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    Tascabili BonannoComitato Scientifico

    Giuseppe Barone   (Storia)Rita Cavallaro (Sociologia)Francesco Coniglione   (Filosofia)Santo Di Nuovo (Psicologia)Fernando Gioviale   (Cinema e teatro)Enrico Iachello (Identità e territori)Ignazio M. Marino  (Diritto)Riccardo Motta   (Politologia)

    Carlo Pennisi   (Politiche e Servizio Sociale)Graziella Priulla (Comunicazione) Armanda Jane Succi   (Relazioni Pubbliche) Maria S. Tomarchio  (Pedagogia)Sebastiano Vecchio  (Linguaggi)

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    Francesco Coniglione

    POPPER ADDIO Dalla crisi della filosofia della scienza

    alla fine del logos  occidentale

    Bonanno Editore

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    Proprietà artistiche e letterarie riservateCopyright © 2008 – Bonanno Editore

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    INDICE

    Prefazione

    1. L’idea “ricevuta” di scienza e la sua critica  1.1. La “tradizione ricevuta”: ragione, logica e metodo 1.2. La “Received View” e la sua crisi interna

    1.2.1. I caratteri fondamentali della “Received View” – 1.2.2. La

    critica della “Received View”  .1.3. Thomas Kuhn e i paradigmi scientifici1.4. Imre  Lakatos e i programmi di ricerca scientifici1.5. L’addio alla ragione di Paul K. Feyerabend  

    2.  Nuove strade e vecchi vicoli ciechi  2.1. La cacciata dal Paradiso2.2. Il ritorno del descrittivismo:

    l’epistemologia naturalizzata2.3. La tesi forte del rimpiazzamento e sua variante debole2.4. L’epistemologia evoluzionista e Konrad Lorenz  2.5. Il ritorno della sociologia della scienza  2.6. Il costruttivismo e la diss oluzione della realtà  

    2.7. L’approccio femminis ta alla scienza2.8. La morte della razionalità s cientifica in Richard Rorty  

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    PREFAZIONE 

    Il contenuto di questo volume avrebbe dovuto costituire in ori- gine la parte conclusiva della seconda edizione del mio volumeIntroduzione alla filosofia della scienza. Un approccio storico (attualmente in fase avanzata di lavorazione; la prima edizioneè stata pubblicata nel 2004), che – nella sua prima versione –terminava a dire il vero un po’ bruscamente, lasciando il discorso

    alle soglie di quella vera e propria rivoluzione nel campo della fi-losofia della scienza che è iniziata con gli anni ’70 e che non pos-siamo ancora dire conclusa. Esso si limitava così a presentarequelli che erano i temi “classici” della disciplina, come consegna-taci dalla grande stagione che si era aperta col neopositivismoviennese e che poi aveva avuto la sua continuazione e il suo con-solidamento disciplinare negli Stati Uniti dopo la seconda guerramondiale. Si arrivavano insomma a delineare le concezioni di-venute paradigmatiche di Carnap, Hempel, Nagel e di Popper edi tanti altri filosofi della scienza che con essi dialogarono, pole-mizzarono, si differenziarono, rimanendo purtuttavia all’internodi una comune visione della razionalità scientifica che – al di làdelle differenze e delle enfatizzazioni (come ad es. quella che

    spesso contrapponeva le concezioni di Popper a quelle degli eredidel neopositivismo) – era condivisa e difesa nella convinzione che fosse possibile individuarn e i caratteri metodologicamente caratte-rizzanti e quindi fosse possibile proporla a modello di ogni altradisciplina che volesse accedere a livelli accettabili di scientificitàe di discriminazione critica. Non che non esistessero all’interno diquesta tradizione motivi di crisi, punti oscuri e temi in cui si eser-citava una vivace polemica; ma si riteneva comunque che ciò a-vesse carattere “locale” e comunque temporaneo, nella fiducia chela discussione critica e il lavoro dell’analisi potessero risolvere prima o poi ogni questione e che, in ogni caso, per quanto grave fosse il dissidio, esso non intaccasse l’immagine di cristall ina ra-zionalità che era incarnata nel modo più eccellente dall’impresa

    scientifica e il cui piú tipico rappresentante – anche se non unico– è stato Karl Popper.

     Ma la storia stava in agguato e ben presto tutti i punti critici precipitarono in una crisi generalizzata quando vi fu chi seppeoffrire una visione nuova e dissacrante della scienza. Di solito si

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    vede in Thomas Kuhn l’elemento catalizzatore di essa, che assumeil carattere di una critica interna (ed a volte esterna) dell’imma- gine “ricevuta” di sc ienza consegnata dai grandi maestri del neo-empirismo e condivisa da Karl Popper (al di là dei dissensi “loca-li” su particolari aspetti, come il ruolo dell’induzione, della con- ferma e della metafisica) , che dei suoi caratteri di razional ità èstato il piú significativo, pugnace ed influente difensore. Sicché lacrisi inizia proprio con una critica del suo pensiero, visto come ilbaluardo principale di una visione della scienza irrealista e or-mai obsoleta, al punto da poter tratteggiare la storia della rifles-sione sulla scienza degli ultimi decenni come un “lungo addio” a

    Popper (il che, tra l’altro, giustifica il titolo di questo libretto). Edè appunto da qui che doveva cominciare il discorso lasciato in so-speso nella prima edizione della Introduzione. Ma via via ilmateriale da aggiungere cresceva, si inserivano sempre nuove te-matiche e protagonisti e si vedeva che la storia non si poteva af- fatto concludere con i tre rappresentanti standard della cosiddetta filosofia post-positivista (Kuhn, Lakatos, Feyerabend), in quantonumerose strade erano state nel contempo aperte, innumerevoli problemi erano stati suscitati (o risuscitati) e così la pagine au-mentavano sempre più, facendo correre il rischio di una elefanti-asi del vecchio volume che finiva per diventare scomodo per il let-tore e (ahimè) inadatto per i corsi “a pillole” dell’università degliultimi anni, alla quale il volume era elettivamente rivolto. Così è

    maturata la decisione – anche su consiglio dell’Editore – di ren-dere autonoma questa parte, pubblicandola in un volume più agi-le e maneggevole, che sia leggibile in modo autonomo ma al con-tempo costituisca una ideale continuazione del più compassato edidascalico lavoro introduttivo ai temi classici della filosofia dellascienza, che nel contempo verrà ripubblicato in modo rinnovato.Così il lettore (e lo studente) può accedere alla complessa proble-matica della filosofia della scienza del Novecento sia leggendo (estudiando) la presentazione dei suoi classici problemi, sia gettandouno sguardo a quanto è avvenuto successivamente ed è ancora incorso di turbolento divenire.

    Come potrà notare il lettore che già conosca la mia Introdu-zione, il tono e l’andamento di questo volumetto è diverso: meno

    didascalico, più discorsivo e senza gli accorgimenti ivi contenuti(doppio corpo del testo, riquadri esplicativi, frequente paragrafa-zione ecc.); ciò allo scopo di dare al testo una maggiore agilità(consona anche alla collana in cui esso è inserito) e alla narra-zione una più accentuata continuità. Inoltre è inevitabile che esso

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     presupponga la conoscenza almeno degli snodi teorici fondamen-tali che hanno caratterizzato la filosofia della scienza classica (eche sono stati esposti nella mia Introduzione ), anche se – ove n e-cessario – ho cercato di agevolare il lettore ponendo in nota ichiarimenti concettuali ritenuti indispensabile per una piena in-tellezione del testo. Sempre a tale scopo, ho preferito optare per ilsistema di notazione americano (autore, data, pagina), in mododa evitare un appesantimento delle note, riservandole maggior-mente alle discussioni ed esplicazioni concettuali e mantenendole per tale motivo a pie’ di pagina.

    Catania, settembre 2008

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    1. L’immagine “ricevuta” di scienza

    Nel corso degli anni del secondo dopoguerra si era conso-lidata una immagine della scienza che costituiva il frutto piùmaturo e raffinato delle riflessioni originatesi dal Circolo diVienna e dal movimento neopositivistico (o “positivismo logi-co”) in generale (ivi compreso il Circolo di Berlino) e che ave-

    vano quindi ricevuto sviluppo in terra americana, dopo l’emi-grazione dei suoi principali esponenti1. A tale immagine – che

    1  W.C. Salmon [2000] distingue “empirismo logico” e “positivismo logico”(o neopositivismo), attribuendo al primo una caratterizzazione prevalente-mente berlinese, al secondo una viennese. E nonostante non neghi le similari-tà tra i due (sino al punto di essere di solito confusi) e le comuni origini, af-ferma tuttavia che mentre l’empirismo logico ha continuato ad essere un mo-vimento vitale anche nella seconda metà del secolo passato, invece il positivi-smo logico aveva a quella data già cessato di essere un movimento filosoficovitale. Per quanto riguarda i punti sostanziali di differenza tra i due, Salmonindica le questioni del fenomenalismo (rigettato da Reichenbach nella versio-ne datane da Carnap nell’ Aufbau, in favore del fisicalismo), il criterio di si-gnificanza cognitiva basato sulla verificabilità (da Reichenbach rifiutato nella

    sua versione ristretta) e il realismo scientifico (accettato sin dall’inizio da Rei-chenbach su basi probabilistiche), sul cui sfondo ci stava la stretta connessio-ne con la probabilità stabilita dai berlinesi. Tuttavia, come afferma lo stessoSalmon, v’è continuità – anche personale – tra i due movimenti, in quanto«all of the positivists had changed either their views or their names (i.e. thedesignation of their philosophical affiliations). Among those early membersof the Vienna Circle who began as logical positivist, but evolved into logicalempiricist, Carnap, Feigl and Carl G. Hempel have been the most influen-tial» [ib., 234]. Per cui riteniamo tutto sommato ammissibile considerareempirismo logico e positivismo logico come appartenenti ad un’unica tradi-zione di pensiero che ha forgiato quella che è stata poi definita “receivedview” delle teorie scientifiche e che ci ha consegnato la “tradizione ricevuta” el’immagine di scienza che è stata dominante sino agli anni ’60 del ’900 (e cheancora oggi viene condivisa da molti scienziati e filosofi della scienza). InoltreSalmon, in maniera alquanto restrittiva, giudica l’ Aufbau  di Carnap come«the zenith of logical positivism» (mentre Hempel [1965] è l’espressione piùrappresentativa dell’empirismo logico e Reichenbach [1938] ne sarebbe ilprimo piú importante Manifesto [cfr. Salmon 1999, 334]), ignorando siatutti gli altri rappresentanti del circolo viennese, sia l’evoluzione interna delpensiero di Carnap antecedentemente alla sua emigrazione negli Stati Uniti

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    ha dominato la filosofia della scienza per piú trenta anni e cheaveva come punto di riferimento principale i cambiamenti del-la fisica avvenuti all’inizio del ’900, con la teoria della relativitàdi Einstein e la meccanica quantistica – avevano contribuitonumerosi autori, alcuni dei quali non si possono certo colloca-re all’interno del movimento viennese, ma che tuttavia condi-vidono – al di là delle soluzioni tecniche diverse che propon-gono per alcune questioni – lo spirito generale che ne ha in-formato l’attività. È questo il caso, ad es., di Karl Popper: ben-ché si sia autolegittimato come l’avversario per eccellenza deiviennesi ed addirittura come l’“assassino” del neopositivismo

    logico [cfr. Popper 1974, 90-3], tuttavia il suo dissenso hacarattere, per così dire, “locale”, per il resto condividendo le as-sunzioni di fondo che stanno alla base della immagine dellarazionalità scientifica affermatesi pienamente negli anni ’60. Iprincipali protagonisti che hanno contribuito ad edificare que-sta immagine sono stati intellettuali come Moritz Schlick, Ru-dolf Carnap, Otto Neurath, Hans Reichenbach, Carl G.Hempel, Karl Popper, Ernst Nagel, per citare solo i maggiori,cui si debbono aggiungere gli allievi e tanti altri studiosi chedalle loro opere trassero ispirazione (e che menzioneremo almomento opportuno).

    È l’“idea di scienza” da loro elaborata che dobbiamo quibrevemente presentare, in quanto è proprio dalla sua critica

    che traggono alimento, a partire dagli anni Sessanta, molte del-le epistemologie e delle filosofie della scienza degli ultimi de-cenni2, inaugurando un periodo di radicale cambiamento du-

     del 1935 (come anche il fatto che Hempel in precedenza era stato a Vienna ene aveva accettato le principali concezioni).2 Epistemologia e filosofia della scienza sono due cose diverse e ben differen-ziate nella letteratuta angloamericana: la prima concerne in generale i pro-blemi della conoscenza umana, senza far riferimento a nessuna particolarescienza come suo oggetto privilegiato di studio; la seconda è invece una rifles-sione critica sulla conoscenza scientifica , della quale cerca di cogliere le carat-teristiche metodologiche, formali e in certi casi anche le implicazioni e i pre-supposti di carattere filosofico [di piú in Coniglione 2004, 11-37; cfr. ancheFuller 1993, 3]. Tuttavia nei paesi latini (come Francia e Italia) il termine e-pistemologia viene anche usato per riferirsi alla filosofia della scienza, ovverocome teoria della conoscenza scientifica, ingenerando pertanto un po’ di con-fusione. Tuttavia, nella misura in cui la riflessione critica della filosofia dellascienza, assumendo quest’ultima a conoscenza per eccellenza, porta e conside-razioni generali su ciò che debba essere la conoscenza in quanto tale, essa ha

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    rante il quale le certezze acquisite vengono progressivamenteerose per dar luogo ad un nuovo modo di vedere la scienza, lasua evoluzione, i suoi caratteri costitutivi. Di solito si è indica-ta con la locuzione di “Received View” (RV) questa “immaginericevuta” di scienza [cfr. Putnam 1962, 240-51, che ha ap-punto coniato l’espressione, specialmente in riferimento allaconcezione delle teorie scientifiche che nel suo seno si è affer-mata ed è diventata largamente condivisa]. Tuttavia,l’immagine della scienza affermatesi nel secondo dopoguerranon è riassumibile solo nella particolare presentazione delle te-orie descritta da Putnam e da tanti altri che su di essa hanno

    portato la loro attenzione [cfr. Suppe 1974; 1977; 1989, 38-77; Aronson 1984, 23-39; Hempel 1969, 1970], anche seindubbiamente questa ne è gran parte, ma comprende aspettispesso assai generali, altre volte piú specifici e legati a particola-ri snodi problematici che in seguito saranno forieri di rifles-sione e motivi di sua cris i travolgente. Di seguito descriveremobrevemente sia gli aspetti piú generali di questa complessivaconcezione della scienza, sia quelli piú specifici e interni; indi-cheremo con la locuzione “tradizione ricevuta” i primi, distin-guendo da essa la “Received View” descritta da Putnam, che haa che fare specificatamente con il modo di intendere la struttu-ra delle teorie scientifiche.

    inevitabili ripercussioni epistemologiche, nel senso di dare delle indicazionisulla conoscenza in quanto tale e quindi anche su quella che viene perseguitain altri campi dell’attività intellettuale dell’uomo. Ciò ad es. giustifica quantosostiene P. Machamer [2002, 2] quando nel riferirsi alla tradizione neopositi-vista, afferma che «In many ways, the project of this new philosophy ofscience was an epistemological one. If    one took physics as the paradigmaticscience, and if    science was the paradigmatic method by which one came toobtain reliable knowledge of the world, then the project for philosophy ofscience was to describe the structure of science such that its epistemologicalunderpinnings were clear. The two antecedents, that physics was the para-digmatic science and that science was the best method for knowing theworld, were taken to be obvious. Once the structure of science was madeprecise, one could then see how far these lessons from scientific epistemologycould be applied to others areas of human endeavor». Pertanto, benché nelseguito cercheremo di attenerci all’accezione anglosassone, saranno inevitabilianche i riferimenti all’epistemologia.

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    1.1. La “tradizione ricevuta”: ragione, logica e metodo 

    Il primo tratto peculiare che definisce l’impresa scientifica èla sua razionalità. Sin dalla nascita della scienza moderna conGalileo, v’è stato un consenso pressoché unanime sul fatto chela scienza fosse caratterizzata per la sua natura squisitamente ra-zionale, consistendo semmai la divergenza sulla possibilità diattribuire la razionalità esclusivamente   ad essa o se non fossepiuttosto solo un esempio di razionalità, accanto al quale vi era-no altre pratiche cognitive altrettanto razionali, come la filosofi-a, la metafisica o le altre discipline che tematizzano i vari aspetti

    della natura umana. Già su questo punto, dunque, vi sonodelle possibili distinzioni da effettuare. Infatti, secondo una ac-cezione forte  della razionalità scientifica, questa costituisce il pa-radigma per eccellenza dalla ragione, il modo in cui essa si èrealizzata nel modo migliore, per cui tutte le altre discipline escienze che vogliono pervenire ad un analogo grado di preci-sione ed esattezza e quindi giungere ad una autentica conoscen-za del reale, non devono far altro che adeguarsi ed imitarequanto fatto dalla scienza. Ma v’è chi contesta tale assunto e ri-tiene che la razionalità della scienza non sia che una particolarearticolazione – limitata e spesso ingannatrice – di una piú am-pia razionalità umana che deve essere colta e definita non fa-cendo ricorso all’analisi delle procedure scientifiche, ma me-

    diante una riflessione filosofica e/o metafisica. O addirittura,v’è chi ha sostenuto il carattere puramente illusorio della ra-zionalità scientifica, che deve la sua apparente efficacia alle pro-cedure manipolatorie e combinatorie loro garantitedall’applicazione del pensiero matematico, che tuttavia nonpermette di cogliere il reale nella sua autenticità, in quanto sifermerebbe alla sua superficie, limitandosi alla schematizzazio-ne e sintesi economica del flusso dell’esperienza; del tutto di-versa l’autentica razionalità – i l cui luogo privilegiato è di soli-to visto nella filosofia – la quale coglierebbe speculativamentel’essenza del reale, andando oltre le apparenze superficiali cuisi limita la scienza.

    Proprio la funzione paradigmatica della scienza hanno avu-

    to presente molti filosofi successivi alla rivoluzione scientifica:Cartesio, che voleva edificare un nuovo metodo conoscitivo apartire da quello che costituiva il nocciolo duro dell’impresascientifica, la matematica, e a tale scopo dettava le sue quattro“regole”; Spinoza, che voleva edificare la propria concezione fi-

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    losofica ispirandosi alla geometria euclidea (Ethica ordine geo-metrico demonstrata , tale il titolo della sua opera principale),intesa come esempio per eccellenza di procedura razionale;Hume, che pensava di fare per le scienze dell’uomo quanto fat-to da Newton per quelle della natura, trovando anche per esseil principio cardine intorno al quale edificarle; Leibniz, chepur lasciando alla metafisica un suo ruolo autonomo, tuttaviacercava di costruire una logica che potesse costituire il modelloprocedurale delle discipline filosofiche, permettendo a questedi pervenire alla medesima scientificità delle scienze naturali,così risolvendo le proprie questioni con un semplice “calcule-

    mus”; infine Kant, che prendendo a modello la scienza newto-niana, si preoccupava di carpirne il segreto e di conseguenzacondannava a morte la metafisica quale disciplina cognitiva ingrado di farci pervenire ad una conoscenza della realtà compe-titiva con quella delle scienze naturali. Insomma, gran partedel “moderno” è segnato dalla presenza ingombrante dellascienza e della sua razionalità, a cui bisogna dare un posto, chebisogna intendere, differenziare, delimitare, esaltare o delimita-re; in ogni caso con cui bisogna fare i conti e che non si puòfar finta di non notare.

    È tuttavia con la fine dell’Ottocento e con l’inizio del Nove-cento che si afferma una vera e propria nuova modalità di acco-starsi alla scienza che rivendica una sua propria autonomia di-

    sciplinare e scientifica rispetto alle tradizionali “teoria della co-noscenza” o “gnoseologia”. Con il Circolo di Vienna, fondatoda Moritz Schlick nel 1929, la filosofia della scienza tende adacquisire una fisionomia autonoma. Benché nel suo seno vengaspesso ancora adoperata la locuzione “teoria della conoscenza”(o “gnoseologia”), si tende sempre più a vedere nell’episte-mologia non lo studio della conoscenza in generale, bensì diquel suo particolare tipo che viene esemplarmente incarnatodalla scienza, di quella scienza che appartiene alla nostra civiltàoccidentale e che si è costituita storicamente nei modi che noiconosciamo, da Galilei ai nostri giorni; insomma, come hannoaffermato Carnap ed Hempel, la scienza edificata dagli scien-ziati che appartengono al «nostro circolo culturale», intendendo

    con ciò appunto la cultura occidentale moderna della quale imembri del Circolo di Vienna si sentono a pieno titolo di farparte [cfr. Carnap 1932; Hempel 1935]. Si assume, pertanto,come dato di fatto che la scienza – e la fisica in particolare – siala forma conoscitiva  par excel lence , che ha dato prova concreta

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    di sé nella spiegazione e comprensione della natura e nei risul-tati tecnici conseguiti, sicché compito del filosofo (che così siidentifica con l’epistemologo) è capirne la struttura e il modusoperandi , senza pretendere di prevaricarla o influenzarla neisuoi contenuti specifici. E una volta che tale struttura fosse sta-ta precisata, bisognava cercare di applicarne la lezione episte-mologica anche alle altre aree dell’attività intellettuale umana.In tal modo il rapporto veniva capovolto: non era la gnoseologiaa erigersi a giudice della scienza, ma l’epistemologia a giudicareogni pretesa conoscitiva diversa da quella incarnata dalla scien-za . Insomma, con il neopositivismo si afferma il modo  forte  di

    intendere la razionalità scientifica incarnata dalla fisica, la qualeviene ora ad essere assunta come pietra di paragone di ogni al-tra disciplina e pratica cognitiva umana.

    Ciò è evidente ad es. in Popper, per il quale solo lo studioe la comprensione del metodo scientifico può gettare lumi sul-la crescita della conoscenza, con ciò affermando con decisione ilcarattere paradigmatico attribuito alla scienza come luogo dimassima realizzazione della conoscenza e della razionalità uma-na: «Il problema centrale dell’epistemologia è sempre stato, eancora è, il problema dell’accrescersi della conoscenza. El’accrescersi della conoscenza può essere studiato, meglio che inqualsiasi altro modo, studiando l’accrescersi della conoscenzascientifica» [Popper 1934, xxii].

    Ma perché la scienza è razionale? Ovvero, in cosa consisteesattamente tale razionalità   e da cosa è essa garantita? È ovvioche l’attribuzione alla scienza del carattere di impresa razionalesi deve articolare in tutta una serie di requisiti che permettanodi dare concretezza ad una “ragione” altrimenti intesa in modotroppo vago se non addirittura in maniera autoritaria (è “ra-zionale” ciò che un gruppo di individui, una comunità, unafonte autorevole o altro ritengono e giudicano tale). Ed è evi-dente che nell’affrontare il problema della razionalità si toccauno dei punti centrali della riflessione umana sin dal tempo incui – con la cultura greca – ci si è posto il problema del “lo-gos” ed è così nato il pensiero filosofico, che si è attribuito ilcarattere della razionalità per distinguersi dal mito e dalla reli-

    gione.Come è stato affermato efficacemente,

    l’immagine ufficiale della scienza di noi uomini dell’Occidente risa-le al tempo della nostra infanzia in cui parlavamo greco. Ci fu allorainsegnato che la scienza è conoscenza vera , alethès logos , perché dice

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    come è fatto il mondo; è conoscenza razionale , logos epistemonikòs ,perché prova ciò che dice; è conoscenza necessaria , syllogismòs ex a-nankaion, perché abbliga tutti alle sue prove. [Pera 1994, 54-5]

    Tale immagine si afferma innanzi tutto come discorso ra-zionale, come filosofia, e cioè con la pratica della discussione econ l’esigenza di far prevalere una tesi o una posizione suun’altra: vi sono degli uomini che discutono tra loro e che uti-lizzano il proprio discorso per sostenere tesi diverse, cercandodi far prevalere il proprio punto di vista non sferrando unpugno all’interlocutore (sebbene in certi periodi si è pensatoche anche ciò significasse argomentare), ma piuttosto pensando

    che il proprio discorso, fatto di parole, frasi e loro concate-nazioni, fosse in grado di mostrare la propria “bontà” rispettoa quello altrui, di esser “più forte”. Ciò significava ritenere chela tesi non si regge per se stessa, per il solo fatto di essere e-nunciata , ma abbisognasse di un sostegno che solo una argo-mentazione può fornire. La necessità del discorso in favore diun punto di vista, di una dottrina, di una concezione, nascesolo se questa non è riconosciuta spontaneamente, ovvero nonè accettata dall’interlocutore per il fatto stesso di essere profferi-ta, senza discussione alcuna. Bisogna farne vedere la plausib ili-tà perché essa non è dotata di una evidenza “immediata”, che siimpone da sè , alla quale non si può che assentire.

    Era invece caratteristica della “sapienza” prefilosofica quella

    di presentarsi con una fulminea autoevidenza, tale da sfuggiresia alla necessità di una giustificazione discorsiva, come anchealla possibilità di darne una esplicitazione nei termini di unragionamento articolato ed articolabile. La “mania” dionisiaca,l’ekstasis   come uscire da sé, nel senso letterale della parola, èstrumento di liberazione conoscitiva e di accesso ad una realtàche sfugge ogni forma di mediazione concettuale e discorsiva,per configurarsi come “partecipazione” e quindi identificazioneintima e panica. Essa ha carattere concreto, come di cosa che sitocca e si percepisce senza interposizione, senza la necessità diuna riflessione. Aristotele si riferisce proprio a questo tipo diaccesso al vero quando scrive:

    E l’intuizione dell’intuibile e del non mescolato e del santo, la qualelampeggia attraverso l’anima come un fulmine, permise in un certotempo di toccare e di contemplare, per una volta sola. Perciò sia Pla-tone sia Aristotele chiamano questa parte della filosofia l’inizi azionesuprema, in quanto coloro […] che hanno toccato direttamente laverità pura riguardo a quell’oggetto ritengono di possedere il termi-

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    ne ultimo della filosofia, come in una iniziazione. [Eudemo, fr. 10,in Colli 1977, 107].

    Ma ciò che per Platone ed Aristotele è già “parte” della filo-sofia, e pertanto viene recuperato come sua componente, opropedeutica o finale, invece per gli antichi sapienti – ante-riormente alla stessa nascita del sapere filosofico – èl’espressione di una dimensione dell’essere non riducibile allarazionalità, ed anzi con quest’ultima in antitesi; almeno fintan-to che si intenda la ratio come il potere di articolare logoi . An-che tra i filosofi, tuttavia, si ebbe consapevolezza di tale con-trapposizione tra ratio e sapientia , sia pure allo scopo di depo-

    tenziare o delegittimare il valore della seconda; ed a lungo esserimasero in un ambiguo ed incerto rapporto, a volte di com-plementarità, altre di contrapposizione. La filosofia con fatica elaboriosità avrebbe lentamente abbandonato questo sfondo sa-pienziale, lasciandolo alle proprie spalle, ricacciato nella irra-zionalità o nella “arazionalità”, ma ad un tempo sentendone lanostalgia ed anelando a quella sicurezza e certezza che la fragilitàdei discorsi umani sembrava sempre mettere in questione. Ta-le tensione è evidente in tutti i filosofi presocratici ed è articola-ta da Platone ed Aristotele ormai all’interno della tramatura delpensiero. Ma è presente anche nel cuore della filosofia più a-sciuttamente razionale, come vuole essere quella analitica, rie-mergendo in modo inusitato sia in Russell che in Wittgen-

    stein, come infine nell’insospettabile Schlick [cfr. Coniglione2002b].

    Un contrasto la cui insanabilità è stata avvertita innanzi tut-to dalla filosofia classica. È Aristotele a mettere sull’avviso:

    In qualche modo tutte le cose sono modificate dal divino che è innoi. E il principio del discorso razionale non è un discorso, ma qual-cosa di più forte. Che mai, all’infuori del dio, potrà essere più fortesia della scienza sia dell’intuizione? L’eccellenza difatti è strumentodell’intuizione. E per questo, al dire degli antichi, fortunati si chia-mano coloro che riescono, ovunque si slancino, senza possedere ra-zionalità, e a loro non conviene prendere decisioni. Possiedonoinfatti un principio la cui natura è più forte dell’intuizione e delladeliberazione. Altri invece possiedono il discorso razionale, ma non

    hanno il principio suddetto. E i primi possiedono lo stato entusia-stico, ma non sono capaci di cogliere il resto. Essendo privi di ra-zionalità, difatti, colgono nel segno. E l’arte divinatoria di questi sa-gaci e sapienti dev’essere rapida, soltanto non venir assunta dal di-scorso razionale: piuttosto, tra questi ultimi alcuni si servono dell’e-sperienza, altri anzi dell’assiduità della contemplazione. Ma tali qua-

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    lità appartengono al dio. Il dio vede distintamente tutto ciò, il futu-ro e ciò che è, e le cose da cui questo discorso razionale si distacca.Perciò le vedono i melancolici e quelli che sognano il vero. Pare in-fatti che il principio sia più forte del discorso razionale staccato. [E-tica Eudema , 1248 a26 - b1, in Colli 1977, 85].

     Al carattere “profano” della ragione puramente umana, vie-ne dunque contrapposto ciò che proviene direttamente dal dio,che solo ci elargisce “i più grandi fra i beni”. Ma ad una con-dizione: che il destinatario di tali doni non sia “padrone deisuoi pensieri”; che la sua intelligenza sia “impedita” o dal son-no o dalla malattia, in modo che essa non possa interferire con

    quanto proviene dall’alto, rispetto a cui l’individuo è come un“vaso” che deve essere riempito (tale il senso del termine “en-tusiasmo” o “invasamento”). Ed infatti l’“eccellenza” non è ilfrutto della fatica della ragione, che procede lentamente e conun incerto passo argomento dopo argomento, bensì è “stru-mento dell’intuizione”, è il frutto di un apprendimento tacito,come a distanza di millenni suggerirà Polanyi [1966]. Tra ra-zionalità ed eccellenza v’è dunque contrasto e solo coloro chefanno a meno della prima riescono a “cogliere nel segno”, nellostesso modo in cui sa veramente giocare un “gioco linguistico”solo chi non ha avuto bisogno di apprenderne le regole me-diante una loro esplicitazione verbale.

    Ne consegue la contrapposizione tra coloro che sono “sa-

    pienti” e comprendono senza la necessità del linguaggio, e co-loro che “imparano”, faticosamente articolando logoi . Così Pin-daro si esprime:

    … sotto il gomitotengo molti dardi velocidentro la faretra,che parlano a coloro che comprendono: ma rispetto al tuttohanno bisogno di interpreti. Sapiente è colui che sa molte coseper natura, ma quelli che hanno imparato,come corvi turbolenti che balbettano…[Olimpiache , 2, 83-87, in Colli 1977, 75-7]

    Il sapiente viene contrapposto a “coloro che imparano”, chevengono liquidati in modo sprezzante, perché costoro nonhanno accesso alla vera “sapienza” ma al suo pallido riflesso chetraluce nell’artificialità dei discorsi. Come avrebbe detto in se-guito Aristotele, «gli iniziati non devono imparare qualcosa,bensì subire un’emozione ed essere in un certo stato» [Sulla fi-losofia , fr. 15, in Colli 1977, 107].

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    I riti misterici, nel corso dei quali avviene l’iniziazione del-l’adepto, hanno un carattere esoterico, una loro segretezza chene impedisce la divulgazione, la rivelazione al volgo “profano”;essi «non si possono trasgredire né apprendere né proferire»[Omero, Inno a Demetra , 478-9, in Colli 1977, 93), inquanto la loro realtà è estranea alla parola. Ed in ciò non puòche essere notato l’evidente punto di contatto con ogni misti-cismo conoscitivo che si è manifestato in ogni civiltà, sia occi-dentale che orientale, in momenti diversi, quale fiume carsicoche di tanto in tanto torna alla superficie portando con sé ilfondo oscuro (o numinoso) di un sapere sapienziale ed iniziati-

    co mai pienamente sconfitto dai “lumi” razionali, dei quali lafilosofia s’è fatta teoforo. Ma, appunto, “filo-sofia”, amore dellasapienza o saggezza, non suo possesso immediato, come nellaesperienza misterica ed iniziatica; sua ricerca , quale di un beneperduto ed agognato, ma che non può essere più recuperato senon passando sotto il giogo, necessario, della mediazione di-scorsiva.

    Ma è appunto in contrapposizione alla sapienza misterica esacerdotale, al mito ed alla religione tradizionale, che nasce lafilosofia, che però a lungo di essa conserverà le tracce e le esi-genze, che spesso si insinuano nel tessuto più genuino dellasua massima articolazione razionale. È nel logos   che viene rac-chiuso il destino dell’Occidente, il cui cammino viene defini-

    tivamente segnato dalla razionalità greca e dal suo modo di in-tendere la conoscenza come mediazione ed articolazione di di-scorsi; come necessità della giustificazione razionale; come pen-siero simbolico ed intersoggettivo, come non si stanca di ripe-tere Schlick.

    E in tale distacco dalla sapienza, che è inizio ma che po-trebbe essere anche un tramonto, che vine visto da Heideggerl’inizio della filosofia occidentale, come storia della metafisica,dell’oblio dell’essere e dell’erramento. Nell’idea di “oblio del-l’essere”, iniziato nell’età dei Greci, si rispecchia la differenzatra la sapienza arcaica e la razionalità logica della filosofia e vie-ne con ciò indicato il carattere proprio dell’Occidente, che or-mai è diventato quello dell’intero globo. Onde l’esigenza, per

    Heidegger, del richiamo profetico alla dimensione del “Sacro”e del “nascosto”, nel tentativo di riportare in vita quella sapien-za che la ragione greca ha cacciato nella penombra; ma comepuò essere ciò realizzato, senza la mediazione dei “discorsi” equindi di quell’apparato categoriale edificatosi nei millenni

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    della civilizzazione europea? La via di uscita sta, secondo Hei-degger, nella grande poesia, solo nella quale può manifestarsi il“sacro”, l’“originario”; solo essa può dare accesso a quell’Essere.

     Altrimenti l’Essere, catturato nella trama del linguaggio predi-cativo tipico della metafisica occidentale, viene a darsi all’uomocome essente , cioè come ciò che è manipolabile dalla tecnica edè esprimibile nelle trame delle argomentazioni razionali, delpensiero “calcolante”. Viceversa, nella poesia viene riconosciutoil luogo in cui rifulge l’“ulteriore”, occultato dalla tecnica e dal-la scienza che “non pensa”, quell’Altro che sfugge alla retesimbolica del linguaggio oggettivante. L’arte “disvela

    un’ulteriorità” che è qualcosa di più dell’umano produrre, al-lude a un “manifestare luminoso in cui l’uomo prende sog-giorno”; nei poeti si adombra poeticamente la verità che“l’essere non è mai un essente”. In tal modo Heidegger – pen-satore in cui sono evidenti le influenze delle prospettive misti-che e sapienziali orientali, come quelle del Buddhismo Zen –indica con estrema nettezza, sia pure per rinnegarla, la via cheha intrapreso la ragione occidentale, in quanto identificatasicon l’arte dell’articolazione dei discorsi, cioè come argomenta-zione, come logica analitica, appunto.

    Ed è appunto l’argomentazione razionale e logica, questoheideggeriano “pensiero calcolante”, a rappresentare il fruttopiù genuino, più puro e raffinato della civiltà umana, di quella

    civiltà che riceviamo in eredità dalla cultura classica. È nel do-minio del logos  – mai pacifico e senza avversari, sempre insi-diato dal riemergere di quella dimensione “Altra”, combatten-do la quale esso si è edificato – che bisogna dunque riconoscerel’espressione più elevata dell’umano e della sua ragione, cosìcome essa si è configurata per la prima volta nel mondo elleni-co. È grazie ad esso – o meglio, allo spirito che lo informa –che sono state rese possibili tutte le conquiste tecniche e scien-tifiche di cui l’umanità contemporanea va orgogliosa e chehanno condotto la civiltà europea al dominio del mondo, ri-cacciando le culture diverse in una situazione di marginalità.

    Di fronte a tale spettacolare trionfo, sorge legittima la do-manda: poteva essere diversamente? Poteva l’umanità, nel

    momento in cui edificava una società intessuta di rapporti in-terumani, di traffici, di relazioni sociali, imboccare un cammi-no diverso da quello che poneva al proprio centro la dimen-sione della intersoggettività e quindi del dialogo, che non puòeffettuarsi altrimenti se non mediante l’articolazione di di-

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    scorsi? Può l’uomo, nel momento in cui fuoriesce dalla solitu-dine del colloquio con se stesso – quella medesima solitudinericercata dal mistico – rifiutare di accedere ad una dimensionesociale della comunicazione e quindi prescindere dalla indi-spensabile mediazione del linguaggio? Era possibile rimanereall’interno di una dimensione immediata, in una comunionecognitiva col mondo che prescinda dal pensiero simbolico,dalla rappresentazione mentale e di conseguenza dal linguag-gio, così come viene ipotizzato fosse proprio dell’umanità pri-mitiva che viveva ancora di caccia e raccolta [cfr. Zerzan2004]?

    Certo, sarebbe possibile anche rispondere positivamente aqueste domande e quindi ipotizzare una umanità e un storiadel tutto diversa da quella che abbiamo conosciuto, come an-che un futuro che si dipinge con i colori antichi di un passatoanteriore alla nascita della civiltà, quando vennero edificate leprime società fondate sul surplus della produzione agricola,come viene proposto dall’anarchico primitivista John Zerzan[2004]; un’umanità ancora in senso al pensiero numinoso,precategoriale, in immediato contatto col divino, così comesembra anche pensare un filosofo del calibro di Heidegger;oppure ipotizzare una tipologia di conoscenza che recuperi ilsapere prescientifico abbandonando le astrazioni e le ariditàdella scienza moderna, come propone Feyerabend disegnando

    un percorso di critica interna alla filosofia della scienza, che sa-rà oggetto del nostro interesse. Certo questo è del tutto legitti-mo ed anche possibile. Ma se vogliamo intendere il peculiarecarattere di questa nostra civiltà, così come essa si è storicamen-te costituita, allora dobbiamo ritrovare nei carattere del logos  greco i principi fondanti della razionalità.

    L’esigenza di argomentare, e quindi di bene  argomentare, èl’essenza di tale logos . Ed infatti la logica   (il cui ruolo megliovedremo in seguito) – essa stessa distillato del ragionare uma-no – può nascere solo supponendo che si diano argo-mentazioni, il cui scopo sia quello di “dimostrare” o “provare”una certa tesi. Ed a sua volta ciò presuppone che esistano am-biti in cui siano adoperate tali argomentazioni (non ogni di-

    scorso è infatti suscettibile di “analisi logica”; ad esempio, co-me abbiamo visto, sfugge alla possibilità dell’articolazione lin-guistica la conoscenza iniziatica). A queste, inoltre, deve esserericonosciuta una legittimità, deve essere riconosciuta cioèl’esistenza di ambiti dell’esperienza umana per i quali si am-

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    mette, ed anche si auspica, un’ indagine razionale. Una indagi-ne senza che siano imposti vincoli di tipo religioso che preser-vino dalla ricerca profana sacri invalicabili recinti, in nomedella loro sacralità. Ne segue che in tali ambiti, deve essere at-tribuita all’argomentazione un potere superiore ad ogni altraautorità precedentemente riconosciuta (tradizionale, religiosaecc.). Di tale logos  è erede la scienza moderna, che di esso raffi-na ulteriormente l’aspetto dalla razionalità astratta e disincarna-ta, così come delineata per la prima volta da Galileo e poi fattapropria dalla filosofia dei secoli successivi, rimanendo unpunto di r iferimento imprescindibile per ogni caratterizzazione

    del pensiero scientifico. Su questa base s’è edificata la convin-zione che non v’è altra conoscenza se non quella che si edificanella trama del linguaggio, nella comunicazione intersoggetti-va, nell’esigenza di convincere e persuadere, nella capacità diportare discorsi contro altri d iscorsi.

    Se la ragione è tutta inscritta nei discorsi che l’umanitàsvolge, resta ancora in sospeso il quesito di cosa faccia sì che undiscorso s ia “migliore” di un altro. Escluso che ciò possa avve-nire in virtù di un potere esterno (è migliore il discorso delpiú forte, cioè di colui che sia in grado di esercitare una mag-giore coercizione fisica rispetto all’avversario) e messa da partela pretesa assolutistica dei discorsi religiosi o mitici, la cui au-torevolezza dipende tutto dalla fonte di chi li profferisce (il sa-

    cerdote, il profeta, l’iniziato o il mistico) o da cui si presumeche essi provengano in ultima istanza (la divinità, medianteispirazione, invasamento o dettatura di un libro, per ciò stessoritenuto sacro), non resta che da cercare nel discorso stesso, nelmodo in cui esso viene organizzato e proposto, le ragioni dellasua forza. Nasce la scienza dell’argomentazione logica, lo studiodel discorso che per eccellenza si ritiene razionale in quanto se-gue delle regole comunemente condivise e che non si possonorigettare senza palesamente contraddirsi. Aristotele è stato ilprimo a compiere questo decisivo passo, proponendo nel suoOrganon  una prima disamina dell’argomentazione razionale,che per lui era solo quella logicamente condotta con forza apo-dittica. La logica, da allora in poi, diventa la bussola che regge

    la navigazione dei filosofi e degli scienziati; e da un certo mo-mento in poi – con Galileo, appunto – la matematica divental’organon  dell’indagine naturale, della scienza che vuole inten-dere il mondo, ponendosi al tempo stesso come esemplifica-zione massima del rigore logico e modello da imitare in ogni

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    discussione razionale.È appunto tale carattere di discussione critica, di analisi ra-

    zionale degli argomenti, di valutazione logico-analitica della lo-ro forza, di argomentazione intersoggettiva mediante la qualepervenire al consenso su una teoria, una legge, una ipotesi – èappunto tutto ciò che ancora oggi viene ritenuto come tipicodella razionalità scientifica e che viene condiviso dai filosofidella scienza e dagli epistemologi del Novecento. Per Popper,infatti, la razionalità delle scienza consiste tutta nella sua capaci-tà di condurre delle discussioni critiche delle varie tesi soste-nute, evidenziandone i pro e i contro, onde per lui «il miglior

    sinonimo di “razionale” è “critico”» [Popper 1974, 90], per-ché la razionalità e l’obiettività del progresso scientifico nonsono dovute alle qualità del singolo scienziato, ma alla capacitàdi reggere a superare la discussione critica [cfr. Popper 1994,32], in quanto

    ciò che […] chiamiamo oggettività della scienza   e razionalità dellascienza   non sono che aspetti della discussione critica   delle teoriescientifi che. […] In realtà, non cè niente, penso, che possa spiegarel’idea in qualche modo astratta di razionalità meglio dell’esempio diuna discussione crita ben condotta. E una discussione critica è bencondotta se si consacra interamente al suo obiettivo: trovareun’incrinatura alla pretesa che una certa teoria offra una soluzione aun determinato problema. [Ib., 212-3]

    In questa capacità di trovare le “incrinature” delle teorie av-versarie (cioè di tentarne – per usare la terminologia popperia-na – la “falsificazione”), al tempo stesso “corroborando” o so-stenendo la propria, consiste appunto l’arte della discussionerazionale. E in considerazione del carattere empirico della co-noscenza scientifica – per cui sin da Galileo si riconosce ad essala capacità di “apprendere dall’esperienza” e di controllare leproprie ipotesi sulla base di quello che può essere empirica-mente o sperimentalmente constatato – il razionalismo propriodella scienza consiste in «un atteggiamento che cerca di risolve-re il maggior numero possibile di problemi mediante un ap-pello alla ragione, cioè al pensiero chiaro e all’esperienza,piuttosto che mediante l’appello alle emozioni e alle passioni»[Popper 1966, II, 296]. Il che a sua volta porta al riconosci-mento che esista un «linguaggio comune della ragione» chepermette lo scambio intersoggettivo e che implica «il ricono-scimento che il genere umano è unito dal fatto che le nostrediverse lingue madri, nella misura in cui sono razionali, pos-

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    sono essere tradotte l’una nell’altra. Presuppone insomma l’u-nità della ragione umana» [ib., 314].

    Sono così indicate nelle parole di Popper tutta una serie dicaratteri che definiscono la natura razionale dell’impresa scien-tifica e che possono essere articolate – come lo sono state di fat-to – in piú precise caratterizzazioni metodologiche che entre-ranno a far parte di quella RV della scienza che ha raggiunto lasua massima compiutezza – e al tempo stesso il margine oltreil quale inizia il suo tramonto – con gli anni ’60.

    Da quanto prima detto emerge con chiarezza che il caratteredi razionalità della scienza non sta tanto in una facoltà sostan-

    ziale dell’uomo e nelle qualità dello scienziato (l’essere piú omeno intelligente o razionale), quanto piuttosto nella capacitàdi applicare certe procedure standard che – indipendentemen-te da chi s ia a farlo – possano assicurare il raggiungimento del-lo scopo che ci si prefigge. Ciò significa in sostanza due cose:che il “segreto” della scienza sta nel suo “metodo” e che essodeve essere concepito come una modalità procedurale la cui ra-zionalità consiste nella sua capacità di farci efficacemente rag-giungere lo scopo che ci proponiamo. Ma andiamo con ordi-ne.

    Che la cosa piú importante nel praticare la scienza sia lacorretta applicazione del “metodo scientifico” e che sia soltantotale applicazione a garantire la correttezza ed esattezza dei suoi

    risultati è opinione comune che si è affermata sin dalla rivolu-zione scientifica galileiana e che ha da allora in poi dominatol’immaginazione di tutti gli scienziati e i filosofi che hanno vo-luto ispirarsi alla scienza per dare dignità razionale e certezza dirisultati alla proprie ricerche, in qualunque campo esse si svol-gessero. «Non sono i fatti in quanto tali a formare la scienza,ma il metodo con cui essi sono trattati», affermava il matemati-co e fisico Karl Pearson [1892 12] alla fine dell’800. E in ef-fetti la ricerca del giusto “metodo” conoscitivo che invero eracominciata già in età classica, con Platone, e che già allora avevaricevuto le prime critiche ad opera dello scetticismo di SestoEmpirico, ma che aveva trovato nuova forza dallo straordinariosuccesso cognitivo della scienza. Questa, con i propri indiscu-

    tibili risultati, sembrava mettere a tacere ogni residuo dubbioscettico sulla possibilità di una conoscenza della realtà, dimo-strando con la sua prassi e le sue scoperte che di certo una co-noscenza – per quanto limitata, parziale e non onnicomprensi-va – era a disposizione degli uomini ed era quella messa in atto

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    dagli scienziati che avevano saputo congiungere, control’opinione a suo tempo espressa da Aristotele, il rigore delleprocedure matematiche con la discretezza e la multiformitàdell’esperienza sensibile.

    La ricerca del metodo trovava così un suo luogo elettivo diricerca: era alla scienza che bisognava guardare per ricevereammaestramenti su quale debba essere la via regia alla cono-scienza, quella via che anche le altre discipline avrebbero dovu-to imboccare se volevano pervenire agli stessi risultati; quel“segreto” che anche la filosofia doveva cogliere e far proprio sevoleva attingere essa stessa il medesimo rigore, per divenire  fi-

    losofia scientifica , allo stesso modo di come la filosofia naturaleera diventata fisica sperimentale quando aveva saputo impos-sessarsi dello strumento matematico3: è la strada indicata agliinizi del secolo da Bertrand Russell, che appunto vedevanell’adozione del metodo scientifico la via che avrebbe portatola filosofia ad una piú parca vita e a piú modeste ambizioni, ri-compensate però da risultati accettati e non piú soggetti alle pe-renni controversie metafisiche (come ad es. nel caso della solu-zione positiva del problema dell’infinito) [cfr. Coniglione2002]. Ciò viene enunciato con chiarezza da Popper nella suaprima opera: la teoria della conoscenza si dimostra possibile –contro le obiezioni di Nelson (che di fatto riprende quelle asuo tempo fatte da Sesto Empirico) – solo nella misura in cui

    il suo compito consiste nell’indagare «i metodi delle singolescienze», riconducendo così i tradizionali problemi della teoria

    3 La “filosofia scientifica” è un particolare programma filosofico fatto propriotra fine Ottocento e inizio del Novecento da filosofi e scienziati che insistevasull’esigenza di riformulare i compiti e la natura della filosofia in stretta con-nessione col pensiero scientifico, nella convinzione che le conquiste diquest’ultimo non potessero essere ignorate per una filosofia che non si vogliaperdere nelle nebulosità della metafisica tradizionale. In particolare tale pro-gramma riteneva, in una sua particolare accezione, che la scienza dovesse co-stituire il  modello della filosofia, la quale deve porre e risolvere i suoi problemisecondo gli stessi metodi e criteri, in base alle stesse esigenze di precisione,messe in atto dalle scienze particolari. Per far ciò era ovviamente preliminar-mente necessario avere chiara conspevolezza dei metodi messe in atto dallescienze, per cui spesso i filosofi scientifici si impegnarono in un’accurata di-samina della natura e del metodo della scienza, così facendo diventare lascienza l’oggetto della filosofia, la quale diventa così teoria della scienza , meta-scienza , indagine sulle sue assunzioni, finalità, metodi, ecc. Su tale questionevedi i miei saggi [2002; 2007; 2008].

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    della conoscenza ai «problemi metodologici generali dellescienze di natura» e quindi ridefinendola come «teoria generaledel metodo delle scienze empiriche» [Popper 1930-33, 111-2]. Anche per un altro dei padri fondatori della filosofia dellascienza del ’900, il berlinese Hans Reichenbach, l’epistemo-logia non deve più essere intesa come una disciplina che per-viene alla conoscenza per mezzo della pura ragione, ma piutto-sto come «l’analisi del pensiero scientifico»: la caratteristicachiave della moderna filosofia della scienza è appunto il passaredall’analisi del pensiero che conosce, cioè della conoscenza nelsuo farsi, al «prodotto cristallizzato della conoscenza», ovvero

    alle teorie e leggi che sono il frutto dell’indagine scientifica[Reichenbach 1931, 343].Ebbene, nonostante le differenze e le soluzioni tecniche che

    sono state via via proposte, gli autori che possiamo collocareall’interno della “tradizione ricevuta” condividono un comune progetto cartesiano, che consiste in tre tesi fondamentali: (1)che a distinguere la scienza da ogni altra attività intellettuale siail possesso di un metodo universale e preciso; (2) che la scien-za possa raggiungere il proprio scopo (di solito identificato conla conoscenza) solo mediante l’applicazione rigorosa di tale me-todo e che, di conseguenza, (3) la scienza (come ogni altra atti-vità intellettuale) perderebbe il proprio carattere di impresaconoscitiva razionale qualora non avesse (o non seguisse) tale

    metodo. Insomma, o metodo o follia: è questa la sindrome car-tesiana , come è stata efficacemente definita [cfr. Pera 1991, 6].Diventa pertanto cruciale individuare in cosa consista tale me-todo – il che dà luogo a tutta una serie di ricerche sulla strut-tura della scienza e sulla sua evoluzione – e di conseguenza ap-plicarlo e seguirlo (una volta ben chiarito e definito) allo scopodi assicurare alle singole ricerche un carattere razionale e frut-tuosamente conoscitivo. Nel primo caso abbiamo a che farecon un compito descrittivo: individuare e specificare nel modopiú esatto possibile il metodo seguito dalla scienza mediante lostudio delle teorie scientifiche e del modo in cui gli scienziatiavanzano ipotesi, elaborano leggi e forniscono spiegazioni delreale. Nel secondo caso ci si pone invece sul piano normativo:

    se il metodo che garantisce la conoscenza razionale e il progres-so scientifico è questo, allora ogni scienziato deve applicarlo echi non lo applica sarà un cattivo ricercatore e le sue conclu-sioni saranno di certo errate e razionalmente non giustificabili.Ed è il duplice compito della filosofia della scienza – tra de-

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    scrittività e normatività – che, come vedremo, darà luogo a no-tevoli dibattiti e sarà uno dei motivi di crisi della tradizione ri-cevuta.

    In ogni caso, la individuazione della caratteristica piú pro-pria della scienza nel metodo porta con sé la tesi della sua uni-versalità; ovvero è condivisa per lo piú la tesi della unità meto-dologica di tutti i saperi. In ogni campo di indagine, il meto-do in grado di assicurare l’attingimento del vero è il medesimodi quello applicato nelle scienze naturali; certo, in storia, in ar-cheologia, in filologia sono diverse le tecniche  di indagine (nonsi utilizza il ciclotrone, ma l’analisi delle fonti ecc.), ma è unico

    il metodo, la cui sola applicazione può permettere la scientifici-tà di una ricerca. Vengono pertanto criticate, ad es., le tesi dellostoricismo tedesco, per il quale la conoscenza storica possiedeun metodo sui generis  del tutto diverso da quello delle scienzeempiriche, a causa della peculiarità del proprio oggetto di in-dagine, ed invece viene ribadito che il modo in cui si spieganoi fatti storici segue lo stesso tipo di spiegazione applicato nellescienze naturali, così come perfezionato e diffuso da Hempeled Oppenheim [1948] nel cosiddetto “modello nomologicodeduttivo” o per “leggi di copertura” (successivamente perfe-zionato e sviluppato da Hempel [1965]). Tale posizione è sta-ta spesso definita anche come “naturalismo metodologico”, persottolineare il carattere metodologicamente unitario di tutte le

    branche dello scibile umano. Bisogna tuttavia notare che taleposizione non è universalmente condivisa da alcuni studiosiappartenenti alla tradizione analitica i quali, come afferma sim-pateticamente von Wright [1971, 22],

    respingono il monismo metodologico e negano che il modello for-nito dalle scienze naturali esatte costituisca l’unico e supremo idealedi comprensione razionale della realtà. Generalmente essi mettonoin rilievo una dicotomia fra quelle scienze che, come la fisica, lachimica o la fisiologia, hanno di mira generalizzazioni riguardo afenomeni riproducibili e prevedibili, e quelle che, come la storia, in-tendono cogliere le caratteristiche individuali e uniche dei proprioggetti.

    Tale “reazione” ha trovato alimento in quella grande risco-perta del mondo umano e della sua storia avvenuta nel dician-novesimo secolo nel mondo culturale tedesco – sulla spinta delromanticismo –, che si è concretata nella cosiddetta “Scuolastorica”.

     Avevamo detto all’inizio che il metodo della scienza, e di

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    conseguenza la sua razionalità (che sta tutta nella applicazionedel primo), ha carattere  procedurale: consiste nel modo più ef-ficace di raggiungere lo scopo che ci si propone. E questa parti-colare accezione di razionalità ad essere stata fatta propria dallatradizione ricevuta, rigettando quella visione categorica dellaragione che veniva ritenuta come una proprietà tipica di ogniessere umano, una sua “facoltà”, e che lo definisce nella sua es-senza e ne costituisce anche il fondamento: secondo la defini-zione aristotelica, l’uomo è “animale razionale” e la ragione necostituisce la natura intima, una sorta di sostanza, ousia , che locaratterizza quale essere del tutto peculiare, differente da ogni

    altri vivente, così come l’anima definisce ed esaurisce la perso-nalità dell’individuo secondo molte fedi religiose. È questa unaparticolare accezione del logos   greco, diversa da quella (prece-dentemente fornita) di logos   come argomentazione razionale,discorso mediante il quale il pensiero umano viene espresso inuna forma intersoggettivamente comunicabile e da quella cheintende il logos  come legge generale del cosmo, del quale esprimela più profonda natura: tutte accezioni che possiamo ritrovarenei primi filosofi greci e che sono evidenti in Eraclito, nellequali sono presenti e per così dire si intrecciano, senza che ilpensiero arcaico ne avesse chiara consapevolezza, piano psicolo-gico, piano logico-epistemico e piano ontologico. Nel primocaso abbiamo a che fare con ciò che è proprio delle mente u-

    mana – di tutti gli uomini e quindi di una sorta di “menteuniversale” – la cui natura può essere investigata dalla psicolo-gia o dalle scienze cognitive; nel secondo caso abbiamo a chefare con la conoscenza, con la sua prensione concettuale e la suaarticolazione in discorsi ed argomentazioni; infine nel terzo ca-so facciamo riferimento a qualcosa che esiste in natura, indi-pendentemente dal fatto che noi la conosciamo o la pensiemo eche “è lì” a prescindere dalla soggettività umana, che può solocogliere nell’atto conoscitivo.

    Se teniamo presente questa tripartizione, potremmo allorasostenere che mediante la scienza l’umanità si propone di co-noscere il logos  ontologico mediante un sapere che si articola inun logos   logico-epistemico frutto del logos   psicologico; o, altri-

    menti detto, che il logos   umano (cioè la ragione umana) mettein atto delle strategie conoscitive fatte di discorsi e teorie (in cuiconsiste il logos   logico-epistemico) allo scopo di pervenire allaconoscenza del logos   ontologico, cioè delle leggi e regolarità dinatura.

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    Sulla base di questa distinzione, risulta chiaro che il modoin cui la ragione umana manifesta la sua potenza è proprio lasua capacità di articolare una conoscenza (discorsi, argomenti eteorie) in grado di permetterci di possedere intellettualmenteciò che accade (le leggi e le regolarità della natura, il “mondocome è fatto”). È appunto questo logos  ad avere carattere proce-durale: esso è lo strumento ritenuto migliore per farci ottenerela conoscenza piú affidabile del mondo. In questa accezione larazionalità non è altro che il mezzo piú adeguato per un dato sco- po, ed è dunque – come ha evidenziato Giere [1988, 25] –una razionalità ipotetica, intesa come un’azione efficace diretta

    allo scopo. Un modo di intendere la razionalità che troviamoesplicitamente enunciato nei maggiori rappresentanti della tra-dizione ricevuta, quando ad es. si afferma che

    una data azione, o un certo modo di procedere, non può essere qua-lificata come razionale o irrazionale in quanto tale, ma solo in con-siderazione dello scopo a cui essa mira. Può essere razionale che unuomo tutto vestito salti giù da un ponte nel fiume sottostante se in-tende salvare un nuotatore che sta annegando e crede di essere capa-ce di farlo; è irrazionale se vuole raggiungere l’altro lato del fiumequanto piú velocemente possibile. [Hempel 1979, 361].

    Insomma ciò che viene ritenuto razionale in un caso, puònon esserlo in un altro, a seconda delle circostanze, del fine checi si propone e delle informazioni di cui si è in possesso. Percui, anche i principi metodologici, che caratterizzano le proce-dure scientifiche, «non costituiscono norme assolute o categori-che, ma relative e strumentali: non ci dicono categoricamenteche cosa fare, ma quale modo di procedere è razionale nel sensoche offre le migliori probabilità di raggiungere un certo obiet-tivo scientifico» [ibidem]. Un’idea del resto già proposta daMax Weber e sostenuta anche da autori di formazione diversacome John Dewey [1949, 20-2] o Antonio Gramsci [1975,817] che rifiutano di concepire la razionalità come una ipostasisostanziale.

    Bisogna tuttavia notare che questa è una accezione di razio-nalità rifiutata da altri pensatori, di solito critici verso il pen-siero scientifico e più vicini all’ermeneutica o alla filosofia clas-sica tedesca, come nel caso della scuola di Francoforte che, con

     Adorno e Horkheimer [1966] hanno denunziatol’affermazione della “ragione strumentale”, frutto della “dialet-tica dell’illuminismo”, la quale non è più in grado di interro-garsi sui fini, sugli scopi che ci proponiamo, per limitarsi solo

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    a individuare, costruire e perfezionare gli strumenti o i mezziadeguati al raggiungimento di fini stabiliti e controllati da un“sistema” che domina e sovrasta la vita degli uomini. E’ questaper Horkheimer [1962] un vera e propria “eclisse della ragio-ne”, intesa in modo sostanziale e non subordinatamente e finida lei non stabiliti. Tuttavia, tale critica non esclude il fatto chesia possibile anche discutere razionalmente gli scopi che ci sipropone: in tal caso «un’azione o una procedura per la forma-zione delle credenze è razionale quando fosse strumentalmenteefficace nel conseguimento di scopi razionali (non di un qual-siasi scopo arbitrariamente dato). […] La razionalità strumen-

    tale non esaurirebbe più l’intero campo della razionalità; virientrerebbe anche la razionalità sostantiva degli scopi» [Nozick1995, 217].

    Nel caso della scienza il fine, lo scopo che ci si propone(almeno nella tradizione ricevuta) non è la stipulazione tra ungruppo di individui o la prescrizione esterna di un “sistema”totalitario (come paventano Horkheimer e Adorno), mal’originale progetto intellettuale inscritto nella civiltà europea,ovvero la «conoscenza della verità, tutta la verità e nient’altroche la verità intorno al mondo» [Hempel 1979, 143]. È que-sto anche un obiettivo che è stato al centro della riflessione diPopper, almeno da un certo momento in poi, posteriormentealla conoscenza e condivisione della teoria semantica della verià

    in Tarski [cfr. Popper 1974, 101-2, 145-7]: senza l’obiettivodi pervenire alla verità, anche se questa viene intesa comequalcosa cui ci si può via via avvicinare senza che possa esseredel tutto esaurita, la scienza stessa perderebbe la propria ratioessendi :

    Io sostengo che la ricerca della verità […] è importantissima: tutta lacritica razionale è una critica della pretesa che una teoria sia vera, e che siain grado di risolvere i problemi alla cui s oluzione è stata destinata . […]Inoltre sostengo che descrivere una teoria come migliore di un’altra,o superiore ad essa, o che altro, equivale ad indicare che essa appare

     piú vicina alla verità . [Popper 1984, 53].

    E se il fine della ricerca scientifica rimane la “verità assolu-

    ta”, come idea regolativa che guida il lavoro dello scienziatosempre alla ricerca di teorie vere, ovvero «uno standard che pos-siamo non riuscire a raggiungere » [ib., 55], tuttavia siamo ancheconsapevoli di non essere in grado di esibire della ragioni posi-tive  che ci mettano in grado di dire di aver trovato la teoria ve-ra; al piú siamo in grado di trovare delle buone ragioni critiche  

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    per scartare le teorie false. Così, mediante una sorta di selezio-ne darwiniana, abbiamo assicurato la sopravvivenza a quelle te-orie piú robuste che hanno superato i nostri severi tentativi difalsificazione e che quindi possiamo ritenere piú vicine al verodi quelle che non sono sopravvissute al duro giudizio della di-scussione critica.

    Ci si può certo interrogare se il modo particolare in cui lascienza vuole raggiungere questa verità sia quello più adeguatoo se la verità come da essa intesa sia quella Verità di cui sonoandati in cerca nei secolo pensatori, filosofi, uomini di fede onon piuttosto un suo pallido riflesso, un suo depotenziamento

    che non risponde affatto a quella autentica Verità che soloun’altra modalità di accesso al reale, un’altra tipologia di pen-siero, ci può dare: la filosofia, la dialettica, l’ermeneutica,l’intuizione, l’iniziazione, la rivelazione o quant’altro. È questoun ambito problematico assai vasto e profondo, che concerne ilmodo stesso in cui si concepisce la Verità e il posto dell’uomonel mondo e che va ben al di là dell’obiettivo che ci siamoproposti, ovvero mettere in luce il modo particolare di inten-dere la razionalità all’interno della “tradizione ricevuta”.

    Tale carattere razionale della scienza si è espresso in partico-lare nel peso attribuito alla logica, al punto da identificare avolte razionalità e logicità, definendo la prima come quel modoparticolare del pensiero che si esprime mediante delle proce-

    dure logiche. In tal modo, svolgere una argomentazione razio-nale significa ipso facto applicare le regole formali definite dallalogica, così come essa si è sviluppata sin da Aristotele ed è stataquindi perfezionata e portata a maturità in età moderna conl’opera di grandi logici come George Boole, Gottlob Frege,Bertrand Russell. Benchè tale identificazione sia stata recente-mente contestata (anche allo scopo di difendere una razionalitàdella scienza meno rigida e quindi meglio in grado di resisterealle obiezioni critiche dei suoi avversari) [cfr. Toulmin 1972;1974, 611; Nickles 1980, 38-41], è indubbio che la fortunadella tradizione ricevuta deve essere in gran parte attribuitaproprio all’uso che programmaticamente venne effettuato dellalogica, specie quella simbolica o matematica contemporanea,

    vista come lo strumento che avrebbe permesso la transizionedella filosofia dalla speculazione alla scienza e come l’utensilefondamentale per analizzare gli asserti scientifici, chiarendoneinnanzi tutto la struttura formale.

    La logica, indipendentemente dall’interesse intrinseco che

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    possono suscitare le sue questioni interne, ha avuto nel corsodel ’900 il ruolo di modello razionale, dovuto ai suoi caratteridi chiarezza, precisione e rigore, al punto che molti filosofi ri-tenevano essenziale emularla nell’affrontare i problemi filosofi-ci [cfr. Stroll 2000, 8-10]. Questa esorbitante presenza dellalogica e la convinzione della sua fondamentalità per il rigoredell’argomentazione in campo filosofico e scientifico risalgonoalla sua rinascita con Boole, che aveva anche dato degli esempidi come potesse essere usata per discutere le argomentazioni dicelebri filosofi, allo scopo di valutarne la correttezza. Ma ha unsuo vero e proprio propagandista in Russell, che si fa alfiere di

    una nuova, rinnovata “filosofia scientifica” [cfr. Coniglione2002], nella quale la logica, mediante una analogia rivelatrice,

    dà il metodo di ricerca, così come la matematica fornisce il metodoalla fisica. E come la fisica che, da Platone al Rinascimento rimaseferma alle sue posizioni, vaga, e superstiziosa come la filosofia, èdivenuta scienza attraverso le nuove osservazioni dei fatti di Galileoe la susseguente manipolazione matematica, così la filosofiad’oggigiorno sta diventando scientifica attraverso la simultanea ac-quisizione di nuovi fatti e di nuovi metodi logici. [Russell 1924,221].

    Tale programma viene in sostanza ripreso dal fondatore delcircolo di Vienna, Moritz Schlick, che viene così illustrato inuna sua icastica affermazione: «La filosofia è malata, la sua uni-

    ca cura è la logica» [Schlick 1962, 200]; in coerenza a cio, egli– analogamente a quanto fatto da Platone con la geometria –impone lo studio della logica e della matematica quale condi-zione preliminare per la frequenza dei suoi seminari: «Har-tmann obbliga i partecipanti ai suoi seminari a conoscere ilgreco: io li obbligo a conoscere la logica e la matematica. Quellisanno leggere Platone, questi il mondo» [ib., 199]. Sulla stessalinea anche un altro dei grandi interpreti viennesi, RudolfCarnap: «se la filosofia ha l’intenzione di incamminarsi per lavia della scienza (in senso rigoroso), non potrà rinunziare aquesto strumento energico ed efficace per la precisione dei con-cetti e per la chiarificazione delle situazioni problematiche»[Carnap 1926, 78]. Una influenza che si esercitava in tutti icampi della vita intellettuale europea:

    Fra i l 1910 e i l 1960, la pietra di paragone dell’originalità artistica escientifica era tenuta ferma mediante l’accentuazione dei metodi edegli ideali tecnici specificatamente formali, mediante, cioè,l’assunzione della logica matematica quale fondamento dell’analisi

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    filosofica; mediante la riconduzione della fisica teorica agli algo-ritmi formali del calcolo tensoriale e della meccanica quantistica, losviluppo dello stile geometrico-cartesiano in architettura, le mo-dalità non figurative in pittura, le tecniche dodecafoniche in musica- in generale, mediante la conversione della ricca e concreta partico-larità della storia e della natura in un mondo teoretico alternativo,metatemporale, di astrazioni, posto al riparo dalle confusionidell’effettualità storica. [Toulmin 1977, 122-3]

    È facile comprendere pertanto quanto fosse ritenuto fonda-mentale l’utilizzo della logica nello studio e nella comprensio-ne dei concetti, delle leggi e delle teorie della scienza, sino alpunto di intendere la stessa sua natura come sostanzialmentedi natura formale e pertanto pienamente esplicitabile da unarigorosa sintassi delle sue argomentazioni. Era tale convinci-mento che stava alla base del programma sintattico di Carnapil quale – abbandonando l’idea prima nutrita che fosse possi-bile una scientificizzazione della filosofia – ritiene che fosse daperseguire piuttosto una teoria della conoscenza come “sintassilogica” del linguaggio scientifico, in quanto «tutti i problemiepistemologici relativi alla fisica (nella misura in cui non sitratta di pseudo-problemi metafisici) sono, in parte, problemiempirici, che rientrano per lo più nella psicologia, e, in parte,problemi logici, che rientrano nella sintassi» [Carnap 1936,422].

    Si afferma così un modo di affrontare la scienza e di coltiva-re la filosofia della scienza caratterizzato dall’approccio formali-sta, per cui il centro focale dell’attenzione era l’astratto, il meta-temporale. Filosofi di origine europea emigrati negli Stati Uni-ti, come Hempel, Feigl, Carnap, Reichenbach, von Neumanne Frank, instaurarono uno stile di pensiero che vedeva nel ri-gore formale «la pietra di paragone per giudicare dell’adegua-tezza dell’attività intellettuale anche in ogni altro settore»[Toulmin 1977, 100]. Tale esigenza viene chiaramente e-spressa da Patrick Suppes [1968], che evidenzia i vantaggi el’utilità della formalizzazione delle teorie scientifiche, facendorilevare come essa sia stata una pratica classicamente impiegatae a cui ogni scienziato del passato ha costantemente aspirato –

    da Archimede a Newton – per dare ad esse standard di rigoree formalità come quelli posseduti dalle teoria matematiche egeometriche. Certo nel periodo successivo a Newton v’è statoun sempre maggiore iato tra la cosiddetta fisica matematica e lafisica teorica, la quale ultima è praticata in un modo che poco

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    soddisfa gli standard matematici contemporanei: così è avve-nuto con la relatività di Einstein e così anche con lo sviluppodella meccanica quantistica di von Neumann, che pure è statocolui che ha cercato di darle maggiore rigore matematico. Tut-tavia, Suppes è fiducioso che «l’ampio iato che attualmente se-para i metodi usati dalla fisica da quelli della matematica sytacominciando a chiudersi e non si amplierà nella altre discipli-ne empiriche, come l’economia matematica o la psicologia ma-tematica» [ib., 652]. In ogni caso, indipendentamentedall’esito di questo processo, resta indubitabile che è compitodella filosofia della scienza (e dell’analisi filosofica in genere)

    «chiarire i problemi concettuali e rendere esplicito le assunzio-ni fondamentali di ogni disciplina scientifica» [ib., 653]. E atale fine, un fondamentale strumento è proprio quello «diformalizzare e assiomatizzare i concetti e le teorie di fondamen-tale importanza in un dato dominio della scienza» [ibidem],così com’è avvenuto in campo matematico nell’ultimo secolo.Ed infatti, i vantaggi di tale procedura (che si deve basare sullinguaggio insiemistico nella formulazione di Zermelo e nonsul troppo semplice apparato della logica del primo ordine)sono evidenti: essa consente di cogliere in modo esplicito il si-gnificato dei concetti di una teoria tra loro collegati (come è ac-caduto con la formalizzazione di Kolmogorov nella teoria dellaprobabilità); permette di standardizzare la terminologia e i me-

    todi dell’analisi concettuale nei differenti rami della scienza,rendendo maggiormente realizzabile l’ideale della scienza uni-taria; dà la possibilità di concentrarsi sulle questioni essenzialidelle teorie, mettendo da parte gli aspetti inessenziali, legati allecircostanze concrete in cui esse sono state formulate; fornisceun grado di oggettività impossibile altrimenti, specie in campiancora controversi (come in psicologia); rende possibile mette-re in evidenza le assunzioni implicite di ogni teoria che sono“self-contained”, impedendo tra l’altro di aggiungere nuove as-sunzioni ad hoc ; infine, rende possibile una analisi obiettiva diquelle che sono le assunzioni minime necessarie per sostenereuna teoria, soddisfacendo anche un senso estetico per la sem-plicità [ib., 654-6]. Infine, la formalizzazione risulta il modo

    migliore per risolvere le controversie nel corso dello sviluppodella scienza: 

    La formalizzazione è necessaria allo scopo di conseguire una risolu-zione obiettiva dei conflitti. Non v’è alcun altro mezzo per risolverei conlfitti concettuali nella scienza. Inoltre, in una grande varietà di

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    situazioni sperimentali, non v’è modo di risolvere obiettivamente ledispute sulla interpretazione dei dati se non grazie ad un attento edesplicito uso dei metodi insiemistico-teorici della statistica mate-matica contemporanea. Ma ciò che è necessario è necessariamentedesiderabile, e così avviene per la formalizzazione nella scienza. [ib.,664].

    Tuttavia tale accentuazione della dimensione formale dellateoria non avviene a scapito della natura empirica delle scienzenaturali (facendo ovviamente eccezione per le cosiddette scienzeformali, come logica e matematica). Da questo punto di vista latradizione ricevuta è figlia sia di scienziati come Mach sia

    dell’empirismo inglese, del quale non dimentica mai la lezioneanche quando accoglie in parte alcune indicazionidell’epis temologia francese di Poincaré e Duhem. In particola-re, nella carta d’identità del movimento viennese v’è il rigetto,a seguito della introduzioni della geometrie non-euclidee e del-la relatività einsteiniana, del sintetico a priori di Kant el’accettazione della distinzione humiana che ogni proposizionepuò essere o sintetica, cioè descrittiva di fatti, o analitica, cioèche verte solo sui significati dei concetti e sulla loro strutturaformale. Su questo punto l’accordo è unanime: lo si può vede-re già dal Manifesto del Circolo di Vienna, la WissenschaftlicheWeltauffassung , in cui si dichiara che «la tesi fondamentaledell’empirismo moderno consiste proprio nell’escludere la

    possibilità di una conoscenza sintetica a priori» [Hahn, Neu-rath & Carnap 1929, 79]. Lo dichiara anche uno dei suoipadri spirituali, Philipp Frank, che pure era il più sensibilealle esigenze kantiane, quando afferma che «il nostro gruppo,formato da studenti entusiasti della scienza contemporanea, ri-fiutava la dottrina di Kant dell’immutabilità delle formed’esperienza date dalla mente umana, e voleva invece conside-rarle soggette a una evoluzione, che fosse parallela all’evoluzio-ne della scienza» [Frank 1961, 22].4  Ed è anche la presa di

    4  Cfr. anche Neurath [1935, 73-4], dove viene spiegato perché Kant sia statocollocato tra i metafisici nello schema riportato nel testo; ed in cui [p. 61]viene espresso il giudizio negativo sul sintetico a priori. Si veda anche Carnap[1966, 229], dove ancora viene ribadita, e siamo nel 1966, la condanna delkantismo. Più sfumata la posizione di H. Reichenbach che, nel 1921, discu-tendo la teoria della relatività, ritiene con essa incompatibile l’intuizione puradi Kant, ma poi inclina ad una interpretazione più elastica quando scrive chesi «renderebbe un miglior servizio a Kant se, sulla base della fisica moderna, si

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    posizione di Schlick, il fondatore del circolo, il quale lungotutta la sua attività ha sempre contestato la possibilità che possaesistere un a priori fattuale, ovvero una conoscenza che fosse altempo stessa certa ed empiricamente informativa [cfr. Schlick1925, 97 ss.; 1930; 1932, 116-9, 126-7]; e di Alfred J. A-yer, uno dei primi e piú influenti divulgatori delle nuove po-sizioni dell’empirismo logico con la sua celeberrima operaLanguage, Truth and Logic  [cfr. 1936, 64-83] .

    La distinzione tra analitico e sintetico e la connessa dottrinache non esiste nulla che stia a metà strada tra i due (cioè un“sintetico a priori”) è stata ritenuta alla base non solo del neo-

    positivismo, ma dell’intera filosofia analitica [cfr. Searle 1996,3-4]. Tuttavia tale assunto è stato criticato come uno dei due“dogmi” dell’empirismo da W.V.O. Quine [1951] in unsaggio che ha fatto epoca e che ha costituito una delle primezeppe che hanno cominciato a scardinare l’edificio della tradi-zione ricevuta.

    In ogni caso, l’affermazione del carattere empirico dellescienze naturali ha portato con sè la discussione di tutta unaserie di temi relativi al tipo di rapporto che deve esistere tra lastruttura formale ed astratta delle teorie scientifiche el’esperienza: la classica questione dell’induzione – lasciata ineredità da Hume – ora ripresa in stretta connessione alle tecni-che probabilistiche; il problema della conferma e del grado di

    “empiricità” o “affidabilità” che bisogna assegnare alle singoleteorie; il problema del significato, o del “significato empirico”,delle proposizioni sul mondo, con il connesso “principio diverificazione”; infine la natura delle regole che servono a con-nettere i concetti teorici della scienza con l’osservazione speri-mentale, che ha grande importanza nella discussione sullastruttura delle teorie scientifiche (cfr. § 1.9). Anche in merito

    abbandonasse il contenuto delle sue asserzioni e, seguendo lo schema generaledel suo sistema, si cercassero per nuove vie le condizioni dell’esperienza, inve-ce di attaccarsi dogmaticamente alle sue specifiche proposizioni» [Reichen-bach 1921, 40]. In ogni caso, per una valutazione piú circostanziatadell’eredità kantiana nel circolo di Vienna vedi Paolo Parrini [2002, 31-57] ei saggi contenuti in Parrini [1994]. Un caso a parte quello di Popper, che in-tende a modo suo la lezione di Kant, nel senso della accettazione del trascen-dentalismo, pur rigettando il sintetico a priori; ciò è particolarmente evidentenella sua prima opera [1933-34], poi parzialmente andata perduta e riscoper-ta di recente.

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    a tali argomenti si può notare che – pur non rigettandol’ispirazione empiristica fondamentale della tradizione ricevuta– vi sono diversi dissensi “locali” in merito alla soluzione dafornire ai diversi problemi: oltre alla citata critica di Quine alladistinzione analitico-sintetico, bisogna qui menzionare la po-lemica antinduttivista di Popper, la sostituzione del principiodi verificazione inteso come criterio di significanza empiricacon quello di falsificabilità, atto a demarcare la scienza dallametafisica, e il rigetto del concetto di conferma, da lui sostitui-to con quello di “corroborazione”.

    Infine, da questo quadro d’insieme si possono trarre ulte-

    riori conseguenze che concernono la natura della scienza comeconcepita nella tradizione ricevuta. Innanzi tutto si può farescienza solo quando si mettano da parte i propri sentimenti, leproprie passioni e i propri pregiudizi, di qualsiasi natura essisiano: culturali, religiosi, tradizionali. La ricerca della veritàmediante la scienza non può essere subordinata ad autorità re-ligiose o a fonti rilevate, in quanto il suo compito è ben diver-so da quello proprio delle religioni. Come ha dichiarato Gali-leo vincendo la sua causa contro l’autorità della chiesa cattolica– ma perdendola dal punto di vista umano col subire il carce-re e forse la tortura – la fisica ci dice «come vadano i cieli, noncome si vada in cielo»; ovvero, suo compito è la conoscenza deifatti di natura, non fornire precetti morali in grado di salvare

    la nostra anima dall’inferno, compito questo assegnatoall’autorità religiosa che può legittimamente ammaestrare ipropri fedeli. Ed analogamente, non si può contestare la teoriadell’evoluzione di Darwin – nella nuova sintesi datane nel cor-so del ’900 – sulla base della sua non congruenza con la crea-zione divina dell’umanità, che ha come sua unica fonte un te-sto sacro ritenuto dai suoi fedeli ispirato direttamente da Dio:anche in questo caso a giudicare dell’evoluzionismo devono es-sere le prove empiriche, le ricerche paleontologiche, i ragiona-menti che possono farsi sulla base dell’analisi storica delle spe-cie viventi e di quanto si conosce in genetica.

    Non a caso Russell nel riferirsi alla scienza, ne valorizzal’aspetto austero, sottolineando la «non pertinenza delle pas-

    sioni umane e dell’intero apparato soggettivo per quanto ri-guarda la verità scientifica» [Russell 1917, 50]; appunto in ciòconsiste l’essenza del metodo scientifico: «nel rifiuto di consi-derare i nostri desideri, gusti ed interessi capaci di darci unachiave per comprendere il mondo» [ib., 52]. Infatti,

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    attitudine scientifica della mente significa spazzare via tutti gli altridesideri nell’interesse di quello di sapere; essa significa la soppressio-ne di speranze e paure, di amori e odi, e di tutta la emotiva vita sog-gettiva, finché non ci assoggettiamo alla cosa materiale, per guardarlafrancamente, senza preconcetti, senza pregiudizi, senza nessun desi-derio tranne quello di vedere la cosa com’è, e senza credere che ciòche essa è può essere determinato da qualche relazione, positiva onegativa, con ciò che noi desidereremmo che essa fosse, o con quelche noi possiamo facilmente immaginare che sia. [Ib., 53]

    Liberazione dalle passioni significa anche liberazione dalleconsiderazioni etiche: «finché non avremo imparato a pensareall’universo in termini eticamente neutrali, non arriveremo adun atteggiamento scientifico nella filosofia» [ib., 54]. Non v’èalcun dubbio per Russell che i motivi etici e religiosi sianostati complessivamente un ostacolo al progresso della filosofia;non a caso la scienza è pervenuta alla sua maturità liberandosida tali impacci; ed è «dalla scienza, piuttosto che dall’etica edalla religione che la filosofia dovrebbe trarre la sua ispirazio-ne» [ib., 100].

     Analogamente, Carnap espelle dalla razionalità scientificaogni considerazione sentimentale, ogni commozionedell’animo: per tali lati della personalità umana – pur ricono-sciuti come estremamente importanti – vi sono modi piú adat-ti di espressione: la musica, la poesia, l’arte, persino la metafi-

    sica, la quale scaturirebbe – come la magia e il mito (teologiainclusa) – dal tentativo di esprimere le rappresentazioni con-comitanti che accompagnano gli asserti dichiarativi e che nullahanno a che fare col loro valore cognitivo, ovvero dalla confu-sione tra queste e le rappresentazioni di stati di fatto; cosìl’uomo ha cercato di comunicare questo contenuto delle rap-presentazioni, «non già nella forma dell’arte, o anche sempli-cemente del modo di dire, bensì nella forma di una teoria chetuttavia non possiede alcun contenuto teorico» [Carnap 1928,414]. Una linea, questa, sulla quale si riconoscono tutti i pro-tagonisti della filosofia della scienza del ’900, per cui è inutilemoltiplicare gli esempi.

    Ma la scienza è anche priva di genere e di razza, ovvero è

    indifferente al sesso e al tasso di melanina degli individui: nelvalutare una teoria non facciamo caso se ad averla formulata siastato un uomo o una donna, se un negro o un bianco, mastiamo solo attenti al suo valore cognitivo e vogliamo accertarcise essa è adeguata ai fatti, se ci permette di spiegare i fenomeni

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    del mondo e di prevedere nuovi eventi; né gli esiti dei control-li che permettono di addivenire a giudicare se una teoria ade-guata sia più o meno confermata (o corroborata) dipendonodal sesso o dalla razza di chi effetua i testi e i controlli di labo-ratorio. Viene insomma esclusa la possibilità che ci possa esse-re una scienza “femminista” come anche una scienza “africana”o “cines