparativa delle ipotesi emergenti dagli orientamenti funzionalista e conflittualista e dalle loro due sotto-varianti pluralista e neo-marxista. Sottoponendo ad analisi le politiche sociali realizzate in quindici paesi europei nell'arco di tempo che va dagli ultimi decenni dell'Ottocento agli anni Settanta di questo secolo, Alber giunge a dimostrare come l'origine delle politiche sociali sia da imputare a fattori tipici delle spiegazioni di carattere conflittualista-pluralista.

Se, dunque, l'introduzione delle assicurazioni sociali tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento può considerarsi come una misura difensiva da parte delle élites dominanti contro la mobilitazione politica dei lavoratori, il periodo compreso fra le due guerre appare ad Alber come una fase di politica sociale piena di conquistate dal basso, in cui lo sviluppo dell'assicurazione sociale è determinato principalmente dal movimento operaio. Ciò non può essere spiegato (ancora una volta] in base alle teorie funzionaliste, ma corrisponde più da vicino alle ipotesi conflittualiste secondo cui l'organizzazione politica dei lavoratori è il motore della politica sociale [Alber 1983].

Dopo la seconda guerra mondiale, tuttavia, le politiche di welfare risultano essere cresciute indipendentemente dalla forza dei partiti operai ed essersi ampliate per una forma di progressiva convergenza fra i diversi paesi europei. Una spiegazione questa che appare più di stampo funzionalista che conflittualista anche se Alber tende a dimostrare che i partiti operai, pur non risultando in questi anni l'unica forza motrice dello Stato sociale, continuano a rappresentarne la molla più dinamica.

I due approcci, funzionalista e conflittualista, non sembrano escludersi a vicenda e possono invece integrarsi, come dimostra il lavoro di alcuni studiosi tra i quali spicca il nome di Flora. Questi, a seguito di ampie ricerche comparative, giunge a ritenere che i problemi determinati dall'urbanizzazione e dall'industrializzazione trovano una prima risposta in alcune forme di assistenza privata, ecclesiastica o cooperativa, attraverso le quali vengono "filtrati" per convogliare le loro pressioni sugli organi governativi. Parimenti, i processi di mobilitazione dovuti alle crescenti possibilità di comunicazione e alla concentrazione dei lavoratori nelle fabbriche e nelle città, vengono filtrati dai partiti e dai gruppi di interesse e trasformati in pressioni politiche a sostegno delle loro istanze nei confronti dello Stato. La probabilità che queste due forme di pressione si trasformino in precisi interventi governativi dipende dal grado di sviluppo raggiunto dal processo di formazione statale e nazionale che definisce, da un lato, le strutture per la risoluzione dei conflitti all'interno della società e con esse il peso politico relativo alle richieste dei lavoratori, mentre dall'altro, delimita l'azione dei governi, come nel caso del processo costituzionale di centralizzazione dell'autorità decisionale e dell'esecutivo.

A proporre uno schema teorico ugualmente integrato è Gough il quale, sul fronte delle teorie marxiste, considera che lo sviluppo capitalistico conduce alla spoliazione della classe lavoratrice e ne minaccia la riproduzione; tuttavia tali problemi non comportano di necessità interventi di politica sociale. Questi ultimi avranno luogo solo quando la mobilitazione dei lavoratori dimostra di aver raggiunto nelle lotte di classe una forza sufficiente a consentir loro di esercitare efficaci pressioni sullo Stato che sarà tanto più libero di intraprendere iniziative nel campo sociale, quanto più grande è la sua autonomia rispetto alle divisioni interne della classe capitalistica e quanto più libera è l'azione dei suoi organi centrali.

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Dunque, in entrambe le direzioni un ruolo cruciale per la nascita e lo sviluppo del welfare state è riconosciuto all'interconnessione tra politica e mercati, tra società politica ed economia [Wilensky e altri 1985]. Ciò significa che laddove alcuni fattori di tipo socio-culturale vengono evidenziati, essi appaiono non prioritari oppure legati a variabili di tipo politico-partitico.

E' quanto avviene per il confessionalismo religioso cui si riconosce un'importanza cruciale in alcune realtà territoriali ma in relazione ai conflitti e alle competizioni che possono sorgere tra partiti laici e confessionali o tra distinti partiti confessionali. I Paesi Bassi, ad esempio, dimostrerebbero secondo Therborn, un percorso nazionale verso il Welfare di tipo anomalo spiegabile in base ad una sindrome che alcuni hanno chiamato di "confessionalismo assediato: ossia l'adozione di politiche espansivo-assistenziali (in termini di spesa sociale] da parte dei tre partiti confessionali in competizione fra loro e (soprattutto] con i partiti laici in un contesto di crescente secolarizzazione e massificazione socio-culturale dell'elettorato olandese" [Ferrera 1990, 581].

Tuttavia, come lo stesso Ferrera evidenzia manca una solida teoria empirica degli effetti del confessionalismo sul Welfare, non solo perché necessitano esplorazioni approfondite di altri casi oltre a quello olandese ma perché si sente il bisogno di una analisi che ne rilevi gli aspetti socio-culturali oltre che partitici.

D'altro canto nel lavoro di Flora le relazioni Stato-Chiesa, accanto a quelle di classe sociale, assumono una posizione importante nella individuazione dei macro fattori che spiegano la nascita e lo sviluppo del Welfare. I conflitti o il grado di fusione tra il potere religioso e quello statale spiegherebbero, infatti, la capacità o meno dello Stato di far proprie, promuovendo programmi di politica sociale, le funzioni e le strutture educative-assistenziali di tradizionale competenza confessionale. Anche in questa direzione, però, l'elemento religioso viene letto in funzione del grado di statalizzazione del Welfare e quindi come fattore strutturale cui ricollegare i processi di espansione delle politiche sociali.

Una condizione non dissimile si rileva nel caso in cui si riconosce centralità a valori ed orientamenti non necessariamente confessionali in quanto anche essi vengono letti in funzione delle ideologie17 e del potere dei partiti politici di massa. Castles, ad esempio, sostiene che i livelli elevati di impegno assistenziale dei paesi scandinavi vanno associati col predomino dei partiti socialdemocratici le cui strategie, in termini di politica sociale, andrebbero differenziate da quelle dei partiti comunisti [Castles 1978]; Wilensky, dal canto suo, evidenziando la forte associazione tra potere dei partiti cattolici e impegno nella politica sociale ne dà due spiegazioni di fondo: "Innanzi tutto - scrive- i partiti cattolici hanno un richiamo e una base elettorale autenticamente interclassisti. In secondo luogo questa associazione è una manifestazione indiretta del potere della sinistra; cioè riflette un'escalation della spesa in condizioni di intensa competizione elettorale tra cattolici e sinistra [Wilensky e altri 1985, 39].

In questa direzione Paci evidenzia come non sia solo la competizione politica a determinare nei partiti al governo l'adesione a politiche sociali sostenute dall'opposizione, ma un'esigenza di tipo egemonico che si esprime nella capacità di cogliere e mediare esigenze ed orientamenti diffusi nel corpo sociale. Le politiche di Welfare possibili, in altri termini, non sono sempre ed esattamente quelle volute dalle classi dirigenti ma quelle che scaturiscono da un'opera di assimilazione e compromesso tra posizioni divergenti presenti nel contesto sociale. Scrive, infatti, Paci "nel corso dell'Ottocento si delineano e si contrappongono due diversi progetti di integrazione sociale in risposta ai problemi della deprivazione economica delle classi subalterne: quello del movimento operaio e socialista, fondato sul rafforzamento di una sub-cultura di opposizione e quello delle élite di governo, volto ad incanalare il conflitto sociale entro un alveo istituzionale e legale. Entrambi questi progetti confluiranno nella costruzione dei welfare states occidentali, anche se con peso diverso nei diversi contesti nazionali" [Paci 1988, 16]. In Germania, ad esempio, Bismarck dimostrerà grande capacità egemonica nel preservare il ruolo delle società operaie e dei 17 Le idee delle elites in campo sociale ed economico entrano come fattore esplicativo anche nel lavoro di Rimlinger in cui i processi di modernizzazione tendono ad assumere un impatto assai più importante che in altre indagini di tipo comparativo [Rimlinger 1971].

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gruppi professionali intermedi inserendoli entro il sistema previdenziale pubblico, contro la linea ufficiale del movimento operaio tedesco, in Svezia "fu proprio grazie alla capacità di sfruttare le divisioni del fronte moderato e di stringere un'alleanza con i contadini che la socialdemocrazia realizzò la sua ascesa negli anni '30 passando decisamente da una politica di classe ad una politica popolare" che costituirà il presupposto ideologico e culturale al suo sistema di Welfare universalistico[Paci 1988, 20]

Si tratta di valori che vengono assimilati nei sistemi culturali dominanti traendoli dalle ideologie d'opposizione, ma anche da orientamenti diffusi nella società civile in relazione a determinate condizioni storico-culturali. Ricordando Titmuss, Paci rileva come non si possa comprendere il successo del welfare state universalistico inglese e scandinavo senza far riferimento ai grandi sconvolgimenti economici e sociali degli anni '30 e '40 e al segno che essi lasciarono sulla memoria collettiva e sull'atteggiamento di un'intera generazione verso l'intervento sociale dello Stato. . La disoccupazione e la povertà degli anni '30, così come il terrore e la disorganizzazione sociale degli anni della guerra avrebbero, in altri termini, sviluppato sentimenti di altruismo e di solidarietà che sostennero le politiche sociali di quegli anni (Paci 1985). Nel corso degli anni '50 e '60, invece, sarebbero le aspettative crescenti di benessere, differenziate tra le diverse categorie sociali, ad esprimere spinte egoistiche volte a sostenere, in quasi tutti i paesi europei, un intervento dello Stato di tipo particolaristico18. Ciò sarebbe dovuto non solo alla capacità egemonica delle classi moderate al governo, ma alla mancanza di un progetto di riforma del welfare da parte del movimento operaio e socialista, incapace di cogliere e mobilitare sentimenti altruistici pur nel rispetto delle emergenti esigenze di libertà e differenziazione.

E' seguendo, dunque, questa direzione che Massimo Paci giunge a ritenere il welfare state come "una costruzione complessa alla quale contribuiscono fattori di varia natura che attengono sia agli orientamenti ideologici e morali (altruismo, egoismo) diffusi nella società; sia alle forme principali di aggregazione sociale (in particolare: classi e categorie organizzate); sia infine a fattori più propriamente politici (ruolo dei partiti, dei governi ecc. ) [Paci 1988, 11]. Si tratterrebbe, in altri termini, di includere nelle analisi tradizionali di stampo economico-politico una dimensione più sociale, centrata sugli orientamenti, i valori, le identità collettive presenti in vario modo e con diversa intensità nel tessuto sociale, ma capaci di incidere, al pari dei fattori economici e politici, sulle scelte del welfare state.

La centralità che viene riconosciuta ai fattori culturali trova in Titmuss, come si è detto, un precursore ma anche un attento osservatore. Questi, ad esempio, appare ben consapevole dell'importanza dei sentimenti che possono generarsi in determinate circostanze storico-sociali, ma anche di come essi possano risultare manipolati e diretti dalle classi dominanti: "L'ultimo decennio - scrive - ha anche visto una dimostrazione dell'efficacia del mito come forza motivante nelle credenze e nei comportamenti politici britannici. Il principale di questi miti è stato quello del "welfare state per le classi lavoratrici". Questo fatto ha avuto varie conseguenze. Rafforzato dalle ideologie dell'iniziativa e delle opportunità individuali, il mito ha condotto alla convinzione che la maggior parte - per non dire tutti - dei nostri problemi sociali sia stata risolta o lo sarà presto" [Titmuss 1985, 198].

Si tratta di miti entro cui si compongono esigenze e valori diversi e che trovano nella stampa nazionale, ma più in generale nei mass media, un sostegno alla loro diffusione e una forte possibilità di veicolazione nel tessuto sociale. Un fatto questo che spiega come mai, quando si guarda alle ideologie generali e non alle ideologie dei partiti politici, le prime si presentano come

18 Scrive Titmuss a questo proposito in un saggio degli anni sessanta :" L'esperienza degli anni cinquanta non fornisce molte prove del tipo di progresso morale che abbiamo descritto. La crescita economica, l'aumento del tenore di vita e la grande esplosione dell'istruzione scientifica, tecnica e professionale in tutto il mondo occidentale hanno, insieme ad altri fattori, prodotto e rafforzato governi strettamente associati alla diseguaglianza, alla segretezza nell'amministrazione, al privilegio monopolistico e all'intolleranza verso il non conformismo. Ancora più inquietante è il fatto che queste tendenze sono state accompagnate da una disillusione nei riguardi della democrazia che, per dirla con Robert Hutchins, ha ben poco o nulla a che fare con le seduzioni del Cremlino" [Titmuss 1985, 202]

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una "complessa mistura di temi contraddittori, meritocratici e ugualitari, individualistici e collettivistici" che tende ad essere in accordo con la spesa sociale, il sistema fiscale e la proporzione effettiva dell'intervento pubblico in ogni paese [Wilensky ed altri 1985, 27]

Titmuss dimostra, in altri termini, una attenzione, non sempre riscontrabile altrove, per le interpretazioni che vengono date delle politiche sociali, per le impalcature concettuali attraverso cui sono filtrate, per i modi in cui contribuiscono all'egemonia di una classe dominante19. C'è nella sua opera, inoltre, una sensibilità, ugualmente poco presente in altri autori, per la connessione tra le vicende storiche, le identità collettive e le generazioni di individui che ne sono in modo diretto le interpreti e le protagoniste. Una dimensione di analisi che nel prestare attenzione ai fattori strutturali e culturali, è capace di scendere a valutare l'azione degli individui e il loro peso, almeno in termini di generazioni o di coorti20 le quali, nell'impatto con alcune vicende storiche, forgiano la propria visione del mondo, i propri valori e orientamenti etici.

In Titmuss non manca una certa attenzione per le fasi del ciclo di vita familiare e per le trasformazioni che la famiglia, la comunità locale e la stessa condizione femminile hanno conosciuto influenzando, in Gran Bretagna, le modalità della politica sociale. "L'analisi della nuova condizione della donna nella società inglese dal punto di vista delle statistiche demografiche sulle nascite, le morti e i matrimoni - scrive in un brano del 1952 - fa sorgere un gran numero di questioni [. . . ] C'è ad esempio il problema del doppio ruolo delle donne nella società moderna, cioè dell'apparente conflitto tra maternità e attività lavorativa, che ora deve essere considerato in relazione al fatto che l'arco di vita in cui sono maggiori le responsabilità della maternità è oggi più breve e più precoce. Con una speranza di vita di altri trentacinque o quarant'anni all'età di quaranta, nel momento in cui una gran parte della responsabilità e dei doveri nei confronti dei figli sono assolti, con tante più possibilità alternative di consumo, con nuove opportunità e possibilità nel campo del tempo libero, la questione del diritto delle donne ad avere una vita indipendente ed emotivamente appagante appare sotto una nuova luce". Ne deriva che "nel campo delle opportunità di lavoro, così come in molti altri campi, stanno prendendo forma nuovi problemi che interessano la politica sociale, i quali sono conseguenza del cambiamento della condizione della donna nella società, I problemi che furono posti di fronte alle autorità statali dal movimento delle donne di cinquant'anni fa erano in gran parte di natura politica; quelli che nascono dai movimenti delle donne

di oggi sono in gran parte di natura sociale" [Titmuss 1985, 100]21. In questi termini Titmuss sembra evidenziare quello che diverrà, negli approcci femministi

al welfare, sia l'analisi del ruolo giocato dalle associazioni delle donne e dai movimenti femministi nel filtrare ed ottenere politiche sociali a proprio favore, sia lo studio delle condizioni familiari e femminili che giustificano e sostengono alcune scelte di politica sociale.

Sul primo versante le teoriche del femminismo evidenziano sì come il suffragio femminile sia il primo oggetto dell'azione politica delle donne all'inizio del secolo, ma come la posizione 19 Heclo noterà più tardi [Heclo 1974] l'importanza avuta dalle percezioni e dagli orientamenti delle élites amministrative nei processi decisionali che diedero avvio ai sistemi di protezione sociale inglesi e svedesi, rilevendo come questi dipendessero in larga misura dall'ambiente culturale ed istituzionale circostante 20 Il termine "generazioni", utilizzato ad esempio da Mannheim, porta implicitamente con se quello di discendenza tra genitori e figli anche se lo stesso autore tende ad attribuirgli il significato di individui che hanno una collocazione affine entro un sistema sociale. In un importante articolo del 1965, apparso sull'American Sociological Review, Norman Ryder propone di sostituire il termine generazione con quello di coorte, tipicamente usato in demografia. In tal senso egli propone di intendere una coorte come "un aggregato di individui (all'interno di una popolazione definita) che sperimentano lo stesso evento nello stesso intervallo di tempo", ricordando che generalemnte la data di nascita identifica l'evento in questione, anche se questo ä un fatto specifico entro un possibile approccio più generale [Ryder 1965,845]. Si veda per una discussione di queste problematiche l'antologia di scritti "Età e corso della vita" proposta al pubblico italiano da Chiara Saraceno [Saraceno 1986] 21 Cfr. Titmuss 1985,100. Anche le teoriche del femminismo riconoscono a Titmuss, assai più che a Bedverige, una particolare attenzione per la condizione femminile e le sue implicazioni per le politiche sociali, anche se gli viene rimproverata una visione della famiglia di stampo funzionalista e quindi incapace di cogliere le relazioni di potere e le possibilità di conflitto che possono crearsi al suo interno, cosç come il ruolo economico che essa svolge imperniato sul lavoro domestico e di cura [Pascall 1986]

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economica - specialmente all'interno della famiglia - lo sia subito dopo [Pascall 1986]. Una tematica che conduce i movimenti degli anni Venti fino agli anni Quaranta, a chiedere servizi sanitari e aiuti finanziari a supporto della maternità e dell'infanzia, influenzando i provvedimenti a favore delle famiglie voluti, ad esempio in Inghilterra, da Beveridge22.

Si tratta, in primo luogo, di riconoscere ai movimenti delle donne un ruolo non trascurabile nella definizione dei bisogni sociali e nella loro proposizione entro la sfera politica, attribuendo all'associazionismo femminile, e non solo a quello operaio, una qualche funzione nella configurazione delle politiche sociali; ma si tratta, anche, di riconoscere ai movimenti e alle associazioni di donne la capacità di cogliere valori ed orientamenti nuovi emergenti nel tessuto sociale e di comporli in un sistema integrato capace di sostenere nuove forme di identità sociale e nuove "visioni del mondo" per le generazioni che sono andate affacciandosi alla vita adulta negli anni sessanta e Settanta ed ancor prima tra gli anni Venti e Quaranta. [Ergas 1986].

In questa direzione le teorie femministe portano un contributo che va ad integrarsi alle spiegazioni conflittualiste e a quelle che evidenziano i processi egemonici di selezione e definizione delle priorità tra le esigenze e gli orientamenti presenti nella società civile. Un' ottica entro cui si può leggere anche il contributo di Baldwin che, pur partendo da radici teoriche assai diverse, giunge a riconoscere che gli attori che possono proporre e sostenere nell'arena politica le diverse politiche pubbliche sono numerosi e non identificabili soltanto con le élites dominanti o i movimenti operai: in condizioni storiche e territoriali diverse hanno giocato un ruolo non minoritario i movimenti delle donne, i gruppi di interesse dei tecnici e degli amministratori pubblici, le libere professioni, le lobbies industriali ed assicurative, i gruppi organizzati di cittadini-consumatori, le associazioni religiose e non profit, gli anziani, i malati di mente.

Tali soggetti identificherebbero, secondo Baldwin, categorie a rischio che, in una logica attuariale, possono risultare vincenti o perdenti rispetto ai meccanismi di redistribuzione di una politica sociale e per questo motivati a sostenerla o ad avversarla. La posizione sociale di ciascun attore non è fissata una volta per tutte, né rimane costante nei processi di trasformazione del welfare state. Inoltre le categorie di rischio e le classi sociali si intersecano in vario modo. Talvolta le prime coincidono con una intera classe sociale talaltra con più classi o solo con una porzione di esse. Ad esempio se spesso il proletariato si è identificato con l'uno o con l'altro gruppo attuariale dei vincitori o dei perdenti, la classe media ha rappresentato una moltitudine di posizioni di rischio con interessi divergenti, il che spiega il suo comportamento vacillante.

Poiché categorie a rischio e classi sociali sono disgiunte, le coalizioni di interessi che si determinano rendono assai più vario e complesso il rapporto che si crea e che è stato generalmente letto in termini binari e riduttivi di proletariato contro borghesia, di poveri contro ricchi. Per le stesse ragioni, la trasmissione degli interessi sul piano politico, sinistra contro destra, è stata - scrive Baldwin - assai meno netta di quanto spesso si creda. All'interno delle assicurazioni sociali, infatti, la redistribuzione non si propone principalmente tra classi o gruppi di reddito - tra borghesia e classe operaia, tra benestanti e poveri- ma orizzontalmente sopra il ciclo di vita dell'individuo e, ad ogni momento, in cross-section, tra categorie a rischio (da chi è in salute a chi è malato, tra chi è giovane e vecchio, tra chi è occupato e disoccupato] che solo secondariamente e parzialmente si riconoscono in gruppi sociali generalmente intesi.

D'altro canto i bisogni che sottostanno ad una domanda di politica sociale non sono necessariamente correlati con posizioni sociali svantaggiate. Il welfare state, infatti, non salvaguarda in primo luogo e soprattutto gli interessi dei poveri in quanto poveri. Solo alcuni rischi sono associati con la marginalità, la povertà o il lavoro dipendente; inoltre coloro che sono favoriti da un primo livello di redistribuzione economica sono anche toccati da altre situazioni di rischio e sono quindi interessati ai livelli secondari di redistribuzione di una politica sociale: ad esempio i benestanti alle pensioni e all'assicurazione sanitaria che copre le spese sanitarie di una vecchiaia 22 Lo stesso Beveridge, d'altro canto, nel presentare nel 1949 la seconda edizione del volume "Family Allowances" di Eleanor Rathbone afferma di essere stato colpito e immediatemente convertito al problema quando lesse la prima edizione del libro apparsa nel 1924.

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prolungata, la classe media ai livelli elevati dell' educazione pubblica, la borghesia con alti tassi di natalità ai trasferimenti alle famiglie, i contadini ai sussidi agricoli ecc [Baldwin 1990].

Riconoscere e ricostruire le complesse interazioni fra classi sociali e categorie a rischio, in ogni circostanza storica e territoriale, costituisce, dunque, per Baldwin, il compito di una storia dei sistemi di welfare che guardi alle sue basi sociali.

Oltre a valorizzare gli aspetti di carattere conflittuale e culturale, le teoriche del femminismo tematizzano la centralità del lavoro familiare e di cura per il funzionamento dei welfare states evidenziando l'intreccio esistente tra la divisione familiare del lavoro di riproduzione e le modalità di organizzazione del sistema di protezione sociale. Quest'ultimo si sarebbe organizzato per lungo tempo a partire dal riconoscimento di una posizione dipendente delle donne rispetto agli uomini, dall'esistenza di un lavoro femminile non pagato ma socialmente necessario, da capacità riproduttive indiscusse e sempre più controllate da professioni maschili (ginecologi, ostetrici ecc). Le idee sulla famiglia e sul ruolo femminile, al pari della loro organizzazione effettiva, avrebbero, in altri termini, influito profondamente sulle politiche sociali, come appare emblematicamente dal modello di Social Security prospettato da Beveridge il quale, a sua volta, avrebbe giocato a favore di queste stesse idee e di questi stessi modelli proteggendoli e conservandoli [Pascall 1986].

Le politiche di welfare, tuttavia, sono state lette dalle femministe anche come il risultato di nuovi bisogni femminili e di nuove aspettative in termini di organizzazione familiare, quindi capaci di liberare le donne dal lavoro domestico e di cura ed offrire loro un lavoro pagato e professionale, seppure ancora segnato dall'orientamento al servizio: donne infermiere, assistenti sociali, psicologhe, medico inserite nel sistema di protezione sociale.

In questi termini l'approccio femminista al welfare state potrebbe sembrare contraddittorio: mentre da un lato si sottolinea la capacità delle politiche sociali di valorizzare la dipendenza delle donne entro la famiglia, il cui lavoro appare necessario e funzionale al sistema capitalistico-industriale, dall'altro se ne sottolineano i risultati in tema di indipendenza delle donne stesse, cui la politica sociale avrebbe concesso nuove forme di libertà e di cittadinanza. In realtà le due posizioni sono solo apparentemente in contrasto poiché capaci di cogliere, non solo le ambiguità e la diversità dei bisogni che sono alla base di una politica ed i suoi risultati spesso elusivi, ma anche individuare politiche di stampo diverso e momenti storico-sociali differenti. Come scrivono Langan ed Ostner occorre riconoscere che "modelli differenti di welfare nascono da differenti organizzazioni familiari e hanno un diverso impatto sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro e sulla loro mobilità sociale" [Langan e Ostner 1991].

Resta il fatto che le teorie femministe nel loro insieme pongono come centrale il rapporto tra il welfare state da un lato e la famiglia e la riproduzione dall'altro, differendo dalle analisi in cui centrali sarebbero invece il lavoro e la sfera produttiva, oppure la rappresentanza e l'arena politica. In questo senso le modalità di organizzazione della famiglia, al pari della configurazione del ruolo della donna, non appaiono come fattori di sfondo, risultato più o meno diretto dei processi di industrializzazione ed urbanizzazione del XIX secolo, ma la chiave di volta della nuova strutturazione sociale cui il welfare state direttamente si connette. Infatti scrive Pascall "le politiche sociali fungono da ponte tra i mondi della produzione e della riproduzione: esse coprono il vuoto creato quando la produzione capitalistica portò il 'lavoro' al di fuori della 'famiglia'" [Pascall 1986].

E' su questa strada che diventano importanti, anche se non ugualmente centrali, gli altri sistemi di allocazione e distribuzione delle risorse che provvedono alla riproduzione sociale. Ci si riferisce alle organizzazioni di mercato e a quelle comunitarie siano intese, quest'ultime, in termini tradizionali di sistema di parentela e di vicinato o in termini più moderni di volontariato, gruppi di mutuo aiuto ecc [Ascoli 1984,1985,1987]. Tali sistemi nel soddisfare più o meno ampiamente i bisogni di protezione sociale di una popolazione spiegherebbero il carattere delle politiche pubbliche volte a sostenere, integrare o sostituire le modalità realizzate attraverso scambi di mercato o rapporti di reciprocità. E' in quest'ottica, ad esempio, che Ardigò e Donati attirano l'attenzione sul ruolo cruciale svolto dalle famiglie e dalle associazioni di volontariato, che vengono ad assumere un

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ruolo regolativo per certi versi superiore a quello del mercato e dello stato [Ardigò 1981, 1982, 1984; Donati 1982, 1986]

Se, dunque, i sistemi pubblici e privati di protezione sociale interagiscono e si bilanciano vicendevolmente, è alla loro strutturazione complessiva che occorre guardare superando un'analisi limitata alle sole politiche pubbliche. Una proposta teorica, quella di passare dal concetto di welfare state al concetto di sistema di welfare, che ha l'obbiettivo, secondo Paci, di dare "agli input provenienti dalla società civile, non soltanto la natura di condizionamenti esterni cui si rinvia per inquadrare il ruolo cruciale degli attori politici e istituzionali, ma quella di fattori che intervengono direttamente nella spiegazione con pari dignità teorica rispetto ad altri" [Paci 1989, 17].

Paci, in altri termini, riconosce qui un ruolo fondamentale, nella costruzione dei welfare states, non solo ai fattori ideologici e culturali, come aveva sostenuto in precedenza, ma anche a soggetti ed istituzioni della società civile che finiscono per assumere il ruolo di protagonisti, aldilà e al di fuori della valenza politica che riescono ad esprimere. "In questo luogo teorico più ampio - scrive - si affolla evidentemente una maggiore varietà di attori: accanto allo Stato e alle élites politiche e amministrative compaiono non soltanto i partiti e le grandi organizzazioni sindacali, ma anche i corpi professionali, le associazioni volontarie, le compagnie di assicurazione, i movimenti sociali, i gruppi informali di mutuo aiuto, le grandi aggregazioni di classe e i nuovi ceti emergenti, la famiglia nucleare e la parentela e, ultimo, ma non meno importanti, i cittadini-consumatori con le loro preferenze di benessere" [Paci 1989, 18]

Una congerie di attori che non trova una gradazione in termini di maggiore o minore centralità, come sostengono le teoriche del femminismo, ma dei quali occorre valutare il peso e la portata nelle diverse condizioni storiche e territoriali. Il mix di risorse pubbliche e private che, in ogni società e in ogni dato momento storico, si propone per la soddisfazione dei bisogni di benessere può, infatti, secondo Paci, vedere come dominante lo Stato oppure le reti comunitarie e di mercato in un bilanciamento che può rompersi e ricomporsi sotto spinte diverse di ordine politico, economico e socio-culturale che vanno studiate in termini storici e comparativi.

In definitiva, se è vero che il dibattito sui moderni sistemi di protezione sociale appare dominato da paradigmi di matrice economico-politica, a dimostrazione di come su queste tematiche si sia, per lungo tempo, accentrato l'interesse pressoché esclusivo di economisti e politologi, è ugualmente vero che contributi di carattere storico e sociale sono andati proponendosi con una certa intensità, anche se hanno ottenuto un'eco ridotta o sono stati spesso del tutto marginalizzati23. Si tratta di indicazioni teoriche e di risultati empirici che provano l'importanza di fattori culturali e sociali nella spiegazione dei welfare states e che sostengono la necessità di affermare un punto di vista socio-culturale da affiancare ed integrare a quelli più diffusi di matrice economico-strutturale e politico-istituzionale.

3. Le radici socio-culturali del welfare

I suggerimenti che il dibattito sulle politiche sociali propone inducono ad articolare maggiormente non solo gli schemi esplicativi ma anche i modelli che sono stati costruiti per dar conto delle diverse configurazioni che il welfare state è andato assumendo in contesti storici e territoriali diversi.

Come è noto il primo a proporre una classificazione dei modelli di welfare è stato lo stesso Titmuss che con il fine esplicito di cercare "qualche forma di ordine nel disordine e nella confusione dei fatti, dei sistemi e delle scelte relative ad alcune aree della vita economica e sociale propone, in via indicativa, tre modelli di social policy individuati come: modello residuale, modello di rendimento industriale, modello istituzionale redistributivo [Titmuss 1974].

Il primo modello - scrive Titmuss - è basato sulla premessa culturale e morale che ci siano due canali "naturali" (o socialmente dati) attraverso i quali i bisogni degli individui possono essere

23 E' il caso delle teorie sul welfare di matrice femminista

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soddisfatti in modo appropriato: il mercato privato e la famiglia. Solo quando questi due canali vengono meno entrano in gioco le istituzioni di welfare e comunque in via temporanea. Si tratta, a parere di Titmuss, di un modello che trova le sue basi teoriche e di legittimazione nell'organicismo-meccanicismo-biologismo di scienziati sociali quali Spencer e Radcliffe-Brown e di economisti come Friedman24.

Il secondo modello attribuisce un ruolo significativo alle istituzioni di welfare come supporto al sistema economico. Esso poggia - scrive Titmuss -sull'idea che i bisogni sociali possano essere soddisfatti in modo differenziato sulla base del merito, dei risultati lavorativi e della produttività. Trarrebbe, quindi, origine dalle teorie economiche e psicologiche relative agli incentivi e alle ricompense nonché alla formazione delle classi e dei gruppi di loyalties.

Il terzo modello vede il welfare come la maggior istituzione integrativa della società, capace di offrire servizi al di fuori del mercato e sulla base dei bisogni reali. Esso scaturirebbe, in parte, dalle teorie relative agli effetti multipli del mutamento sociale ed economico e, in parte, dalle teorie relative all'equità sociale.

Titmuss, dunque, fa riferimento esplicito non solo ai sistemi teorici e di valore cui ciascun modello si riconnette, ma anche alle funzioni che ognuno di essi assolverebbe nel contesto sociale. Non si tratta soltanto di individuare modalità descrittive connesse al chi usufruisce delle politiche sociali e al quanto se ne usufruisce, criteri utilizzati in seguito per la classificazione dei welfare states25, ma di interpretare il carattere che ogni politica di protezione sociale assume rispetto a quelli che sono individuati quali altri sistemi di integrazione e di regolazione sociale. Questo aspetto, che individuerebbe secondo Ferrera un lato funzionalista di Titmuss progressivamente sfrondato dal dibattito successivo, ci sembra, invece, capace di cogliere elementi esplicativi che mancano altrove e di essere in grado di dare alla tripartizione del sociologo inglese il carattere di una costruzione ideal-tipica che altre classificazioni non hanno.

Tra i modelli di welfare proposti in tempi più recenti quelli di Esping-Andersen condividono con la classificazione di Titmuss il principio secondo cui ciascuno regime di welfare incide in modo differenziato sulla dimensione della de-mercificazione, cioè sulla capacità di sottrarre il cittadino/lavoratore dalla dipendenza del mercato. Nei modelli di welfare liberali, infatti, tale dimensione sarebbe molto ridotta, nei sistemi conservatori-corporativi essa sarebbe maggiore ma influenzata dalle diseguaglianze di reddito e di occupazione, nei regimi socialdemocratici tenderebbe al massimo poiché l'obbiettivo è quello di rispondere ai bisogni neutralizzando la dipendenza dal mercato. Esping Andersen riconosce che a ciascun modello corrispondono principi e valori profondamente diversi i quali, nel primo, esaltano l'individualismo di mercato, nel secondo la segmentazione meritocratica e nel terzo la solidarietà universalistica.

Questa classificazione, pur dimostrandosi più complessa di altre e per certi versi riassuntiva, sembra a Paci troppo sbilanciata sul piano dei rapporti di potere poiché attribuisce un'importanza esclusiva al ruolo delle classi dominanti dimenticando che esse "riescono a svolgere tale ruolo solo affermando una loro egemonia nella società, in termini di capacità di direzione e mediazione rispetto alle varie forze sociali coinvolte e di recepimento (almeno parziale) di esigenze e orientamenti diffusi" [Paci 1988, 15].

Una critica che si ritrova riflessa in Ferrera il quale rimprovera ad Esping Andersen di utilizzare un concetto (de-mercificazione] "carico di valore", in quanto imperniato su un giudizio sfavorevole nei confronti del mercato ed ancorato ad una prospettiva di spiegazione "classista-laburista". "Il criterio della de-mercificazione - scrive Ferrera- contiene oltre alla già illustrata predisposizione valutativa anche una predisposizione esplicativa, implicitamente suggerendo che il welfare state è il frutto della lotta di classe: i tre regimi vengono anzi definiti proprio in termini di rapporti di forza tra borghesia e movimento operaio, seppure attraverso il filtro delle tradizioni soci-culturali (ad esempio la cultura cristiano-corporativa-statalista del secondo regime. " [Ferrera 1993, 24 Si noti come Titmuss riconosca qui alla famiglia, e di conseguenza al ruolo femminile al suo interno, una funzione centrale nel rispondere ai bisogni sociali, alla pari delle agenzie private e di mercato. 25 Si veda lo schema riassuntivo proposto di recente da Ferrera [Ferrera 1983,66],

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74-75]. Con un approccio femminista, d'altro canto, si rimprovera ad Esping Andersen di

introdurre nel suo schema le donne in via accidentale e di riconoscere loro un ruolo marginale nella caratterizzazione dei welfare states. L'assenza delle donne - scrivono Langan e Ostner - appare chiaramente nel modo in cui egli affronta il problema della de-mercificazione nei differenti regimi senza tenere in alcun conto le differenze di genere. Egli sembra dimenticare che gruppi sociali differenti e differenti categorie di genere hanno un diverso rapporto con il processo di de-mercificazione e mercificazione. In alcune circostanze, come in Svezia, ad esempio, i diritti sociali possono de-mercificare gli uomini ma mercificare le donne, mentre queste ultime, dovunque, possono entrare in un processo o nell'altro a seconda di come sono poste entro l'organizzazione domestica e familiare.

Langan e Ostner notano, infatti, come il welfare scandinavo proponga un modello di integrazione sociale attraverso il mercato del lavoro il quale risulta aperto sia agli uomini che alle donne, seppure con forme differenti. Esso si presenterebbe come un allargamento dell'economia femminile dei servizi in cui sono le donne con lavoro pagato ad offrire servizi alle donne che altrimenti sarebbero incapaci di lasciare la famiglia per andare al lavoro. La dipendenza femminile in questo caso si esprimerebbe nei riguardi dello Stato anziché della famiglia e sarebbe mediata da una relativa indipendenza economica.

Nel modello di welfare bismarckiano, al contrario, si tenderebbe a riprodurre sia le tradizionali forme di divisione sociale del lavoro (tra colletti bianchi e colletti blu, tra occupati con lavoro continuativo ed occupati con lavoro discontinuo, tra ricchi e poveri) sia le tradizionali forme di divisione del lavoro tra uomini e donne. Il welfare state, infatti, enfatizzerebbe (attraverso una bassa tassazione e trasferimenti in denaro) la famiglia come soggetto principale di erogazione di servizi proponendo una modalità di compensazione ed istituzionalizzazione di una cittadinanza sociale ristretta, basata sulla piena occupazione maschile.

Il modello anglo-sassone, dal suo canto, si baserebbe su un concetto di eguaglianza e di libertà fittizio poiché centrato sul mercato e quindi incapace di cogliere le differenze che agli uomini e alle donne derivano dalla famiglia e dal lavoro domestico. Qui, la famiglia e la donna dipendono, di fatto, dal cittadino maschio e assai meno dall'intervento pubblico.

Nel modello di welfare latino, infine, ci si troverebbe di fronte - secondo Langan e Ostner - ad una forma rudimentale caratterizzata da un'ampia partecipazione femminile al mercato del lavoro informale e al tempo stesso da un forte coinvolgimento della famiglia nella produzione dei servizi per il benessere. Da questo punto di vista non gli individui ma la famiglia e le imprese sono i soggetti cui si indirizzano principalmente le politiche di welfare.

Questa ultima dimensione di analisi che si spinge a considerare i diversi sistemi di protezione sociale e l'influenza che il loro mix esprime sulla posizione di tutti i cittadini e non solo dei cittadini-maschi, trova, in realtà, un riflesso limitato sulle classificazioni più recenti come dimostra la tipologia proposta da Ferrera [Ferrera 1993] che sembra privilegiare, ancora una volta, una dimensione di analisi politico-processuale, nonostante lo sforzo di adottare uno schema esplicativo multicausale.

Nel distinguere i sistemi di welfare in base alla copertura assistenziale, all'inclusione, cioè, universalistica od occupazionale, Ferrera tende ad individuare le trasformazioni che si sono susseguite nel tempo e le scelte di continuità o meno nei modelli inizialmente adottati. Ai welfare states occupazionali puri apparterrebbero, infatti, quei paesi (Francia, Belgio, Germania e Austria) i quali hanno esordito con schemi riservati solo ad alcune categorie di lavoratori dipendenti e hanno poi continuato a seguire la strada delle piccole inclusioni occupazionali così che la rete di protezione assicurativa si è progressivamente estesa ad una quota sempre più ampia della popolazione, ma la solidarietà pubblica è rimasta frammentata secondo demarcazioni occupazionali, originando una moltitudine di comunità di rischio distinte. I welfare states occupazionali misti riguardano - secondo Ferrera - quei paesi (Svizzera, Italia, Olanda, Irlanda) in cui il modello di protezione sociale dominante è di tipo occupazionale ma sono presenti altri schemi a copertura

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nazionale imperniati sul principio di cittadinanza. E il caso dell'Italia in cui il sistema sanitario ha avuto originariamente un'impostazione occupazionale ma ha poi assunto un carattere universalistico con l'istituzione del Servizio sanitario nazionale. I welfare states universalistici misti apparterrebbero, invece, a paesi quali la Gran Bretagna, il Canada e la Nuova Zelanda, che hanno esordito con schemi assicurativi di carattere nazionale che sono stati trasformati, dopo la seconda guerra mondiale, in schemi di sicurezza sociale ad ampia copertura, sui quali, però, si innestano schemi occupazionali finanziati tramite contributi. I welfare states universalistici puri, infine, sarebbero da attribuire quasi esclusivamente ai paesi scandinavi i quali hanno riconfermato, dopo le ristrutturazioni post-belliche, la direzione universalistica già adottata in precedenza.

Lo schema di Ferrera ha l'indubbio pregio di offrire una lettura dinamica dei modelli di welfare e il merito ulteriore di tener conto delle ipotesi che sono state avanzate nell'ampio dibattito degli ultimi anni così da porsi come una sintesi efficace dei diversi paradigmi di analisi. Tuttavia, le spiegazioni di tipo contestualistico ed istituzionale che egli utilizza risultano relativamente deboli o poco sviluppate rispetto all'approccio politico-processuale che l'autore evidentemente privilegia. Ferrera si chiede, infatti, quali dinamiche abbiano plasmato i diversi modelli di solidarietà sociale nel tempo e nei diversi contesti territoriali: "Quale molla - scrive - ha fatto scattare quella catena di azioni e reazioni il cui esito finale è stata la scelta fra la via occupazionale e quella universalistica? La nostra risposta è: una specifica crisi di politica pubblica, originatasi dalla pressione di nuovi problemi sulle vecchie soluzioni, ossia le politiche già in vigore. Tale crisi ha fatto emergere specifiche esigenze di riadattamento istituzionale e ha sollecitato una vasta gamma di attori socio-economici e politici a interrogarsi sulle varie possibilità di riforma. La mobilitazione di questi attori ha avuto luogo più o meno contemporaneamente in tre ambiti distinti e relativamente autonomi: l'ambiente economico-sociale, ove si sono confrontati essenzialmente i diversi interessi occupazionali secondo logiche tipiche di convenienza redistributiva; l'ambiente di politica pubblica, ove si sono confrontati essenzialmente i diversi orientamenti culturali e le diverse strutture organizzative secondo logiche tipiche di appropriatezza istituzionale; e infine l'arena della competizione politica, ove si sono confrontati i diversi blocchi di potere rilevanti secondo logiche tipiche di massimizzazione del sostegno. Da questo triplice (e interconnesso] confronto è scaturito uno schieramento politico vincente, espressione di una specifica coalizione categoriale e portatore di un preciso progetto istituzionale" [Ferrera 1993, 109].

In questo schema, complesso ed articolato, appare limitante un orientamento che individui solo nella struttura occupazionale [come Flora 1986], nei rapporti di classe [come Korpi 1991 o Esping-Andersen 1990], o nell'interazione fra categorie a rischio [come Baldwin 1990], il contesto entro cui porre e spiegare le radici ultime o almeno più importanti dei diversi contenuti della politica sociale, ivi incluso il modello di copertura [Ferrera 1983]. Rimanendo, infatti, entro un livello di analisi "contestualista" occorre evidenziare come centrali tutte le forme di protezione e riproduzione sociale esistenti in una determinata società ad un dato momento storico, nonché i soggetti che vi svolgono la loro attività, con o senza una retribuzione o un riconoscimento formale. Ciò significa che assumono rilievo, nello spiegare le cause e i modi di essere del welfare, la struttura e l'organizzazione familiare, le forme e i sistemi comunitari e di mercato ad esse correlati, le donne, i volontari, i tecnici, i professionisti e quanti altri vi prestano in modo prioritario la propria attività. In altri termini, la divisione sociale del lavoro fra i sessi e la divisione dei compiti di riproduzione tra le differenti agenzie sociali (comunitarie e di mercato, pubbliche e private ecc. ), nonché gli stessi rapporti tra sistema di produzione e di riproduzione nel loro complesso costituiscono fattori esplicativi forti come indicato, in primo luogo, dalle teorie di matrice femminista.

Anche all'interno di quello che Ferrera chiama un orientamento di analisi "istituzionalista" o per meglio dire culturalista, sembra necessario includere fattori e modalità che ampliano una spiegazione imperniata essenzialmente sugli "effetti combinati della cultura progettuale e delle tecnologie costruttive predominanti nelle varie fasi dell'edificazione del welfare", derivanti - come scrive Ferrera- "dalle idee e dalle preferenze dei loro decisori (intesi in senso stretto come quei

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politici-burocrati immediatamente responsabili della formazione e dell'attuazione delle politiche pubbliche), dalle vigenti regole decisionali, nonché dalle tradizionali modalità di intervento in campo sociale ereditate dal passato"[Ferrera 1993, 104-105]. Come Titmus e con lui Paci evidenziano, non possono essere trascurati i valori e i principi che si formano nel tessuto sociale a seguito di condizioni storiche determinate, né le forme di identità che le generazioni o le diverse coorti costruiscono in concomitanza di eventi particolari o a seguito di trasformazioni più lente e meno percettibili. Gli orientamenti e i valori diffusi nel corpo sociale giocano un ruolo presumibilmente non minoritario nella configurazione delle politiche sociali sia che i sistemi culturali dominanti se ne facciano o meno carico.

Gli antagonismi, infine, che configurano spiegazioni di carattere politico-processuale nella nascita e nello sviluppo delle politiche di welfare possono prendere origine da segmentazioni e da meccanismi di competizione cui non sono esenti differenze di genere, di ciclo di vita, di generazioni accanto a quelle più conosciute e valorizzate di tipo confessionale, territoriale, etnico e politico-partitico.

Lo schema multicasuale proposto da Ferrera andrebbe, di conseguenza, arricchito comprendendovi in termini più esplitici ed analitici quelle sfere che l'autore elenca ma poi non valorizza e che sono propriamente riferite all'ambiente sociale da un lato alle logiche culturali d'altro. Nell'arena della competizione politica andrebbero, invece, schierati molti più soggetti e molte più associazioni di interessi di quanto Ferrera non ne preveda considerando la possibilità che ad ogni coalizione categoriale di tipi produttivo ma anche riproduttivo si associno schieramenti politici differenziati e nient'affatto dualistici come ricorda Baldwin.

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FIG.1 Sequenza riformista. Uno schema multicausale ampliato

Nuovi problemi Vecchie soluzioni

Crisi di politica pubblica

Mobilitazione degli attori

Ambiente di istituzionale

Coalizioni categoriali

Ambiente di riproduzione materiale

Attivazione di categorie a rischio

Arena competizione socioculturale Arena competizione politica-istituzionale

Schieramenti politici

Riforma sociale

Ambiente di produzione materiale

Progetti istituzionali

Ambiente di riproduzione culturale

Schieramenti culturali e religiosi

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4. Alla sanità una attenzione particolare Quando dagli studi sui sistemi di welfare si passa a considerare gli studi specifici sulle

politiche sanitarie ci si accorge che questi sono di un tipo notevolmente diverso: la maggior parte ha carattere descrittivo, l'elaborazione della teoria è allo stato embrionale e così la ricerca comparata [Wilensky ed altri 1985].

Le spiegazioni possibili per un simile stato di cose sarebbero da ricondurre, secondo Wilensky, a due ordini di fattori: la complessità del settore che spesso ha sconsigliato o reso impossibili analisi comparative e di ampio respiro, il predomino che hanno avuto in questo campo sia le finalità operative sia i modelli economici convenzionali.

Un elemento da non trascurare, tuttavia, sembra essere dato dalla peculiarità delle politiche sanitarie e dal loro differenziarsi dalle altre politiche di welfare, un fatto che potrebbe giustificare le difficoltà di applicazione dei modelli economici classici (come l'autore statunitense suggerisce), ma anche di larga parte degli schemi esplicativi del welfare. Si tratta di una specificità che attiene al piano sociale ancorchè economico e che è relativa ai soggetti che ne sono coinvolti e ai significati sociali che la malattia e la salute generalmente assumono.

La vita e la morte occupano in ogni società una posizione cruciale che porta al costituirsi di relazioni sociali e di significati comunemente accettati: "Ogni società condensa nei suoi miti e nelle enunciazioni del sapere specializzato le difese costruite contro l'enigma angoscioso della vita e della morte. La medicina allo stesso tempo esprime questo mistero e lo esorcizza" [Polack 1972]. La descrizione del male, oltre l'informazione, materializza il fantasma di un trasferimento della morte alla sfera del linguaggio e della organizzazione sociale26.

Ne consegue che il bisogno di protezione sanitaria assume un valore molto più ampio e profondo dei bisogni di sicurezza in caso di infortuni, vecchiaia o disoccupazione tipici di altre forme di protezione sociale, né assimilabile ai bisogni di istruzione, formazione, sicurezza del lavoro e della casa ugualmente compresi entro le modalità di intervento del welfare state. Si tratta di un bisogno assai più radicato e più forte, più appartenente all'individuo in quanto tale anche se, poi, la posizione che ognuno occupa all'interno della struttura sociale finisce per incidere sulla individuazione del bisogno e sulle modalità della sua risoluzione come nel grado e nelle forme in cui si manifesta27.

Questa essenza antropologica della malattia e della morte spiegherebbe, da un lato, l'estensione teoricamente illimitata del bisogno di salute in termini sia di soggetti che la richiedono sia di intensità/quantità delle richieste espresse, dall'altro il potere che viene riconosciuto alla 26 E' per questo che la malattia e la medicina funzionano da "significanti sociali" da elementi cioè che conducono a comprendere l'ambiente sociale più ampio e il suo strutturarsi e caratterizzarsi. Scrivono, ad esempio, Augé ed Herzlich nella prefazione al volume "Il senso del male" :"Si dà il caso che un certo numero di etnologi, che non avevano come oggetto primo della loro ricerca la malattia o la medicina, abbiano constatato di non poter osservare e comprendere la vita sociale, politica o religiosa della società che studiavano senza prendere in considerazione il loro sistema nosologico così come questi si esprime nell'elaborazione diagnostica o nella prescrizione terapeutica, nelle istituzioni che le mettono in opera e nei differenti agenti di questa messa in opera. Senza prendere, cioè, in considerazione la dimensione sociale della malattia così come questa si mostra non solamente nell'apparato istituzionale e nel funzionamento rituale della società, ma anche nei modelli intellettuali di interpretzione del reale di cui questo apparato e questo funzionamento rappresentano allo stesso tempo il supporto e una delle espressioni" [Augé ed Herzlich 1986] 27 Nella Grecia dell'epoca classica, ad esempio, la medicina si differenzia nei contenuti e nella pratica secondo l'origine sociale del paziente "Gli schiavi non possono essere curati dagli asclepiadei preparati a Coo, Cnido, Cirene o in Sicilia, ma si affidano per lo più a dei praticoni, un tempo schiavi di medici. Il rapporto verbale viene quasi annullato, dando spazio a una terapia intuitiva e stereotipata, centrata sulla ricerca della norma, del modello naturale della phisis. Al contrario Platone descrive la medicina degli uomini liberi e ricchi come un sistema complesso che comprende contemporaneamente metodi pedagogici (educazione del paziente e di chi lo circonda), la suggestione psicagogica (un bel discorso deve ottenere la fiducia del malato per garantire l'efficacia del trattamento) e soprattutto l'individualizzazione biografica del trattamento. Tutto questo richiede tempo e pazienza, comodità, ricchezze e molti agi e da parte del medico un atteggiamento che precostituisce la medicina d'attesa. Il terzo gruppo formato da uomini liberi e poveri non puï sentirsi appagato dall'osservazione scrupolosa della malattia ma esige una terapia risolutiva che lo restituisca alla polis o lo esili senza scampo nel regno dell'Ade" [Polack 1972,9]

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scienza medica, ai suoi agenti, alle sue istituzioni che risulterebbe ben diverso da quello che comunemente si riconosce ad altre aree del sapere.

La domanda di assistenza sanitaria riguarda teoricamente tutta la popolazione ed avrebbe subìto un forte impulso sotto la spinta delle capacità curative e manipolative del corpo umano acquisite a partire dalle grandi scoperte scientifiche di fine settecento e primo Ottocento: "mezzo secolo di storia - scrive Foucault - che delinea una incancellabile soglia cronologica: il momento in cui il male, la contronatura, la morte, in breve tutto il fondo nero della malattia, vengono alla luce; tutto ciò si rischiara e si sopprime ad un tempo come la notte, nello spazio profondo, visibile e solido del corpo umano" [Foucault 1963, 221]. Da questo momento "la medicina offre all'uomo moderno il volto ostinato e rassicurante della sua finitudine; in essa la morte è detta e ridetta, ma al tempo stesso scongiurata: e se essa annuncia senza posa all'uomo il limite che questi porta con sé, gli parla anche del mondo tecnico che è la forma armata, positiva e piena della sua finitudine"[Foucault 1963, 224].

Pensiero medico e tecnologie curative, in altri termini, avrebbero fortemente influito, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, sulla configurazione e sulle modalità della domanda di salute e di servizi sanitari traendo dalle politiche sociali stimoli alla loro espansione e rendendole, al tempo stesso, amplificatori delle loro esigenze. Se, infatti, da un lato, come ricorda Foucault, "perché l'esperienza clinica fosse possibile come forma di conoscenza è occorsa tutta una riorganizzazione del campo ospedaliero, una nuova definizione dello statuto del malato nella società e l'instaurarsi di un certo rapporto tra l'assistenza e l'esperienza", dall'altro la medicina, nell'aspetto di medicina positiva, ha plasmato, nel nostro secolo, più di qualsiasi altra disciplina l'essere sociale al punto che la salute sembra aver sostituito la salvezza nella struttura antropologica contemporanea intervenendo, con ciò, ampiamente sul bisogno di salute e nella definizione delle politiche sanitarie.

Nel corso dell'Ottocento e del Novecento la collusione tra la scienza medica e la cultura europea avrebbe condotto, infatti, ad una immagine unanime e forte della medicina tecnico-scientifica imperniata sulla vittoria contro la morte. "Per quanto diversi, contraddittori e persino conflittuali possano apparire - scrive Bensaid - gli interessi che si manifestano nel campo della salute essi rinviano tutti a un'identica definizione della medicina, dei suoi poteri e dei suoi doveri. Per tutti la medicina, quest'insieme di conoscenze, di strumenti e di istituzioni che debbono guarire e prevenire le malattie, risparmiare le sofferenze e respingere la morte, è la medicina tecnico-scientifica. Al suo cospetto, la salute non può essere alterata e la vita non può venir meno se non per l'azione di aggressioni esterne o, a rigore, di fattori genetici. Abolendo queste cause essa dovrebbe poter abolire la malattia e, al limite, la morte" [Bensaid 1988, 38]28.

Se ciò implica, da un lato, uno strapotere della scienza medica poiché per raggiungere i suoi scopi essa necessita del massimo consenso e della massima unanimità29, dall'altro conduce ad

28 Da questo punto di vista le società contemporanee sembrano rifiutare l'idea di una morte naturale alla pari di alcune società primitive secondo cui "la gran parte della gente resta vittima della stregoneria prima di poter raggiungere la loro meta e la stregoneria non appartiene all'ordine naturale delle cose" [Douglas 1975,256] 29 La medicina moderna alla pari della religione così parla agli uomini secondo Bensaid : Io sono la tua legge, ti faccio uscire dalla malattia e dalla sofferenza. Tu non avrai altra legge all'infuori di me. Tu crederai in me poichè io sono una verità gelosa che punisce la colpa, ma che fa grazia a coloro che mi amano seguendo i miei comandamenti. Tu onorerai doppiamente i tuoi medici colmandoli di onori e di onorari affinchè i tuoi giorni siano prolungati e tu goda buona salute su questa terra. Tu non consunerai bevande fermentate. Tu non fumerai tabacco nè alcuna erba, nè consumerai alcun prodotto che la legge proibisce. Tu non mangerai grassi animali in eccesso ma quelli delle piante, dei semi e dei frutti. Tu non abuserai degli zuccheri offerti dalla natura e dall'industria del tuo simile. Ogni giorno avrai cura del tuo corpo, lo laverai, lo peserai e lo eserciterai. Tu dormirai come è convenuto, lavorerai o non lavorerari, ti riposerai e ti distrarrai come ti sarà insegnato. Tu prenderai soltanto droghe prescritte e lo farai con obbedienza, rispetto e puntualità. Tu non ti farai visitare invano nè rifiuterai di farti visitare quando sarà il giorno. Tu non convolerai a nozze senza avviso e concepirai soltanto su ordine ed autorizzazione dei tuoi medici.Tu fornicherai soltanto secondo il ritmo della tua età e della tua condizione e solo con quelle che acconsetiranno, ma con esse non concepirai nè figli nè figlie di cui non conoscerai i geni. E soprattutto quando tuo figlio ti chiederà:"Cosa sono queste istruzioni, queste leggi e questi consumi che la medicina ci ha prescritto?, tu gli risponderai "Noi vivevamo nella malattia, nella sofferenza e nella paura della morte, e la medicina ce ne ha condotto fuori con la sua mano potente.. e la medicina ci ha ordinato di mettere in pratica

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una attenzione verso la salute imperniata sulla responsabilità dei soggetti, sulle loro ansie, sulla fruizione insaziabile dei servizi medici e delle cure, sui timori per i doveri ed i vincoli cui sottoporsi quotidianamente.

Non si tratta, tuttavia, soltanto di plasmare i bisogni di salute della popolazione e di dilatarli a dismisura, ma di proporre una soluzione che sia in sintonia con i modelli culturali ed economico-sociali dominanti. L'ideologia della medicina - scrive ad esempio Avarro - è complementare all'ideologia del capitalismo ed assume due forme correlate: la prima è la concezione meccanicistica in cui si suppone che la malattia sia dovuta ad una disfunzione delle componenti la macchina uomo, l'altra che deriva dalla prima, consiste nell'idea che la causa di una malattia sia innanzitutto individuale e perciò la risposta terapeutica orientata individualmente. "In un'epoca in cui la maggior parte delle malattie erano dovute all'ambiente sociale a causa delle condizioni determinate dal capitalismo nascente, un'ideologia secondo cui la colpa della malattia risiede nell'individuo e centrata sulla risposta terapeutica individuale, chiaramente consentiva di liberare l'ambiente economico e politico dalla responsabilità delle malattie e incanalava la reazione e la ribellione potenzialmente contro l'ambiente ad un livello individuale e perciò meno minaccioso" [Navarro 1988, 214].

In realtà il pensiero medico-sanitario, nel corso dell'Ottocento e del Novecento, assume angolazioni specifiche e non dovunque omologabili al modello indicato da Navarro, muovendosi gli interessi dei medici, dei gruppi di potere, delle classi dominanti su ambiti diversificati e talvolta divergenti. Non sempre, ad esempio, il pensiero medico si piega alle ideologie dominanti, talvolta sostiene culture di opposizione che vengono recepite e mediate, né la medicina tecnica ed individualistica ha avuto, ovunque e sempre la stessa intensità e configurazione. D'altro canto è proprio nell'alternativa di riconoscere alla salute il carattere di un bene pubblico o individuale che si pone lo spartiacque tra politiche sanitarie in senso universalistico o meritocratico-selettivo.

D'altro canto nel considerare il bisogno di salute, come è venuto strutturandosi nel corso del Novecento, non si possono non considerare anche i mutamenti sociali e culturali intervenuti a modificare il ruolo e le aspettative dei cittadini-pazienti, prime fra tutti le donne. Come scrive Shorter, infatti, la grande novità che modifica, agli inizi del Novecento, "il profilo del paziente moderno è l'ingresso nel gabinetto medico della donna giovane che richiede la cura per sé e per i propri figli. Questi pazienti di tipo nuovo diventano anzi così numerosi da farsi l'asse portante della moderna pratica medica". "Sarebbe difficile - scrive ancora Shorter - sostenere che fosse stata la scienza medica in quanto tale a dare il via, giacché il fenomeno era già in corso prima che si verificassero i primi grandi mutamenti nella professione. Bisogna pensare invece che ormai un'ondata di sentimenti familiari nuovi, una emozionalizzazione dei rapporti umani, avesse ammorbidito la stoicità nei confronti della sofferenza. Per esempio la tolleranza della donna per i disturbi femminili, un tempo considerati la maledizione di Eva, comincia a scemare a mano a mano che il dolore e la debilitazione vengono avvertite come ostacoli alla realizzazione sul piano romantico e sentimentale. E, con l'arretramento della mortalità infantile e quindi con il sempre maggior attaccamento dei genitori per i figli si abbassa la soglia di tolleranza degli adulti verso le sofferenze fisiche e le pene dei bambini" [Shorter 1985, 85].

Fattori culturali, dunque, che si intrecciano con le trasformazioni strutturali della famiglia, del sistema di parentela e del regime demografico che si incrociano con la nuova definizione sociale che del ruolo femminile ed infantile viene data in Europa tra XIX e XX secolo, contribuendo a modificare quella fisionomia dei pazienti che tanto doveva incontrarsi che le esigenze della classe medica in ascesa.

D'altro canto, il ruolo giocato dalle donne nell'ambito sanitario come pazienti-utenti, oltre che come operatrici e professioniste, non va limitato all'epoca di avvio delle politiche di welfare ma segue da vicino il loro sviluppo. Benché misconosciute le posizioni e le scelte femminili influenzano ampiamente la domanda di servizi sanitari risultando le donne i soggetti che tutte queste leggi al fine di temere la morte nostra nemica, di essere sempre in buona salute e di vivere.Essa ha fatto perire senza indugio coloro che la odiano e li punirà fino alla più lontana generazione" [Bensaid 1988,171-172].

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maggiormente ne usufruiscono per sé e per i propri familiari o che se ne fanno carico in termini di attività integrative o compensative. Né il loro rapporto con le politiche sociali può considerarsi univoco risultando il loro ruolo capace di influenzarle ma di esserne a sua volta influenzato secondo una spirale complessa, di difficile individuazione.

Le politiche sanitarie, dunque, presentano la peculiarità di coinvolgere più direttamente e da vicino quelle fasce e quei gruppi di età e di genere (donne ma anche bambini ed anziani) che risultano spesso escluse dalle politiche di welfare e che ne godono in termini "vicari, per interposta persona, ma in ogni caso in condizione di dipendenza economica e sociale" [Sgritta 1993].

A differenza, inoltre, del settore pensionistico e in certa misura dell'istruzione - scrive Wilensky - il settore sanitario è forse quello a più alta intensità di lavoro tra tutti i programmi previdenziali il che implica un potere attribuito e riconosciuto ai gruppi di interesse specifici come la categoria dei medici, le case farmaceutiche e l'industria delle assicurazioni che è forse maggiore di quello della loro controparte in altre aree della politica sociale. Questi gruppi non solo si propongono come agenti culturali forti in grado di forgiare e veicolare i principi e i valori sui quali fondare la propria forza e la propria espansione, ma anche come soggetti attivi ed organizzati sull'arena politica, capaci di far valere il loro peso e la loro influenza sulle decisione di politica sociale. Ne deriva che i medici e le organizzazioni sanitarie sono in grado di controllare ed incrementare la domanda di servizi sanitari che non solo si presenta estremamente ampia, ma teoricamente insaziabile "poiché se esiste, o si può porre un limite alla conoscenza, all'istruzione, non si può immaginare di porre barriere alla salute e alle speranze di vita" [Wilensky e altri, 1985] così come sono venute proponendosi ed hanno assunto valore nel XX secolo30.

I medici, d'altro canto, hanno trovato la possibilità di dirigere e governare le attività femminili di cura rendendo le donne utenti dei servizi sanitari da loro offerti, si sono posti come interpreti e depositari della nuova scienza medica adattando o piegando ad essa le aree tipiche del sapere femminile (si veda l'ostetricia], ed hanno anche posto sotto il proprio controllo le attività sanitarie formalmente svolte dalle donne (infermiere, assistenti sanitarie ecc. ] così che nonostante una forte connotazione di genere, sia nella domanda sia nell'offerta di cure, la professione medica è riuscita a convogliare e guidare il settore influendo ampiamente sulle scelte di politica sanitaria. Per far ciò i medici hanno talvolta stretto una alleanza con le donne, come evidenzia Shorter per il primo Novecento, talaltra si sono posti in contrapposizione con esse, come nell'Italia degli anni Settanta, talaltra ancora hanno dimostrato semplice disinteresse e predominio, trovando, però, nei valori della società occidentale ampie giustificazioni e legittimazioni al loro operato e al consolidamento del loro potere e prestigio.

Ciò non significa che il movimento operaio e i partiti della sinistra non abbiano giocato un ruolo importante nella domanda di politiche sanitarie ma che hanno trovato oppositori o alleati nei ceti medi e tra gli operatori coinvolti in misura certamente superiore di quanto sia avvenuto rispetto ad altri ambiti della protezione sociale.

Le politiche sanitarie, dunque, presentano la particolarità di riguardare tutta la popolazione in quanto tale e non fasce particolarmente a rischio, di dimostrarsi più sentite tra i ceti medio alti che tra i gruppi più marginali e poveri, di vedere coinvolte le donne, i bambini e gli anziani più che gli uomini adulti ma, al tempo stesso, di convogliare interessi economici ed occupazionali crescenti risultando un settore ad alta intensità di lavoro, con gruppi professionali capaci di governare sia la domanda sia l'offerta di cure, grazie anche al carattere simbolico e sacrale che la medicina ha assunto nei processi di razionalizzazione e disincanto del XIX e del XX secolo in Europa.

Per l'insieme di questi motivi ci sembra che le politiche sanitarie necessitino, al pari e forse più di altre politiche sociali, di una attenzione particolare per quelle dimensioni socio-culturali che abbiamo visto influire sull'origine e sulla configurazione dei sistemi di welfare. Più che altrove,

30 Si tratta di un aspetto che dilata, dal punto di vista economico, non solo i soggetti che usufruiscono dei servizi sanitari ma il costo di questi stessi poichè - rileva Wilensky - "a differenze del campo dell'istruzione, nell'assistenza sanitaria l'indice di innovazione tecnologica cresce con grande rapidità. Quando vengono scoperti nuovi e costosi metodi di cura, essi diventano quasi subito la procedura standard " [Wilensky e altri 1989,69]

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forse, il ruolo giocato dalle scienze dominanti, dagli orientamenti e dai valori diffusi tra la popolazione, dagli interessi dei gruppi di potere, ma anche dalle fasce di popolazione a rischio, possono contribuire a spiegare le scelte di politica sociale che sono state adottate e le loro trasformazioni nel tempo.

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II. SOCIETA' E SALUTE DA CRISPI AL FASCISMO 1. Le politiche neo-assistenziali del secondo Ottocento

Del pessimo livello di vita degli italiani negli anni che vanno dall'Unità alla seconda guerra mondiale sono indice i tassi di mortalità che, già molto elevati a metà del secolo rispetto ai paesi del Nord Europa, rimangono pressoché invariati fino agli anni Ottanta quando iniziano la loro graduale discesa. Occorrerà, però, aspettare i primi anni del Novecento perché il livello della mortalità giunga in Italia a differenze contenute rispetto a paesi quali la Francia e la Germania, dal momento che anche allora resterà molto alto lo scarto con i tassi registrati in Inghilterra e nel Galles oppure in Svezia.

Se, tuttavia, l'Italia inizia il suo percorso di transizione demografica con un declino della mortalità di poco posteriore a quello di molti altri paesi europei [Chesnais 1992], ciò che si verifica a partire dalla metà dell'Ottocento è un crescente distacco tra le diverse aree territoriali del paese. Un divario "sintomo di profondi squilibri economici, sociali e culturali, ma anche di una ineguale dotazione di strutture civili [. . . ] che sarà colmato solo dopo la seconda guerra mondiale", quando il Sud potrà cogliere i vantaggi della modernizzazione evitandone nello stesso tempo le patologie da civiltà urbano-industriale [Sori 1984, 562]. Ciò significa che, non solo per più di venti anni dopo l'Unità le condizioni di mortalità degli italiani rimangono in termini quantitativi immutate, ma che per quasi cento anni di storia nazionale più di un terzo della popolazione continua a morire in età precoce a causa di lavori insalubri e di miserevoli modalità di vita quotidiana.

Sul versante della mortalità infantile, d'altro canto, l'Italia mantiene per tutto l'arco di tempo considerato differenze notevoli e per certi versi crescenti con i paesi europei Nord-occidentali, con la sola eccezione della Germania, dove i tassi di mortalità, già molto alti a metà del secolo, finiscono per eguagliarsi a quelli italiani nei primi anni Venti per poi decrescere assai più rapidamente. La nati-mortalità, inoltre, strettamente collegata alle condizioni di salute delle partorienti, sembrerebbe in aumento durante tutto l'Ottocento con differenze sensibili rispetto alla legittimità o meno della prole; anche in tal caso, dopo l'unificazione, il Mezzogiorno consolida una notevole sovramortalità infantile che rende il dato medio nazionale ancor più grave [Sori 1984].

Significativo per comprendere le cause di morte dei ceti urbani e rurali è il trend delle malattie epidemiche, sia di quelle trasmesse dai pidocchi (tifo petecchiale) e dalle zanzare (malaria), sia di quelle che si propagano attraverso l'aria (vaiolo e tubercolosi), gli alimenti e l'acqua (colera, dissenteria, tifo). Mentre nella maggior parte dei paesi occidentali l'incidenza di tali malattia diminuisce sensibilmente a metà dell'Ottocento, in Italia essa si protrae ben oltre, giungendo, per alcuni morbi, alle soglie degli anni Quaranta (tubercolosi ma anche il tifo e la malaria) [Sorcinelli 1984].

Poiché si tratta di epidemie sociali, manifestazioni patologiche per le quali risalta immediatamente lo stretto rapporto con le condizioni materiali di vita, il loro protrarsi indica come nel nostro paese sia carente per tutta la seconda metà dell'Ottocento un intervento pubblico capace, non tanto di fornire un'assistenza sanitaria adeguata, in realtà non ancora efficace, quanto di introdurre nuovi concetti agronomici, offrire maggiori disponibilità alimentari, costruire acquedotti e fognature, rendere i cittadini accorti sulle più elementari norme igieniche31. 31 Un miglioramento socio-economico che, secondo la nota tesi di Mc Keown, avrebbe dovuto contribuire al prolungamento dell'età media assai più dei modesti progressi della medicina [Mc Keown 1976]. Oltre i molti contributi di Mc Keown e dei suoi colleghi [Mc Kinlay e Mc Kinlay 1977], studi più recenti da parte delle scienze mediche e

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In tal senso le politiche di welfare che avrebbero potuto influire sul livello di salute della popolazione, nei primi decenni dopo l'Unità, non sono sanitarie in senso stretto, bensì agrarie, industriali, urbanistiche e del lavoro, purché finalizzate al miglioramento delle condizioni di vita dei ceti medi e popolari. Queste politiche non ci sono state o sono state emanate con grandi esitazioni, sia dalla Destra, sia dalla Sinistra storica, che nei fatti rappresentano una classe politica più attenta a soddisfare gli interessi ristretti dei gruppi dominanti che a facilitare la formazione di un ampio tessuto economico e sociale su cui poggiare la crescita del paese. Il governo Depretis è, in tal senso, l'espressione di una politica per nulla innovativa come molti nel paese si aspettavano, ma attenta a rispettare gli interessi delle oligarchie finanziarie del Nord e dei proprietari terrieri del Sud, il cui connubio costituisce un blocco di potere contro cui si scontrano, da allora, tutti i progetti di riforma sociale del paese [Sereni 1966, Vivarelli 1981].

Ciò non significa che il protezionismo non abbia influenza sullo sviluppo delle politiche di welfare, tanto è vero che le riforme crispine possono essere emanate proprio a seguito del sistema politico che si crea negli anni Ottanta e come conseguenza della rottura ideologica che l'intervento economico dello Stato porta nei principi del liberalismo puro: se allo Stato si riconosce il diritto di regolare la materia economica, ugualmente gli si può riconoscere la legittimità di intervenire nell'ambito socio-assistenziale. Tuttavia le modalità di un simile intervento debbono risultare accette ad un blocco dominante32 che presenta i caratteri del massimo conservatorismo, essendo state sconfitte le frange più moderate ed illuminate della borghesia professionale, che avrebbero voluto portare l'Italia su una strada di politiche sociali più prossima a quella tedesca o inglese33.

In tal senso l'epoca crispina segna il punto di arrivo di una prassi che, da un lato, continua a rispondere ai principi del laissez faire, seppure con modalità meno rigide e ristrette, e dall'altro a quelli della trasformazione "indolore" delle tradizionali forme di assistenza ereditate dal passato. Se sembra plausibile affermare che con Crispi si giunge al completamento, sul piano socio-istituzionale, del processo di unificazione nazionale, va rilevato che questo avviene nel segno di un progetto neo-assistenziale i cui cardini sono dati dal rinnovato sistema delle Opere pie, dal controllato tessuto delle società di mutuo soccorso, dal riorganizzato substrato delle condotte medico-ostetriche e dei presidi territoriali d'igiene. Ben lungi dal prospettare un sistema di politiche sociali che riconosca allo Stato il diritto-dovere di farsi carico dei bisogni della popolazione, i governi liberali giungono con Crispi a codificare un modello di welfare residuale, secondo cui i canali naturali o socialmente dati per garantire la sopravvivenza dei cittadini sono la famiglia e tutte quelle forme di solidarietà sociale che scaturiscono o dal paternalismo venato di religiosità delle classi dominanti o dalle organizzazioni territoriali e del lavoro. Solidarietà nuove e tradizionali, dunque, che si suppone di poter controllare direttamente o indirettamente così da garantire l'integrazione delle classi medie e popolari con il minimo impegno dello Stato, il cui compito si limita alla definizione di alcuni obbiettivi da raggiungere e al corretto uso delle risorse economiche. In pari tempo si ritiene di poter ampliare e razionalizzare le modalità di assistenza ai poveri, tradizionalmente gestite dalle singole municipalità, che vengono ora obbligate ad adottare il servizio e ad espletarlo secondo regole comuni. Un compito questo che va ad affiancarsi a quello della tutela

biologiche hanno confermato l'associazione tra le carenze alimentari e l'insorgere di malattie infettive nei bambini [Murray e Chen 1993] 32 Un blocco dominante al quale non sono estranei il vaticano e l'aristocrazia romana soprattutto attraverso gli interessi della Banca generale e del Banco di Roma. 33 Si noti che il protezionismo viene introdotta da Bismarck in Germania e quindi imposto all'Europa da un paese che ha già fatto le sue scelte nazionaliste e militariste. Di converso il liberalismo è collegato all'esperienza inglese e al carattere democratico ed industriale di quello Stato. Nei due sistemi, come ricorda Vivarelli, diverso è il ruolo giocato dalle tradizionali strutture agrarie. Mentre in Inghilterra, infatti, al decadere della società rurale si accompagna l'ascesa di ceti medi promotori di un riformismo radicale, in Germania il permanere di strutture sociali tradizionali si accompagna al prevalere tra i ceti medi di sentimenti legati ad un sistema di valori arcaici e quindi di carattere conservatore. Ciò rafforzerebbe lo Stato autoritario e la non integrazione del movimento operaio. In entrambi i casi, pur su strade diverse e con motivazioni differenti, si procede verso un sistema di politiche sociali che appare, invece, assai minoritario in Italia dove il modello tedesco prevale fino alla fine del secolo [Vivarelli 1981]

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igienica del territorio e delle città, per la quale si istituiscono nuove figure professionali (l'ufficiale sanitario) e nuovi organi di controllo.

In questo modello di "welfare neo-assistenziale" la famiglia e la parentela appaiono ancora troppo poco modificate rispetto al passato per essere oggetto di particolare attenzione, anche se ad esse si riconosce la funzione prioritaria di produrre e di crescere uomini per la stabilità e lo sviluppo della nazione. Le donne e i sistemi familiari costituiscono, cioè, quello zoccolo duro della protezione socio-sanitaria che non sembra dimostrare ancora elementi di cedimento o di trasformazione tali da richiedere politiche adeguate di correzione o di sostegno.

Né l'associazionismo femminile, che va formandosi in questi anni, presenta caratteri che mettono in discussione, seppure entro una ristretta cerchia di donne, il ruolo e le funzioni familiari. Anzi, tutta la pubblicistica di questo periodo tende ad "una continua rassicurazione dell'opinione pubblica e delle altre donne circa la valorizzazione del ruolo femminile e la disponibilità ad assumersi dei doveri prima ancora di rivendicare diritti, in una società però (e questo è il punto) che riconoscesse alla donna dignità di essere umano" [Buttafuoco 1988]. D'altro canto, come ben evidenzia Buttafuoco, le generazioni di donne che nella seconda metà dell'Ottocento si trovano a ripensare se stesse e il rapporto con la società, non hanno che un modello femminile forte dal punto di vista simbolico: quello della donna madre. Il tentativo di molte emancipazioniste, dunque, è quello di affermare la dignità di tale ruolo e il valore sociale della maternità, chiamando in causa direttamente lo Stato. Una posizione difficile, poiché troppo in sintonia con la cultura dominante e al tempo stesso non comprensibile per la gran parte delle donne che non vi intravede un progetto chiaro e facilmente praticabile nella vita quotidiana. Tuttavia l'attenzione che in tal modo si porta sulla diade madre-figlio e su un "nucleo generatore della società, indipendentemente dalla presenza dell'uomo" [Buttafuoco 1988, 47] risulta funzionale agli interessi della classe medica che proprio nei bambini e nelle donne comincia a intravedere i suoi primi e più diretti referenti.

Il fatto che la forbice tra le riforme sociali e la crescita del capitalismo rimanga aperta in Italia per lunghi decenni e che solo raramente si chiuda, ha condotto alcuni studiosi ad affermare che la "asocialità" del capitalismo italiano fa parte della sua storia. Il riformismo borghese, che in altre aree industrializzate costituisce un puntello democratico del sistema, in Italia rimane "a lungo all'esterno del movimento reale determinando una situazione talmente paradossale - scrive Lucio Villari - che il fascismo poté presentarsi come interprete di esigenze riformatrici della società italiana e della sua organizzazione economica" [Villari 1992, 6].

Quali le cause? Quali i fattori predisponenti? A che cosa si può imputare la scarsa sensibilità sociale dei ceti agrari e tanto più della borghesia imprenditoriale italiana?. Già Morandi, nella sua "Storia della grande industria", attira l'attenzione sulle differenze che dividono gli industriali italiani da quelli inglesi. Mentre questi ultimi appaiono costantemente assillati dal tentativo di ridurre la parte manuale nel processo di lavorazione, così da ottenere un'immediata convenienza dalla introduzione di nuove macchine, in Italia tale preoccupazione non si verifica pressoché mai a causa della grande disponibilità di manodopera e della possibilità di retribuirla con salari minimi.

Riguardo al primo punto basti ricordare come i tassi di fecondità diminuiscano assai tardi rispetto ai tassi di mortalità, il che porterebbe ad una crescita costante della popolazione se questa non venisse regolata dai flussi migratori e da interventi sanitari assai limitati. Ciò nonostante la popolazione presente in Italia raddoppia tra il 1861 e il 193134, mentre nello stesso arco di tempo subiscono lievi incrementi i tassi della popolazione attiva. Ciò significa che, a fronte di una domanda di lavoro formale abbastanza contenuta, cresce un'offerta palese o latente rappresentata, in primo luogo, dall'enorme sacca di sottoccupazione agricola e di altri settori tradizionali (artigiani, bottegai, manovalanza generica ecc. ), in secondo luogo dalle masse di disoccupati create dalle frequenti crisi economiche e, infine, dalle donne che ristagnano nella sibillina condizione socio-professionale di "popolazione inattiva" o che vengono espulse dal mercato del lavoro a partire dal

34 Da 21.777.000 unità del 1861 si passa a 41.177.000 unità nel 1931

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primo Novecento. . Né va dimenticata quella massa di popolazione parassitaria che, secondo Gramsci, è il risultato della storia italiana (piccola e media borghesia agraria o ceti nobili in decadenza) che continua ad alimentare una domanda di lavoro precario e anomalo come ben si rileva nelle grandi città del Mezzogiorno o in quelle medie del Centro-nord [Gramsci 1975].

D'altro canto l'industriale italiano, abituato a disporre in ogni luogo di mano d'opera abbondante, finisce per considerarla una condizione naturale, così come il diritto di pagarla al minimo e di sfruttarla al massimo secondo una mentalità autoritaria e paternalistica che, a parere dello stesso Morandi, rileva "una certa angustia di mente" degli imprenditori di fine secolo e un "certo loro inintelligente e impolitico agire nella tutela dei propri interessi" [Morandi 1959, 128]. Un atteggiamento che ci sembra trarre origine dalla cultura neo-assistenzialistica di fine Ottocento che viene riversata in ambito industriale a sostegno di un rapporto di dominio e al tempo stesso di riconoscenza che, a parere del senatore industriale laniero Rossi, avrebbe dovuto contrassegnare tutta la vita di fabbrica. Né meraviglia che sia proprio Rossi a teorizzare una integrazione culturale ed economica tra il modo di produzione industriale e il vecchio sistema agricolo35, affidando alle famiglie non solo il compito di mantenere vivi i valori tradizionali di fedeltà e di sottomissione, ma anche l'obbiettivo di far fronte ai bisogni dei propri membri con una economia di sussistenza che si affianca al salario industriale in un rapporto di necessario complemento [Castronovo 1981].

Ciò che viene prospettato nei nuovi sistemi di fabbrica è prassi comune nelle piccole e medie aziende nelle quali si vanno trasformando le antiche manifatture aziendali, sparse sul territorio, che possono ancora far conto sui processi di riproduzione della forza lavoro garantiti dalla famiglia contadina. Un rapporto, quello tra l'agricoltura e l'industria, che genera circoli viziosi di lunghissima durata poiché la precarietà dell'attività in un ambito sosterrà a lungo la temporaneità e la marginalità del lavoro nell'altro.

E' pur vero, che nell'ambito agricolo i primi esempi di un cattolicesimo d'azione sono dati dai proprietari terrieri, che nelle regioni centro-settentrionali si impegnano per creare sodalizi mutualistici, istituti di credito e di previdenza finalizzati a ricostruire quella "pacifica convivenza fra padroni e lavoratori, fondata sull'esercizio delle virtù cristiane e rinsaldata dall'esistenza di rapporti personali fra i diversi gradi della gerarchia sociale" [Ferrari 1986, 952]; un compito che essi sentono indissolubilmente connesso con la propria posizione sociale e che trova un primo importante riferimento teorico nell'Unione di studi sociali di Toniolo36.

Il movimento cattolico svolge, in questi anni, una funzione egemonica per nulla trascurabile, sia sotto il profilo delle istituzioni mutualistiche e cooperative che traducono in pratica il suo paternalismo caritativo37, sia dal punto di vista "della direzione ideologica, poggiante su

35L'opificio di Alessandro Rossi a Schio è una delle prime testimonianze di grande fabbrica concepita in termini nuovi (opificio verticale), com ampia utilizzazione di macchinari progrediti e un uso sempre più standardizzato del lavoro operaio maschile, nonostante il massiccio impiego di forza lavoro femminile e minorile. Oltre a ciò si deve a Rossi la diffusione, accanto al sistema di fabbrica, di un ampio tessuto di istituzione sociali alle quali spetta il compito di garantire l'idonea riproduzione del lavoro operaio: associazioni di mutuo soccorso, case, asili, forme di compartecipazione agli utili. Ciò che colpisce é che le esigenze della nuova produzione vengono legate a relazioni sociali di tipo precapitalistico così che esse sono continuamente ricondotte all'organizzazione sociale della campagna che, in virtù della sua arretratezza "costituiva la base solida ed indispensabile della produzione industriale" [Berta 1978,1084]. La campagna assicura un flusso continuo di manodopera non qualificata ma ancora, al tempo stesso, i nuclei operai più avanzati alle forme di vita e agli orientamenti di valore del mondo rurale 36 La posizione di Alessandro Rossi appare non associabile direttamente al movimento cattolico ufficiale nonostante fosse molto legato all'ambiente clericale vicentino 37E' da notare che al paternalismo industriale corrisponde negli anni Ottanta lo sviluppo della Opera dei Congressi (fondata nel 1874), la cui rete di assistenza ai poveri fa perno sulle congregazioni mariane nelle città e sui comitati parrocchiali, diocesani e regionali nelle campagne. L'Italia che l'Opera sostiene è quella rurale delle solide virtù familiari e cristiane contro quella corrotta della città e dell'industria [Woolf 1978]. Alcune indagini di matrice cattolica svolte alla fine del secolo rilevano, infatti, le condizioni di promiscuità dei sessi e di libertinaggio negli opifici, l'immoralità dei capi e i loro abusi nei riguardi delle operaie, la perdita di amore per la famiglia e per i lavori domestici, nonché la smania di divertimento e di lusso da parte delle donne lavoratrici, cui corriponde l'alcolismo degli uomini [Merli 1972].

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concezioni ruralistiche e sottoconsumistiche organicamente funzionali al modello arretrato della industrializzazione italiana" [Rossi 1972, 263]. L'esaltazione della fatica e della laboriosità, della parsimonia e del contenimento dei consumi individuali, con l'asserzione di una democrazia fondata sul godimento della piccola proprietà personale e familiare, sono fattori che fanno da substrato alla via italiana all'industrializzazione. D'altro canto lo stesso Alessandro Rossi è convinto della necessità di un recupero, in un contesto moderno, del principio religioso, così come della presenza delle forze cattoliche nell'arena politica, a sostegno del blocco conservatore industriale-agrario38.

In questo quadro la nascente industria non trova necessario un intervento pubblico a garanzia della quantità e della qualità della forza lavoro, poiché suppone che alla sua riproduzione siano sufficienti i sistemi tradizionali di autotutela, magari migliorati od organizzati dalla stessa parte padronale, che si assume il diritto-dovere di esercitare un "controllo assoluto" sui propri dipendenti. Il liberalismo rivendicato dagli industriali coincide, così, con la libertà totale entro la fabbrica e con una concezione dello Stato originale "nel suo miscuglio di feudalesimo e di illuminismo" [Merli 1972, 362]. Una libertà e un ordine che assumono una accezione non dissimile da quella sostenuta dai governanti italiani, per i quali il grado di libertà da concedere ai cittadini è assai modesto e massima invece la rivendicazione dell'ordine.

Va notato che la politica economica che si impone con la svolta del 1887 e che vede partecipi in termini propositivi gli industriali tessili, assume come suo presupposto programmatico il drastico contenimento dei consumi, il che propone una persistente condizione di arretratezza e miseria della popolazione italiana. Le politiche sanitarie emanate da Crispi assumono, in tal senso, il carattere di una concessione sociale scaturita dal nuovo clima politico-culturale, ma resa necessaria dai sacrifici che si continua a chiedere, con il protezionismo, ai ceti meno abbienti.

Non meraviglia che in tale contesto possa perpetuarsi quel "genocidio pacifico" [Merli 1974] che il capitalismo ai suoi albori viene perpetuando ai danni della forza lavoro. Essa è usata e gettata senza alcuno scrupolo, nel presupposto, più volte citato in parlamento, che essa comunque sperimenti una valorizzazione materiale e sociale, viste le ancor più debilitanti condizioni lavorative e di vita, al di fuori della fabbrica39. Spesso, comunque, le modalità di sfruttamento della manodopera e le conseguenti istituzioni paternalistiche appaiono spoglie d'ogni giustificazione morale e presentate, come nel caso del cotoniere Cantoni, nella loro perfetta funzionalità al profitto. Alcune di esse, scrive Romano, permettono un reddito immediato, altre hanno un'utilità meno evidente ma non per questo meno importante in termini di rendimento della forza lavoro, di attaccamento all'azienda, di compressione delle spinte rivendicative. "La spesa per le opere a favore degli operai diventava semplicemente una parte del capitale complessivo impiegato e come questo veniva amministrato ed inserito regolarmente nei bilanci" [Romano 1975, 488]. D'altro canto queste istituzioni, rivolgendosi a manodopera femminile e giovanile, assumono sovente i tratti di una coercizione effettuata in nome della integrità fisica e morale delle giovanette che, costrette a lunghi orari di lavoro, si trovano, poi, nella necessità di sottostare ad un insegnamento scolastico impartito dalle otto alle dieci di sera e quando non c'è scuola "a lunghi e noiosi lavori donneschi; il tutto inframmezzato da frequenti e obbligatorie pratiche religiose" [Romano 1975, 487; Romano 1979].

Nel complesso dunque, numerosi fattori culturali, politici ed economici si coniugano assieme, nella seconda metà dell'Ottocento, per scongiurare un intervento pubblico finalizzato ad affrontare i bisogni di una popolazione che versa in evidenti e sempre più note condizioni di malattia e di miseria. Se ciò spiega il lento progredire di ogni iniziativa volta ad affrontare quella

38 L'industriale e senatore di Schio è tra i sostenitori della creazione di società cooperative di credito a base etico-religiosa il cui fine è quello di raccogliere il risparmio popolare e contadino incanalando verso il settore industriale. 39 Eugenio Cantoni, ad esempio, nel ritenere lesivo dell'indipendenza degli industriali e dell'inviolabilità di domicilio il fatto che gli ispettori entrassero in fabbrica, elabora una personale pedagogia dell'età evolutiva secondo cui, a partire dai dodici anni, il fanciullo è ormai formato e capace di svolgere un lavoro regolare senza alcun danno per la sua salute [Romano 1975). Lo stesso Romano ricorda come nell'inchiesta sanitaria sulle fabbriche, condotta dal Ministero degli interni nel 1872 e 1874, un numero considerevole di medici condotti escluda una qualche connessione tra l'ambiente di lavoro e le malattie degli operai

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che già allora viene identificata come la "questione sociale", occorre considerare come e perché si giunge all'emanazione del codice sanitario e della legge sulle Opere pie, due provvedimenti non marginali, né valutabili soltanto come il frutto maturo e già bacato delle mediazioni politico-sociali dei decenni precedenti. In entrambe le normative, infatti, si delinea un disegno di welfare che, sebbene residuale, si pone il problema di un intervento pubblico regolativo e di una responsabilità diretta dello Stato nell'ambito della pubblica igiene e dell'assistenza ai poveri.

Per comprendere tale politica non va negato, in primo luogo, il ruolo giocato da alcuni ceti in via di mobilitazione tra i quali i medici. Questi, sostenuti da una concezione etico-scientifica vincente, quella igienista, riescono a far convergere i propri interessi professionali con quelli di altri ceti sociali in ascesa (maestri, farmacisti, ingegneri), nonché con gruppi limitati, ma non per questo meno attivi, provenienti dall' associazionismo femminile borghese. La spinta culturale che questo insieme eterogeneo di interessi professionali e categoriali riesce ad esercitare nel Paese trova nel decisionismo crispino un efficace strumento di realizzazione politica e nelle alte gerarchie militari un alleato per nulla trascurabile. In tal senso va ricordato che i medici militari giungono a prospettare un modello di intervento socio-sanitario che, seppur segnato da tratti evidenti di conservatorismo economico ed istituzionale, finisce per accettare come necessari ed improcrastinabili alcuni servizi di assistenza agli individui e alle famiglie, nonché una opera di educazione igienico-sanitaria rivolta essenzialmente alle donne-madri.

L'influenza dell'utopia igienista non si spiegherebbe, tuttavia, se non fosse connessa alle conquiste della medicina nel campo della patologia e della batteriologia e se non venisse collegata con quel vasto movimento di idee che emerge negli ultimi trent'anni del secolo e al quale concorrono "politici e intellettuali di varia natura, sia della Destra che della Sinistra, sia idealisti che sensisti, laici e cattolici" [Lentini 1980-81]. Ciò che distingue questo vasto movimento d'opinione è una attenzione di tipo nuovo verso le aree e le forme di vita non integrate nel processo di sviluppo nazionale, una attenzione che, poggiando sulla ricerca statistica ed empirica, tende a progettare una ipotesi innovativa di governo del paese.

Come teoria analitica della società, il positivismo trovò cultori sia in campo filosofico sia in discipline specifiche, quali la statistica, l'economia politica, il diritto penale, la sociologia e in misura non trascurabile la medicina sociale, l'antropologia fisica e la stessa clinica medica. In altri termini, la salute al pari dell'istruzione, dell'eguaglianza giuridica, del suffragio, entra in una ideologia "progressista nazional-popolare" che tenta di imporre al paese una via nuova, seppure dai contorni politici opachi, cui possono contribuire soggetti di provenienza ed orientamento diverso. Il positivismo italiano tende, infatti, secondo Lentini, ad enfatizzare il ruolo della natura e dell'ambiente in coerenza con una concezione antropo-biologistica, incapace di rappresentare la libertà d'azione dei soggetti. Proprio per questo l'igiene dei luoghi di vita e di lavoro costituisce una chiara esemplificazione di un intervento risanatore tutto centrato sulla modifica "dall'esterno", e quindi per mano pubblica, dei fattori generatori di patologia.

A sostegno di tale coagulo di idee e di soggetti si pongono, da un lato, gli strumenti che la nuova organizzazione statuale è in grado di fornire, a cominciare dalla Direzione di Statistica [Pazzagli 1980; Marucco 1996] e, dall'altro, le inchieste parlamentari che si intensificano col passaggio del governo dalla Destra alla Sinistra storica e che costituiscono il "primo vero approccio concreto, a livello empirico, alla realtà sociale italiana" [Fabiano 1980-81]40. E' interessante ricordare che, pur costituendo l'inchiesta industriale e quella agraria uno sforzo conoscitivo nuovo delle condizione produttive del paese, dal quale sarebbero dovute emergere le linee di un radicale mutamento, proprio in opposizione al carattere troppo economicistico dell'inchiesta Jacini, Agostino Bertani, vice presidente della Commissione parlamentare, da avvio alla sua indagine sulle

40 In realta, come ricorda Frascani, gli sforzi della classe dirigente per accertare le effettive condizioni igieniche e sanitarie del paese, dall'unità agli anni ottanta, "si traducono in un gracile inventario di interventi disordinati e poco aderenti ai tempi e ai contenuti della politica sanitaria" [Frascani 1980 , 942). Di questi alcuni, quali le indagini svolte dal Ministero dell'Interno nel 1872 e 1874 sopra le condizioni degli operai nelle fabbriche, sono quasi del tutto sconosciuti [Romano 1979]

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condizioni sanitarie dei lavoratori della terra. Una esperienza di ricerca e di formazione politico-sociale che coinvolge direttamente i medici condotti che da Bertani, medico lui stesso, non solo sono invitati a compiere un esame analitico del nesso tra condizioni lavorative e salute, ma spinti a fare proposte concrete per risolvere il problema della miseria e della malattia. In questa prospettiva, se l'indagine di Bertani non ha un riflesso diretto nel dibattito parlamentare per l'approvazione del codice sanitario, risulta avere un'influenza determinante nella formazione di frange di sanitari che svolgeranno un ruolo di primo piano sia nelle rivendicazioni di carattere igienico sia in quelle relative alla cura ed assistenza della popolazione più povera. I rimedi proposti dai medici condotti sono, infatti, di tre tipi: il primo riguarda la organizzazione sanitaria e propone un piano generale di assistenza medica gratuita a tutti i componenti delle classi meno abbienti; il secondo rivendica la necessità dell'istruzione obbligatoria fino a dodici anni e la frequenza di corsi professionali; il terzo riguarda il lavoro e in specie la riduzione degli orari e la regolazione del lavoro minorile e femminile. Tre aree di intervento che verranno sostenute dai medici nei decenni seguenti fino alla prima guerra mondiale e che costituiranno il terreno di un loro protagonismo sociale che si riproporrà, seppure per frange limitate e in modo assai più occulto, anche nel dopoguerra e nel ventennio fascista.

L'influenza delle inchieste parlamentari, così come delle nuove élites modernizzanti riunite attorno al positivismo, è dunque importante ma non decisiva poiché molti continuano a considerare le indagini come una fondamentale perdita di tempo, attribuendo alla questione sociale un ruolo marginale da affrontare solo in caso di evidente necessità. In questa logica non meraviglia che l'approvazione del codice sanitario si debba, in ultima analisi, alla tensione emotiva creatasi a seguito della ondata di colera che si registra negli anni Ottanta e che colpisce alcune aree del Mezzogiorno e del Nord del paese. In tal senso l'approvazione della legge avviene secondo una prassi di urgenza e di inevitabilità che si riproporrà spesso nella storia delle politiche sanitarie italiane.

Se il positivismo e l'impegno sociale di alcune élites modernizzanti hanno, nella formazione delle politiche socio-sanitarie d'epoca crispina, un peso relativo, ma non trascurabile, , questo va considerato in rapporto al ruolo che giocano i ceti medio-borghesi entro i sistemi di rappresentanza politica degli ultimi due decenni del secolo. La riforma elettorale del 1882, in quanto frutto di un compromesso tra chi vuole mantenere il vecchio sistema e chi punta invece al suffragio universale, porta al governo una classe media di commercianti, industriali e soprattutto professionisti che, a causa della sua eterogeneità e debolezza organizzativa, instaura un "nuovo tipo di notabilitato" fondato sulla competenza nelle leggi e nei piccoli affari. Una classe politica che esprime, secondo Farneti, una rappresentanza debole, incerta, soggetta ad una continua ridefinizione, di cui i migliori esponenti sono gli avvocati che, dalla Sinistra in poi, domineranno nel parlamento e nel governo [Farneti 1995] I medici, invece, per l'ancor debole rapporto che stabiliscono con i clienti e per la limitata portata professionale del loro ruolo, tendono a proporsi come fattore di mediazione scientifica e conoscitiva, ma non ancora come soggetti di mediazione politico-sociale.

Tuttavia Bertani, che della classe medica è uno degli esponenti più lucidi ed impegnati sul piano delle riforme istituzionali, a conclusione della sua indagine sui lavoratori della terra giunge a legittimare l'intervento pubblico in campo sanitario sia a nome del diritto all'integrità fisiologica, considerato preliminare all'esercizio di ogni altro diritto, sia in virtù del carattere scientifico con cui si può stabilire la soddisfazione di detto diritto. Poiché la sfera della libertà incomincia subito dopo quella dell'esistenza fisiologica e siccome la malattia è una delle cause che ledono l'integrità fisiologica dei lavoratori, "essa diventa l'oggetto quasi esclusivo di quell'azione dello Stato che si può invocare a favore delle classi più numerose e, l'igiene pubblica, sotto questo aspetto, rimane la sola e più sicura norma dei provvedimenti sociali" [Panizza 1890]. Una rivendicazione che non ha alcun riflesso nelle scelte del parlamento italiano nelle quali prevalgono considerazioni economiche connesse al "costo-opportunità" dell'assistenza al netto cioè dell'indebolimento delle forze produttive e della perdita secca di reddito nazionale a causa delle sospensione del lavoro per

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malattia. Un interesse di pura contabilità economica, quindi, che lo stesso Bertani vede prevalere al posto di quello "studio profondo dell'economia nazionale " che egli auspica e che avrebbe condotto a definire "le cause di debolezza che l'affliggono e le condizioni che ha in se stessa per risorgere a vita nuova" [Panizza 1890, 298].

Ciò nonostante la realizzazione del nuovo sistema di igiene e sanità pubblica permette allo Stato italiano di integrare i nuovi attori emersi dai processi di mobilitazione socio-culturale connessi al positivismo, riducendone la conflittualità e lo spirito critico. I medici condotti, in primo luogo, ma anche gli ingegneri sanitari e i farmacisti, trovano per la prima volta nella loro storia professionale una collocazione occupazionale garantita entro il sistema pubblico di tutela dell'ambiente e di assistenza ai poveri. Si tratta di un fatto per nulla trascurabile; se si considera che negli ultimi quindici anni del secolo va definendosi una vera e propria questione "del proletariato dotto" legata all'aumento preoccupante della disoccupazione intellettuale [Barbagli 1974, Detti 1979] e ai timori che si possa produrre una radicalizzazione politica dei ceti in essa coinvolti. Con il nuovo sistema di igiene e sanità pubblica Crispi riesce, invece, a tacitare le rivendicazioni occupazionali dei medici e nel contempo a sedare le loro preoccupazioni morali e sociali per le condizioni di salute della popolazione41.

Per la comprensione delle politiche socio-sanitarie dell'ultimo Ottocento occorre, tuttavia, introdurre un ulteriore ordine di fattori connesso all'anticlericalismo crispino e di tutta una generazione di italiani che nei decenni post-unitari concepisce l'idea di uno Stato laico e liberale capace di rinnovare profondamente il paese. Se è vero che lo Stato liberale si muove con molta cautela nei riguardi del vasto campo della beneficenza per non aggravare il dissidio con le gerarchie ecclesiastiche a seguito della questione romana, è innegabile che molti rappresentanti dei governi italiani sostengono una politica di secolarizzazione del sistema assistenziale che trova la sua massima espressione nella legge sulle Opere pie. Questa, pur nei limiti che la contraddistinguono, opera un taglio netto rispetto al passato proponendo il diritto-dovere dello Stato a provvedere a certe forme di tutela per i bisognosi e a realizzare un rigoroso controllo amministrativo sulle opere assistenziali. La legge del 1890 poteva, in altri termini, divenire il primo passo verso l'allargamento delle competenze pubbliche in ambito socio-sanitario con una conseguente limitazione dell'influenza clericale. Così non sarà a causa dell'impianto legislativo vago e per certi versi indefinito, ma soprattutto a causa delle interpretazioni delle norme che in gran numero vengono richieste da parte degli enti ecclesiastici e delle Opere pie, i quali attuano forme di resistenza passiva e di opposizione intransigente che ostacolano per molti anni l'applicazione della legge.

Non va, inoltre, sottovalutata la complessità e la conseguente debolezza dell'associazionismo operaio, scisso al suo interno tra correnti di matrice diversa (moderate e mazziniane, anarchiche e socialiste), restio ad accettare schemi assicurativi aperti anche alle componenti rurali, incapace, sul piano organizzativo ed amministrativo, di presentarsi come un interlocutore credibile per l'introduzione di schemi assicurativi pubblici [Paci 1989]. Né va dimenticata la sconfitta, all'interno delle classi dirigenti, della componente che avrebbe voluto riforme sociali più ampie, quella componente borghese che nelle città dirige una parte non piccola del mutualismo e dell'associazionismo e che si trova ora costretta entro le scelte sempre più conservatrici dei gruppi dirigenti nazionali [Verucci 1986]. La lunga vicenda della regolazione delle società di mutuo soccorso, conclusasi pochi mesi prima del dicastero Crispi, aveva peraltro segnato lo sviluppo dell'associazionismo mutualistico rendendolo ulteriormente fragile e frammentato. In essa, infatti, prevalgono istanze di controllo pressoché poliziesco secondo una logica statalista che continua a dominare nonostante la delega all'associazionismo privato di gran parte della tutela sanitaria e sociale dei non poveri [Zincone 1989].

Ciò significa che i due pilastri su cui Crispi, aldilà delle strutture sanitarie, ritiene di poter fondare il nuovo sistema di protezione sociale del Paese, vale a dire le società di mutuo soccorso e il rinnovato tessuto delle Istituzioni di beneficenza, vengono posti in condizione di non agire o di 41 Sul peso e l'importanza che possono avere i ceti medi in un paese in cui l'indice di alfabetizzazione è tanto basso, si veda Villani 1978, Macry 1977

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doversi trasformare profondamente. Verso l'una e l'altra direzione spingono consapevolmente le gerarchie cattoliche e il nascente movimento operaio, che pur a fine secolo abbandonano le posizioni più intransigenti di opposizione all'intervento pubblico.

2. Un modello di welfare a rendimento socio-economico

La letteratura sul welfare state è concorde nel ritenere che in epoca giolittiana le politiche sociali assumano un carattere nuovo, in quanto derivanti da una mediazione politico-economica resa necessaria dalla pressione dei partiti e dei movimenti operai, presenti ormai sull'arena politica con tratti di forte conflittualità [Alber 1983, Ferrera 1994, Zincone 1989]. In realtà se il peso delle associazioni sindacali e dei partiti della sinistra appare innegabile per la promulgazione di alcune normative o per la creazione di importanti strutture a carattere semipubblico, è altrettanto vero che la politica sanitaria italiana del primo Novecento scaturisce da un complesso assai più differenziato di cause.

Va detto, innanzi tutto, che non ci si trova di fronte ad un sistema articolato di provvidenze sanitarie se non nel caso della legislazione sulla malaria, che viene organizzata e riunita in un testo unico nel 1907. L'istituzione dell'Ordine dei medici ha evidenti riflessi in ambito sanitario, ma è in realtà una politica del lavoro, cosi come tali sono le norme che regolano l'occupazione delle donne e dei fanciulli, che istituiscono l'Ufficio del lavoro e che fondano la Cassa nazionale maternità. I regolamenti, infine, sulla prostituzione (1902-1905), pur essendo finalizzati alla cura della sifilide e alla limitazione del contagio, appartengono alla tutela dell'ordine pubblico, al pari della normativa sui manicomi e gli alienati.

In questa prospettiva, anche il periodo giolittiano non porta innovazioni sostanziali sul piano delle politiche socio-sanitarie, poiché i provvedimenti varati non alterano il sistema assistenziale modellato nei decenni precedenti, introducendo soltanto alcune modifiche relative al ruolo degli attori e al tipo di regolazione pubblica. Per il resto le pur importanti provvidenze adottate assumono ancora la configurazione di "investimenti sociali" che si sarebbero dovuti realizzare assai prima e che contribuiscono ad un miglioramento generale, ma non risolutivo, delle condizioni di vita delle popolazioni, soprattutto quelle meridionali. Le stesse difficoltà nella creazione dell'INA, cui si sarebbe dovuto concedere il monopolio nell'esercizio delle assicurazioni sulla vita, sono indicative di come Giolitti non riesce a imporre all'ambiente finanziario e politico italiano uno strumento pubblico di rastrellamento del credito, cui avrebbe potuto far seguito un sistema nazionale di assicurazioni sociali.

Tuttavia le trasformazioni nel tessuto economico del paese rendono manifeste alcune necessità di controllo del mercato del lavoro che, seppur incerte e poco incisive, aprono la strada a un intervento pubblico volto a sostenere gli interessi specifici di alcuni strati produttivi. Non si tratta ancora di realizzare ampie politiche di "consumo sociale", secondo la terminologia di O'Connor, che diminuiscano cioè il costo di riproduzione del lavoro e che, ceteris paribus, incrementino il saggio di profitto. Infatti si rimanda nel tempo l'assicurazione sanitaria obbligatoria, che avrebbe potuto migliorare le capacità produttive della forza lavoro diminuendone il costo. Solo l'istituzione della Cassa nazionale di maternità rappresenta un preciso passo in avanti nella responsabilizzazione pubblica verso la riproduzione della forza lavoro, della quale vengono tutelate le modalità di nascita mediante un sistema assicurativo che fa perno sulla devoluzione di un contributo statale alle partorienti occupate, in aggiunta a quello derivante dalla contribuzione paritetica dei datori di lavoro e delle stesse lavoratrici.

La legge del 1902, invece, ponendosi a protezione degli strati più deboli della forza lavoro, finisce per prospettarsi come una misura volta a marginalizzare ulteriormente l'occupazione femminile in una fase di grande ristrutturazione industriale. In tal senso lo Stato contribuisce, seppur indirettamente, a sostenere il principio secondo cui la divisione del lavoro tra i sessi è a fondamento del nuovo modo di produzione, che va imponendosi con la crescita della grande industria, da un lato, e l'estendersi del tessuto delle piccole e medie imprese dall'altro.

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Nei quindici anni che vanno dal 1898 al 1913, infatti, l'Italia progredisce verso un sistema industriale che sembra porla, in Europa, al quarto posto dopo l'Inghilterra, la Germania e la Francia. Cresce l'industria siderurgica e in parte quella chimica, inizia a svilupparsi l'industria meccanica ed idroelettrica, mentre il nuovo ceto padronale consolida la propria presenza nell'agone politico; ad esso si contrappone un nucleo relativamente stabile di classe operaia, con una organizzazione alquanto evoluta che guarda alle esperienze europee e alle differenti possibilità di mediazione politico-sociale. Ciò che non cambia tuttavia è l'organizzazione industriale e la gestione delle risorse umane, dal momento che si mette "pochissima o nessuna cura da parte degli industriali di bene addestrare le loro maestranze, di formarsi un corpo di tecnici capaci, che avessero perfetta conoscenza scientifica e pratica insieme del proprio ramo d'attività, di accrescere il rendimento degli impianti e degli uomini" [Morandi 1959, 172]; una mancanza che rende necessario il ricorso all'apporto non solo di capitale straniero, ma anche di tecnici e di personale specializzato.

D'altro canto la rapida espansione dell'industria cotoniera, cui fanno seguito momenti di grave crisi, non può sostenere una migliore utilizzazione della manodopera che anzi paga con la sospensione del lavoro e con la falcidia dei salari le notevoli perdite del settore. L'inchiesta avviata nel 1907 sull'industria della seta, inoltre, rileva tra le principali cause di depressione del comparto l'impossibilità di retribuire adeguatamente la manodopera e la difficoltà a procurarsene di sufficientemente buona, due costanti che si trovano riflesse nella discussione parlamentare sull'orario di lavoro delle donne e dei fanciulli. Mentre, infatti, gli imprenditori serici appaiono contrari ad ogni limitazione nell'utilizzazione di tale forza lavoro, prospettando come conseguenza una ulteriore e forse definitiva crisi per il settore, i grandi industriali del cotone votano a favore, supponendo di poter frenare, in epoca di sovrapproduzione, l'attività concorrenziale dei piccoli opifici che ne fanno il maggior uso. In entrambi i casi il benessere materiale dei lavoratori viene rivendicato a sostegno degli specifici interessi di classe e di comparto economico.

Se, tuttavia, nei grandi centri industriali la condizione operaia migliora rispetto al passato, restano immutate le condizioni di lavoro e di vita del proletariato agricolo, soprattutto nel Mezzogiorno dove è sottoposto a violente repressioni in caso di conflitto sociale. Diversa la situazione del bracciantato padano, la cui conflittualità tende a produrre "una serie di contromisure organizzative e di modificazioni tecniche del lavoro" [Evangelisti 1987, 293]; il rinnovamento tecnico, infatti, che per l'industria è fattore esogeno, per l'agricoltura padana scaturisce, in questi anni, dall'esigenza del capitale agrario di svincolarsi dalla pressione della manodopera sindacalizzata. Si tratta di un processo di meccanizzazione che incrementa l'instabilità occupazionale e che si accompagna al ripristino di forme contrattuali, come il piccolo affitto e la mezzadria, che garantiscono non solo minori conflitti sociali, ma maggiori possibilità di sussistenza basate sul lavoro dell'intera comunità domestica. Di nuovo la famiglia, come entità di produzione economica e di riproduzione sociale, viene valorizzata in stretta simbiosi con le incipienti forme di economia capitalistica.

In questi termini il sistema di welfare d'epoca giolittiana presenta caratteri tradizionali, finalizzati al rendimento sociale e nazionale, assieme a tratti più innovativi, il cui fine è quello di sostenere l'incipiente decollo industriale. Un modello, dunque, non di semplice rendimento industriale, secondo la terminologia di Titmuss, ma di "rendimento socio-economico" in cui gli interessi della nazione si coniugano a quelli dei gruppi produttivi in ascesa. Mentre si confermano, così, le solidarietà tradizionali e in particolare il ruolo di autotutela della famiglia, si enfatizzano le solidarietà professionali di categoria che non trovano, però, nella normativa socio-sanitaria alcun esplicito sostegno. Nel contempo viene ampliato il sistema delle condotte mediche, stabilito il campo di azione dei sanitari, regolamentato l'intricato terreno dell'assistenza ai pazzi per i quali si definisce la necessità della custodia tutelare a sostegno dell'ordine pubblico e delle stesse famiglie. Queste ultime debbono essere libere di potersi dedicare al lavoro e alla soddisfazione dei bisogni di sopravvivenza senza l'ingombro dei malati di mente o di chi tale diventa per le condizioni di sfruttamento nelle quali è costretto a vivere. Le strutture manicomiali, in tal modo, si pongono come uno strumento pubblico di regolazione sociale nei riguardi di quella parte della popolazione giunta

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esausta alla fine del proprio percorso lavorativo o incapace di affrontarlo per l'accumulo generazionale di disagi e di miseria. Una popolazione il cui peso non deve intralciare le funzioni di riproduzione sociale affidate alle famiglie.

Psichiatri e medici condotti rappresentano, dunque, in questo periodo, le frange più attive della classe medica, ma anche quelle che trovano con Giolitti la loro definitiva integrazione entro il sistema pubblico di tutela e protezione sanitaria. Se nel secondo Ottocento la conflittualità dei medici era rimasta ancorata all'ambito scientifico e alle prese di posizione non dichiaratamente politiche del movimento positivista, agli inizi del nuovo secolo si assiste ad una sua amplificazione connessa ad un diffuso processo di organizzazione politica e del lavoro. Mentre crescono le associazioni mediche, i sanitari si impegnano a tradurre i risultati delle proprie ricerche in iniziative concrete, volte a liberare le classi lavoratrici dal "triplice flagello della pellagra, della malaria e della tubercolosi" [Detti 1979, 16]. Attraverso l'opera capillare dei medici condotti e sotto la guida dei nomi più illustri della medicina italiana, si diffonde l'idea di una missione sociale e nazionale che i sanitari sono chiamati a svolgere in rapporto, talvolta stretto, con il movimento operaio e socialista.

La medicina politica e sociale, puntando non più e non solo all'igiene ma alla prevenzione delle malattie, conduce molti medici moderati, democratici e socialisti ad assegnare allo Stato un ruolo prioritario nella tutela della salute. Questa deve in primo luogo risolversi nella applicazione della legge di riforma del 1888, osteggiata dagli stessi Comuni, incapaci di contrastare gli interessi economici costituiti e privi di risorse finanziarie per realizzare l'impianto amministrativo ed organizzativo imposto dalla legge. In secondo luogo, ma non con minor enfasi, si pone l'accento sulla necessità di limitare l'orario di lavoro delle donne e dei fanciulli ed istituire la Cassa nazionale di maternità, cui avrebbe dovuto far seguito una legislazione di tutela nel campo delle malattie professionali e del lavoro. Manca, invece, da parte dei medici, così come da parte del Partito socialista e delle camere del lavoro, una rivendicazione forte in favore dell'assicurazione generale di malattia che, seppur presente in molti documenti ufficiali, non giunge mai ad essere terreno di lotta e di una precisa volontà di realizzazione.

Se per comprendere la scarsa attenzione che si dedica all'assicurazione obbligatoria si può far riferimento all'urgenza che viene attribuita dal movimento operaio alle altre assicurazioni sociali (per la vecchiaia e la disoccupazione), non si può tacere il fatto che i medici, anche socialisti, si rifiutano di aderire a schemi assicurativi pubblici, rivendicando una libera professione che appare, per status e per rendimento economico, assai più vantaggiosa e di prestigio.

Ancora una volta, infatti, all'impegno sociale e scientifico della classe medica fa da supporto l'insicurezza occupazionale e il disagio economico derivanti non solo dal mancato monopolio professionale, ma dalla limitata realizzazione della legge crispina, che avrebbe dovuto stabilizzare il lavoro e le retribuzioni dei medici condotti. Questi non solo si vedono spesso rifiutare il posto di lavoro dopo il previsto triennio di prova per motivi particolaristici o clientelari, ma continuano a percepire stipendi bassi, se non addirittura esigui quando le condotte sono piene di poveri. Non meraviglia che, in tale condizioni i medici si contrappongano alle autorità municipali e statali invocando una giustizia retributiva, oltre che sociale, che li porta facilmente a militare nelle file della sinistra socialista. "Fu un movimento - scrive Detti - che acquistò notevole consistenza già alla metà degli anni Novanta e che rese corrente per i medici condotti l'epiteto di sovversivi. L'apporto che ne venne allo sviluppo del movimento socialista nelle campagne fu tutt'altro che trascurabile anche se dovuto più al posto cruciale occupato dai medici nella società rurale che alle sue proporzioni quantitative" [Detti 1979 30]. Infatti il cammino dei medici verso il socialismo non può mai dirsi compiuto, sia per alcuni caratteri di individualismo ed apoliticità che li contraddistingue sia per le strategie di riallineamento che vengono lucidamente perseguite da parte pubblica in specie da Giolitti.

La discussione parlamentare, pur brevissima, che accompagna la legge istitutiva degli Ordini dei medici, lascia ben intravedere i timori della classe politica nei riguardi del sovversivismo dei medici condotti, così che il riconoscimento istituzionale della professione si pone come un

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mezzo lucidamente perseguito per smorzarne "gli ardori" ed integrarla stabilmente tra i ceti dominanti. D'altro canto l'ANMC, seppure formalmente assai vicina alle posizioni e alla struttura organizzativa della CGdL, alla quale pensa persino di aderire, è governata da medici che non sanno superare l'umanitarismo scientista che caratterizza la cultura del secolo precedente. L'incapacità, ad esempio, di muoversi sul terreno di una nuova politica sanitaria, di cui l'assicurazione per malattia avrebbe dovuto costituire il punto focale, rende sostanzialmente debole la mobilitazione dei medici condotti, che non trovano un adeguato supporto di idee e di progettualità nel Partito socialista e nelle organizzazioni operaie. Né il rapporto con quest'ultime è sempre semplice e fattivo, a dimostrazione di una rigidità e di una distanza sociale difficili da superare. Da parte loro i medici si schierano a favore della abolizione della condotta piena e di un ruolo libero professionale che è entrato nel patrimonio culturale della categoria a cavallo dei due secoli e che è stato rinsaldato dal riconoscimento istituzionale. Se ciò dimostra, come ricorda Detti, una incongruenza di fondo dell'ANMC, incapace di vedere la pubblica utilità della condotta piena e del servizio sanitario che ne sarebbe derivato, evidenzia altresì la capacità dei governi liberali e di Giolitti in particolare di far leva sulle contraddizioni della categoria per limitarne la conflittualità. Non a caso il fascismo asseconda ulteriormente il lavoro libero professionale dei condotti, minando quel rapporto di fiducia e di servizio pubblico che pur si era tentato di instaurare con la legge crispina.

A differenza di quanto avviene in questi anni in Inghilterra, dove l'intervento pubblico nella sanità si amplia stabilendo un saldo compromesso con gli interessi della professione medica in ascesa [Paci 1989], in Italia il reiterato disinteresse statale per l'assicurazione generale di malattia, accompagnato da una latente sfiducia dei sanitari nei riguardi delle pubbliche amministrazioni, apre la strada ad una privatizzazione del rapporto medico-paziente, seppure in una fase di inadeguato sviluppo della medicina tecnica e specialistica. In questo caso la divisione di classe tra medici condotti e medici ospedalieri, così come la debolezza della medicina ufficiale rispetto alle medicine tradizionali, sono superati mediante la possibilità offerta ai medici generici di improvvisarsi medici specialisti nell'ambito della libera professione, nonché attraverso il monopolio e il riconoscimento giuridico dell'attività professionale. Le organizzazione mediche e gli Ordini provinciali, che da allora si costituiscono non esprimono la forza contrattuale e il potere di mercato raggiunto altrove (ad esempio negli Stati Uniti), ma si battono a lungo per sfruttare fino in fondo le potenzialità della medicina, tentando di mantenere la professione in equilibrio tra un mercato ristretto e un inadeguato sistema pubblico di protezione sociale.

Mentre, inoltre, gli imprenditori italiani e gli strati più avanzati del movimento operaio si trovano a convergere, seppure su sponde opposte, su una cultura industriale centrata sull'individualismo, sull'etica del profitto, sul riconoscimento del conflitto tra capitale e lavoro, i ceti medi, vista cadere la fiducia positivista nei progressi dell'economia e delle istituzioni, si trovano a condividere uno squilibrio crescente, enfatizzato dalle polemiche antipositiviste di alcune avanguardie culturali. I medici, al pari di altri professionisti, sentono l'influenza di "un movimento intellettuale magmatico ed eterogeneo, denso di aspirazioni differenti e talora antitetiche, privo di una dottrina coerente ed unitaria" che coinvolge nazionalisti e dannunziani, intellettuali reazionari e rivoluzionari, allontanando le nuove generazioni "dalle finalità dalla gestione della politica riformista" [Castronovo 1981, 1272].

E' ben vero, inoltre, che l'utilitarismo, che avrebbe potuto sostenere una logica di intervento pubblico in campo sociale finalizzata al benessere dei singoli, non ha, in Italia, una diffusione significativa. Pur entrato a far parte della cultura accademica esso resta sostanzialmente un fenomeno di importazione quando non diviene la base di una interpretazione prevalentemente conservatrice dell'economia e della società come quella di Pantaleoni. Da parte degli stessi economisti di matrice socialista le ragioni del moderato atteggiamento antiutilitarista sembrano più complesse e riconducibili, come ricorda Cavalieri, al fatto che nella filosofia del benthamismo "convivono due anime distinte, quella individualista e quella ugualitaria. La prima stimolava ovviamente nei socialisti un atteggiamento critico; la seconda li induceva ad assumere toni più simpatetici" [Cavalieri 1982, 24]. Una posizione nel complesso assai lontana dalle istanze

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progressiste di universalismo etico sostenute in Gran Bretagna, anche sulla spinta di economisti di matrice edonista (Walras, Pigou).

Un rapporto ugualmente complesso ed articolato, sul piano delle idee e della prassi politica, lega in questi anni i medici alle associazioni femminili e quest'ultime alle organizzazioni del movimento operaio e cattolico. Si tratta di un tessuto fittissimo di relazioni che fa da sfondo all'approvazione della Cassa nazionale di maternità e prima di questa alla regolamentazione del lavoro delle donne e dei fanciulli. Le associazioni femministe, e per prima la Mozzoni, vedono con grande chiarezza le ambiguità insite nel modo di affrontare la questione da parte del partito socialista che, mentre riconosce alla donna un ruolo di lavoratrice chiedendole di organizzarsi e di uscire dalla mentalità angusta della casalinga, dall'altro alimenta "una campagna di allontanamento delle donne dalla fabbrica, in nome della ricostruzione di una famiglia saldamente basata sulla divisione dei compiti che vedono la moglie-madre tutrice della tranquillità domestica e al riparo dalle lotte" [Buttafuoco 1988, 60].

Le associazioni femminili, nel contempo, paventano i rischi di una regolamentazione del lavoro che avrebbe di fatto allontanato le donne dalle fabbriche, offrendo agli imprenditori l'opportunità di riassumerle "a nero" secondo modalità di maggiore oppressione e sfruttamento. Una legge, dunque, protettiva del lavoro maschile e degli interessi della classe padronale, che non a caso trova schierati in posizione favorevole molti medici che ne valorizzano le capacità di salvaguardia della maternità e del benessere della stirpe. D'altro canto, dopo la pubblicazione della rerum novarum, anche le donne cattoliche si impegnano a chiedere una legislazione che vieti il lavoro notturno, riduca l'orario e preveda un congedo di maternità. Una posizione resa fragile dalle ambivalenze dell'enciclica e dall'enfasi posta nella difesa del primato della famiglia, ma che permette quell'incontro tra femminismo laico e cattolico che sottostà all'approvazione delle leggi sul lavoro femminile e la maternità.

Ciò che va sottolineato, dunque, è che il movimento politico delle donne, il quale raggiunge nei primi dieci anni del Novecento il massimo sviluppo in termini di visibilità e vivacità culturale [Buttafuoco 1988]. va annoverato tra i soggetti che sostengono le politiche socio-sanitarie del periodo giolittiano. Tuttavia ancora, e non a caso, le coalizioni di interessi che si determinano hanno sullo sfondo la famiglia e la maternità cioè "la donna sposa e madre e orgogliosa di compiere la sua nobile missione" anche se femminista e femminista "vera" [Buttafuoco 1988, 92]. In altri termini sulle contraddizioni e le molteplici facce della questione femminile e del problema della "riproduzione della stirpe" si va schierando un coacervo di gruppi e posizioni politico-culturali che ottiene una legislazione di tutela i cui esiti, per certi versi inattesi, saranno quelli di contribuire alla marginalizzazione delle donne negli anni a venire.

Come si è visto, l'immediato dopoguerra non porta risultati duraturi sul piano delle politiche socio-sanitarie poiché la mobilitazione che conduce alla promulgazione delle assicurazioni obbligatorie per la vecchiaia e la disoccupazione non riesce a sopraffare il blocco di potere cementatosi contro i progetti di assicurazione malattia. Se i provvedimenti sulla tubercolosi prefigurano una responsabilità pubblica crescente per la salute dei cittadini-soldati essi non sono ancora sufficienti a definire una responsabilità più ampia per tutti i cittadini-lavoratori. La pressione popolare, la turbolenza sociale, le spinte corporative dei medici e quelle più illuminate dei loro gruppi progressisti (l'Ordine di Milano), la crisi economica delle mutue volontarie, i disagi materiali e morali di una popolazione falcidiata dalla guerra e dalla spagnola, non sono sufficienti a far discutere e tanto meno a varare un sistema di protezione sanitaria omogeneo ed obbligatorio per l'intero territorio nazionale. Mentre vedono la luce altri sistemi di tutela sociale, l'ambito della malattia e della sua cura resta saldamente nelle mani delle istituzioni ospedaliere, dei comuni, delle assicurazioni private e di una classe medica che si volge con sempre maggiore evidenza verso la conservazione dei propri privilegi.

Nel complesso, dunque, l'iter di sviluppo delle politiche sanitarie in epoca liberale dimostra per l'Italia un ritardo consistente rispetto a gran parte dei paesi europei, così che la scansione temporale delle fasi di crescita dei sistemi di welfare, elaborata da Alber, non sembra applicabile al

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nostro caso. Gli anni che vanno dal 1870 al 1920 non segnano un vero "periodo di sperimentazione" delle politiche socio-sanitarie quanto un insieme di tentativi avviati e mai decisamente portati a termine. A ben guardare, inoltre, le norme approvate in epoca liberale evidenziano una specie di funzione di "conservazione dell'apatia" dal momento che nella concreta contrattazione tra le parti in gioco ci si è sempre accontentati di giungere al "risultato minimo tollerabile" senza arrivare mai ad innovazioni di un certo respiro. Il non voler forzare i tempi, l'attenersi alle esigenze più urgenti ed improrogabili, il cercare l'equilibrio più accettabile contraddistingue tutti i dibattiti parlamentari con una monotonia talvolta esasperante.

Aldilà dei governi, poi, aldilà delle compagini politiche, aldilà degli eventi economici e sociali, i progetti di legge sembrano viaggiare nelle aule parlamentari con tempi e logiche proprie, così che improntati dalla sinistra storica, possono essere discussi dai governi d'epoca giolittiana per giungere alla definitiva approvazione con il regime fascista. Ciò non significa che nulla cambi o che le leggi siano refrattarie alla società che le reclama o all'agone politico che le promuove, ma che spesso vivono una vita propria (una specie di conservazione della materia) in grado di resistere al tempo e alla scarsa capacità propositiva delle coalizioni politico sociali succedutesi.

In tale prospettiva, mentre sembrano avere una consistente incidenza sugli attori pubblici le scelte precedentemente fatte, minor rilievo hanno le imitazioni istituzionali tratte dal confronto con altri paesi europei. Nonostante che emerga nei dibattiti parlamentari la conoscenza, spesso erudita, dei sistemi sociali introdotti in Germania o in Inghilterra, questi non hanno quasi mai la forza di prevalere sugli interessi limitati e corporativi di chi in Parlamento rappresenta una classe dominante ben lontana dalla tempra di quei ceti borghesi e progressivi che hanno già imboccato altrove, e con più decisione, la strada della modernizzazione.

Mentre, così, il sistema di sicurezza sociale introdotto in Inghilterra dalla legislazione del 1906-1911 rappresenta, rispetto a quello tedesco varato trent'anni prima, una soluzione più egualitaria e più saldamente posta nelle mani pubbliche, in Italia non solo si vara con enorme ritardo la legislazione sull'igiene pubblica, ma si sceglie una via di non regolazione complessiva del sistema sanitario che la allontana, se non la divide ancora, sia dal modello meritocratico tedesco, sia da quello universalistico inglese.

La legislazione sociale, inoltre, appare concepita per tutto il periodo liberale in termini vaghi e possibilistici, così da lasciare aperta la porta a innumerevoli esenzioni o trasgressioni. In tal modo anche quando, dopo un faticosissimo iter parlamentare, una normativa è approvata, l'attuazione si dimostra incerta e soggetta a reiterate modifiche, volute sia dagli imprenditori, sia da una classe operaia troppo bisognosa per accettare che le vengano imposti vincoli e disagi in vista di un miglioramento ipotetico e spesso limitato. L'applicazione della legislazione sociale si presenta, così, come un esempio tra i più manifesti di quelle funzioni "di deriva" che le norme possono, secondo Gouldner, esprimere [Gouldner 1970]. Esse sono, infatti, tenute in ibernazione dagli imprenditori e utilizzate come moneta di scambio per ottenere dai dipendenti l'osservazione di altre regole, magari, più restrittive; il tutto con la tacita approvazione delle forze di polizia e il beneplacito delle amministrazioni locali.

3. Il sistema familistico-corporativo

Con questi precedenti non meraviglia che il fascismo possa essersi vantato di aver dato al paese il primo pacchetto di politiche socio-sanitarie, avendo varato l'assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi e le malattie professionali, incrementato il tessuto mutualistico fino a giungere alla sua razionalizzazione, sistemato il complesso ospedaliero, prodotto istituti pressoché universalistici a favore della maternità e dell'infanzia. In realtà, come si è visto, lo sviluppo delle politiche sanitarie in epoca fascista non è affatto lineare né privo di grandi contraddizioni poiché ai primi anni di rinnovato liberismo fa seguito un processo di corporativizzazione socio-sanitaria cui si sostituisce a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, un tentativo di unificazione e di accentramento in senso nazional-statalista che non risana i guasti creati, anzi, per certi versi li

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istituzionalizza. In particolare il modello di welfare corporativo che si profila nel corso degli anni venti

rinnova l'idea di una sostanziale neutralità dello Stato che tramite le sue direttive si limita, da un lato, a sostenere alcuni sistemi di assicurazione obbligatoria a favore di strati operai cruciali per il nuovo assetto economico e, dall'altro, a favorire la libera mutualità in campo industriale, agricolo e terziario. Le solidarietà professionali assurgono in tal senso a fondamento del nuovo assetto, essendo state abolite e svuotate di senso le antiche forme del mutualismo territoriale. Né i centri municipali o zonali del dopolavoro si sostituiscono agli antichi sodalizi, in quanto solo le istanze aziendali e categoriali riescono a garantire alcuni benefici di carattere assistenziale a fasce limitate di popolazione urbana.

Ciò non significa che vengano abolite tutte le precedenti forme di solidarietà sociale poiché, anzi, il rispetto che il regime porta all'associazionismo borghese e alle istituzioni clericali permette loro di sopravvivere e di riprodursi, superando i limiti posti dalla normativa crispina. L'enfatizzazione e la frammentazione delle solidarietà, poi, interessa la stessa pubblica amministrazione, poiché non solo i comuni vengono contrapposti alle province nelle responsabilità d'ordine sanitario, ma quest'ultime sono poste in competizione con i consorzi e gli enti appositamente costituiti. Se, infatti, lo Stato centrale rifugge da un impegno economico diretto sul piano dell'assistenza sanitaria, il controllo e le responsabilità pubbliche in materia vengono delegate ai comuni ed ancor più alle province, oltre che ai nuovi enti territoriali proliferati a seguito delle diverse normative emanate. Anche le competenze municipali, in ordine alla sanità pubblica e all'assistenza ai poveri, vengono dapprima ampliate, quindi circoscritte mediante alcune limitazioni legislative e infine impedite di fatto attraverso la riduzione dell'impegno dei medici condotti e l'esiguità delle risorse municipali.

In un simile quadro di crescente complessità si riconosce alle famiglie il fine ultimo, ma prioritario di assicurare l'accesso alle risorse pubbliche e private, di renderle fattive, di integrarle con il lavoro domestico, nonché con tutte quelle forme di economia di sussistenza cui vengono chiamate dal regime. Le leggi di limitazione del lavoro femminile assumono, così, una esplicita funzione di marginalizzazione delle donne sul mercato del lavoro a favore di un ruolo familiare che diviene cruciale per l'intero sistema di produzione e riproduzione del paese [Saraceno 1981]. In pari tempo, poiché il tasso di fecondità inizia drasticamente a diminuire, mentre decresce lentamente il tasso di mortalità infantile, il fascismo è costretto a emanare politiche familiari volte a sostenere la stabilità e la prolificità dei matrimoni nonché la numerosità dei nuclei familiari. In tale contesto la subordinazione femminile sul piano politico-economico si connette alla centralità della moglie-madre nell'ambito domestico, un ambito che, riconosciuto come cruciale per il benessere del paese dagli stessi esperti del regime, viene esaltato come la sfera di massima espressione della natura femminile. Non a caso gli unici lavori formalmente riconosciuti alle donne sono quelli che nelle organizzazioni di massa e socio-assistenziali riguardano le attività di sostegno alle famiglie e di soddisfazione dei bisogni primari.

Il processo di integrazione tra nuove e vecchie strutture economico-sociali che il paternalismo aziendale di fine Ottocento aveva utilizzato ed adattato alla nascente industria tessile, si amplia, dunque, in epoca giolittiana per divenire con il fascismo elemento portante del nuovo sistema produttivo. Non a caso la politica sociale in ambito agricolo fa perno su un concetto di bonifica che, teorizzato nei primi anni del secolo, impone il risanamento delle terre e degli uomini, ma anche il loro impiego produttivo in modo da rigenerare l'intero tessuto ambientale e sociale. Una politica di ruralizzazione, all'insegna della piccola conduzione contadina, che diventa uno strumento per contenere l'entità del bracciantato e per dosare, attraverso la riproposizione di forme contrattuali tradizionali, l'esodo dalle campagne in misura compatibile con la crescita industriale. In pari tempo il congelamento della forza lavoro, con le sue più tradizionali forme di autoprotezione familiare, garantisce le braccia richieste e al costo voluto per la realizzazione dei poli di sviluppo industriale in ambiente agricolo [Evangelisti 1987].

Un ruolo, quello familiare, che si tenta di mantenere immutato anche all'interno dei più

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avanzati processi di industrializzazione ed urbanizzazione, nonché in quel tessuto di piccole e medie aziende che continua a caratterizzare l'economia del paese. Qui, dove per le limitate economie aziendali, per gli scarsissimi margini di autofinanziamento, per le difficoltà di ricorso al credito si risente enormemente il peso del costo del lavoro, la possibilità di utilizzare manodopera femminile e giovanile è uno dei pochi fattori di sopravvivenza e di crescita. Una manodopera che viene etichettata dal fascismo come "debole" e "marginale", suscettibile, cioè, di essere utilizzata con modalità di ampio sfruttamento economico e lavorativo. Nella stessa direzione agiscono le politiche familiari finalizzate alla crescita di aggregati domestici numerosi e di conseguenza bisognosi di lavori integrativi, nonché pronti a sopperire, con la composizione di redditi e di risorse diverse, nonché con la divisione e specializzazione dei ruoli produttivi, ai più basilari bisogni di riproduzione fisica e sociale. Le politiche familiari e le politiche femminili del lavoro appaiono, in altri termini, come politiche sociali direttamente o indirettamente a favore della piccola impresa, entro la quale i fattori igienico- sanitari giocano un ruolo decisivo di legittimazione o di selezione degli interessi.

Sul versante della grande industria il fascismo non fa che garantire quella libertà di azione e quella imposizione dell'ordine che i governi liberali non erano più riusciti a mantenere dopo la guerra. L'ordine padronale potrà, in tal modo, tornare a riproporsi in tutta la sua brutalità privo del parziale consenso riformista del periodo giolittiano e nittiano. Un potere che ancora una volta ha a suo favore una grande disponibilità di manodopera, ma non materie prime e combustibile, così che la razionalizzazione produttiva, avviata con il taylorismo negli Stati Uniti e in Europa, non ha modo di esplicarsi se non limitatamente, come ben vede nel 1928 Gino Olivetti, segretario generale della Confindustria. L'ipotesi di un consenso basato su un regime di alti salari e di un ampio mercato interno, i cui modelli sono il fordismo americano e lo Stato guglielmino, è per Olivetti impensabile per gli industriali italiani piccoli e medi ed irrealizzabile integralmente nelle aziende più grandi e meno arretrate; molto meglio, dunque, l'intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro, con il perseguimento di una politica di bassi salari e di ricorso al mercato estero [Sapelli 1976].

Va notato che gli stessi industriali sostengono la tesi secondo cui il taylorismo, in paesi di abbondante manodopera come l'Italia, causerebbe un surplus di forza lavoro foriero di notevoli squilibri sociali, a meno che non venga assorbito dalle piccole e medie imprese che eviterebbero in tal modo di investire capitali per il rinnovamento dei macchinari, lasciando alle grandi il compito di perseguire lo sviluppo economico e tecnologico del paese [Agnelli-Einaudi 1992]. Agnelli sostiene, invero, in una intervista rilasciata nel 1932, anche la necessità di una politica capace di affrontare il problema strutturale della disoccupazione, con una riduzione dell'orario di lavoro ed un incremento dei salari, ma ciò apre un vasto dibattito nel mondo politico ed economico, a dimostrazione di una divaricazione all'interno del gruppo di comando dell'alta borghesia che non ha, tuttavia, risvolti immediati42. Anche l'idea, sostenuta da alcuni economisti fascisti, che sia indispensabile far seguire alla razionalizzazione produttiva una chiara programmazione statale viene respinta in favore di un politica tutta industrialista. Da qui una delle cause, secondo Villari, del fallimento del corporativismo fascista e della stessa politica di intervento dello Stato nell'economia, uno "Stato che avrebbe dovuto essere parte attiva nel processo produttivo e non essere una entità neutrale rispetto alle spinte del capitale" [Villari 1995 141].

D'altro canto, sembra plausibile ipotizzare che decisivi sono gli ostacoli opposti ad un ampliamento delle politiche di espansione della domanda pubblica da parte dei gruppi di interesse costituiti, in quanto pregiudizievole per gli equilibri consolidati di potere [Ciocca 1975]. Emblematico, in tal senso, il mancato completamento della bonifica integrale contro la quale si ereggono i grandi proprietari terrieri, ma che avrebbe costituito, se realizzata, uno strumento di

42 Nella proposta di Agnelli, Gramsci vede l'elusione del nodo che l'adozione di quella politica economica solleva, cioè, l'intervento sui rapporti sociali esistenti, "una proposta di modernizzazione quindi che tende più a riproporre un'ipotesi giolittiana (blocco industriale-operaio a spese del resto della società) che ad affrontare le questioni connesse alla americanizzazione del paese" Cfr. De Felice note e commenti a Gramsci, "Americanismo e fordismo", 1975

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riforma socio-sanitaria di notevoli proporzioni43. In un simile contesto la via più praticabile alla razionalizzazione produttiva è quella della

massima pressione sulla forza lavoro, considerata "il macchinario più a buon mercato e con minor immobilizzo" [Gualerni 1976, 132], cui il metodo del cottimo lineare rallentato di Bedaux da nuova legittimità tecnica e scientifica. Mentre, inoltre, limitati sono i capitali a disposizione degli industriali per il rinnovamento tecnologico44, il fascismo garantisce una manodopera non solo disciplinata ed in esubero, ma in certa misura adatta e capace al lavoro. Se è vero, infatti, che non hanno grande diffusione nel paese i processi di selezione del personale sperimentati da Agostino Gemelli e dagli studiosi di psicotecnica, è altrettanto vero che gli imprenditori vanno convincendosi nel tempo di "non poter risolvere tutti i problemi della pratica operativa aziendale soltanto con la crescente accentuazione del controllo dispotico sulla forza lavoro" [Sapelli 1978, 360]. Occorre procurarsi manodopera semiqualificata per le nuove produzioni industriali, disposta al lavoro di fabbrica, sufficientemente motivata, con una lunga disponibilità lavorativa sul piano fisico-produttivo e con una rigida disciplina degli istinti sessuali derivante, come ben vede Gramsci, da "un rafforzamento della famiglia in senso largo" [Gramsci 1975, 62]45. E in tal senso agiscono le assicurazioni sanitarie speciali, il mutualismo libero ed aziendale, le sezioni di dopolavoro, le politiche familiari le quali, nel legare all'azienda migliaia di lavoratori della grande industria, ne assicurano anche un minimo di stabilità e benessere fisico: politiche sociali, dunque, frammentate e presenti quel tanto che basta a garantire una adeguata riproduzione materiale e un attaccamento all'azienda da parte degli strati operai e impiegatizi più avanzati, secondo l'idea, già chiara a Gramsci, che "i nuovi metodi di lavoro sono indissolubili da un determinato modo di vivere, di pensare e di sentire la vita: non si possono ottenere successi in un campo senza ottenere risultati tangibili nell'altro" [Gramsci 1975, 71]. Nel caso specifico italiano, inoltre, vista la limitata attuazione del fordismo spetta alla repressione autoritaria e alle grandi organizzazioni di massa di tenere unito un paese in cui si verifica una terziarizzazione precoce, si aggravano gli squilibri nell'agricoltura, si fa più profondo il dualismo tra i grandi monopoli industriali e il tessuto di piccole e medie aziende satelliti [Tattara, Toniolo 1975].

In questi termini il modello di welfare che si delinea in epoca fascista esalta la segmentazione meritocratica ma si basa sul forte coinvolgimento della famiglia nella produzione dei servizi per il benessere. Esso appare cioè corporativo e familistico al tempo stesso dal momento che l'integrazione sociale dei ceti medi e popolari viene demandata al mercato e alle comunità domestiche, seppure in un clima di generale repressione delle libertà politiche e civili. Un welfare dunque "familistico-corporativo" ma di stampo reazionario, dove non è dato ai cittadini di far sentire la propria voce se non per riconoscere la grandezza della patria e del suo capo. Alla frammentazione degli interessi e delle istituzioni, infatti, fa da contrappeso la presenza unificante del Partito fascista che permea di sé, controllandole e sottomettendole al proprio dominio, tutte le forme di tutela e di assistenza che vengono create o valorizzate.

E' in questa prospettiva che si pone, ad esempio, l'incremento delle attività assicurative gestite dall'INA che con la "Polizza Popolare" tenta di allargare l'ambito entro cui si attua la raccolta tradizionale del risparmio assicurativo. Adattando le polizze originarie alle varie categorie di assicurandi, l'INA riesce a creare un portafoglio consistente che raggiunge nel 1939 più di un milione di contratti e più di 2 miliardi di capitali assicurati. Una operazione di ampliamento del mercato assicurativo che viene mascherata dietro i principi enunciati dalla Carta del Lavoro, in vista 43 Come è noto, la metà dei circa 10 miliardi investiti nella bonifica è spesa in contributi per i proprietari senza obbligo di trasformazioni fondiarie di rilievo e senza modifiche nei rapporti sociali di produzione [Villari 1995] 44 Il coefficiente di meccanizzazione globale, calcolato sui dati del censimento del 1939, anche se più elevato di quello del 1927 (Cv/addetto 1,54 contro 1,16) si rivela più modesto di quello di altre nazioni europee 45 Scrive, infatti Gramsci in "Americanismo e fordismo": "l'operaio che va al lavoro dopo una notte di stravizio non è un buon lavoratore, l'esaltazione passionale non può andar d'accordo coi movimenti cronometrati dei gesti produttivi legati ai più perfetti automatismi. Questo complesso di compressioni e coercizioni dirette e indirette esercitate sulla massa otterrà indubbiamente dei risultati e sorgerà una nuova forma stabile di unione sessuale di cui la monogamia e la stabilità relativa paiono essere il tratto caratteristico e fondamentale" [Gramsci 1975 , 74]

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cioè del perseguimento dei fini di previdenza sociale. [Scialoja 1980]46. In realtà questo poderoso sviluppo del sistema assicurativo privato, cui si affianca quello delle assicurazioni sociali per la vecchiaia e gli infortuni, porta il risparmio disponibile attraverso le riserve tecniche e patrimoniali e le cauzioni raccolte, a 19 miliardi circa nel 1937, pari ad un terzo del risparmio di tipo bancario esistente nel paese. Una massa di danaro che il regime utilizza per gli scopi più diversi e non certo per incrementare la tutela sociale della popolazione come era stato prospettato nel 1912 all'epoca della fondazione dell'INA47

Con l'avanzare degli anni Trenta, tuttavia, si modificano, seppur in ambiti ristretti, le strutture organizzative della grande impresa, mentre cresce la presenza dello Stato nel tessuto economico-produttivo. Siderurgia e meccanica pesante, cantieri, compagnie di navigazione, telefoni ed una miriade di altre aziende entrano nel raggio di azione dell'IRI, rendendo lo Stato partecipe di un vasto apparato produttivo. E' un periodo in cui cresce la consapevolezza del logoramento psico-fisico della manodopera e si fa strada l'idea di una tutela sanitaria più ampia ed obbligatoria per grandi categorie occupazionali, nonché per i membri non attivi della famiglia, le cui funzioni appaiono ugualmente cruciali per le aziende e la patria.

In altri termini, accanto alle nuove esigenze industriali, sono proprio le lesioni di carattere psicosomatico, sempre più riscontrabili nelle vecchie e giovani generazioni operaie, i sintomi nascosti delle malattie professionali, le combinazioni di fattori nocivi derivanti dalle stressanti modalità lavorative in ambienti fortemente insalubri, a rendere necessaria una "copertura sanitaria generalizzata" che prelude ad una prevenzione collettiva delle conseguenze sociali dell'industrializzazione cui, appunto, sono preposte le assicurazioni obbligatorie. Né forse va sottovalutata la spinta che già allora viene dal polo farmaceutico costituitosi entro il gruppo Montecatini sotto la guida di Donegani. La nascita della Farmitalia48, come strumento di contrapposizione alla penetrazione del capitale straniero in Italia e come mezzo autarchico di innovazione tecnologica, può aver significato, proprio per l'iniziale debolezza nel settore della ricerca e per la difficile penetrazione italiana sul mercato internazionale, una volontà di ampliamento del mercato interno di farmaci cui solo le assicurazioni sanitarie obbligatorie avrebbero potuto dare garanzie di continuità.

Nell'itinerario, dunque, che porta nel tardo fascismo alla crescita di un sistema di welfare più ampio e a carattere istituzionale, non andrebbero sottovalutate le spinte che nascono dalla trasformazione e dalla degenerazione dell' organizzazione produttiva del lavoro, di cui sono consapevoli quelle classi economiche dominanti che guidano saldamente le sorti del paese, nonché lo Stato, fattosi anch'esso imprenditore. In tal senso, come nota Sapelli, l'applicazione industriale delle conoscenze medico-psicologiche di Agostino Gemelli, al pari dell'influenza crescente dei quadri usciti dall'Università cattolica di Milano49, segnano una scelta di campo dell'imprenditoria italiana la quale, incapace di proseguire autonomamente sulla via dell'egemonia politico-culturale, inizia ad affidarsi a quelle forze che, come la chiesa cattolica, possono ben più sicuramente garantire l'ordine e la pace sociale [Sapelli 1978], il che significa prospettare fin da ora una via di

46 Nel 1942, accanto alla polizza tipo la cui produzione è pari al 22,8% del totale, si hanno le polizze: XXI aprile (28,5%), Pro-familia (18,3%), Rurale (11,3%), Balilla (6,7%), Artigiana (6,2%) e Roma (6,1%). Cfr. Scialoja 1980,431 47 Nel 1923 il RDL 29 aprile n.966 concernente l'esercizio delle assicurazioni private abroga la legge 4 aprile 1912 n.305 impedendo che entri in vigore il monopolio di Stato voluto da Giolitti. Tuttavia all'INA si concedono funzioni di regolazione del mercato e poteri di vigilanza sulle imprese private, nonchè una posizione di relativo privilegio nell'esercizio delle assicurazioni vita. E' interessante, come fa rilevare Scialoja, che questo sistema passa quasi inalterato attraverso la fase costituente e il dopoguerra, costituendo tuttora la struttura fondamentale del sistema assicurativo italiano [Scialoja 1980] 48 Nel 1938 entrano in funzione i grandi e moderni impianti per la produzione di farmaci sintetici: l'italchina, un chinino sintetico, la rodina, un analgesico e antinevritico, e l'adisole, un olio di fegato di tonno voluto dal regime per limitare l'importazione dell'olio di fegato di merluzzo [Sironi 1992] 49 Nel 1937-38 il regime istituisce presso la Cattolica un corso di Psicotecnica del lavoro, tenuto dallo stesso Gemelli e da Giuseppe Corberi, che è rivolto ad ufficiali dell'esercito, a dirigenti delle amministrazioni statali, a funzionari delle confederazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro dell'industria [Mangoni 1986]

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uscita dal fascismo e una conseguente ristrutturazione politico-sociale. Con l'avanzare degli anni Trenta, quindi, il sistema diventa meno particolaristico per

l'esigenza di inglobare nelle trame del consenso e del controllo strati crescenti di popolazione, le cui condizioni di vita sono state portate allo stremo dalle scelte economiche ed espansionistiche del regime. In tal senso, mentre le assicurazioni sanitarie tendono a divenire obbligatorie e ad ampliarsi includendo soggetti non direttamente legati al mercato del lavoro, si moltiplicano da parte pubblica le "spese sociali" il cui fine è quello di garantire la pace sociale e il persistente sistema di sfruttamento. Una espansione che trova fondamento nelle esigenze del capitale monopolistico e che si accompagna ad un maggior intervento pubblico nell'economia e nella produzione. La costituzione dei grandi enti previdenziali ed economici si connette alle politiche di unificazione e razionalizzazione delle mutue che, tuttavia, rispetto ai primi, si realizzano in ritardo e all'estremo limite della vita politica del regime.

D'altro canto in questi anni il processo di identificazione di Mussolini con lo Stato giunge al suo compimento, così che le esigenze di direzione e di controllo vengono a sovrapporsi, dando vita a una forma di statalismo personalizzato i cui caratteri saranno esaltati dal clima di guerra. Il sistema di welfare familistico-corporativo assume, cioè, alla fine degli anni Trenta, sfumature più istituzionali ma non universalistiche, in un mix di caratteri cui la caduta del sistema non darà il tempo di definirsi.

Non va, tuttavia, sottovalutato nel modello di welfare fascista il ruolo che viene affidato alle organizzazioni cattoliche nella tutela sociale e sanitaria della popolazione. L'esaltazione pubblica del valore etico della beneficenza e il suo incoraggiamento, non solo limitano i poteri dello Stato nell'ambito medico-ospedaliero ritardandone la trasformazione, ma contribuiscono a rafforzare la presenza della Chiesa "nel concreto operare della realtà italiana, consolidando quel rapporto fiduciario che, nella speranza di intercessioni ultramondane, legava da secoli i credenti all'istituzione ecclesiastica e ne faceva la garante, non solo morale, del rispetto in aeternum delle loro volontà testamentarie" [Preti 1980, 216].

In altri termini, con la legge crispina e i provvedimenti d'epoca giolittiana poteva trovar fine in Italia, così come era avvenuto altrove, quel lungo cammino che a partire dal IV secolo aveva portato la Chiesa cattolica ad entrare "all'interno delle unità basilari di produzione e riproduzione" [Goody 1991, 53] della vita sociale. Una presenza resa possibile dalla capacità, rivendicata dalla Chiesa, di poter aprire le vie della salvezza a chi avesse operato degnamente e devoluto parte dei propri averi alla protezione degli orfani, delle vedove e di quanti le istituzioni ecclesiastiche avessero preso cura50. Si trattava di operare una inversione di tendenza, avviata ad esempio nei paesi luterani ed anglicani con la riforma del XVI secolo, grazie alla quale le proprietà familiari venivano alienate in favore della Chiesa in proporzioni assai minori, così che il rimanente poteva essere dato allo Stato o utilizzato per promuovere attività economiche e produttive. Una strada che, se perseguita, avrebbe incrementato non solo la beneficenza pubblica ma anche quella privata, dando avvio ad organizzazioni non profit di carattere laico. Il fascismo, invece, non solo non prosegue nella strada avviata da Crispi, ma produce anzi una vera inversione di tendenza nella laicizzazione della benificenza reintroducendo soggetti precedentemente esclusi e modalità che si era voluto superare nelle idee se non nei fatti51.

50 Goody sostiene che sono leregole nelle modalità matrimoniali e di successione sostenute dalla Chiesa cattolica a rendere necessario l'aiuto ai poveri già nel primo cristianesimo. L'accento posto sulla famiglia ristretta e sul venir meno dei legami parentali allargati apre, infatti, la necessità di far fronte ai bisogni di quanti, orfani e vedove, non trovano più nel sistema parentale i mezzi e gli aiuti necessari per la sopravvivenza. La Chiesa, nel prendersene cura, legittima la richiesta di donazioni e di lasciti che, anzichè offerti alle divinità o sepolti con gli stessi defunti, avrebbero contribuito alla salvezza dell'anima mediante la gloria della Chiesa e delle sue attività benefiche. Goody ricorda che a partire dal III secolo tale opera si trasforma in una vera e propria impresa che richiede un'amministrazione a tempo pieno: la chiesa romana, ad esempio, da sola mantiene, nel 250 dc, circa 1500 vedove e membri poveri. 51 Preti ricorda come nel 1937 nella neonata "Rivista dell'assistenza e della beneficenza" si leggesse che essa "è dovuta dall'amore del prossimo e dallo spirito di solidarietà umana che derivano dai dettami della religione, la quale propizia al benefattore, attraverso la riconoscenza dell'indigente, i beni celesti ed è ispirata al concetto di solidarietà universale che

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Come ricorda Jemolo, Mussolini e le alte gerarchie fasciste non abbandonano mai il loro anticlericalismo, tuttavia dal 1921 fino all'ultimo giorno del regime, è mantenuto con sufficiente fermezza "il proposito di non dare battaglia alla Chiesa, di non scatenare mai un'offensiva contro di essa, di averla se possibile alleata" [Jemolo 1952, 595]52. Se questo proposito risponde all'esigenza di avere una legittimazione sul piano soprattutto internazionale, esso scaturisce anche dalla necessità di trovare un alleato interno che si suppone di poter eventualmente regolare o tacitare. Da par loro i cattolici ed ancor più il clero italiano, pur vedendo nel fascismo l'esaltazione della violenza e della guerra, il paladino di ]]soprusi ed ingiustizie sociali, il rappresentante di una nuova chiesa (pretendendo "intero l'uomo, in tutte le sue ore, in tutte le sue attività"), condividono con esso molti nemici e ciò può essere sufficiente per accettarne i limiti o i pericoli. Agli occhi delle gerarchie cattoliche, infatti, il regime si presenta come una rivincita non solo contro i socialisti, ma anche contro i liberali che non hanno saputo evitare nella vita pubblica tutte quelle forme di emarginazione che hanno esacerbato gli animi del clero e dei cattolici più ortodossi. D'altro lato il liberalismo è visto dall'episcopato italiano, particolarmente ben disposto verso il regime53, come la premessa del socialismo cioè un frutto velenoso basato su una concezione ateistica e di falsa uguaglianza che va combattuta foss'anche con le armi fasciste.

Non meraviglia, dunque, che tra le prime disposizioni del regime appaiano donazioni a favore della Chiesa, concessioni di privilegi che da trenta anni erano stati limitati o aboliti54 e non da ultimo la riforma della legge sulle Opere Pie di cui lo stesso pontefice Pio XI si rallegra. A tali provvedimenti faranno seguito, con gli Accordi lateranensi del 1929, la nuova legge matrimoniale e la legge sugli enti ecclesiastici, con le quali si ripropone la giurisdizione della Chiesa sia sulla formazione delle famiglie sia sulla beneficenza ed assistenza55. I due cardini della politica sociale cattolica vengono, cioè, riproposti e valorizzati dallo Stato fascista che pur ritiene di dare alle istituzioni religiose una delega parziale e circoscritta, supponendo di poter mantenere nelle proprie mani l'educazione dei giovani e delle famiglie, nonché l'organizzazione del lavoro e del tempo libero.

Per spiegare, tuttavia, il favore che il fascismo ottiene dal clero e da larga parte dei cattolici italiani non basta enumerare le molte agevolazioni che il regime offre alla Chiesa, né l'ossequio e la centralità che torna a darle nella vita pubblica e privata, poiché vi sono elementi culturali che possono giustificarne ampiamente il senso. La difesa della proprietà e l'esaltazione della famiglia, ad esempio, non possono trovare che un'eco favorevole presso i cristiani che ne hanno fatto per secoli i capisaldi della loro dottrina e dello pratica quotidiana [Goody 1991]. Non che il culto della

lega insieme ai viventi i trapassati, la vita eterna con la benedizione del Cielo" [Preti 1980,216] 52 La marcia su Roma non riceve aiuti o favori dal clero, ma non si concretizza neppure in violenze a persone o a cose sacre, a dimostrazione di come fin da allora si prova a non deteriorare i rapporti con la Chiesa. In seguito i fascisti devastano le organizzazioni operaie cattoliche lasciando integre, però, le piccole banche, le mutue, gli enopoli e i caseifici [Jemolo 1952] 53 Battelli evidenzia l'ampio consenso che i vescovi accordano al fascismo a seguito di una loro "intima essenza" caratterizzata dal culto dell'autorità, la diffidenza verso talune libertà civili, un radicato antibolscevismo, una propensione corporativistica in materia di assetto economico e sociale [Battelli 1986] 54 Già nel dicembre del 1922 si definisce il passaggio della biblioteca chigiana al Vaticano, nel gennaio 1923 si stabilisce un finanziamento per la ricostruzione delle chiese danneggiate dalla guerra, nel marzo dello stesso anno con solennità sono riappesi i crocefissi nelle corsie del policlinico romano, nel marzo del 1924 il consiglio dei ministri proroga ed amplia le disposizioni relative agli assegni al clero, stabilendo un largo esonero degli ecclesiastici dal servizio militare. Al pari tempo risorgono vecchie tradizioni abbandonate con le quali, in ogni pubblica cerimonia, le autorità civili rendono omaggio a quelle ecclesiastiche, richiedendone la presenza e la santa benedizione. 55 La chiesa ottiene, negli anni seguenti, la più ampia interpretazione delle leggi concordatarie ad opera di una magistratura incline ad assecondarne i voleri; in specie sulla materia matrimoniale, la legge complessa e farraginosa diviene, come ricorda Jemolo, semplice e lineare riducendosi al motto:" Ciò che fa la Chiesa è ben fatto; i vincoli che essa riconosce valgono per lo Stato, quelli ch'essa dichiara venuti meno, vengono meno per lo Stato" [Jemolo 1952, 675]. D'altro lato vengono ripristinate le decime soppresse nel 1887, ogni fondazione viene ritenuta suscettibile di essere individuata come ente ecclesiastico, mentre molte confraternite vengono riconosciute con scopo esclusivo o prevalente di culto per sottrarle alla vigilanza statale. Molte agevolazioni, inoltre, la Chiesa ottiene in materia scolastica.

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Vergine Madre possa essere equiparato all'esaltazione fascista della madre prolifica, come ben evidenzia Jemolo, ma certo l'accento posto sull'unità della famiglia, sulla subordinazione femminile, sulla procreazione come scopo essenziale dell'unione matrimoniale non può che trovare concordi i cattolici e le autorità ecclesiastiche. E' mai possibile condannare un regime protettore della famiglia, della proprietà, della patria e della religione senza che si scandalizzino i benpensanti e tutte quelle anime "che il pastore non potrà considerare che come anime a lui affidate?" [Jemolo 1952, 685]. Probabilmente no, pena incorrere in una perdita di potere e di prestigio che la Chiesa cattolica non vuole neppure sfiorare, consapevole dell'influenza che avrebbe potuto trarre dalla risacralizzazione del paese e dalla incipiente costituzione di un nuovo modello di "societas christiana".

E' in questa prospettiva che si pone, d'altro canto, la riforma dell'Azione cattolica, con la quale si procede alla subordinazione dei laici all'autorità ecclesiastica e in particolare a quella parrocchiale, entro cui deve espletarsi l'opera di riconquista della società civile e delle famiglie avviate verso una preoccupante scristianizzazione. Importanti sono dunque le leggi fasciste per "il loro potere insieme inibitorio e pedagogico" ma vanno coadiuvate da una paziente opera di formazione, da attuarsi per mezzo di una più intensa catechesi e della "riconquista del simile da parte del simile" [Ferrari 1986, 968]. Un rilancio, quello della azione sociale dei cattolici che va di pari passo con l'espansione dell'Università Cattolica e delle sue funzioni educativo-scientifiche, cui il Concordato e la rinnovata devozione del Sacro Cuore fanno da supporto sul piano politico e culturale. La Chiesa, complice il fascismo, va così proponendo i capisaldi della sua nuova egemonia verso i quali la società sembra divenire sempre più disponibile [Mangoni 1986]. Sul piano economico si consolida, infatti, il predominio dell'oligarchia finanziaria cattolica e la sua penetrazione nel nuovo sistema agricolo-industriale a cui fanno da sostegno sul piano ideologico, non più e non solo il ruralismo familistico precedente, ma le nuove concezioni produttivistiche e nazionaliste connesse al corporativismo industriale.

In entrambe le forme di welfare d'epoca fascista ai medici e alle politiche sanitarie viene riconosciuto il compito di controllare il comportamento delle nuove e vecchie generazioni di italiani, secondo un processo di medicalizzazione del lavoro, della famiglia e del tempo libero che esalta il potere della medicina scientifica, ma la subordina agli interessi delle classi dominanti e del regime. Con il fascismo, in altri termini, si consolida il processo di integrazione della classe medica, che accetta in modo pressoché incondizionato di farsi garante del nuovo ordine pubblico, facendo propria l'ideologia corporativa e offrendo, anzi, al regime molti degli schemi culturali su cui propagandare il proprio dominio. Non si tratta di un processo lineare né indolore, poiché nel vasto campo delle professioni sanitarie molte voci continuano a far sentire il peso di una tradizione igienista e di impegno sociale che il regime non riesce a soffocare. Tuttavia, dal momento che sono i medici ospedalieri a guidare la politica sanitaria, imponendo il loro nuovo prestigio scientifico, è sulla medicina specialistica e i grandi nosocomi che viene convogliata la maggior entità di risorse e di uomini. Ancora una volta la classe medica deve trovare un difficile equilibrio occupazionale tra il rinnovato sistema degli istituti di assistenza e beneficenza, l'intricato tessuto mutualistico e una struttura di igiene e sanità pubblica sempre più deteriorata. Mentre, infatti, si accrescono le possibilità occupazionali nel campo medico, si ampliano le differenze sociali all'interno della categoria i cui livelli di reddito e di stabilità del lavoro non sono sempre adeguati alle relative responsabilità. Da qui il tentativo dei medici di ricavarsi spazi adeguati di lavoro e di carriera mediante la duplicazione delle attività, l'integrazione dei compensi, l'accumulo di impegni e di obblighi sociali. Nel contempo i medici cercano di salvaguardare la propria autonomia professionale non solo in termini economici ma anche di potere, tentando di instaurare modelli libero-professionale anche all'interno delle strutture mutualistiche ed ospedaliere, dove maggiori sono i rischi di una subordinazione di tipo gerarchico-burocratico. Ancor di più i medici iniziano ad esercitare forme di comando assai accentuate negli ospedali, tanto da instaurare un potere di tipo autoritario e assoluto, tale "da estendere i suoi effetti su tutto il personale ospedaliero, dai medici più giovani ai componenti delle professioni ancillari, fino agli amministratori e al personale addetto ai compiti più semplici e meno qualificati" [Freddi 1990].

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4. Dal passato al presente Nel ripercorrere i processi di definizione delle politiche sanitarie nell'Italia pre-

repubblicana non sembra confutabile il fatto che solo nel ventennio fascista si da avvio alla sperimentazione di un sistema di welfare che, sviluppandosi entro una matrice di modernizzazione reazionaria, ne porta profondamente i segni. Più in generale, tutto il percorso delle politiche socio-sanitarie dall'Unità alla seconda guerra mondiale, sembra improntato da un paternalismo accentratore ed autoritario che solo in rare occasioni cede il posto ad una libera contrattazione di interessi e a una mediazione-regolazione sociale di questi da parte dello Stato. Né deve trarre in inganno il carattere meritocratico di talune politiche, poiché il loro insorgere e protrarsi nel tempo appare più il risultato della volontà di controllo dei ceti dominanti che il risultato del libero gioco di associazioni, enti o formazioni sociali. In questa logica l'esperienza fascista del welfare state, pur nella sua specificità, non va affatto vista come una parentesi nella storia d'Italia che si può facilmente ignorare, ma come un fenomeno le cui radici "sono una parte stessa di quella storia" [Vivarelli 1981]. Continuità, dunque, e non cesure nella creazione di un sistema nazionale di protezione sanitaria, che non significa necessariamente un andamento evolutivo e lineare quasi che fosse sotteso un disegno preordinato di statalismo più o meno compiuto. Se tratti comuni ci sono, molte sono le differenze significative e soprattutto i momenti cruciali di scelta che avrebbero potuto determinare percorsi divergenti e differenziati. Mentre, infatti, sembra confermata l'idea di una "macrocostellazione" storica entro cui si avviano le forme moderne del welfare state [Flora, Heidenheimer 1981], un ruolo più incisivo va riconosciuto alle decisioni prese dai diversi attori entro un impianto di razionalità limitata di cui molti sono consapevoli. In un processo fatto di avanzamenti e retrocessioni, i medici, le donne, alcune gruppi di interesse, taluni impianti ideologici e culturali hanno un effetto combinato innegabile e la loro analisi può aiutare a comprendere le strade intraprese.Nè va sottovalutato il network di relazioni interpersonali che spesso sostiene la creazione di una politica, i cui contenuti e le cui modalità derivano, talvolta, dagli orientamenti e dalle conoscenze di alcuni attori centrali e dominanti [Granovetter 1991].

Si tratta di un processo in cui un ruolo niente affatto limitato giocano le gerarchie e le associazioni cattoliche, responsabili, sul piano ideologico se non materiale, della centralità della famiglia nei processi di riproduzione sociale, al pari della posizione cruciale che vi mantengono l'assistenza e la beneficenza di matrice religiosa [Fargion 1986]. La cultura cattolica, d'altro canto, offre alla nascente imprenditoria italiana il retroterra ideologico su cui impiantare una forma di integrazione agricolo-industriale centrata sull'esaltazione della parsimonia e dell'accettazione del sacrificio, cui fanno seguito i nuovi modelli di organizzazione corporativa del lavoro e di efficentismo lavorativo.

Nel complesso la non risoluzione della questione sociale nell'Italia liberale e la specificità con cui viene affrontata nel ventennio fascista costituiscono uno dei retaggi maggiori che la storia passata consegna alla costituzione e allo sviluppo della Stato repubblicano. Senza entrare nel merito di queste influenze, ci limitiamo a segnalare il peso che ha su molte generazioni d'italiani la lenta e difforme risoluzione della protezione sanitaria. Ci sembra ipotizzabile, infatti, che una delle molte continuità storiche individuabile nel processo di costruzione dello stato nazionale riguardi la mancanza di un'etica pubblica [Ginsborg 1989, Lepre 1993, Barbagallo 1994-95, Paci 1995] i cui fondamenti possono essere ricercati anche nelle modalità con cui si concretizza in Italia il welfare state.

Per un insieme di motivi, che abbiamo individuato nel corso di questo lavoro, le classi dominanti si sono rifiutate di attivare un efficace sistema di protezione sociale nei riguardi dei ceti medi e popolari, occupandosi in modo difforme soltanto degli strati più marginali della popolazione. Ciò significa che è mancato, per un lungo periodo di tempo, un sistema di politiche sociali e sanitarie rivolto ad alleviare non solo le condizioni di deprivazione economica relativa, ma anche le forme di affaticamento, di infortunio, di malattia e di morte che tanto incidono sulla vita degli individui quando sono sottoposti a lavori onerosi e a un ambiente ostile. In altri termini lo

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Stato nazionale avrebbe evitato di "prendersi cura" dei propri cittadini lasciando alle singole famiglie o alle vecchie formule caritativo-assistenziali il compito di offrire sostegno e sicurezza in caso di bisogno; anche quando, abbandonata la strada del liberismo ad oltranza, ci si è spinti sulla via del welfare state, lo si è fatto in modo particolaristico, occasionale, instabile e spesso in condizioni di peggioramento relativo delle modalità di lavoro e di sopravvivenza56.

La mancanza di individuazione nello Stato del soggetto capace di garantire la soddisfazione dei bisogni primari potrebbe, di conseguenza, aver inciso sullo sviluppo di un adeguato sistema di comunicazione con la popolazione, nonché sulla condivisione di una stessa prospettiva affettivo/cognitiva, tanto rilevante per la trasmissione di significati comuni e di comportamenti solidaristici [Malagoli Togliatti, Rocchietta Tofani 1991]57.Un fatto questo che può spiegare, non solo la mancanza di valori e regole condivise tra i cittadini e lo Stato italiano, ma anche l'incapacità, in periodi cruciali della nostra storia nazionale, di giungere ad un "patto sociale" entro il quale incanalare i conflitti e favorire una alternanza non traumatica dei governi [Paci 1995].

D'altro canto non si può non individuare, nel percorso dello Stato nazionale, il quasi cronico stato di ebollizione delle classi popolari che va collegato, secondo Vivarelli, non tanto al tradizionale anarchismo del nostro popolo, allo scarso spirito di autodisciplina o, più tardi, a un certo tipo di resistenza al fascismo, quanto piuttosto alle condizioni obbiettive di vita di queste plebi irrequiete, al loro livello di istruzione e a che cosa fosse per esse, nell'andamento di certe lotte, la posta in gioco [Vivarelli 1981]. Un conflitto latente, dunque, e mai veramente sopito quello dei ceti popolari italiani, che trae origine dalla miseria e dalla precarietà della vita e che si alimenta a causa di una legislazione severa, affidata alla discrezionalità delle forze di polizia, pronta a colpire i semplici sospetti con provvedimenti vessatori, anche quando i presunti nemici della società erano "solo dei poveri diavoli che cercavano di scrollarsi di dosso un po' di miseria" [Vivarelli 1981, 678].

In particolare i primi decenni dell'Unità segnano un periodo in cui lo Stato nazionale si presenta agli occhi delle masse popolari come un vero strumento di oppressione e non certo di identificazione. Ciò vale non solo per l'inasprimento fiscale, l'estensione della coscrizione obbligatoria, la rigidità nella concessione delle libertà personali e politiche, ma anche per l'abolizione di alcuni diritti civici derivanti, ad esempio, dalle vendite dei beni demaniali ed ecclesiastici o dalle abolite legislazioni sociali precedenti, cui non corrisponde, per anni, alcuna contropartita in termini di politiche socio-sanitarie. Alla luce di questi fattori cresce necessariamente una forma di ostilità nei riguardi dello Stato, considerato il garante di una condizione ingiusta e l'artefice di nuovi soprusi, il che spiega, a parere, ad esempio di Santarelli, non tanto l'insorgere di correnti estremistiche all'interno del movimento operaio, quanto la loro forza e capacità di successo nel volgere del secolo [Santarelli 1959]. Il ritratto dello Stato italiano a fine Ottocento che si ricava, ad esempio, dalle "Cronache" di Pareto è quello di uno strumento per la perpetuazione di antichi e di nuovi privilegi e per questo ben lontano da un sistema democratico e rappresentativo.

Né gli anni di Giolitti segnano un effettivo mutamento nella risoluzione della questione sociale che, anzi, appare inasprirsi alla luce delle scelte economiche e territoriali che vengono realizzate e all'accresciuta segmentazione delle classi sociali. Se i bisogni di sopravvivenza vengono garantiti a fasce crescenti di popolazione, grazie anche alla messa in atto del sistema di sanità

56 Utilizzando per analogia la teoria dell'attaccamento [Bowlby 1989], si potrebbe dire che è mancata a molte generazioni di italiani una "entità generale" capace di dare protezione con modalità esplicite e durature, così che a causa delle deprivazioni materiali ed emotive da essa derivanti si sono create situazioni di conflitto talvolta esasperate e una debole, se non assente, etica pubblica. Per una applicazione analogica allo sviluppo degli stati nazionali della teoria dell'attaccamento si vedano le suggestioni presenti nell'opera di Fromm [Fromm 1972]. 57Si noti, continuando nell'analogia, che un buon processo di comunicazione fa da ponte per Wynne [Wynne 1984] tra il comportamento di "attaccamento" e l'instaurarsi della "mutualità" intesa come "modello di impegno reciproco" cui si può giungere attraverso una negoziazione rinnovata e flessibile, capace di rispondere ai bisogni propri ed altrui, soddisfacendo gli scopi ultimi dell'intesa.

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pubblica varato nel periodo crispino, molte altre vengono spinte ai margini della povertà o a scelte dolorose di emigrazione.

La guerra, in tal senso, conferma e rende più manifesta l'ostilità popolare nei confronti dello Stato imputato di nuovi ed incommensurabili sacrifici. Una popolazione alla quale i processi di ampliamento della partecipazione politica danno voce e la rivoluzione russa sembra portare una speranza di salvezza. E' emblematico che proprio la volontà rivoluzionaria dei ceti popolari all'indomani della guerra blocchi quei provvedimenti di assicurazione generale di malattia che, disattesi nel primo decennio del secolo, potevano forse essere approvati se il governo di unità nazionale di Nitti avesse avuto più tempo e maggior forza.

In questa prospettiva le modalità con cui negli anni Venti lo Stato liberale viene sconfitto, possono essere imputate, secondo Vivarelli, ai difetti di un sistema di governo impopolare e alle sue insufficienze rispetto alla questione sociale, sicché in qualche misura il fascismo può essere inteso come il prezzo politico che lo Stato liberale deve pagare per non essere riuscito a ridurre in maniera più radicale, e senza rinnegare del tutto i propri principi, quelle che sono "le cause permanenti di una situazione di ordine pubblico estremamente instabile" [Vivarelli 1981, 679].

C'è da chiedersi a questo punto come mai anche il fascismo non abbia lasciato traccia evidente nella coscienza politica degli italiani, nonostante l'accento posto sull'identità nazionale, sul dovere dei singoli verso la patria e sull'amore per un capo forte e protettivo al tempo stesso. Si tratta di modalità che avrebbero potuto dare i loro frutti se non si fossero presentate in correlazione con un sostanziale impoverimento dei ceti medi e popolari, costretti a sottostare ai nuovi regimi di fabbrica e a una incipiente riorganizzazione fordista dell'economia, in cui però sono assenti gli effetti positivi connessi all'incremento dei consumi, al lavoro garantito, al benessere derivante da un efficace pacchetto di politiche sociali.

D'altro canto, sul piano specifico delle politiche sanitarie, il fascismo, rifiutandosi di governare il rinnovamento del sistema ospedaliero e negando ulteriormente l'assicurazione obbligatoria per malattia a tutti i cittadini, sottrae il paese al movimento riformatore che coinvolge in questi anni larga parte dei paesi europei, aprendo una frattura di portata storica tra l'Italia e il resto dell'Europa che non può dirsi ancora ricomposta. L'analisi di questa frattura, scrive Preti, è l'analisi di una diversità di indirizzi e di ordinamenti tutta italiana, che poggia su un disegno di corporativizzazione secondo cui il regime si sarebbe posto al di sopra di un tessuto sociale disarticolato in una miriade di categorie incapaci di esprimere interessi generali e la cui azione si sarebbe per lo più esaurita "in un reciproco e talvolta logorante confronto volto a inseguire il tornaconto particolare" [Preti 1987, 160]. Un progetto fondato sul principio del "divide et impera" che genera uno statalismo crescente e personalizzato da un lato e dall'altro un particolarismo non privo di conflitti.

Non meraviglia, dunque, che ancora una volta di fronte a deboli processi di identificazione con lo Stato nazionale, vi sia da parte degli italiani una valorizzazione di sistemi tradizionali (la famiglia, la parentela, la comunità) od innovativi (la categoria professionale) incaricandoli, perché così costretti dalle istituzioni pubbliche, di rispondere ai bisogni più immediati di sopravvivenza o di sviluppo. La famiglia, infatti, al pari dell'appartenenza professionale, diviene il luogo deputato dalle stesse politiche sociali alla soddisfazione dei bisogni e al coordinamento delle provvidenze erogate da istituti diversi, creati per far fronte ai processi di riproduzione della forza lavoro, ma ancor più al consenso sociale degli strati più interessati o vulnerabili di essa. Una famiglia che, come ricorda Saraceno, deve essere moderna senza averne gli strumenti pubblici e privati [Saraceno 1981] e che, quindi, deve continuare a far presa sul lavoro femminile e sulla integrazione delle risorse cui partecipano in varia misura tutti i componenti e l'intero sistema parentale.

Se in questi termini, si può spiegare la perdurante difficoltà degli italiani a sviluppare un senso di identità ed appartenenza allo Stato nazionale di contro ad un profondo radicamento delle solidarietà primarie e comunitarie, si può, anche, dimostrare come le politiche sociali siano portatrici di effetti desiderati ed indesiderati di difficile individuazione. Trattandosi di un processo nient'affatto lineare, l'introduzione di ogni politica, ammesso che risponda a finalità integrative e di

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controllo del conflitto, modifica il contesto che l'ha generata complicandolo e producendo una nuova strutturazione di bisogni e di interessi nella quale i conflitti non sono affatto assenti. Né un posto limitato occupano le diseguaglianze sociali, che non vanno, però, interpretate in funzione dei soli rapporti di produzione, ma in relazione alle strutture di genere, alle categorie di rischio, alle fasi del ciclo di vita, alle appartenenze culturali.

In rapporto a questi problemi il tema della cittadinanza sembra confinare eccessivamente l'analisi entro l'agone politico, mentre il problema della modernizzazione e quindi della socializzazione ai ruoli lavorativi sembra spostare troppo l'attenzione sull'area produttiva. E' necessario, invece, introdurre una dimensione di analisi che guardi alle forme in cui in ogni società ci si preoccupa di crescere e mantenere in vita i propri componenti, oltre che generarli: una dimensione che evidenzia anche le risorse di identità, di solidarietà e di cultura di ogni società civile.

Ciò significa che non si può operare un isolamento arbitrario di alcune normative senza incorrere nel rischio di perderne la trama complessiva, né si può limitare il campo di indagine al ruolo del solo Stato o del solo mercato, poiché l'area delle solidarietà tradizionali e degli interessi riproduttivi si intreccia saldamente con l'uno e l'altro settore, determinandone le modalità e riflettendone le scelte.

Nel corso di questo lavoro abbiamo sottolineato il ruolo delle classi sociali, dei sistemi familiari, delle reti di interessi, delle solidarietà categoriali, delle coalizioni di idee e degli orientamenti etico-culturali. Si tratta di una scelta di campo che, come tale, è parziale e contraddice, forse, la necessità di una visione generale del fenomeno, tuttavia essa offre una possibilità ulteriore di riflessione che può dimostrarsi utile quando - come oggi avviene - la rapidità delle trasformazioni in atto sembra modificare i margini e lo stessa esistenza delle politiche di welfare.

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III. L E BASI SOCIALI DELLA POLITICA SANITARIA IN ITALIA DALLA LEGGE 833 AL DLGS 229

Sommario Il 1992 resterà nella storia italiana come l'anno del crollo di un sistema politico e sociale

che, con fasi alterne, ha dominato il paese a partire dagli anni Cinquanta. Il 1992 segna, però, un punto di svolta anche per la politica sanitaria italiana, poichè il decreto 502, approvato nel mese di dicembre, tende a proporsi come una normativa di grande riordino della sanità, con forti ripercussioni sulle modalità di erogazione dei servizi e sul grado di accesso ad essi.

I fattori che hanno influenzato un simile processo di trasformazione sono molteplici, qui si intende sostenere l'ipotesi che i cambiamenti avviati nel sistema sanitario, hanno le proprie radici nella crisi del party government italiano e nelle difficili condizioni economico-finanziarie della fine degli anni Ottanta, ma non di meno nelle trasformazioni culturali del paese e nel ruolo giocato, entro e fuori il settore sanitario, dai ceti medi e dalle diverse coalizioni di interesse. In altri termini, l'attenzione agli orientamenti di valore e alla posizione sostenuta da alcuni network politici e professionali sembra proporre una spiegazione di matrice socio-culturale che si affianca a quelle di carattere politico-istituzionale ed economico-strutturale, generalmente dominanti nell'analisi delle politiche di welfare.

In questa prospettiva, si prende in considerazione la competizione ideologica che sottostà all'introduzione del Servizio sanitario nazionale, nonché i successivi aggiustamenti negli orientamenti di valore dei ceti professionali che hanno sostenuto o avversato la regolazione pubblica del settore. Al prevalere di nuove idee guida, di carattere neo-liberista, si connette, infatti, nel corso degli anni Ottanta, l'accettazione di una trasformazione dei principi basilari della riforma sanitaria da parte soprattutto dei ceti medi. Una accettazione che non prescinde dai fattori di crisi del bilancio pubblico, ma che assai più si collega alla corruzione e agli sprechi di cui la sanità è stata fatta oggetto dai partiti e dai diversi gruppi di potere, non escluse alcune fasce professionali. Il "volto occulto" della sanità e l'uso che le classi dominanti ne hanno fatto è, dunque, alla base di un processo di revisione del sistema sanitario (e per certi versi dell'intero paese) che vorrebbe sostituire ai meccanismi degenerati della regolazione pubblica meccanismi di mercato, nella convinzione che possano esser oggetto di manipolazione e di corruttela in minor misura.

Tuttavia, proprio la competizione ideologica che ha portato alla nascita del welfare italiano, nonchè il senso di identità civile che le politiche sanitarie hanno contribuito a sviluppare tra larghe fasce di cittadini, a partire dagli anni Settanta, fanno da freno ad un cambiamento in senso riduttivo della protezione sanitaria. Mentre, così alcuni strati della grande e piccola borghesia imprenditoriale sostengono una revisione drastica delle politiche di welfare, sostenuti in questo dagli schieramenti politici dominanti nella seconda metà degli anni Ottanta, la maggior parte dei ceti impiegatizi e tecnici, tra cui i molti operatori socio-sanitari delle USL, promuovono l'idea di una correzione "limitata" del sistema sanitario che preveda una gestione "corretta", entro logiche pubbliche. Si tratta di orientamenti ed aspettative che hanno influito sulle scelte dello schieramento politico uscito vittorioso dalle elezioni del 1996, che si è trovato nella condizione di verificarne la fattibilità e l'eventuale estensione alle altre aree di welfare.

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1. La regolazione politica e professionale del Servizio sanitario58 1.1 Dal particolarismo alla corruzione Il Servizio sanitario nazionale (SSN), istituito grazie agli accordi parlamentari scaturiti dai

governi di unità nazionale, nasce nel 1978 (L.833), a seguito di una intensa competizione ideologica e di una crisi economica delle Mutue, cui non è estraneo lo sfruttamento politico della sanità iniziato negli anni Cinquanta e perfezionato nel decennio seguente (Ferrera 1993). Le diseguaglianze nella copertura assistenziale e nelle prestazioni, la frammentazione istituzionale, la duplicazione dei percorsi curativi, lo spreco di risorse umane e finanziarie, altro non sono che i risultati di una azione legislativa che, per anni, considera la sanità come strumento di consenso sociale, grande serbatoio di occupazione, mezzo di finanziamento occulto. A partire da una concezione "patrimoniale" dello stato e grazie ad una radicata cultura clientelare, il sistema mutualistico offre, infatti, un'ammontare crescente di risorse lavorative, monetarie e simboliche da utilizzare a fini di integrazione sociale, ma ancor più di consolidamento del potere di alcuni grandi partiti di governo.

In opposizione ad una simile struttura particolaristico-clientelare, si sviluppa, negli anni Settanta, una domanda di innovazione basata sulla razionalizzazione dei servizi e sull'universalismo-egualitarismo della copertura assistenziale. Il modello di una sanità per tutti, entro strutture pubbliche decentrate, prossime ai bisogni della popolazione e suscettibili, per questo, di un controllo dal basso, trova consensi nei partiti di sinistra e nelle organizzazioni sindacali, ma ancor più nei movimenti sociali che raccolgono, in questi anni di intensa mobilitazione, gli interessi e le idealità di alcuni gruppi professionali emergenti (psicologi, assistenti sociali, sociologi), di alcune frange della classe medica (igienisti e psichiatri), delle organizzazioni femminili e di quanti altri nella riedificazione del sistema sanitario vedono un mezzo per riformare in senso democratico la società italiana.

Peraltro, la richiesta di un rinnovato sistema di servizi sanitari e sociali si connette alla definizione di un nuovo ruolo amministrativo (se non ancora politico) dei comuni e delle regioni, ai quali dovrebbe andare la gestione diretta del Servizio sanitario nazionale. Si tratta, invero, di una domanda in parte contraddittoria per le dinamiche che oppongono i fautori della regionalizzazione con i sostenitori delle municipalità, ma che lega l'universalizzazione dei diritti sociali con il riconoscimento delle differenze territoriali. In tal senso, mentre si avanza una forte richiesta di cittadinanza sociale, si definisce e si rinsalda un "senso civico" di appartenza che trova il suo essere nell'ente locale (città o regione), inteso come strumento di mediazione tra le radici storico-culturali degli individui e la rappresentazione universale-cosmopolita dei diritti politici e sociali (Bimbi 1996).

La risoluzione della crisi delle mutue si presenta, dunque, entro una cornice ideologica assai intensa che vede schierati da una parte e dall'altra non solo partiti ed istituzioni pubbliche, ma anche coalizioni economiche e di interesse professionale che fanno perno su orientamenti di valore contrapposti e su opposte modalità di erogazione dei servizi. I medici, ad esempio, nella loro grande maggioranza tendono a schierarsi contro una riforma che si presuppone aumenti la regolazione pubblica, limitando il potere e l'autonomia professionale a lungo preservati entro le organizzazioni mutualistiche. Punto fermo della Federazione nazionale degli ordini (FNOM) è che non si travolgano i fondamentali principi di libertà ed indipendenza del rapporto medico-malato, tanto che alle incertezze del futuro "quasi si preferisce la rassicurante conoscenza del tradizionale nemico"(Secco 1996, 211), cioè di quel sistema mutualistico che è stato oggetto per anni di attacchi formali, ma di compromessi sostanziali da parte delle organizzazioni mediche.

Del clima di contrasto ideale e materiale tra i diversi schieramenti, è dimostrazione il

58 Una parte del lavoro qui presentato è stato pubblicato in Storia dell'Italia repubblicana, Volume III, L'Italia nella crisi mondiale. L'ultimo ventennio, Torino, Einaudi 1997 con il titolo “La politica sanitaria tra continuità e innovazione”

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senso di sconfitta con cui viene accolta, da parte dei medici, l'emanazione della legge 833, di una riforma che non accoglie nessun emendamento proposto dalla FNOM, non riconosce alla categoria alcun ruolo nel governo della sanità ed esclude persino una distinzione del ruolo medico sul piano contrattuale e normativo.

Se i medici sono apparentemente sconfitti, e per questo dimostreranno in seguito ampi sentimenti di rivalsa, i partiti di governo traggono dal nuovo Servizio sanitario un duplice ed immediato vantaggio: il ripiano straordinario del debito mutualistico, che viene trasformato in debito pubblico, e una regolazione diretta ed ancor più ampia del settore sanitario. La scelta, infatti, di creare un sistema integrato e a larga dominanza pubblica, nonché decentrato sul territorio, enfatizza il controllo politico-partitico della sanità e al contempo le possibilità di scambio occulto e di uso particolaristico delle risorse sanitarie.

Nella configurazione iniziale degli organi di governo delle Unità sanitarie locali (USL) e nei successivi assetti istituzionali il personale politico è previsto, in modo pressochè esclusivo, sia nelle Assemblee, che sono incaricate di funzioni di programmazione, indirizzo e controllo, sia nei Comitati di gestione, che sono responsabili di tutti gli atti amministrativi del nuovo sistema. Come ricorda Berlinguer, l'immediata lottizzazione delle ben 11.OOO cariche delle USL da parte dei partiti, conduce negli organi di gestione individui, non solo privi di competenze tecniche, ma spinti da sentimenti di rivalsa, in quanto spesso bocciati nelle elezioni amministrative e non cooptati negli apparati di partito (Berlinguer 1994).

Come hanno fatto notare, inoltre, della Porta e Vannucci, due tendenze comuni ai sistemi democratici moderni sembrano aumentare le occasioni di corruzione e malamministrazione: la quantità di decisioni allocate attraverso meccanismi politici, piuttosto che di mercato e il moltiplicarsi dei centri decisionali, attraverso il decentramento amministrativo (della Porta e Vannucci 1994). In tal senso la costituzione delle USL offre opportunità apparentemente illimitate di uso strumentale delle risorse sanitarie: si creano nuove occasioni di lavoro, si aprono nuovi posti di potere, si intensificano gli acquisti di farmaci e di nuove tecnologie, si creano nuovi ospedali, si incrementano le possibilità di patteggiamento con i gruppi professionali interni e gli interessi organizzati esterni. Il tutto entro un sistema in cui non è prevista alcuna differenziazione tra le responsabilità di finanziamento e di produzione dei servizi e in cui manca, per scelta, una guida tecnica sul piano gestionale. Se i medici, infatti, vengono tenuti fuori dal governo delle USL, ma anche da una loro responsabilizzazione piena e diretta, il "governo politico" dei nuovi organismi crea una debolezza congenita dei quadri amministrativi, che tentano o una colonizzazione del sistema, riuscendovi in casi eccezionali, o il ripristino di quelle modalità di dipendenza reciproca con gli amministratori-politici, tipiche di una logica clientelare e di corruzione.

1.2 Interessi ed etica medica E' in questo quadro che i medici, a partire dai primi anni Ottanta, avviano una duplice

azione di rivalsa, l'una giocata sul piano formale, dei rapporti contrattuali e politici, l'altra sul piano sostanziale dei rapporti di potere entro le strutture sanitarie.

Fanno parte della prima offensiva strategica le ripetute richieste dei sindacati di categoria e della FNOM di vedere riconosciuto il "ruolo medico", una differenziazione della posizione giuridico-lavorativa dei medici come garanzia della "libera valutazione dei tempi e dei modi ritenuti necessari per meglio corrispondere alle necessità diagnostiche, terapeutiche e riabilitative"59. Se, in questo modo gli interessi della categoria vengono idealmente posti in relazione con quelli del cittadino, nei fatti si prefigura un vero e proprio scambio politico che prevede la costituzione del ruolo medico come compenso all'impegno di partecipare attivamente agli obbiettivi della riforma sanitaria (Secco 1996).

Si avvia, così, un lungo braccio di ferro tra le organizzazioni mediche e le parti politiche

59 Cit. in Secco 1996, 214

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che porta ad alcuni successo nei contratti nazionali di lavoro e raggiunge il suo apice nel 1986, quando il governo Craxi firma una intesa nella quale si stabilisce che nell'area medica debbano essere trattati tutti gli istituti normativi ed economici della categoria (Vicarelli 1986). A tale presa d'atto, non corrisponde un provvedimento legislativo, anche se l'anno seguente i medici ottengono l'auspicata introduzione del numero programmato nelle Facoltà di Medicina, nonché l'articolazione del comparto sanità in due aree negoziali distinte (i medici da un lato, il restante personale dall'altro).

In questo periodo, le spinte provenienti dall'associazione dei giovani laureati, preoccupati dei tassi crescenti di disoccupazione, portano la FNOM ad abbracciare l'idea di un regime di incompatibilità tra i rapporti di lavoro dipendente e i rapporti di lavoro convenzionato. Ciò presuppone, solo apparentemente, un ridimensionamento dell'autonomia medica, poichè il nuovo regime deve salvaguardare le posizioni raggiunte e contemplare, come contropartita, la possibilità di esercizio della libera professione all'interno e all'esterno delle strutture sanitarie pubbliche.

Ad una simile controffensiva sul piano legislativo, si accompagna una strisciante presa di posizione e di potere di alcuni esponenti della categoria all'interno delle Unità sanitarie locali e nei centri decisionali più importanti. Se la FNOM, infatti, si vede riconosciuto il diritto di contribuire alla programmazione sanitaria solo dopo una lunga battaglia politica, alcuni medici, grandi esponenti di partito o collocati in posizioni di rilievo, occupano, in tempi assai più brevi, i punti chiave del sistema sanitario e del paese.

Eclatante la storia di Cirino Pomicino e di De Lorenzo che giungono alle più alte cariche di governo, compreso il Ministero della sanità. Si tratta di una ascesa politica che trova nei rapporti privilegiati con i pazienti le sue prime radici e che si spiega con la costruzione di una rete, via via più articolata, di relazioni economiche, finanziarie, politiche, amministrative, in un gioco ad incastro che prevede intese trasversali (tra DC e PLI ad esempio), finalizzate alla gestione di ingenti risorse pubbliche (Musella 1996).

In questa logica, anche se ad un livello più basso, si pongono molti altri medici la cui clientela professionale viene utilizzata per l'elezione politica e la cui appartenenza politica determina l'avanzamento di carriera in ambito sanitario. Non pochi sono i primari che divengono tali per "meriti politici", scrive Antonella della Porta, così come non pochi i medici che divengono amministratori di enti o delle stesse USL per uguali benemerenze (della Porta 1992). Da questo punto di vista l'attività politica e quella professionale diventano l'una il sostegno dell'altra in una spirale crescente di compromessi, protezioni, intese60, che fanno perno sul potere di singole personalità o di veri e propri "comitati di affari". Ciò significa che la commmistione tra le due sfere si presenta assai più intensa e complessa che in passato, quando l'una dominava sull'altra, a seguito di un predominio più esplicito della società civile su quella politica e viceversa.

Ciò che va evidenziato è che l'insieme di questi comportamenti trova giustificazione in un sistema etico-professionale secondo cui il benessere del paziente è prioritario e i medici sono gli unici depositari del sapere ad esso necessario. Sia che enfatizzi la competenza scientifico-tecnica, sia la vocazione antropologica del proprio mestiere (Cosamcini 1996), il medico sembra muoversi all'interno di un sistema di valori in cui si esalta il rapporto individuale con il paziente, piuttosto che la responsabilità nei riguardi della comunità più ampia. Infatti, date le particolari modalità di sviluppo della professione in Italia (Vicarelli 1999), è mancata alla categoria una presa di coscienza generale e nazionale del proprio ruolo, con la conseguenza che accanto a pratiche corporative si sono giustificati rapporti personalistici con i pazienti (tali da sorreggere ogni forma di scambio o di dominanza), nonché modalità di rifiuto verso i limiti e gli obblighi imposti dall'uso del denaro e delle strutture pubbliche. La retorica professionale, di conseguenza, rifiuta, in tutti questi anni, una visione sociale della medicina e si traduce in una esaltazione dell'utile del cliente che ben si confà alla cultura clientelare e patrimonialistica del paese. 60 La Corte dei Conti ha stimato che le sole tangenti pagate ai politici dalle case farmaceutiche nel periodo 1983-1993 abbiano ammontato a circa quindicimila miliardi complessivi ed abbiano portato un aggravio medio di tremila miliardi annui per la finanza pubblica a causa dei prezzi artificialmente maggiorati (Ferrera 1995, 13).

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D'altro canto, come nota Pizzorno, i soggetti, sia corrotti, sia normali si muovono su terreni molto simili poichè caratterizzati da "amicizia, generosità, sodalizio, reciprocità, chiacchiera, compagnoneria, companatico, insomma, modi tradizionali, o inattesi ed escogitati, per stabilire solidarietà"; al tempo stesso simili sono le qualità che li accomunano e che riguardano la capacità di intessere relazioni e legami di fiducia forti, di indurre a mutui favori, di stabilire obblighi reciproci (Pizzorno 1992,9). In questo senso la medicina e il rapporto medico-paziente sono antropologicamente soggetti allo sviluppo di forme di solidarietà, generosità ed aiuto, così che i medici, più di altri professionisti, si trovano su terreni che si lasciano facilmente piegare a transazioni particolaristiche .

Infine, la crisi che, a partire dagli anni Ottanta, investe la categoria, in termini di diminuita stima da parte dei pazienti (Tousjn 1987), incrementa la volontà di molti sanitari di trovare nel ruolo politico o nel potere economico quel prestigio che una volta era riservato alla attività professionale. Nè è da sottovalutare il fatto che, proprio a seguito della riforma sanitaria, la FNOM incentiva i suoi iscritti a presentarsi nell'agone politico per affrontare, direttamente e senza interposte persone, i problemi derivanti dalla debolezza e sconfitta della categoria.

Dunque, se è vero, come scrive Pizzorno, che per comprendere le malversazioni nella pubblica amministrazione occorre tener conto delle condizioni che influenzano il singolo scambio amministratore-cittadino, ma anche delle reti di interazione che legano corrotto e corruttore, nonché del sistema istituzionale di procedure che vincola gli agenti pubblici al perseguimento dell'interesse generale (Pizzorno 1992; della Porta e Vannucci 1994), si può affermare che, in ambito sanitario, l'etica e la pratica medica creano condizioni facilitanti, se non determinanti, l'instaurarsi di reti ed aggregati di "amicizia ed affari". I medici partecipano direttamente o indirettamente a questo sistema, trovandovi la possibilità di regolare una organizzazione sanitaria dalla quale sono stati istituzionalmente tenuti fuori e che essi riconquistano offrendo ai nuovi "soggetti dominanti" le proprie reti di potere o la propria tacita indifferenza.

Regolazione politica e regolazione professionale, trovano, dunque, negli anni Ottanta, un nuovo connubio che si fonda su un medesimo rapporto con le strutture e le risorse sanitarie pubbliche, quello dettato da un'etica patrimonialistica e personalistica, che si avvale di canali paralleli ed illegali di controllo.

2. Il governo economico della sanità 2.1 Le leggi finanziarie e la normativa regionale Il processo di attuazione della legge 833, non si scontra soltanto con il tentativo di

mantenere inalterato il dominio partitico-particolaristico della sanità, ma anche con l'obbiettivo di rivedere le finalità e l'assetto istituzionale della riforma. Si tratta di un attacco al Servizio sanitario nazionale che viene condotto su una molteplicità di piani e che vede coinvolti soggetti sociali e politici differenti.

Un primo livello di intervento va riconosciuto ai governi di pentapartito che si alternano nel corso degli anni Ottanta e che assegnano, con poche eccezioni, la guida della sanità e del paese ad esponenti liberali o socialisti: due componenti politiche che avevano avversato la riforma o l'avevano tiepidamente sostenuta.

La capacità di regolazione governativa sulla sanità si esprime mediante le leggi finanziarie e attraverso quella che si può identificare come la legge delle tre T (dei tagli, dei tickets e dei tetti di spesa). Facendo leva su un dibattito artificiosamente sostenuto e acriticamente importato dall'estero, secondo cui la crisi economica dei moderni welfare states va imputata ai livelli eccessivi di spesa, i diversi governi, fin dal 1981, realizzano provvedimenti di blocco degli organici e delle assunzioni, di sospensione e limitazione nei riguardi di prestazioni ad alto costo o a carattere sociale, di divieti di realizzazione di nuove strutture. Nel contempo essi incentivano, attraverso i tickets sui farmaci e sulle prestazioni, modalità, sempre più ampie e diffuse, di compartecipazione

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dei cittadini alla spesa sanitaria, la quale viene predefinita in modo arbitrario, con la necessità di doverne rivedere, anno dopo anno in sede di consuntivo, i tetti sottodimensionati61. Parallelamente molte delle norme di attuazione della riforma, che dovevano essere emanate per iniziativa dei ministeri competenti, restano nel cassetto, così che all'incertezza delle risorse si aggiunge quella sulle regole e le istituzioni che avrebbero dovuto guidare il Servizio sanitario.

I governi degli anni Ottanta, dunque, realizzano interventi per nulla marginali, ma dettati dai vincoli finanziari annuali e dagli umori variabili di chi sostiene, volta a volta, il dicastero della sanità; una regolazione economica solo in apparenza, poichè, a detta di molti, essa risulterebbe finalizzata ad una lenta dequalificazione del sistema pubblico, correlata a progetti di privatizzazione sempre più chiaramente perseguiti.

Entro questa logica, comincia a prendere forma l'idea di responsabilizzare nel controllo della spesa le regioni, nonché i medici di famiglia, accusati di essere i primi decisori della domanda sanitaria. Su entrambi i versanti, tuttavia, il governo si scontra con una decisa opposizione. Mentre i medici, rifiutano, nel nome della propria autonomia, ogni controllo di tipo burocratico, assumendo una posizione sempre meno collaborativa verso il SSN, le regioni rivendicano un ordinamento istituzionale nuovo, che le renda operanti sugli assetti finanziari delle USL.

Se quest'ultimo aspetto ripropone la vecchia questione del ruolo da attribuire ai comuni o alle regioni nel governo della sanità, è pur vero che gli enti regionali dimostrano, in questi anni, di saper influenzare ugualmente le scelte organizzative e gestionali delle USL, nonché indirettamente quelle finanziarie (Veronesi 1994). Il processo di innovazione che il Servizio sanitario impone a livello locale implica, infatti, non solo la codifica di normative regionali, con il conseguente schieramento di forze e di interessi a favore o contro la riforma, ma anche la trasformazione di un intero sistema organizzativo che presenta ampie differenze territoriali. Ne derivano tempi diversi di attuazione e variegate modalità di configurazione delle USL, ma anche una realizzazione complessiva della riforma più coerente nelle aree del Centro-nord piuttosto che in quelle del Mezzogiorno.

In specifico nelle regioni del Centro Nordest, le amministrazioni locali paiono in grado di convogliare nel nuovo sistema sanitario le risorse finanziarie ed umane che scaturiscono da un ambito economico di piccola impresa particolarmente fiorente. E' qui che il benessere, le libertà politiche e le nuove modalità di coesione sociale trovano la migliore combinazione, adattandosi ad una organizzazione familiare e comunitaria in trasformazione. Alle modifiche negli assetti familiari, al calo demografico, alla diminuzione dei matrimoni fa da contrappeso, infatti, un sistema di servizi pubblici efficiente, spesso integrato da un nuovo associazionismo solidale, di matrice laica e non solo religiosa (Ascoli 1994). Nelle regioni del Nord-ovest, invece, tale equilibrio appare più difficile da realizzare per un impegno più modesto delle amministrazioni locali sul versante sociale e per maggiori difficoltà economiche derivanti dalla crisi della grande impresa. D'altro canto nelle regioni del Mezzogiorno, alla scarsità di risorse economiche e professionali fa da contrappeso una arretratezza politico-civile che trova ulteriori giustificazioni nel sistema di illegalità che vi domina.

2.2 Il disagio degli operatori E' in questo scenario che occorre collocare le molte figure professionali non mediche, che,

nel corso degli anni Ottanta, operano nella sanità o a stretto contatto con essa. Si tratta di operatori (psicologi, assistenti sociali, logopedisti, educatori ecc.) che hanno costruito la propria identità professionale sui principi e sugli obbiettivi del Servizio sanitario e ne hanno condiviso, non solo l'impianto culturale, ma anche la vocazione sociale in termini di universalismo delle prestazioni e di responsabilizzazione collettiva del benessere. _Negli anni di attuazione della riforma, tuttavia, essi si trovano a dover salvaguardare la propria posizione lavorativa e al contempo il nuovo assetto 61 Tra il 1980 e il 1986 il disavanzo tra risorse preventivamente allocate e risorse effettivamente consumate, dopo essere stato dell'11% nel primo triennio, si stabilizza tra il 4,5% e il 6,4%; dal 1987 al 1992 il disavanzo medio è del 12%, con una punta massima del 20,3% nel 1990 (Veronesi 1994)

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sanitario sottoposto, come si è visto, agli attacchi concentrici del vecchio sistema partitico-clientelare, nonché delle autorità amministrative locali e nazionali.

Tali operatori, mentre procedono verso il riconoscimento istituzionale del proprio lavoro, finiscono per scontrarsi con un sistema di servizi che, quando non risulta assai diverso dagli obbiettivi istituzionali, presenta non poche difficoltà di realizzazione e di coerenza interna. Lo stesso principio etico della responsabilità collettiva viene continuamente minacciato o reso inoperante per la scarsità delle risorse attribuite ai servizi territoriali, la conflittualità latente dei medici e l'antagonismo delle strutture ospedaliere. Se ciò determina, sul piano personale, condizioni di burnout sempre più estese, sul piano lavorativo fa prevalere posizioni di compromesso, di mediazione, di limitazione della progettualità, quand'anche non di esplicito corporativismo. La perdita progressiva della finalità sociale, lascia, infatti, spazio a posizioni autoreferenziali entro cui dare senso al proprio lavoro, così che in tale processo "di riduzione della complessità", le mansioni, il servizio di appartenenza, la categoria professionale divengono l'involucro micro-strutturale in cui rifugiarsi per dare ordine e senso al proprio agire.

Più in generale sembra farsi strada, nel disordine delle condizioni lavorative e nella insoddisfazione soggettiva che esse procurano, la consapevolezza che si debbano rivedere alcuni elementi costitutivi del Servizio sanitario per renderlo meno dominato dalla politica e dai suoi interessi economici. Tuttavia tali richieste si accompagnano, come osservano Guidicini e Pieretti, alla domanda di "legami forti" cioè, di un modello di ordine interno alla struttura che si richiama al passato (il modello organico di tipo gerarchico) o che rinvia alle capacità gestionali di un manager privato (Guidicini, Pieretti 1989, 278).

A tali domande si affianca la ricerca di una nuova identità professionale, che, talvolta, si tenta di spingere sul piano clinico e tecnologico, per adeguarsi agli indirizzi dominanti, talaltra, verso l'area del volontariato e del terzo settore, su cui sembrano raccogliersi le spinte solidaristiche e la cultura del servizio che avrebbero dovuto improntare la sanità pubblica. Tra queste tendenze, si pone un bisogno diffuso di nuovi contenuti formativi e di nuovi orientamenti di valore che sembrano indirizzarsi verso una etica indistinta, che conduce ad una sempre maggiore attenzione verso l'utenza: "verso gli specifici bisogni che essa esprime, verso i livelli di sofferenza che in essa sono presenti"(Guidicini, Pieretti 1989, 282). Una etica di spessore apparentemente non forte, ma estremamente diffusa, che va verso un terreno "minimo" comune a tutti i servizi e a tutte le figure professionali. Si tratta di un orientamento ancora sfumato negli anni Ottanta, ma che troverà all'inizio del nuovo decennio una propria legittimazione nella rivendicazione della "qualità" del servizio, intesa sia in termini di efficacia che di sua umanizzazione.

Diverso, ma non dissimile nei risultati, il percorso seguito da un'altra categoria che occupa una posizione cruciale entro il Servizio sanitario: quella degli infermieri. Il loro peso assoluto nell'organizzazione sanitaria non è limitato, trattandosi di soggetti che rappresentano il 37% del personale dipendente, tuttavia per le caratteristiche socio-professionali che li contraddistinguono essi non si presentano né un come gruppo di influenza, né tantomeno di pressione. Sono, infatti, in larga misura donne, con un senso di identità professionale in via di costruzione, una scarsa capacità organizzativa e una lunga prassi di assoggettazione o dipendenza dal ruolo medico.

Nonostante le direttive CEE ratificate dall'Italia nel 1973 il lavoro infermieristico, negli anni Ottanta continua ad essere molto empirico, privo di metodo, non finalizzato ad obbiettivi consapevolmente stabiliti, troppo poco autonomo e sostanzialmente non coinvolto in forme di collaborazione paritaria con altri operatori (Saccheri 1994). Inoltre, a parte le carenze e le contraddizioni della legislazione emanata in questo periodo (Prandstraller 1995), le scuole per infermieri stentano sia a recepire in modo uniforme le spinte all'innovazione, sia a confermare nell'attività lavorativa i cambiamenti adottati nei processi formativi. Ne deriva una situazione schizofrenica che aumenta il disagio e il rifiuto di una occupazione sottodimensionata negli organici e non sufficientemente qualificata. Un rifiuto che, quando non si esprime nel pre-pensionamento o nell'abbandono del posto di lavoro, si dimostra in una profonda insoddisfazione che porta a valutare in modo positivo solo l'organizzazione degli orari, cioè l'occasione che questi concedono di

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dedicarsi alla famiglia o altre occupazioni. Inoltre anche i contenuti etici più innovativi che vengono proposti nelle scuole per

infermieri, divengono, se applicati in Italia, ambigui e contraddittori. L'etica del "prendersi cura" del malato, in una situazione ospedaliera sempre più dominata da una medicina ad alto contenuto tecnologico, significa considerare non solo i suoi diritti, ma anche e soprattutto i suoi bisogni materiali e relazionali (Reich 1996; Manara 1995). Reich parla di una tensione tra due modelli etici diversi: il primo, proprio dell'etica neo-illuministica moderna, risulterebbe incentrato sullo schema dei diritti e dei doveri, privilegiando il carattere della imparzialità e della universalità, il secondo, farebbe del riferimento particolare e concreto ai bisogni della persona la misura fondamentale del proprio criterio etico. La proposta di Reich è di portare l'attenzione sulla seconda modalità, verso un'etica "in cui i diritti, doveri, norme e principi non vengono dissolti ma sono piuttosto ricondotti al loro contesto di origine, a quella specie di terreno vitale (i tedeschi lo chiamano Sitz im Leben) dentro al quale soltanto diventano comprensibili" (Reich 1996,12). In questa prospettiva, l'etica dell'universalità sembra fare da sfondo e da presupposto all'etica della cura, tuttavia in un ambito socio-culturale, come quello italiano, dove la prima non ha sufficientemente attecchito, l'accento posto sulla seconda può risultare fuorviante, contribuendo a determinare una duplice posizione: quella di condanna di un sistema sanitario che prescinde dai bisogni dei pazienti e quella di giustificazione di una modalità assistenziale che, di fronte alle inefficienze delle strutture pubbliche, rende necessario il ricorso a strade privilegiate o a fughe verso i servizi privati, compresi quelli offerti dagli stessi infermieri.

Questi due orientamenti sono, in realtà, compresenti nella pratica infermieristica, poichè la limitata autorità professionale, la frammentazione associativa e la scarsa visibilità sociale della categoria, impediscono che essa prenda una netta posizione contro le trasformazioni del SSN messe in atto negli anni Ottanta. Mentre così la Federazione nazionale dei collegi e alcune grandi associazioni spingono per ottenere un iter formativo di carattere universitario, concentrando su questo versante la loro capacità di pressione, le spinte contraddittorie che gli infermieri subiscono li porta ad equilibri incerti, cui fanno da riscontro sindromi sempre più esplicite di burnout. Se nel burnout pesano, infatti, fattori soggettivi, non meno evidenti sono le variabili organizzative e di contesto, soprattutto laddove il disagio assume una diffusione assai ampia. Una sindrome questa che ha come diretta conseguenza l'inefficienza del servizio o la sua bassa produttività, dovute allo svilupparsi di reazioni negative nei riguardi dell'utenza che viene o lasciata a se stessa o governata autoritariamente (Garena, 1994, Furlotti 1994).

3. La rivolta dei ceti medi 3.1 Una solidarietà più personalizzata Stante queste modalità di realizzazione del SSN e di collocazione in esso di alcune figure

chiave per i processi di cura, non meraviglia che, nel corso degli anni Ottanta, i cittadini italiani abbiano dimostrato una crescente insoddisfazione per le prestazioni sanitarie, considerandole inefficienti e non adeguate ai loro bisogni (Geddes 1992). D'altro canto, secondo una ricerca condotta dal Censis, ben il 39,4% degli italiani avrebbe fatto ricorso, in questi anni, ad una "figura-chiave" per garantirsi una maggiore facilità di accesso ai servizi o una migliore qualità delle prestazioni. Si tratterebbe di una forma di intermediazione ricercata essenzialmente dai ceti medi urbani e dai residenti nelle regioni del Centro-sud dove, come si è detto, alla diffusione del fenomeno non è estranea un'offerta di servizi disfunzionale e meno coerente con gli obbiettivi della riforma (Censis 1989).

Più in generale, tuttavia, gli italiani dimostrano di assumere comportamenti innovativi nei riguardi della salute e domande differenziate verso il sistema sanitario pubblico. Nel 1970 un sondaggio demoscopico aveva rivelato che nella sua grande maggioranza la popolazione non adottava comportamenti di tipo preventivo, pur in presenza di forti timori che alcune malattie gravi

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- tumore, infarto- potesse colpirla. Il ricorso al medico, di conseguenza, era finalizzato in maniera pressoché esclusiva alla cura dei sintomi. Ancora alla fine degli anni '70, "la diffusione della prevenzione dentale o di alcune pratiche igieniche elementari, del tipo pulizia dei denti e igiene accurata del corpo, interessava poco più del 50% della popolazione" (Censis 1989).

Nel corso degli anni Ottanta, invece, come evidenzia una ricerca condotta da Ferrera e Zincone, risultano ormai diffuse pratiche di "prevenzione sommersa" che si basano sulla convinzione che la protezione della salute è strettamente correlata con lo stile di vita. Ne deriva che la cura del corpo, lo sport, l'attenzione all'alimentazione, l'equilibrio psico-fisico, diventano gli imperativi categorici di chi pensa di poter accedere ad un livello maggiore di benessere, senza ricorrere necessariamente alla medicina (Ferrera, Zincone 1984). A tali comportamenti si legano, peraltro, modalità di autocura, di duplicazione dei percorsi sanitari, di accesso alla vasta gamma delle medicine dolci (Censis 1989).

Poichè questa pratica di self management della salute risulta radicata, secondo il Censis, in gruppi di livello sociale medio-alto, nella donna e in alcune zone dell'Italia, è probabile che possa essere correlata con l'emergere di alcuni ceti sociali "progressivi" che Paci ha di recente individuato con il termine "nuovo lavoro dipendente" (Paci 1996). Gli impiegati pubblici e privati, gli insegnanti, ampie fasce del lavoro operaio e tecnico andrebbero configurando, nel corso degli anni Ottanta, un nuovo soggetto sociale che trae la sua crescente omogeneità dalle condizioni occupazionali improntate all'auto-organizzazione e all'autonomia, nonché dalla forte presenza femminile al suo interno e da livelli medio-alti d'istruzione. Condividendo la stessa pressione fiscale, le medesime condizioni di vita urbana ed un eguale rapporto con lo stato, questi ceti paiono sviluppare nuovi bisogni, ma non una negazione del ruolo regolativo e solidaristico del soggetto pubblico, da cui ampiamente dipendono.

Relativamente al sistema sanitario, ad esempio, non meraviglia che gli impiegati e gli insegnanti risultino i maggiori fruitori della sanità pubblica e al tempo stesso i soggetti più critici nei suoi riguardi. La scarsa fiducia che viene dimostrata verso il medico di base, infatti, non si correla ad un uso limitato di tale servizio, come avviene per la borghesia imprenditoriale e professionale, la quale tende a scavalcarne la figura per rivolgersi direttamente alla medicina specialistica privata. Proprio perché nell'impossibilità di accedere al mercato privato o perché si trovano nella posizione ideologico-culturale di non volerlo fare, queste aree sociali dimostrano aspettative crescenti verso il sistema pubblico, al quale chiedono, però, maggiore qualità nelle prestazioni e una più ampia personalizzazione. Contemporaneamente, esse dimostrano, nella relazione medico-paziente maggior grado di propositività e indipendenza, nonché percorsi di cura autogestiti ed alternativi, che evidenziano, secondo alcuni, una nuova "cultura della soggettività" o "dell'autonomia" (Guidicini, Pieretti 1989).

In questa prospettiva, dunque, che si può definire di solidarietà più individualistica (Diderichsen 1996), il nuovo lavoro dipendente esprimerebbe una domanda politica attenta "alla qualità della vita urbana, all'efficienza della pubblica amministrazione e all'efficacia dei servizi pubblici" (Paci 1996, 772). Una domanda che, sul piano sanitario, tende a ricercare una maggiore flessibilità e qualità del sistema pubblico così come si realizzano in alcune "isole di efficienza e di onestà civile, che sono - per usare le parole di Sylos Labini - più frequenti e più ampie di quanto molti pensino" (Sylos Labini 1986).

3.2 L'etica del benessere individuale ed egoistico In una indagine realizzata in Francia all'inizio degli anni Ottanta, Pierret aveva individuato

presso i quadri intermedi una concezione della salute abbastanza simile a quella sostenuta in Italia dai nuovi ceti medi dipendenti, poichè imperniata sulla valorizzazione degli aspetti istituzionali e collettivi. Questa modalità di "salute-istituzione" si contrapponeva alla "salute-prodotto", tipica di famiglie con reddito medio e alto, secondo le quali il benessere era il risultato di comportamenti individuali e per certi versi narcisistici. Come ricorda la Pierret:

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tutti coloro per i quali la salute è un prodotto (e una produzione) parlano e partono da se

stessi tanto più volentieri quanto più hanno una concezione relativamente volontarista delle loro pratiche quotidiane e delle loro abitudini. Detto questo sarebbe un errore credere che essi ignorino il sociale. Al contrario. il sociale che li concerne, è presentato come una costrizione, non come un rapporto. Essi sono prima di tutto impegnati nel denunciare il modello sociale come un sistema di norme e di valori che si impone loro e ne ostacolano la libertà. Come illustrato dall'attenzione rivolta alle differenti pratiche del corpo, questo modello è criticato in nome del piacere (Pierret 1986,224)

Per tali categorie, dunque, le pratiche del corpo sono iscritte in una valorizzazione del

piacere e del dover piacere che si traduce in un negoziato tra il risultato immediato e il rischio futuro per la salute. Tanto è vero che, questi ceti, ricorrono ampiamente al consumo sanitario sia preventivo che curativo.

Tornando all'Italia, questa seconda concezione della salute sembra assai tipica della neoborghesia professionale ed imprenditoriale. Le poche ricerche italiane sull'argomento individuano, infatti, tra i dirigenti ed assimilati una "cultura del mercato" che si caratterizza per l'utilizzo assai scarso dei servizi socio-sanitari pubblici (Guidicini, Pieretti 1989) e per un accesso a servizi specialistici privati improntato "ad una cultura della salute che sottolinea la qualità e il benessere della vita quotidiana" (Ranci, Ielasi 1994,419).

Su queste posizioni convergono non solo gli imprenditori e la borghesia finanziaria, che peraltro ricavano diretti vantaggi dall'ampliamento del mercato assicurativo e delle strutture sanitarie private, ma anche altri strati sociali che, pur con le loro diversità interne, costituiscono un'area politicamente e culturalmente assai vicina. La neoborghesia di piccola e media impresa, i capitalisti della produzione immateriale, gli strati più tradizionali del commercio e dell'artigianato condividono, in questi anni, una avversione crescente per la regolazione pubblica, così come il timore di veder indebolita la propria posizione economico-sociale dai processi di modernizzazione e di allineamento del paese all'Europa. Essi hanno in comune anche una cultura centrata sul successo e "sulle proprie forze", che esalta l'uso strumentale delle istituzioni e delle risorse pubbliche. Mentre i ceti medi impiegatizi, infatti, riconoscono allo Stato un ruolo irrinunciabile per la protezione e il benessere collettivo, la piccola borghesia autonoma, tende ad individuarne la funzione di impedimento e di laccio al libero dispiegarsi dei propri interessi, pur traendo dalla protezione politica ampi benefici.

Non è da escludere, inoltre, che su questi soggetti, che hanno conosciuto una rapida ascesa sociale o che rappresentano strati tradizionali di lavoro autonomo con bassi livelli di istruzione (piccoli commercianti ed artigiani), pesino orientamenti di valore di matrice contadina, secondo cui il ricorso ai servizi sanitari è necessario solo in casi gravi e improrogabili. In altri termini, non è improbabile che essi risentano di una "cultura dell'essenzialità", propria delle classi sociali più basse, secondo cui la salute non va intesa come benessere, quanto come assenza di malattia e di sofferenza (Guidicini, Pieretti 1989). Da qui un uso limitato dei servizi pubblici ed una loro svalorizzazione a favore di forme di protezione sanitaria di carattere essenzialmente economico, tali da permettere, nel caso "malagurato" di una malattia, il ricorso ai servizi di mercato più appropriati e magari più costosi.

Queste posizioni inducono, da un lato, alla richiesta di poter uscire, volendolo, dal sistema sanitario nazionale, cercando percorsi individuali di auto-tutela, dall'altro di poter abbinare liberamente percorsi sanitari pubblici e privati. Si tratta di domande che trovano ripetuti accenni nell'agenda politica degli anni Ottanta e che vengono sostenute da soggetti diversi. Ad esempio, mentre il partito liberale e in certa misura quello repubblicano, ne fanno un tema ricorrente dei loro programmi, nel 1985 due documenti di fonte istituzionale propongono, per la prima volta, una possibile riorganizzazione in tal senso della sanità. Il primo documento della Ragioneria generale dello stato prevede di ridurre la copertura assistenziale alla sola spesa ospedaliera e alle limitate

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attività di igiene e sanità pubblica, lasciando a carico dei cittadini tutte le altre prestazioni; in tal modo si suppone di poter ridurre del 31% le aliquote contributive, liberando una consistente massa di risorse per il mercato sanitario privato. La seconda proposta, del Ministro della Sanità Degan, prevede che i cittadini, sei mesi prima dell'entrata in vigore dei piani sanitari nazionali e per tutto il triennio, optino per l'esclusione, completa o parziale, dall'assistenza pubblica con esonero dal pagamento delle relative quote di contributo (Vicarelli 1989).

Tali progetti non ottengono, invero, il consenso né del Parlamento, né del governo, ma continuano ad essere sostenuti da soggetti istituzionali, tanto che nel disegno di legge che il Ministro De Lorenzo presenta nel 1989 e nel decreto legge che il governo Amato propone al paese nel dicembre del 1992, è inserita la possibilità che i cittadini scelgano forme di tutela assicurativa o mutualistica concorrenziali, rispetto alla copertura pubblica.

Da questo punto di vista, all'inizio degli anni Novanta, sia la Lega che Forza Italia continueranno a dar voce alle richieste di riduzione del welfare della borghesia imprenditoriale ed autonoma, così come in precedenza avevano fatto il partito liberale e in modo crescente il partito socialista. A partire dal 1983, infatti, i partiti e le coalizioni di governo propongono modalità di riforma della legge 833 che spingono verso l'aziendalizzazione delle USL e al contempo verso una maggiore privatizzazione del sistema sanitario. Si tratta di proposte e disegni di legge che si susseguono l'uno dopo l'altro e che risentano del clima culturale creatosi a seguito delle nuove acquisizioni tecnologiche e specialistiche della medicina. Le conoscenze mediche e biologiche, infatti, sono oggetto, in questi anni, di un formidabile impulso che contribuisce ad enfatizzare le aspettative di salute della popolazione, ma anche i limiti di una protezione sanitaria che dipenda interamente dalla tutela pubblica. Ciò significa che mentre si costituisce per la prima volta in Italia un mercato sanitario ad alta intensità di capitale, che male sopporta le restrizioni degli apparati pubblici, l'incremento della spesa sanitaria, reale e paventato, rende più forti le richieste di coloro che vorrebbero ridurre l'intervento pubblico.

Di fronte, poi, alla constatazione che le differenze sociali, nel corso degli anni Ottanta, tendono ad accrescersi anziché diminuire (Paci 1993) e che ad esse corrispondono tassi di mortalità e di morbilità assai differenti, i progetti di riduzione selettiva della copertura assistenziale pubblica trovano interlocutori anche tra le forze politiche e sociali che l'avevano fino ad allora osteggiati. Se appare vero, infatti, che "nel 1981 un analfabeta dimostra un rischio di morte, in età precoce (18-54 anni) doppio rispetto ad un laureato" (Vicarelli 199', 395) e che esso accede ai servizi sanitari in modo limitato, ricorrendo soprattutto ai servizi d'urgenza (ospedale, pronto soccorso, medico di base), diventa accettabile l'ipotesi che le poche risorse pubbliche vengano indirizzate verso chi ne ha reale bisogno.

Inoltre come ricordano Ranci e Ielasi, presentando dati riferiti agli anni Ottanta, I tassi d'uso relativi a cinque servizi sanitari di grande diffusione (medico di base, medico

specialista, accertamenti diagnostici, ricovero in istituto di cura, consultorio familiare) risultano notevolmente e sistematicamente meno elevati nelle aree meridionali del nostro paese e sempre più elevati nell'area Nord-occidentale (Ranci, Ielasi 1993, 414).

Ciò significa che continuano a presentarsi marcate differenze regionali sul piano

dell'offerta e della domanda sanitaria, nonostante il riequilibrio territoriale che il SSN avrebbe dovuto realizzare e che, di fatto, riguarda soltanto le strutture ospedaliere (a seguito del taglio dei posti letto) e in certa misura la capacità di spesa: mentre, infatti, nel 1977 la spesa sanitaria pubblica nel Friuli eccedeva del 23,7% la spesa nazionale e quella del Molise era pari solo al 67%, alla fine degli anni Ottanta la spesa massima si registra nel Friuli ma con una eccedenza del 14,9% e quella minima nella Basilicata, con uno scarto di un eguale valore (Vicarelli 1994). Peraltro, secondo alcuni osservatori, la qualità del servizio diverrebbe più diseguale essendo "migliorata in alcune zone, soprattutto del Centro-nord e peggiorata in altre, soprattutto del Sud e in molte grandi città. Essa ha punte di eccellenza di livello internazionale e aree di depressione più simili al Terzo

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mondo che all'Europa" (Berlinguer 1994, 306). Una situazione questa che rende più forte la posizione di chi rivendica maggiore autonomia decisionale alle regioni ed una loro incisiva azione finanziaria e gestionale per il raggiungimento dei livelli minimi di assistenza.

4. Verso un nuovo assetto regolativo Nel corso degli anni Ottanta l'attuazione del Servizio sanitario coincide, dunque, con una

vasta ristrutturazione degli interessi, degli orientamenti di valore e delle domande politiche dei cittadini italiani, i quali vivono una profonda trasformazione economica e sociale del paese, ma non un eguale mutamento sul piano politico. Le difficoltà sempre più gravi che si registrano in termini di governabilità, non riguardano tanto la direzione da assicurare ai processi di riorganizzazione produttiva e finanziaria in atto (nonostante la vischiosità degli interessi consolidati), quanto sul tipo e il grado di mediazione sociale da attuare per renderli efficaci. In questo senso il dibattito sul welfare appare cruciale, poichè su di esso si pone la frattura tra chi pensa di poter smantellare le rigidità del mercato e con esse l'apparato di protezione e di mediazione pubblica creato nel dopoguerra, e chi, invece, ritiene di poter percorrere una via più "morbida" sul piano sociale e dei consumi (De Felice 1996).

I partiti del "rigore" e della "spesa" rappresentano queste due modalità che si fronteggiano, senza realmente contrapporsi, e alle quali si affianca una terza posizione, propria di chi, sulla continuità col passato, ritiene di poter accrescere i propri vantaggi. Questo terzo partito della "immobilità" ha la meglio sugli altri per tutti gli anni Ottanta, quando le neutralizzazioni reciproche e le difficoltà nell'individuare risultati concreti da parte dei partiti, portano il sistema ad una condizione di stallo. In sanità, ad esempio, nel dibattito incerto e sfumato che percorre l'agone politico sulle limitazioni da effettuare, ad avere la meglio non sono coloro che spingono verso la riduzione drastica della copertura pubblica, né coloro che propendono per una razionalizzazione del sistema ed una sua eventuale maggiore selettività, ma chi approfitta del clima incerto che domina per accrescere il proprio tornaconto personale.

Ciò che va sottolineato, inoltre, è che le stesse posizioni di quanti spingono verso il mercato o viceversa verso lo stato, non appaiono mai esplicite né politicamente differenziate, poichè, come ha fatto notare Ferrera, tutti i partiti (di governo e di opposizione) evitano accuratamente di trarre svantaggi politici da una qualsivoglia riduzione dei benefici sanitari. Emblematici sono i patteggiamenti e le gare al ribasso messe in atto dai diversi soggetti politici in occasione del previsto ticket sul ricovero ospedaliero, nonché su tutte le forme di compartecipazione alla spesa sanitaria (Ferrera 1995). Inoltre, se uno stesso partito, può indifferentemente assumere ora una posizione di rigore ora una di spesa, come ben dimostra il PSI, ciò significa che i due blocchi di interesse non trovano nel sistema tradizionale di rappresentanza una precisa collocazione.

Tuttavia operatori e cittadini vivono con crescente disagio la nascita malforme del Servizio sanitario, formulando domande di cambiamento, che derivano da un aumentato livello di benessere e di autonomia culturale, ma anche dalla consapevolezza di una disfunzionalità del sistema pubblico, largamente collegata al dominio professionale e politico scaturito dalla riforma. Lo scoppio di tangentopoli, da questo punto di vista, convince anche i più forti sostenitori del SSN della inevitabilità della sua riorganizzazione e della possibilità che una regolazione di mercato sia, alla fine, più corretta di quella pubblica.

D'altro canto tra il 1992 e il 1993 tutti i vertici della sanità italiana vengono posti sotto accusa dalla magistratura e l'ampiezza della corruzione che ne emerge suscita l'indignazione popolare che si sente colpita, non solo per la natura del bene coinvolto, ma perché "il pagamento di tangenti ha coinciso con provvedimenti governativi di restrizione dei servizi sanitari, a danno dei lavoratori e dei cittadini più poveri, rendendo così palese e odiosa l'ingiustizia da loro subita" (Berlinguer 1994b,308). Non va dimenticato, infatti, che le dimissioni del ministro De Lorenzo nel marzo del 1993 (dopo l'arresto del padre, presidente del più grande ente di previdenza medica:

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l'ENPAM), fanno seguito all'introduzione, nel dicembre precedente, di nuovi tagli alla spesa sanitaria, della tassa sul medico di famiglia, dell'aumento della compartecipazione alla spesa sanitaria, all'introduzione del metodo dei bollini per le prestazioni gratuite. Un sistema, quest'ultimo, che paralizza la distribuzione dei farmaci e che ne determina un calo improvviso valutato attorno al 30%.

Se è facendo riferimento a questo clima politico-culturale e alla precedente ristrutturazione degli interessi e dei valori che si può intendere la coalizione contro il sistema sanitario pubblico che si crea nei primi anni Novanta, non occorre dimenticare che essa non assume i tratti di una vera coalizione anti-universalistica ed anti-statalistica, come ritiene Ferrera, poichè due anime contrapposte continuano a sostenere i processi di cambiamento del Servizio sanitario (Ferrera 1995). Infatti, se la neoborghesia di piccola e media impresa, assieme alla borghesia finanziaria ed imprenditoriale, spinge verso la privatizzazione del sistema e la sua limitazione ai solo interventi di urgenza, il vasto ceto dei dipendenti pubblici e privati, colpito dalla crisi economica e dai tagli alla spesa, mantiene una posizione di fiducia nella copertura pubblica, nonostante il vasto sdegno per l'inefficienza del sistema e la sua corruzione. In tal senso non meraviglia che, in una ricerca internazionale, l'Italia presenti il più alto numero, dopo gli USA, di cittadini che chiede correttivi al sistema sanitario (86% del totale), i quali si suddividono, tuttavia, tra chi vorrebbe una completa ristrutturazione del SSN (40%) e chi, invece, modifiche sostanziali (Crotti 1992).

In questa prospettiva, se il governo Amato riesce a far approvare nel dicembre del 1992, un vasto decreto di riordino della sanità (DL n.502), portando a compimento, grazie alla particolare congiuntura politica ed economica di quei mesi, la legge elaborata da De Lorenzo e voluta nel decennio precedente dai governi di pentapartito, tutta una serie di contromisure, volte a modificare il decreto vengono avviate nei mesi seguenti. Mentre, ad esempio, si raccolgono firme per la richiesta di referendum abrogativo, otto regioni62 fanno ricorso alla Corte costituzionale perché siano dichiarate illegittime alcune norme lesive della autonomia e del potere locale. Nel contempo si realizzano spinte politiche di vario spessore affinché il governo Ciampi, eletto nell'aprile del 1993 dopo le dimissioni del presidente del Consiglio Amato, riveda le parti del decreto relative al ricorso all'assistenza indiretta e alla copertura mutualistica alternativa al Servizio pubblico. Si tratta di forze che pesano sulla decisione del nuovo ministro democristiano alla sanità, Maria Pia Garavaglia, che nel novembre del 1993 fa approvare alcune importanti modifiche al decreto 502 (DL n. 517) e in specie l'articolo 9 in cui "le forme differenziate di assistenza" divengono "forme integrative finalizzate a fornire prestazioni aggiuntive rispetto a quelle assicurate dal Servizio sanitario nazionale".

Va detto che questa revisione non è accolta favorevolmente dai ceti medi imprenditoriali e dai loro nuovi partavoce politici, tanto che Pannella e la Lega propongono immediatamente di indire un referendum abrogativo per sostenere la libertà di iscrizione al Servizio sanitario. Una tesi che torna ad essere presente nei programmi politici degli schieramenti che si fronteggiano alle elezioni del 1994 e del 1996, in cui Pannella e la Lega rivendicano l'abolizione dell'obbligo di iscrizione al Ssn, contro Rifondazione comunista che difende ad oltranza l'assetto sanitario scaturito dalla legge 833. I due raggruppamenti maggiori si muovono, invece, in una prospettiva di "riforme senza rottura", anche se il Polo delle libertà propone "uno stato sociale decisamente alleggerito nelle sue funzioni, nelle sue responsabilità e, dunque, nei suoi costi" (Ferrera 1986,7) e l'Ulivo una razionalizzazione che faccia perno su un pacchetto di prestazioni di cittadinanza sanitaria, sulla stabilità e non la riduzione della spesa, sulla organizzazione federalista e sulla piena realizzazione di un sistema competitivo, controllato e regolato, fra diversi tipi di fornitori.

Può meravigliare che, nonostante l'approvazione del decreto 502 e delle sue modifiche, il dibattito politico proceda sulle medesime tematiche e contrapposizioni, come se le scelte fatte non contassero nulla. In realtà, numerosi fattori bloccano, in questi anni, l'applicazione normativa, tra 62 Si tratta della Campania, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Valle d'Aosta, Veneto che chiedono alla Corte Costituzionale di dichiarare illegittimi gli art. 1,3, 4,6,7,8, 10,12, 13, 14 del decreto 502 (Marletta 1993)

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cui la lentezza legislativa delle regioni, le difficoltà nella scelta e nomina dei direttori generali, l'incertezza nella destinazione di alcuni presidi ospedalieri (con la relativa mobilità del personale), l'incompleta definizione dello status degli operatori del settore in attesa di una chiarificazione ed effettiva realizzazione. L'impressione è che, nonostante le enunciazioni di principio e la previsione di strumenti innovativi sul piano formale, non si riesca, nelle singole realtà territoriali, ad andare più in là di una

rassicurante ordinaria amministrazione che non vuole né colpire gli sprechi, né favorire la

razionalizzazione nell'uso delle risorse umane e materiali. Il clima generale sembra essere quello di una ingessatura in una successiva progressione di attese: in attesa che entrino a regime su tutto il territorio nazionale le specifiche figure professionali con la connessa responsabilità di gestione; in attesa delle nuove regole sulla formazione dei direttori generali; in attesa del completamento dei rinnovi contrattuali (Procaccini, Pietrolata 1996,265).

Nè occorre escludere l'attesa per le nuove consultazioni elettorali e il passaggio da governi

tecnici a governi politici. Infatti, poichè il riordino avviato si presenta non solo ampio, e quindi di lenta applicazione, ma anche ambiguo e aperto a soluzioni contrapposte, molti sembrano ritardarne l'applicazione per aspettare un governo politico che faccia le scelta necessarie sui punti centrali della riforma. Aldilà delle innovazioni gestionali in termini di autonomia delle aziende sanitarie e dei grandi ospedali, di responsabilizzazione delle regioni, di controllo economico dei servizi, infatti, la chiave della riorganizzazione consiste nella concorrenza che si vuole introdurre tra i fornitori di servizi "per la conquista di una quota delle limitate risorse disponibili all'interno del sistema sanitario complessivo" (France 1994). Si tratta di una concorrenza "simulata" o "amministrata", cioè sottoposta a regole e controlli accurati affinché si determinino reali miglioramenti nella qualità e nei costi delle prestazioni e non effetti negativi sullo stato di salute della popolazione, sull'equità e l'efficienza dei servizi. In questa prospettiva, diventa cruciale la definizione dei criteri di ammissione dei soggetti pubblici e privati al mercato amministrato, così come i gradi di scelta dei cittadini nell'utilizzo delle strutture sanitarie. Temi di fronte ai quali si trova il nuovo governo di centro-sinistra che nel nel 1996 affida il Ministero della sanità all’onorevole Rosy Bindi, la terza donna ad occupare questa carica in Italia.

5. Le basi sociali della transizione Alla fine degli anni Settanta, a conclusione di un periodo di grande mobilitazione socio-

culturale, l'Italia sperimenta il passaggio da un sistema sanitario di tipo meritocratico ed occupazionale ad uno di carattere universalistico a regolazione pubblica. Tale transizione coincide con l'inizio di un cambiamento, analogo per entità ed importanza a quello realizzatosi nei vent'anni precedenti, in cui il paese trasforma la propria struttura economica assumendo una configurazione industriale. L'istituzione del Servizio sanitario coincide, cioè, con la crescita del settore dei servizi, del lavoro impiegatizio e professionale, della tecnocrazia, in altre parole di quella che è stata definita la società post-industriale (Paci 1996).

Ciò significa che una modalità di tutela sanitaria elaborata nei vent'anni precedenti, tanto è lungo l'iter di riforma che conduce al SSN, si trova ad essere realizzata in condizioni sociali profondamente mutate e a rispondere a bisogni in via progressiva di trasformazione. Gli stessi soggetti forti che l'avevano voluta, in primis la classe operaia e i partiti di sinistra, presentano segni di crisi e, comunque, di perdita di quell'egemonia che avevano saputo proporre al paese, pur senza guidarlo. Mentre, così, si accrescono i ceti medi autonomi e dipendenti, che elaborano stili di vita e comportamenti sanitari più consapevoli ed autodiretti, il nuovo sistema si trova a dover subire gli attacchi di chi si oppone alla sua esistenza, a nome delle libertà di mercato, e di chi, viceversa, tramite essa, tenta di dare continuità allo sfruttamento politico e particolaristico delle risorse pubbliche.

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Grazie ai governi di pentapartito, che si susseguono nel corso degli anni Ottanta, infatti, il processo di colonizzazione della sanità trova nella creazione delle USL incentivi maggiori, piuttosto che il suo declino, con il risultato che, dentro lo stesso sistema pubblico, cresce un mercato parallelo ed occulto che ne divora le risorse a velocità incontrollata. Da questo punto di vista, su un'etica patrimonialistica e particolaristica si rinsaldano gli interessi di gran parte della classe medica (soprattutto ospedaliera) e di quei politici di professione, trasformatesi, come scrive Paci, "in una specie di nomenklatura, preoccupata assai più della propria riproduzione che del proprio ricambio" (Paci 1996,766).

Contemporaneamente i ceti medi e medi superiori che guidano il processo di ristrutturazione produttiva e di modernizzazione del paese, si mobilitano per ottenere spazi di azione in un mercato sanitario in crescita e in grado di reggersi, per la priva volta, senza il supporto pubblico, trovando nelle nuove tecnologie e nei nuovi bisogni di salute strumenti e domande adeguate alla sua espansione. Le spinte espresse da questi ceti, che auspicano la riduzione della tutela pubblica o almeno una sua maggiore elasticità, si incontrano con le esigenze della borghesia autonoma tradizionale (commercianti, piccoli artigiani) che spera di poter fronteggiare il declino economico e sociale da cui è colpita, sfuggendo ai vincoli imposti da una protezione pubblica di cui, fino ad ora, ha goduto senza particolari costi. Questi strati occupazionali, peraltro, esprimono una concezione della salute molto strumentale al lavoro ed assai poco attenta alla prevenzione, così che la copertura sanitaria, piuttosto che come opportunità, viene vissuta come ostacolo ai magri processi di capitalizzazione che essi riescono a sviluppare. La tassa della salute, ad esempio, introdotta per far produrre ai ceti medi un gettito contributivo più simile a quello del lavoro dipendente, viene vissuta come un iniquo balzello da parte di uno stato inefficiente e sempre meno protettivo.

A tale allineamento dei ceti superiori e della borghesia autonoma, sembra corrispondere una sostanziale omogenizzazione del lavoro dipendente, cui fa seguito domande di servizi e di benessere abbastanza simili. Insegnanti, impiegati pubblici e privati, operatori socio-sanitari, tecnici ed operai garantiti, pur sviluppando stili di vita urbani di tipo moderno e pur considerando inadeguata la qualità dei servizi pubblici, tendono ad una valorizzazione del welfare state al quale chiedono di rinnovarsi profondamente. Una ristrutturazione che si pensa di poter realizzare con un maggior rigore economico e mediante l'aiuto delle associazioni volontarie, coinvolte in modo crescente nella assistenza sociale e sanitaria (Ascoli 1994). Il dibattito che si sviluppa, infatti, nella seconda metà degli anni Ottanta, sul ruolo dell'associazionismo volontario, inteso come ambito contrapposto alla regolazione statale e alla libertà di mercato, rappresenta gli interessi di chi, cercando nuove forme di soddisfazione dei bisogni, non intende rinunciare a solide garanzie pubbliche. Non a caso, sono i ceti medi dipendenti ad ingrossare le file del volontariato e i loro figli ad entrare negli interstizi di un mercato del lavoro sociale, che offre opportunità occupazionali di livello medio, seppure nel breve periodo. Né occorre dimenticare che qui si ricostruisce quella cultura del servizio e dell'aiuto alla persona, sulla quale si incontrano le spinte etiche verso la solidarietà da parte sia dei laici che dei cattolici. Si tratta, d'altro canto, di un ambito entro cui le associazioni cattoliche ricostruiscono la propria influenza, procedendo alla modernizzazione delle loro più consuete forme di sostegno verso gli strati poveri e marginali.

Da questo punto di vista l'area in espansione del lavoro impiegatizio e gli strati in regressione della classe operaia trovano un comune sentire verso una riforma del sistema sanitario che proceda alla differenziazione dei bisogni e delle risposte, in un'ottica di decentramento dei servizi e delle responsabilità. Tali ceti individuano nelle regioni del Centro Nordest, la prova di un cambiamento possibile, poichè conseguente alla capacità dei partiti e delle forze sociali di trovare un terreno di reciproco sostegno nella costruzione di una sanità equa ed efficiente.

Su questa costellazione di interessi e di orientamenti di valore, dunque, si pone la vasta indignazione per la malasanità che fa seguito a tangentopoli e che esaspera posizioni già ampiamente delineate. Al venir meno dei capisaldi istituzionali e professionali della corruzione e del malaffare, corrisponde, infatti, tra i ceti medi dipendenti il convincimento della necessaria riorganizzazione del Servizio sanitario e tra la borghesia imprenditoriale ed autonoma la volontà di

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ridurre la regolazione pubblica del settore. In tal senso, ciò che appare sicuramente sconfitto è il principio del controllo "politico" della sanità, che la legge 833 aveva introdotto in un'ottica di maggiore democrazia e controllo dal basso , dopo l'esperienza deficitaria e iniqua delle mutue.

Così, mentre tutti dimostrano di accettare la sostituzione del potere politico con quello tecnico, mediante l'aziendalizzazione delle USL e la loro direzione manageriale, sul carattere pubblico e privato della protezione sanitaria si apre una guerra, sempre più aperta, tra chi spinge verso la destrutturazione del sistema e chi, invece, tende alla sua riorganizzazione. Si tratta di una contrapposizione che procede a colpi di emendamenti sul decreto 502, che spinge i diversi soggetti istituzionali a forme esplicite od implicite di opposizione o di attesa, che trova, infine, un'eco diretta negli schieramenti politici costituitosi dopo la crisi di tangentopoli, i quali si configurano come due blocchi divisi più sulle scelte di carattere sociale e occupazionale che su quelle finanziarie e produttive.

Il prevalere dello schieramento di centro-sinistra, nella primavera del 1996, dimostra che i ceti rivolti al mantenimento dello stato sociale hanno avuto la meglio e che aspettano scelte adeguate e conseguenti da parte della nuova coalizione di governo. Tuttavia, il margine esiguo della vittoria con il conseguente peso politico delle forze opposte, gli ampi interessi della classe medica e delle associazioni sanitarie private, la volontà di protagonismo delle regioni e delle autonomie municipali, le domande di riconoscimento delle associazioni volontarie, l'insoddisfazione latente dei cittadini, rendono il quadro assai complesso e di difficile risoluzione. Se è vero, come scrive Berlinguer, che il nuovo governo corre il pericolo di attardarsi in un "conservatorismo di sinistra" (Berlinguer 1994), è proprio sulla sfida a superare la crisi del Servizio pubblico, riconquistando la fiducia del cittadini, che egli gioca gran parte della sua credibilità e stabilità futura. Una sfida che il Dlgs 229 voluto dal Ministro Bindi sembra aver accolto ottenendo un vasto consenso sociale come ha dimostrato, proprio in questi giorni, la prima Conferenza nazionale sulla sanità.

Ciò che va sottolineato è che, in tempi di cambiamento veloce come quelli attuali, gli sviluppi di una politica sociale possono essere arbitrari e inaspettati, così come ampio è lo spettro degli attori che si deve chiamare in causa per la loro comprensione. In particolare, nel campo delle politiche sanitarie, le conoscenze professionali e i valori morali, gli interesse economici e le spinte politiche hanno un peso determinante che influenza in modo marcato la formazione e il contenuto delle decisioni pubbliche; a questi fattori occorrerà, dunque, continuare a guardare per comprender gli assetti futuri della sanità italiana.