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Condizioni semiotiche per la linguistica educativa: lingua, cultura, interlingua, intercultura (D00017) Massimo Vedovelli Università per Stranieri di Siena Pisa, 2009 ISBN: 978-88-6725-020-2 Ultima revisione 29 Giugno 2009

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Condizioni semiotiche per la linguistica educativa: lingua, cultura, interlingua,

intercultura (D00017)

Massimo Vedovelli

Università per Stranieri di Siena

Pisa, 2009 ISBN: 978-88-6725-020-2

Ultima revisione 29 Giugno 2009

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Presentazione del modulo

L'immigrazione straniera si è affacciata nelle scuole italiane a partire dai primi anni Ottanta (il fenomeno, però, era già cominciato in maniera consistente dalla metà degli anni Settanta), prima con gli adulti che si presentavano ai corsi serali delle cosiddette "150 ore", successivamente con i giovani e giovanissimi sempre più di frequente nati in Italia, infine con gli adulti presenti in maniera quasi esclusiva come tipo di pubblico nei CTP (Centri Territoriali per l'Educazione Permanente degli Adulti).

La richiesta che proviene dagli immigrati è centrata sui diritti di una cittadinanza che passi innanzitutto per il diritto alla formazione. La risposta del sistema formativo italiano è stata ed è quella dell'intercultura: tale concetto sembra avere la qualità di rendersi riconoscibile a più livelli, da quello dello slogan a quello delle sperimentazioni innovative, da quello della pratica quotidiana della didattica a quello della riflessione teorica pura. Pochi altri concetti hanno avuto, a nostro parere, una tale capacità di presa sulla nostra scuola, un successo trasversale a tutte le ideologie e simpatie sia nel campo della cultura che in quello della didattica.

Nel presente modulo non entriamo nello specifico pedagogico o socio-antropologico del concetto di "intercultura", perché non sono campi di nostra competenza, ma vorremmo proporre una visione linguistica dell'intercultura sia dal punto di vista dei riferimenti teorici, sia a livello di possibili implicazioni ai fini della creazione di percorsi di formazione linguistica rivolti non solo agli stranieri, ma a tutti coloro che, entrando a scuola, sono messi in contatto con le culture degli altri e, più in generale, con le culture come forme di vita (un concetto, quest'ultimo, che avremo modo di trattare nel modulo).

Il principale intento che ci poniamo è, allora, di verificare quali siano le condizioni di possibilità linguistiche e generalmente semiotiche per la pertinenza di un approccio interculturale che riguardi sia la riflessione teorica, sia le azioni didattiche mirate allo sviluppo della competenza linguistica.

Il presente modulo cerca di fare una sintesi o, se vogliamo, un bilancio degli studi linguistici che hanno riguardato la materia in questione, senza volersi sovrapporre, però, ad altri e ben più consistenti bilanci, quali quelli di Giacalone Ramat (1993), Barni - Villarini (2001), Giacalone Ramat (2003), Chini (2005), Bagna, Barni, (2007); per la disamina e l'approfondimento di singoli argomenti si veda anche Vedovelli (2000, 2001, 2002a, 2002b, 2003a).

Per evitare sovrapposizioni e ripetizioni con i lavori citati, il nostro obiettivo è di vedere se nelle riflessioni teoriche di tipo linguistico abbia avuto un qualche ruolo il concetto di intercultura e se questo può essere di qualche utilità. Riferiamo le nostre proposte all'ambito della linguistica educativa: ciò presuppone, innanzitutto, la definizione dei confini fra le varie discipline che, all'interno delle scienze del linguaggio, si sono occupate di sviluppo della competenza linguistico-comunicativa (nella dizione del Quadro comune europeo di riferimento per le lingue: Consiglio d'Europa 2001), ovvero la definizione dei rispettivi oggetti, dei confini reciproci, delle aree di sovrapposizione.

Il modulo inizia con la definizione dell'oggetto della linguistica educativa; prosegue verificando come essa possa applicarsi ai processi di insegnamento - apprendimento dell'italiano come L2 (italiano degli/per gli stranieri); esamina come alcune caratteristiche generali di tipo semiotico possano gettare nuova luce su tale ambito; si conclude con indicazioni per un quadro generale di linguistica educativa della L2 fondato su una prospettiva semiotica.

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Guida al modulo

Scopo del modulo

Scopo generale del modulo è definire alcuni concetti per leggere in maniera forse nuova rispetto a quella tradizionale una serie di processi che possono essere riportati alla generale questione dell'insegnamento linguistico. La novità è rappresentata dal fare riferimento alle caratteristiche generalmente semiotiche del linguaggio verbale, valutando le implicazioni in primo luogo sul piano descrittivo dei processi di acquisizione linguistica, in secondo luogo su quello applicativo più collegato ai processi di insegnamento e ai modi per sviluppare la competenza linguistico-comunicativa.

Per poter applicare una prospettiva semiotica soprattutto ai processi di sviluppo della competenza linguistico-comunicativa, si rende necessario innanzitutto definire gli oggetti di cui il modulo tratta: a partire dai processi di sviluppo della competenza fino alle discipline che si occupano di tali processi. Partiamo, allora, dai rapporti fra glottodidattica, linguistica acquisizionale, linguistica educativa per determinare i tratti principali dell'universo generale entro il quale si collocano i menzionati processi: l'educazione linguistica.

Definiti concettualmente e terminologicamente gli oggetti e le rispettive discipline, individuiamo quello che riteniamo l'elemento centrale della questione: l'apprendimento - acquisizione della L2 da parte degli stranieri (è soprattutto a questo ambito che facciamo riferimento) è un processo che ha come prodotto una interlingua, un sistema provvisorio, dinamico, instabile e insieme cristallizzabile di regole del comportamento linguistico-comunicativo. Spesso, tali regole appaiono devianti rispetto a quelle della L1 dell'apprendente e della L2 oggetto dell'apprendimento. Che cosa sono queste deviazioni? Sono solo "errori", limiti alla "pura" competenza, alla "buona" competenza?

La nostra proposta interpretativa è che queste deviazioni siano solo apparentemente tali, essendo, in realtà, la manifestazione della generale capacità creativa dell'apprendente, traccia della sua attività di rielaborazione dell'input e di ri-creazione di sistemi semiotici, di senso, cioè forme di vita, ovvero culture, forme di identità (vedi 3.2).

Usando il concetto di 'creatività' in campo semiotico e linguistico, è possibile inquadrare una possibile educazione linguistica per la L2 basata sulla capacità di autonomia dell'apprendente, sulla sua capacità di autonoma elaborazione della propria competenza, delle vie della propria identità linguistica. Questa identità è interculturale e interlinguistica: sono questi due concetti che guidano un possibile nuovo e più adeguato modo di fare educazione linguistica applicata alla L2.

Contenuti del modulo

Il modulo è composto da:

1. il testo delle unità didattiche; 2. schede di approfondimento:

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- Ferdinand de Saussure - Ecologia linguistica - L'interlingua

3. un glossario di linguistica (utile per definire alcuni dei termini utilizzati nel corso del modulo).

Attività richieste

Lettura e studio dei materiali che compongono il modulo. Svolgimento degli esercizi.

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Indice delle unità didattiche

UD 1 - L'educazione linguistica, la linguistica educativa. Un quadro concettuale di riferimento

In questa unità didattica definiamo il problema intorno al quale muovono le proposte del modulo, e proponiamo una batteria concettuale e terminologica per l'analisi della materia, innanzitutto definendo le varie prospettive che, all'interno delle scienze del linguaggio, se ne occupano

Nell'unità didattica l'attenzione si concentra sulle definizioni di educazione linguistica, glottodidattica, linguistica educativa, in maniera tale che possa emergere il campo specifico all'interno del quale si colloca la possibilità di una visione semiotica dei processi di insegnamento-apprendimento della L2.

1.1 - Il problema

1.2 - Che cos'è l'educazione linguistica?

1.3 - La glottodidattica ha come oggetto l'educazione linguistica?

1.4 - Glottodidattica e linguistica acquisizionale

1.5 - Glottodidattica e linguistica educativa

UD 2 - Gli studi acquisizionali e la condizione dell'italiano L2

L'unità didattica si sofferma sulla novità rappresentata dalle prospettive acquisizionali di studio applicate all'italiano come L2, esaminandone sia le implicazioni sulla generale situazione dello spazio linguistico italiano, sia i limiti legati alla difficoltà di passare dal piano strettamente teorico (linguistica acquisizionale) a quello applicativo (didattica acquisizionale).

Dato che il concetto di intercultura è quello primariamente applicato dalla scuola italiana alle questione dell'italiano L2 per gli immigrati, si cercano i suoi possibili legami con un altro concetto che è ancora molto forte a livello di studi linguistici: il concetto di interlingua. Da tale confronto deriva la possibilità di ricomporre in un quadro unitario di tipo semiotico i due ambiti

2.1 - L'oggetto degli studi acquisizionali

2.2 - Interlingua - intercultura?

UD 3 - Condizioni semiotiche dello sviluppo interlinguistico

In questa unità didattica si entra più direttamente nella questione delle caratteristiche semiotiche dei processi di acquisizione della L2, esaminando innanzitutto le condizioni di possibilità di tale

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applicazione, quindi ribadendo il fatto che una lingua è, in quanto forma di vita, una cultura: da qui, la necessità di un quadro unitario concettuale di riferimento, il quadro di tipo semiotico.

3.1 - Applicabilità di una prospettiva semiotica agli studi acquisizionali

3.2 - Lingua e cultura, lingua è cultura

UD 4 - La creatività linguistica

Il concetto che più consente di trattare in modo nuovo e più organico di processi acquisizionali anche nelle loro implicazioni educative è il concetto semiotico di "creatività". La creatività accompagna sempre la produzione semiotica che si concretizza nel linguaggio verbale, pur non essendo esclusiva di questo, e viene a caratterizzare il processo primigenio di costituzione dell'identità. A nostro avviso, il concetto semiotico di "creatività linguistica" può consentire di mettere a fuoco ulteriormenteanche il senso dei processi di sviluppo dell'interlingua a livello individuale, e di esaminarli soprattutto al fine di valutarne le possibili implicazioni applicative.

4.1 - La creatività regolare e non regolare

4.2 - Creatività e processi acquisizionali

4.3 - Il contatto (inter)linguistico come luogo del contatto (inter)culturale

UD 5 - Linee guida per una linguistica educativa in prospettiva semiotica

In questa unità didattica cerchiamo di individuare alcuni punti di riferimento per definire le linee di una possibile linguistica educativa applicata alla L2, fondandola su una prospettiva semiotica, cercando, cioè, di inserire in un quadro capace di guidare l'azione di insegnamento della L2 su alcune delle caratteristiche semiotiche che abbiamo evidenziato nelle unità didattiche precedenti. Nelle idee comuni, così largamente diffuse fino a diventare mode e ideologie culturali, anche di tipo didattico-linguistico, insegnare una lingua straniera significa trasmettere ad uno straniero gli elementi e le regole che gli consentiranno di comunicare con i parlanti nativi di tale lingua, o anche proporgli i modelli di uso linguistico-comunicativo. Quale che sia il processo di trasmissione (diretto ed esplicito, oppure realizzato attraverso l'immersione nella comunicazione e nelle sue strutture), la trasmissione presuppone un modello di sistema della lingua e delle strutture di comunicazione che diventa il punto di riferimento per identificare gli obiettivi dell'insegnamento e il percorso didattico, nonché per valutare i livelli di competenza raggiunti dall'apprendente straniero. La possibilità di trasmettere la lingua a uno straniero è affidata a una figura sociale istituzionalizzata (il docente), che regola e controlla il processo, determinandone gli obiettivi e i percorsi. L'intento del modulo è di ridefinire tale modello adeguandolo maggiormente alla centralità del ruolo dell'apprendente.

5.1 - L'autonomia dell'apprendente: l'incontrollabilità dei suoi processi di elaborazione linguistica

5.2 - L'incontrollabile interlingua dell'apprendente

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5.3 - Il contatto nei territori semiotici e il ruolo degli apprendenti

5.4 - Il possesso sociale della L2. Il caso degli pseudoitalianismi

5.5 - La poesia degli apprendenti stranieri

5.6 - L'educazione linguistica e il processo sociale istituzionalizzato dell'apprendimento della L2

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UD 1 - L'educazione linguistica, la linguistica educativa. Un quadro concettuale di riferimento

In questa unità didattica definiamo il problema intorno al quale muovono le proposte del modulo, e proponiamo una batteria concettuale e terminologica per l'analisi della materia, innanzitutto definendo le varie prospettive che, all'interno delle scienze del linguaggio, se ne occupano

Nell'unità didattica l'attenzione si concentra sulle definizioni di educazione linguistica, glottodidattica, linguistica educativa, in maniera tale che possa emergere il campo specifico all'interno del quale si colloca la possibilità di una visione semiotica dei processi di insegnamento-apprendimento della L2.

1.1 - Il problema

1.2 - Che cos'è l'educazione linguistica?

1.3 - La glottodidattica ha come oggetto l'educazione linguistica?

1.4 - Glottodidattica e linguistica acquisizionale

1.5 - Glottodidattica e linguistica educativa

1.1 - Il problema

Grazie soprattutto all'ingresso degli immigrati stranieri, prima adulti, poi giovani e giovanissimi, nella scuola italiana, da diversi anni si è avuta una larga diffusione delle prospettive concettuali teoriche e applicative che si riuniscono generalmente sotto la dizione di "intercultura". Fra le molte novità che si sono manifestate nella scuola italiana a partire dalle riflessioni e dalle sperimentazioni degli anni Sessanta del Novecento, una delle più rilevanti è stata proprio la prospettiva interculturale: colpisce, in particolare, il fatto che si sia diffusa rapidamente ed estesamente a tutti i livelli scolastici (Ministero della Pubblica Istruzione, 2000). Il motivo principale di tale successo sta, a nostro avviso, nel fatto che tale prospettiva è stata percepita immediatamente come adeguata a inquadrare teoricamente e a guidare gli interventi operativi per risolvere i problemi dell'inserimento degli immigrati stranieri nella scuola e nella società italiane, fenomeno tra i più vistosi fra quelli che hanno contribuito a cambiare il volto sociale, economico, culturale e linguistico dell'Italia recente.

Quando l'immigrazione straniera si è affacciata alle scuole italiane, chiedendo i diritti di una cittadinanza che passassero innanzitutto per il diritto alla formazione, la risposta che prima gli insegnanti 'dal basso' e poi le istituzioni 'dall'alto' hanno promosso è stata quella dell'intercultura: tale concetto è sembrato avere la qualità di rendersi riconoscibile a più livelli, da quello dello slogan a quello delle sperimentazioni innovative, da quello della pratica quotidiana della didattica a quello della riflessione teorica pura.

Riguardo al successo di tale concetto/prospettiva di lavoro, ci poniamo, però, un dubbio, se non addirittura ci rappresentiamo il timore di un rischio, soprattutto se, uscendo dalle discipline pedagogico-antropologiche, cerchiamo di considerare anche il terreno linguistico. Si tratta del terreno sul quale lo scontro fra i bisogni di integrazione dei migranti e le risposte sociali e istituzionali hanno visto la scuola farsi carico del problema: la lingua, i bisogni linguistici, le

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esigenze espressivo-comunicative sono il primo e più grande ostacolo percepito dal migrante nella sua integrazione sociale, e il primo che si presenta entro il contesto formativo. Senza lingua non si può attuare un progetto di sviluppo culturale e di inserimento sociale; la lingua diventa, così, obiettivo e insieme strumento dell'azione formativa. Il migrante, però, elabora la sua capacità di uso della nuova lingua nella sua vita quotidiana, e ciò gli consente di sviluppare un determinato livello di italiano L2 acquisito spontaneamente. Quando il migrante riesce a entrare in contatto con l'offerta formativa del nostro sistema scolastico si inserisce in classe, dunque, con livelli di italiano già sviluppati, provvisti di una struttura formale propria, di determinati gradi di funzionalità e di limiti espressivi. Tali livelli si articolano in livelli progressivamente evolutivi e possono - in una certa misura - collegarsi a un percorso formativo definito dal docente. Di questi processi si occupa, come vedremo nell'UD 2, la linguistica acquisizionale.

Tali processi sono studiati non solo in relazione ai fenomeni di immigrazione straniera in Italia (che hanno indubbiamente agito da catalizzatori), ma più in generale per l'analisi delle questioni che si pongono quando si vogliano studiare i processi di apprendimento dell'italiano da parte di qualsiasi straniero, anche non immigrato, in Italia e nel mondo.

Tali livelli di lingua, tali usi linguistici degli stranieri presentano caratteristiche singolari: non sono un "puro" italiano; presentano le tracce delle esperienze linguistiche pregresse del migrante (la sua L1, le altre lingue eventualmente conosciute); possono essere molto efficaci per le situazioni comunicative più usuali e, insieme, manifestare blocchi e limiti notevolissimi. Di questa non-piena-lingua, di questa "interlingua" (vedi la scheda L'interlingua) si occupa la linguistica acquisizionale, ma anche altre discipline.

Eccoci giunti, allora, al nostro problema: l'approccio interculturale e l'analisi linguistica, che insistono entrambi su una stessa area di processi coinvolgenti le lingue e le culture in contatto, sono in un rapporto di reciproco dialogo? O sono due mondi indipendenti, che non si interrogano sui reciproci rapporti?

La nostra tesi è che oggi tale dialogo non è affatto scontato. Come provocatorio punto di partenza della nostra analisi, assumiamo che nelle prospettive pedagogiche interculturali il richiamo alla dimensione linguistica, e nelle ricerche linguistiche il richiamo alla dimensione interculturale siano solo di superficie, mentre la realtà sia più caratterizzata dal reciproco silenzio, dalla mancanza di vero dialogo, dall'ignorarsi vicendevole.

Quali sono queste discipline? Quali prospettive sviluppano affrontando la materia di cui abbiamo cominciato a trattare?

Sicuramente, dovremo tenere presente il piano delle modellizzazioni teorico-linguistiche, ma queste da sole non bastano a dare risposta alle domande che si pongono a fronte della questione della lingua degli stranieri. Occorre coinvolgere anche le prospettive applicative, siano esse più collocate entro l'universo delle scienze linguistiche o entro quello pedagogico.

Nelle prossime UD cercheremo di chiarire la natura di queste discipline e delle prospettive da esse aperte. In particolare proveremo a stabilire se tali prospettive consentono di guardare solo alla questione della lingua per gli stranieri, o hanno un valore più generale, riguardando la questione della lingua per tutta la società italiana, per tutti coloro che frequentano la scuola.

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1.2 - Che cos'è l'educazione linguistica?

Senza volere in questa sede ripercorrere la storia dei mutamenti della scuola italiana relativamente ai modelli educativi elaborati e attuati in vista dello sviluppo della competenza linguistica, vorremmo solo sottolineare che, a partire dagli anni Sessanta - Settanta, il tradizionale ambito dell'insegnamento dell'italiano si è allargato a quello della più generale educazione linguistica. Tale allargamento fu sancito anche normativamente nei Nuovi programmi per la scuola media del 1979, e successivamente nei vari testi di riforma dei cicli scolastici. In tale dizione e in tale nuovo ambito di formazione ricadevano i frutti delle sperimentazioni didattiche e delle elaborazioni scientifiche che avevano coinvolto insegnanti e docenti universitari, da don Lorenzo Milani a Bruno Ciari a Mario Lodi; da Tullio De Mauro ai linguisti che fondarono, nel 1973, entro la Società di Linguistica Italiana, il GISCEL - Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell'Educazione Linguistica. Il GISCEL è stato ed è un luogo di incontro, di dialogo, di condivisione critica di esperienze scolastiche che cercano e trovano fondamenti teorici solidi, e di proposte teoriche che si plasmano nel contatto con le reali esigenze e condizioni di vita della scuola.

Giuseppe Lombardo Radice nelle sue Lezioni di didattica introduce l'espressione educazione linguistica: "Tutto l'insegnamento [...] costituisce la nostra educazione linguistica. [...] Educare linguisticamente è né più né meno educare alla originalità" (Lombardo Radice, Lezioni di didattica: 168 e segg.). Già dagli anni Sessanta De Mauro riprende e sviluppa il concetto, rendendolo portabandiera dell'intero movimento di rinnovamento della scuola italiana in materia linguistica. Le Dieci Tesi del GISCEL per l'educazione linguistica democratica sanciscono il significato di "educazione linguistica" aggiungendovi la qualificazione di "democratica" in opposizione alla pedagogia linguistica tradizionale, confinata nell'ora di italiano e considerata inutile, ripetitiva, dannosa.

Ecco come le Dieci Tesi GISCEL definiscono l'educazione linguistica democratica:

Chi ha avuto pazienza di seguire fin qui l'esposizione, attraverso l'enunciazione delle tesi più generali (I-IV) e di quelle dedicate all'analisi e critica della pedagogia linguistica tradizionale (V-VII) ha già visto delinearsi sparsamente i tratti di una educazione linguistica democratica. Vogliamo ora qui coordinarli, secondo un'esigenza di interna coerenza e di più organica successione, formulando dieci principi su cui basare l'educazione linguistica nella scuola nuova che nasce nella scuola democratica.

1. Lo sviluppo delle capacità verbali va promosso in stretto rapporto reciproco con una corretta socializzazione, con lo sviluppo psicomotorio con la maturazione ed estrinsecazione di tutte le capacità espressive e simboliche.

2. Lo sviluppo e l'esercizio delle capacità linguistiche non vanno mai proposti e perseguiti come fini a se stessi, ma come strumenti di più ricca partecipazione alla vita sociale e intellettuale: lo specifico addestramento delle capacità verbali va sempre motivato entro le attività di studio, ricerca, discussione, partecipazione, produzione individuale e di gruppo.

3. La sollecitazione delle capacità linguistiche deve partire dall'individuazione del retroterra linguistico-culturale personale, familiare, ambientale dell'allievo, non per fissarlo e inchiodarlo a questo retroterra, ma, al contrario, per arricchire il patrimonio linguistico dell'allievo attraverso aggiunte e ampliamenti che, per essere efficaci, devono essere studiatamente graduali.

4. La scoperta della diversità dei retroterra linguistici individuali tra gli allievi dello stesso gruppo è il punto di partenza di ripetute e sempre più approfondite esperienze ed esplorazioni della varietà spaziale e temporale, geografica, sociale, storica, che caratterizza il patrimonio linguistico dei componenti di una stessa società: imparare a capire e apprezzare tale varietà è il primo passo per imparare a viverci in mezzo senza esserne succubi e senza calpestarla.

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5. Occorre sviluppare e tenere d'occhio non solo le capacità produttive, ma anche quelle ricettive, verificando il grado di comprensione di testi scritti o registrati e vagliando e stimolando la capacità di intendere un vocabolario sempre più esteso e una sempre più estesa varietà di tipi di frase.

6. Nelle capacità sia produttive sia ricettive va sviluppato l'aspetto sia orale sia scritto, stimolando il senso delle diverse esigenze di formulazione inerenti al testo scritto in rapporto all'orale, creando situazioni in cui serva passare da formulazioni orali a formulazioni scritte di uno stesso argomento per uno stesso pubblico e viceversa.

7. Per le capacità sia ricettive sia produttive, sia orali sia scritte, occorre sviluppare e stimolare la capacità di passaggio dalle formulazioni più accentuatamente locali, colloquiali, immediate, informali, a quelle più generalmente usate, più meditate, riflesse e formali.

8. Seguendo la regola precedente, si incontra la necessità di addestrare alla conoscenza e all'uso di modi istituzionalizzati d'uso della lingua comune (linguaggio giuridico, linguaggi letterari e poetici ecc.).

9. Nella cornice complessiva delle varie capacità linguistiche, occorre curare e sviluppare in particolare, fin dalle prime esperienze scolari, la capacità, inerente al linguaggio verbale, di autodefinirsi e autodichiararsi e analizzarsi. Questa cura e questo sviluppo possono cominciare a realizzarsi fin dalle prime classi elementari arricchendo progressivamente le parti di vocabolario più specificamente destinate a parlare dei fatti linguistici, e innestando così in ciò, nelle scuole postelementari lo studio della realtà linguistica circostante, dei meccanismi della lingua e dei dialetti, del funzionamento del linguaggio verbale, del divenire storico delle lingue, sempre con particolare riferimento agli idiomi più largamente noti in Italia e insegnati nella scuola italiana.

10. In ogni caso e modo occorre sviluppare il senso della funzionalità di ogni possibile tipo di forme linguistiche note e ignote. La vecchia pedagogia linguistica era imitativa, prescrittiva ed esclusiva. Diceva: «Devi dire sempre e solo così. Il resto è errore». La nuova educazione linguistica (più ardua) dice: «Puoi dire così, e anche così e anche questo che pare errore o stranezza può dirsi e si dice; e questo è il risultato che ottieni nel dire così o così». La vecchia didattica linguistica era dittatoriale. Ma la nuova non è affatto anarchica: ha una regola fondamentale e una bussola; e la bussola è la funzionalità comunicativa di un testo parlato o scritto e delle sue parti a seconda degli interlocutori reali cui effettivamente lo si vuole destinare, ciò che implica il contemporaneo e parimenti adeguato rispetto sia per le parlate locali, di raggio più modesto, sia per le parlate di più larga circolazione.

L'educazione linguistica, in quanto prassi teoricamente fondata, nasce intorno ai problemi della lingua italiana innanzitutto nei suoi rapporti con il plurilinguismo dialettale e delle minoranze di antico insediamento nella Penisola. Oggi, essa si misura anche con le questioni poste dal rapporto fra lo spazio linguistico italiano, le lingue dei migranti, cioè con le decine e decine di lingue immigrate entrate in esso al seguito dei flussi di immigrazione straniera, nonché con l'italiano studiato ogni anno in Italia e nel mondo da stranieri non immigrati o dai discendenti degli emigrati italiani. L'educazione linguistica si vede costretta a interloquire, allora, con un'altra componente scientifica, quella acquisizionale, sia teorica (linguistica acquisizionale), sia volta alle questioni didattiche con il problema della definizione di una didattica acquisizionale capace di trasformare "l'essere" (cioè le scale acquisizionali, gli stadi di apprendimento dell'italiano L2) in "dover essere" (cioè in percorsi didattici mirati agli obiettivi cui deve essere portata la competenza perché sia autonoma nelle costellazioni di interazioni comunicative).

A quali prospettive scientifiche deve, in generale, fare riferimento l'educazione linguistica? A questa domanda rispondiamo qui di seguito, prendendo in esame la posizione di quelle che sembrano le discipline più in grado di alimentare con i propri quadri teoretici la promozione dell'educazione linguistica nella scuola italiana e in tutti i contesti di insegnamento - apprendimento dell'italiano L2. Di tali discipline prendiamo in esame gli oggetti, i rapporti reciproci, le aree di sovrapposizione per delineare un territorio entro il quale andremo a collocare anche il tipo di apporto che può provenire dall'ambito semiotico, cioè dalle discipline che si occupano delle caratteristiche generali e fondanti dell'attività segnica, di produzione di senso.

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1.3 - La glottodidattica ha come oggetto l’educazione linguistica?

Per definizione, la glottodidattica sembrerebbe essere la disciplina che si occupa dell’insegnamento delle lingue, e quindi si propone come principale disciplina di riferimento per l’educazione linguistica. Eppure, proprio l’attribuzione dei tratti di "educazione linguistica" al suo possibile oggetto fa sorgere diverse questioni di fondo. Riteniamo, infatti, che la glottodidattica italiana oggi viva una situazione diversa anche solo da quella di pochi anni fa, e che attualmente tale ambito disciplinare si trovi in un momento di svolta, o che comunque abbia appena varcato una soglia nella sua esistenza. Se la consideriamo ‘scienza dell’insegnamento delle lingue’, essa appare in difficoltà se entro tale senso facciamo rientrare non solo le lingue straniere, ma anche la L1 e quei sistemi linguistici di contatto che emergono soprattutto nei contesti migratori (Vedovelli, 2003b).

Introduciamo subito i motivi che ci spingono a dire che la glottodidattica italiana oggi si trova ad un punto di svolta capace di condizionare sicuramente le linee delle sue azioni, ma forse anche più profondamente la sua stessa identità, se non addirittura la possibilità della sua esistenza.

Ci troviamo in una fase nuova innanzitutto perché a livello europeo il dibattito sulla diffusione delle lingue e le azioni a tal fine indirizzate vivono un momento di passaggio segnato dal documento del Consiglio d’Europa intitolato Quadro comune europeo di riferimento per le lingue. Apprendimento, insegnamento, valutazione (Consiglio d’Europa 2001). La diffusione di tale documento è sempre più ampia anche in Italia, e la conoscenza dei suoi contenuti, ma anche della sua storia, con i cambiamenti intervenuti nelle sue varie versioni, è un fatto sicuramente positivo, che dobbiamo dare per scontato nelle nostre argomentazioni: pertanto, non possiamo fare a meno di richiamare l’importanza del Quadro comune europeo, che è oggi per lo meno il più recente documento europeo che proponga una visione globale della politica della diffusione delle lingue, e il più rilevante punto di riferimento nelle discussioni fra coloro che a ogni livello, dal legislatore a chi progetta i sistemi formativi, dagli insegnanti agli apprendenti stessi ai cittadini intesi come pubblico potenziale dell’offerta di formazione linguistica, sono impegnati nella progettazione e gestione delle azioni di didattica delle lingue.

Non si vuole certo negare il ruolo che anche in Italia hanno avuto le prospettive glottodidattiche primariamente centrate sulle questioni dell’insegnamento della L2. Riteniamo, anzi, che gli sforzi della scuola italiana nella diffusione delle lingue, la grande diffusione dell’italiano fra gli stranieri in Italia e nel mondo, la vivace produzione di materiali didattici, le sempre nuove ricerche di carattere teorico ed applicato nel settore dell’insegnamento/apprendimento delle lingue siano stati resi possibili anche grazie all’esistenza di una solida tradizione glottodidattica nell’organizzazione istituzionale del sapere e nel sistema formativo. Il sapere glottodidattico, diffuso fra gli insegnanti o nelle strutture accademiche di ricerca, ha costituito una reale condizione di possibilità perché la situazione linguistica italiana potesse evolvere anche nella direzione della diffusione delle lingue, e perché le esigenze emergenti a livello sociale trovassero risposte concretizzatesi nei programmi scolastici (soprattutto quelli realmente innovativi e solidamente fondati su coerenti presupposti glottodidattici), nei progetti sperimentali di diffusione delle lingue, nella sempre più estesa attenzione al ruolo delle certificazioni di competenza, in migliori sistemi di valutazione scolastica, nelle azioni di formazione dei docenti.

Riprendiamo la nostra domanda “che cos’è oggi la glottodidattica in Italia?” per affrontare le questioni del rapporto fra dimensione interlinguistica e interculturale e per esaminare la possibilità di apporti provenienti dalle discipline semiotiche.

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Per rispondere occorre definire innanzitutto il suo oggetto entro un più generale universo di processi e di problemi: tali confini più ampi possono essere di tipo concettuale, cioè l’universo dei processi semiotici di costituzione del senso al cui interno si può individuare un’area costituita dai modi in cui essi si configurano come funzione delle dinamiche di diffusione e promozione delle lingue, e come risultante del rapporto fra esigenze sociali, motivazioni individuali, struttura dell’offerta della formazione linguistica.

La prima dimensione nella quale collochiamo le nostre considerazioni è quella della ricerca scientifica, dove rispondere alla domanda che ci siamo posti implica la necessità di definire l’oggetto della glottodidattica. Questo sembra autoevidente nel nome: si tratterebbe di una soluzione semplicistica, però, dal momento che non basta dire che l’oggetto della glottodidattica è la didattica delle lingue per definirne l’identità. A livello epistemologico, la definizione dell’identità di una scienza è legata a quella del suo oggetto, cui è collegato anche il suo statuto metodologico: ma l’identità è sempre frutto di una struttura relazionale. È possibile, pertanto, definire l’identità della glottodidattica senza esaminare in che cosa si distingua dalle altre scienze? Riteniamo di no; anzi, crediamo che la glottodidattica italiana oggi viva il problema radicale di trovare uno spazio rispetto alle altre discipline all’interno delle scienze del linguaggio. Il problema dell’oggetto della glottodidattica è, allora, quello della sua posizione in rapporto alle altre scienze del linguaggio: è una scienza autonomamente definita quanto a oggetto (di esclusiva pertinenza) e metodi? È una scienza di confine, il cui oggetto tocca quello di altre discipline? È una scienza di intersezione, che condivide con altre discipline, totalmente o parzialmente, il proprio oggetto?

Se la glottodidattica non dovesse avere un oggetto autonomo, vedrebbe messa a rischio la possibilità stessa della sua esistenza, o almeno il grado della sua indipendenza rispetto ad altre discipline (il che vuol dire, senza l’ipocrisia propria degli eufemismi, che non sarebbe disciplina annoverabile fra le pratiche umane che possono chiamarsi pienamente "scienza", mancando di attività pienamente libera, indipendente, critica, di promozione della conoscenza in tutte le sue forme).

Facciamo l’ipotesi che la glottodidattica non sia autonoma: su che cosa si fonderebbe tale posizione? Il paragone con l’elaborazione scientifica internazionale sembrerebbe far propendere verso tale posizione: in aree diverse da quella italiana la glottodidattica è ricondotta entro il più vasto territorio della linguistica applicata, e le sue tematiche sono ricomprese in essa (Barni 2000). Autonoma sì, allora, ma il senso, la pertinenza, l’oggetto specifico le è dato dall’oggetto e dalle metodiche della linguistica applicata, definita distintivamente rispetto alla linguistica teorica. Se esaminiamo alcuni manuali di glottodidattica, siano essi opera di un unico studioso (Ciliberti 1994) o raccolte di saggi (De Marco 2000), la discussione primaria è su tale oggetto, e la conquista di autonomia è considerata più un auspicio o comunque un dato da costruire e difendere continuamente, che un dato assodato. In più, appare difficile la rottura di ogni legame con la più fondata e fondante linguistica applicata, anche nelle posizioni che sottolineano (o ricercano) l’autonomia originale della disciplina.

Ci sono giustificazioni a una posizione opposta? A nostro parere, sì; soprattutto se teniamo presente che ogni disciplina scientifica cerca di allargare sempre di più i confini del proprio oggetto come risultante della spinta alla scoperta di nuove realtà; ne consegue, allora, una costante dialettica con le discipline confinanti. Quando la materia, poi, è vasta, complessa e totalizzante quanto la semiosi verbale, appare evidente la difficoltà di ritagliare esclusivi confini all’oggetto di una singola disciplina di studio. Accettata la dialettica con le altre scienze come condizione normale, anche la glottodidattica potrà acquisire progressivamente una propria autonomia nella misura in cui saprà dialetticamente proporre originali prospettive teoriche e metodologiche per la comprensione dei fenomeni, per lo sviluppo della conoscenza e della vita degli individui e delle collettività.

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A nostro avviso, però, il fatto che nella dialettica con una disciplina dallo statuto teorico forte la glottodidattica si conquisti uno spazio di autonomia non la esime dal rischio di sovraestensione del proprio oggetto, con la conseguenza di una perdita di autonomia dovuta all’esistenza di aree di sovrapposizione con altre discipline. Come esempio prendiamo proprio il problema dello sviluppo linguistico della società. Il Quadro comune europeo è un documento che intende definire le linee per lo sviluppo linguistico della società europea, ed inevitabilmente ha un forte spessore glottodidattico, pur essendo un documento di politica linguistica. Su tali questioni si concentrano discipline ugualmente interessate alle questioni dello sviluppo linguistico della società, quali la sociolinguistica o l’ecolinguistica (vedi la scheda Ecologia linguistica). La progettazione dei sistemi scolastici è, allo stesso modo, un tema a cavallo fra più discipline, e in questi anni il sistema scolastico italiano è oggetto di un cambiamento politico-strutturale che non può non sollecitare la glottodidattica, le altre scienze linguistiche e quelle pedagogiche. Che cosa ne rimane per la glottodidattica? Di nuovo, rimane la spinta alla continua negoziazione della propria identità, in un rapporto che veda la possibilità di applicare prospettive differenti ad una stessa materia, e la capacità di elaborare paradigmi sempre più generali e profondi. Soltanto se la glottodidattica italiana avrà questa continua e creativa tensione verso la scoperta di nuovi spazi di problemi e verso l’elaborazione di originali modelli teorici, capaci di dare risposta alle esigenze di sviluppo linguistico della società, potrà avere una propria autonoma identità. Non le manca, peraltro, la materia in una società dinamica e complessa a livello linguistico come quella italiana contemporanea.

Non siamo spaventati, dunque, dal pensiero che alla sua radice la glottodidattica possa non avere una propria autonomia; la sua identità, infatti, deriva dalla capacità di negoziarla nei confronti delle altre discipline sapendo cogliere ed analizzare i problemi della semiosi verbale. Se consideriamo lo statuto della glottodidattica italiana, dovremo attingere tali problemi dalla realtà linguistica italiana; e ancora, la dialettica va collocata entro il panorama della struttura delle discipline scientifiche operanti nella realtà italiana (vedi 1.4).

1.4 - Glottodidattica e linguistica acquisizionale

Il primo fatto è costituito dalla nascita e dallo sviluppo di alcune discipline di studio che operano sulla stessa materia o, per lo meno, entro lo stesso orizzonte: fra queste riteniamo che la prima sia la linguistica acquisizionale. Questa espressione traduce, su suggerimento di Gaetano Berruto, entro i lavori di un progetto di ricerca interuniversitario sull'acquisizione della sintassi in italiano L2, la formula studies on second language acquisition. In realtà, Silvana Ferreri ci ricorda che proprio Berruto (Berruto 1988: 226-227), introducendo l'espressione "sociolinguistica educativa", segnala un settore che appare prioritario nella definizione dell'identità della disciplina, cioè la sociolinguistica: "La formula sociolinguistica educativa [...] esplicita nella struttura sintagmatica gli elementi che si intersecano e costituiscono il tessuto connettivo delle riflessioni linguistico-educative" (Ferreri, Educazione linguistica: L1: 231).

La linguistica acquisizionale si è sviluppata in Italia soprattutto in relazione all'analisi dei problemi dell'italiano L2 degli stranieri, soprattutto immigrati: nasce dunque da uno specifico problema che investe la lingua italiana e aspira a uno statuto teorico fondante, occupandosi dei processi di acquisizione, i quali rimandano all'apprendente, che è il centro del processo di apprendimento-insegnamento e che costituisce l'oggetto anche della glottodidattica, o almeno di una sua prospettiva culturale.

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La linguistica acquisizionale italiana si sviluppa come studio pressoché esclusivo dei problemi della lingua italiana come oggetto di apprendimento in quanto L2, pur senza tralasciare riferimenti alle questioni dell'acquisizione della L1 e dell'apprendimento di L2 da parte degli italofoni; di questi temi si occupano prevalentemente studiosi di altre aree di studio (inglese L2, francese L2 ecc.), comunque derivanti dalle tradizioni di linguistica applicata proprie delle lingue in questione. Dunque, ci appare evidente il fatto che la glottodidattica, se vuole porre al centro del proprio oggetto la relazione insegnamento-apprendimento, rischia di vedersi collocata in posizione subalterna rispetto a una disciplina, appunto la linguistica acquisizionale, che si occupa di ciò che è logicamente prioritario, cioè l'analisi dei processi di sviluppo della competenza in L2 negli individui. A favore della priorità gerarchica della linguistica acquisizionale italiana giocherebbe anche il fatto che tale disciplina è nata rispondendo di fatto a un problema che ha investito la lingua e la società italiana, ovvero l'apprendimento della nostra lingua da parte degli stranieri. Siamo ben consapevoli che alla radice della linguistica acquisizionale italiana non ci siano solo le questioni dell'apprendimento dell'italiano in contesto spontaneo da parte degli immigrati: lo sviluppo di certe linee di linguistica teorica e applicata era maturo per la definizione di una autonoma prospettiva di studio, e altri temi, di natura anche meno vincolata alla situazione italiana, erano o stavano per diventare oggetto dei suoi studi. A nostro avviso, però, le questioni linguistiche dell'immigrazione straniera hanno agito come catalizzatori del processo.

Nella dialettica con le altre discipline, fatto salvo il problema radicale (e forse irrisolvibile) dell'autonomia rispetto alla linguistica applicata, la glottodidattica è costretta innanzitutto a negoziare la propria identità rispetto alla linguistica acquisizionale, che assume una posizione prioritaria in relazione alla centralità del suo oggetto: l'apprendente e i suoi processi di apprendimento.

Posta così la questione, sembrerebbe esserci poca speranza per una autonoma glottodidattica, ma almeno due fatti lasciano aperta più di una possibilità. Innanzitutto, occorre domandarsi quanto si possa effettivamente parlare di una autonoma linguistica acquisizionale italiana: la prospettiva si è sviluppata solo negli anni recenti con tale assunzione di responsabilità teorica e conseguente carattere fondante e prioritario. Riteniamo che occorra verificare nel tempo se tale prospettiva di studio potrà attecchire e svilupparsi nel sistema e nell'organizzazione italiana del sapere. Il secondo fatto è costituito dalla difficoltà innegabile che la linguistica acquisizionale ha di fondare anche quella che abbiamo chiamato didattica acquisizionale, cioè un modello teorico di didattica linguistica che si rapporti alle prospettive acquisizionali, rispetti le fasi di sviluppo dell'acquisizione della L2, non violi le sequenze implicazionali. Da tale modello dovrebbero derivare un paradigma operativo di didattica linguistica, e più controllate e solide procedure di realizzazione dei materiali didattici. Il fatto che la linguistica acquisizionale, che si fonda su uno statuto teorico forte rispetto ai processi di apprendimento, non riesca ancora a elaborare un sistematico paradigma per garantire il passaggio dai risultati conseguiti all'applicazione di essi può anche essere indice del fatto che il quadro acquisizionale non riesce intrinsecamente (o almeno finora) a includere la possibilità di tale passaggio. Ci si può chiedere se (anzi si deve auspicare che) proprio lo spazio di una didattica acquisizionale sia uno dei terreni per l'elaborazione teorica di quella disciplina che studia l'apprendimento e l'apprendente dalla prospettiva dell'insegnamento, cioè la glottodidattica. Con tali due avvertenze si riapre, a nostro avviso, la partita che vedeva alto il rischio di subalternità o di riassorbimento della glottodidattica in altre discipline.

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1.5 - Glottodidattica e linguistica educativa

La questione principale che ha attraversato fin qui le nostre considerazioni è quella dell'identità della disciplina fra autonomia e dipendenza. Una delle forme della questione è il rapporto fra la glottodidattica italiana e quella delle altre realtà internazionali; l'altra è la relazione con le altre discipline almeno entro la situazione italiana.

Siamo convinti, per quanto riguarda il primo aspetto, che la ricerca di autonomia, l'istanza di indipendenza, non possa non fondarsi sulla costante apertura alle altre prospettive. In questa direzione va l'importanza che abbiamo attribuito al Quadro comune europeo, che sollecita all'elaborazione di specifiche linee di azione locale e, insieme, propone un sistema di riferimento concettuale e terminologico condivisibile a livello sovranazionale. Tale duplice carattere ci sembra molto utile per la didattica linguistica italiana. In quanto disciplina scientifica, peraltro, il problema dei rapporti con le prospettive straniere è costitutivo della propria identità. Noi riteniamo che anche su questo punto sia necessaria una posizione aperta al dialogo, attenta alle dinamiche della ricerca scientifica a livello mondiale nel settore, pronta ad acquisire ciò che appare rilevante; insieme, però, la glottodidattica italiana deve essere capace di un'elaborazione originale e autonoma, caratteri che le derivano dal legame con le specificità della condizione italiana. Per superare il rischio di provincialismo nella ricerca scientifica occorre, però, valorizzare quegli elementi che dalla nostra originale situazione possono fornire prospettive alle altre tradizioni, creando realmente un dialogo, uno scambio di prospettive. In questo modo la glottodidattica italiana potrà anche dare un contributo contro il rischio di omologazione che può derivare dal ruolo predominante della lingua inglese nel mercato delle lingue, che si riflette sui modelli della formazione e sulle prospettive degli studi glottodidattici. Appare molto forte, infatti, la possibilità di un condizionamento sulle tradizioni non anglofone degli studi glottodidattici determinato dalla proiezione di questioni di insegnamento dell'inglese.

Su questa tensione di nuovo il Quadro comune europeo ci fornisce uno spunto. Sappiamo come sia cambiato il documento europeo dalla prima versione del 1996 - 1997, disponibile solo sul sito Internet del Consiglio d'Europa, a quella a stampa del 2001: non si tratta di cambiamenti profondi, ma della messa in risalto delle parti che hanno avuto più risonanza, di ampliamento dei richiami alle decisioni politiche prese in sede comunitaria, di integrazione del concetto di "cittadino" europeo con quello di "persona" europea. I contenuti che sono apparsi importanti nel corso della sperimentazione sono stati, infatti, spostati nei primi capitoli del testo, portati immediatamente all'evidenza. Sul senso di tali modifiche non entriamo in questa sede, se non per menzionare un'altra differenza: nelle pagine iniziali dell'ultima versione è introdotta l'espressione "educazione linguistica", mancante nella versione iniziale. L'uso di tale espressione ci sembra particolarmente importante proprio in relazione alle questioni di identità della glottodidattica italiana.

Gli anni del rinnovamento della scuola italiana e dei suoi programmi hanno visto diventare centrale l'espressione "educazione linguistica". Tullio De Mauro, proprio in rapporto al significato di educazione linguistica, ha proposto di definire un nuovo paradigma disciplinare, che sia definito in modo specifico, come specifica è la proposta dell'educazione linguistica in rapporto alle dinamiche evolutive che in Italia hanno coinvolto la lingua, le lingue, i dialetti, le trasformazioni sociali. È innegabile, però, che la linguistica educativa si contrappone, come disciplina, alla glottodidattica per quadri teorici di riferimento e oggetti. Nel momento in cui ci si interroga sull'identità della glottodidattica occorre porsi il problema del rapporto fra le due denominazioni: sono, linguistica educativa e glottodidattica, sinonimi? Rimandano a due prospettive teoriche e applicative diverse?

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A nostro avviso, la presenza del concetto di educazione linguistica nel Quadro comune europeo indica che è stata imboccata molto chiaramente una via che può aprire spazi di autonomia per la glottodidattica italiana: viene indicata una via per ricomporre in un quadro globale le problematiche dello sviluppo linguistico della società e degli individui. Ferreri differenzia due prospettive entro l'educazione linguistica: "Una accezione (EL1) si riferisce allo sviluppo delle capacità linguistiche che una società richiede per tutti i suoi membri e alle pratiche educative necessarie allo scopo; l'altra accezione (EL2) rinvia al campo di ricerca che elabora aspetti specifici della linguistica teorica e della sociolinguistica funzionali alle applicazioni didattiche della EL1" (Ferreri, Educazione linguistica: L1: 230-231). Anche la proposta di Ferreri circa la duplice identità dell'educazione linguistica non fa che sottolineare la centralità del comparto relativo a tali studi entro quello della glottodidattica, e comunque la novità di tale elemento nel settore delle didattiche delle lingue, di solito straniere.

Se l'espressione educazione linguistica può sembrare riproporre una possibile ed inutile contrapposizione fra correnti, allora paradossalmente sarebbe bene abbandonarla, ma tale operazione ci appare inopportuna dal momento che tale concetto è assunto a livello europeo e può vantare una radice italiana e nelle problematiche linguistiche italiane.

Così come si è sviluppata una linguistica acquisizionale in Italia, ci appare molto opportuna la proposta fatta da Tullio De Mauro nel 2003 nella Postfazione alla 13ª edizione di Guida all'uso delle parole, per una "linguistica educativa".

Non sappiamo se tale espressione avrà il successo dell'espressione "educazione linguistica" (vedi 1.2), né ci interessa saperlo, se ciò riguarda solo la dimensione formale terminologica. Siamo convinti, invece, che una linguistica educativa possa costituire non tanto un nuovo ambito disciplinare fra le scienze del linguaggio, ma il quadro concettuale entro il quale le diverse componenti e tradizioni della glottodidattica italiana, nella sua nuova configurazione, possano trovare un terreno autenticamente condiviso di problematiche e di prospettive.

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UD 2 - Gli studi acquisizionali e la condizione dell'italiano L2

L'unità didattica si sofferma sulla novità rappresentata dalle prospettive acquisizionali di studio applicate all'italiano come L2, esaminandone sia le implicazioni sulla generale situazione dello spazio linguistico italiano, sia i limiti legati alla difficoltà di passare dal piano strettamente teorico (linguistica acquisizionale) a quello applicativo (didattica acquisizionale).

Dato che il concetto di intercultura è quello primariamente applicato dalla scuola italiana alle questione dell'italiano L2 per gli immigrati, si cercano i suoi possibili legami con un altro concetto che è ancora molto forte a livello di studi linguistici: il concetto di interlingua. Da tale confronto deriva la possibilità di ricomporre in un quadro unitario di tipo semiotico i due ambiti

2.1 - L'oggetto degli studi acquisizionali

2.2 - Interlingua - intercultura?

2.1 - L'oggetto degli studi acquisizionali

Se prendiamo in considerazione le già citate ricognizioni sui processi di acquisizione dell'italiano L2, non ritroviamo nei modelli teorici adottati e nelle singole indagini il ricorso al concetto di intercultura. I processi di acquisizione dell'italiano L2 costituiscono la materia sulla quale si sono applicate le indagini che, appunto, si sono definite "acquisizionali". Tale prospettiva di ricerca si è sviluppata in Italia soprattutto in seguito all'ingresso degli immigrati stranieri: già questo fatto segnala un potenziale punto di contatto con la prospettiva interculturale, che ha preso le mosse in ambito pedagogico e socio-antropologico in seguito allo stesso fenomeno. I punti di contatto sembrano non finire qui. Per reperire un reale terreno di incontro dobbiamo scendere più in profondità nella definizione stessa dell'oggetto di ricerca della linguistica acquisizionale.

Lo sviluppo degli studi acquisizionali è legato al fatto che soprattutto i migranti entrano in contatto con le lingue dei Paesi in cui si vengono a trovare e mettono in atto innanzitutto processi di apprendimento spontaneo: prima di andare a scuola di lingua, apprendono (anzi, sono costretti ad apprendere, se vogliono sopravvivere socialmente) la lingua del Paese ospite nelle interazioni comunicative quotidiane, derivanti dagli spontanei processi di relazione sociale. Si parla, in questo caso, di "apprendimento spontaneo" o di "acquisizione", proprio per sottolineare il processo che porta a costituire una competenza in L2 fuori dei contesti istituzionalmente deputati a ciò, ovvero fuori dei contesti formali di istruzione. Non torniamo sui motivi teorico-metodologici che hanno spinto la ricerca acquisizionale a privilegiare i processi spontanei di apprendimento della L2 rispetto a quelli che si sviluppano nei contesti formali, se non per sottolineare il fatto che i primi sono considerati più "puri", più in grado di avvicinare ai meccanismi costitutivi ad essi soggiacenti; va ricordato, comunque, che sempre di più negli anni recenti la ricerca acquisizionale ha mirato a un modello generale dei processi acquisizionali, capace di dar conto della loro natura quale che sia il contesto in cui hanno luogo.

Torniamo sulla natura dell'oggetto di studio per verificare l'eventuale esistenza di punti di contatto fra le prospettive acquisizionali e quelle interculturali di ricerca. L'apprendimento spontaneo della L2, l'acquisizione (usiamo qui i due termini come sinonimi) ha questo di affascinante, ovvero la sua apparente contraddittorietà: il soggetto apprendente (il cui esempio paradigmatico è dato dal

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migrante) entra in contatto con una nuova società-cultura e, senza conoscere la lingua del nuovo contesto, deve comunicare: ovvero, per comunicare deve conoscere la lingua, ma la può conoscere solo comunicando. Da qui il fascino della contraddizione, che è solo apparente perché, di fatto, il processo avviene e l'apprendente sviluppa una competenza. Come, secondo quali tappe sistematiche e sotto l'influsso di quali fattori: a tali questioni è legato l'oggetto delle ricerche acquisizionali. Tale processo può essere assegnato a diversi ambiti di studio: in quanto processo di apprendimento, può fare riferimento a ciò che è studiato dalle scienze dell'educazione e dell'apprendimento; in quanto processo che ha per oggetto una lingua, rinvia agli studi linguistici; coinvolgendo la dimensione sociale apre alle analisi sociologiche e, nel settore linguistico, a quelle sociolinguistiche. In altri termini, potremmo esaminare il processo da diversi punti di vista: esso, allora, viene a manifestarsi come una "materia" di analisi, entro la quale le diverse discipline, applicando modelli e paradigmi teorici, ritagliano i propri specifici "oggetti" di studio. In questo modo, di fatto, sembriamo giustificare l'assenza della prospettiva interculturale, propria del settore pedagogico e socio-antropologico, dagli studi linguistico-acquisizionali. Non rimaniamo soddisfatti, però, di tale compartimentalizzazione: una possibile unitarietà del sapere è comunque affascinante anche in un'epoca di estrema specializzazione; e ancora, la ricerca del dialogo fra ambiti disciplinari differenti apre sempre nuove linee di indagine perché mette in luce sempre nuove questioni e sconosciuti fenomeni. Come superare, però, la netta separazione?

Se andiamo a cercare un ambito cui ascrivere più generalmente i fenomeni di apprendimento della L2 oggetto degli studi acquisizionali, è possibile trovarlo nel campo del "contatto linguistico". L'apprendimento spontaneo della L2 appare sempre di più come un caso particolare di contatto fra lingue, al pari di tanti altri fenomeni che coinvolgono gli individui e i gruppi sociali: dalle parole straniere (esotismi) che entrano in una lingua alla convivenza di più lingue d'uso in una comunità, alle problematiche delle minoranze linguistiche.

Cercando una linea evolutiva all'interno degli studi acquisizionali, essa può essere raffigurata nelle seguenti tappe. Innanzitutto, la considerazione che il processo di acquisizione si configura come la creazione di una "interlingua" di apprendimento, cioè di un sistema autonomo rispetto alla L1 e alla L2, che progressivamente e per tappe strutturate si orienta verso la L2, salvo bloccarsi in parte o totalmente (fossilizzazioni e cristallizzazioni). Da una forte attenzione iniziale ai condizionamenti di tipo sociale (che faceva concentrare sullo studio dei processi di acquisizione innanzitutto i sociolinguisti) i modelli teorici di ricerca si sono sempre più interessati al ruolo dei meccanismi interni, di tipo generale se non addirittura universale: meccanismi cognitivi, che nella loro generalità vedono l'acquisizione della L2 come un caso di trattamento dell'informazione; meccanismi linguistici, legati alle caratteristiche tipologiche delle lingue o riferiti a modelli che privilegiano i tratti universali delle lingue e dell'attività linguistica rispetto a quelli più variabili, più condizionati macrosocialmente.

2.2 - Interlingua - intercultura?

Se si applica alla materia dei processi di apprendimento la prospettiva del contatto fra idiomi, da un lato sembra possibile evitare alcuni rischi di chiusura, di impermeabilità insiti nel concetto di apprendimento di una L2 e, dall'altro, si possono scoprire nuovi spazi di ricerca dove collocare il dialogo fra diversi paradigmi di analisi.

Uno dei rischi insiti nel concetto di apprendimento di una L2 è l'idea che tale processo si concretizzi, dalla parte dell'apprendente, nella progressiva assimilazione di un sistema chiuso di regole ed elementi, cioè proprio la L2. Tale visione presuppone che il soggetto apprendente sia

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impegnato in un processo di assimilazione che lo vede adeguarsi passivamente alla struttura della lingua bersaglio. Una concezione rigida di tale processo, come quella che abbiamo appena sintetizzato, rischia di far venir meno tutto il senso dello sforzo di rinnovamento glottodidattico che soprattutto negli ultimi decenni ha caratterizzato la politica linguistica europea, la quale ha mirato a porre al centro del processo di insegnamento l'apprendente e il processo di apprendimento. Tale centralità non può presupporre un soggetto passivo, né può applicarsi a un processo di solo adeguamento alle regole della lingua bersaglio. Inoltre, una simile concezione riduzionista presuppone che la lingua bersaglio sia un sistema nettamente definito nelle sue regole: un sistema chiuso e trattabile in maniera "additiva iniziale in sede glottodidattica, cioè in maniera tale che il soggetto apprendente assimili progressivamente tutte le regole, sia pure in rapporto a quelle ritenute adeguate in una visione scalare, per livelli di competenza. Il carattere riduzionistico di tale concezione non riceve miglioramenti nemmeno se viene integrato da una dimensione di "civiltà" come sostegno contenutistico dell'apprendimento della lingua. Anche in questo caso, infatti, il processo è di assimilazione, almeno nel senso di acquisizione di elementi informativi sulla cultura legata alla lingua oggetto di apprendimento e non di loro rielaborazione autonoma.

Questa concezione riduzionistica dell'apprendimento non ammette una reale apertura interculturale: non è casuale, allora, che il più recente documento di politica linguistica europea, il Quadro comune europeo di riferimento per le lingue (Consiglio d'Europa 2001), presupponga una ben diversa prospettiva interculturale per i multilingui cittadini europei.

Contro la concezione riduzionistica si è di fatto anche posta la prospettiva acquisizionale di studi linguistici nel momento in cui ha considerato l'interlingua di apprendimento come il terreno su cui si trova collocato il soggetto apprendente e la sua competenza in sviluppo: si tratta, però, di una posizione che ha lasciato nell'implicito o che forse ha dato per scontati alcuni presupposti che costituiscono proprio il ponte per un dialogo con le prospettive interculturali e che, perciò, rappresentano il luogo dove si decide della pertinenza del concetto di intercultura negli studi linguistico-acquisizionali.

Le prospettive acquisizionali si pongono in posizione avversa alla visione riduzionistica dell'apprendimento nel momento in cui fondano il proprio approccio sul concetto di interlingua, che permette di sviluppare una "analisi degli errori" che, da Selinker in poi (cioè dall'inizio degli anni Settanta in poi), scardina l'idea di apprendimento come pura assimilazione di una L2 rigidamente configurata di fronte all'apprendente, il cui sforzo sarebbe solo quello di aderire passivamente a tale lingua, monoliticamente determinata nelle sue regole. Il concetto di interlingua ci sembra centrale nel reperimento di una prospettiva interculturale nelle ricerche linguistiche, ma va evidenziato il fatto che il modello interlinguistico ha ormai trent'anni di vita, che è un tempo lungo nel vorticoso sviluppo delle scienze contemporanee, abituate al rapido succedersi dei paradigmi e dei modelli teorici anche all'interno di quello "molle". Inoltre, il modello interlinguistico, pur avendo aperto una nuova considerazione del processo dell'apprendimento linguistico, non sembra sviluppare tutta una serie di implicazioni che ne derivano, soprattutto in relazione all'idea stessa di lingua e di attività linguistica del soggetto apprendente la L2, che è comunque un locutore, cioè un soggetto sociale impegnato in un'attività espressivo-comunicativa.

Per sviluppare tali implicazioni è necessario aprire i confini della ricerca linguistica ad altri ambiti di indagine, o meglio: è necessario tenere presenti i rapporti fra linguistica e semiologia, che già erano ben presenti al padre della linguistica moderna, Ferdinand de Saussure (vedi la scheda Ferdinand de Saussure), che considerava la linguistica come parte della semiologia proprio nel momento in cui fondava l'autonomia della nuova scienza linguistica. Senza temere di ridurre l'autonomia della linguistica, anche nelle sue prospettive acquisizionali, riteniamo utile allargare la

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prospettiva dell'analisi, passando da una esclusivamente linguistica a una più generalmente semiotica per ritrovare la pertinenza del ruolo della lingua nei processi interculturali.

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UD 3 - Condizioni semiotiche dello sviluppo interlinguistico

In questa unità didattica si entra più direttamente nella questione delle caratteristiche semiotiche dei processi di acquisizione della L2, esaminando innanzitutto le condizioni di possibilità di tale applicazione, quindi ribadendo il fatto che una lingua è, in quanto forma di vita, una cultura: da qui, la necessità di un quadro unitario concettuale di riferimento, il quadro di tipo semiotico.

3.1 - Applicabilità di una prospettiva semiotica agli studi acquisizionali

3.2 - Lingua e cultura, lingua è cultura

3.1 - Applicabilità di una prospettiva semiotica agli studi acquisizionali

Nell'attuale fase degli studi acquisizionali italiani ci si trova di fronte a un generale allargamento degli oggetti di ricerca e dei risultati ottenuti nel corso delle indagini, sviluppatesi a partire dagli anni Ottanta: il quadro dei processi di acquisizione dell'italiano L2 è ormai costituito da una serie di linee di indagine che hanno consentito di raggiungere esiti consolidati sulla temporalità, sulla modalità, sulla negazione, su altri aspetti morfologici e sintattici, fino ad arrivare più di recente alla dimensione testuale.

Come spesso accade quando si prospettano alla conoscenza nuovi oggetti da esplorare, si è proceduto all'inizio per singole piste, senza avere la possibilità di un'integrazione fra i diversi risultati, ma con l'intento di acquisire gli elementi conoscitivi fondamentali in vista del raggiungimento di una piattaforma capace di una visione complessiva. A nostro avviso, oggi, giunti alla fine di grandi azioni di ricerca coordinata quali sono state quelle sullo sviluppo della sintassi e del lessico, la mole dei risultati ottenuti consente una visione molto più integrata dei fenomeni acquisizionali rispetto al passato. Anche nella linguistica acquisizionale sta accadendo quello che spesso avviene nelle nuove discipline, ovvero quel processo di natura epistemologica che vede delinearsi un'entità configurata in modo diverso a partire da una considerazione puramente additiva delle ricerche e dei loro risultati. Questi, infatti, raggiungono una 'massa critica' che permette di tentare allacciamenti, visioni integrate, nuove prospettive di lavoro.

A nostro parere, proprio in riferimento alla gran mole di risultati fin qui sviluppati è possibile interrogarsi sulla natura dei processi interlinguistici e della competenza interlinguistica evolutiva da una prospettiva più generale rispetto allo stato delle conoscenze del passato, introducendo nuovi punti di vista per raggiungere una maggiore organicità di considerazione. In particolare, il fatto che i processi acquisizionali affrontino la questione delle modalità di articolazione di una competenza in sviluppo fra più idiomi permette, a nostro avviso, di chiedersi se il riferimento a modelli semiotici di tale attività non consenta di aggiungere ulteriori elementi interpretativi dei risultati di ricerca finora acquisiti. Tale domanda ci appare tanto più pertinente, quanto più si sente l'esigenza di letture integrate e di sintesi dei risultati delle indagini acquisizionali, anche in relazione alle possibili implicazioni applicative in chiave di linguistica educativa, o, se vogliamo, glottodidattica.

Tra le categorie concettuali elaborate entro i modelli semiotici dell'attività espressivo-comunicativa ci sembra che quella di 'creatività' possa ambire a misurarsi con l'oggetto delle ricerche acquisizionali. Lo sviluppo dell'interlingua, infatti, porta a produrre, da parte dell'apprendente, un nuovo sistema, appunto un sistema (inter)linguistico, che in quanto sistema è strutturato secondo

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regole e capace di dominare gli usi comunicativi nel quadro delle pratiche sociali. Il processo di sviluppo interlinguistico è, nell'apprendente - locutore, il luogo di incontro di sistemi linguistici che mettono in campo i loro meccanismi costitutivi e che rimandano a più generali processi, capaci di condizionare gli stessi fenomeni di interferenza. Se gli errori fatti dall'apprendente, soprattutto quando sono sistematici, non sono assimilabili a semplici deviazioni dalla norma della lingua bersaglio, ma sono traccia delle regole interlinguistiche elaborate creativamente, allora proprio tale opera di elaborazione può essere esaminata entro parametri più generali, per la cui definizione può essere utile ricorrere a quadri teorici non esclusivamente linguistici.

Nel momento in cui entrano in contatto idiomi diversi, si toccano e si intrecciano anche generali categorie culturali che prendono le forme strutturali delle lingue coinvolte. Tutto ciò può essere letto, oltre che dalle prospettive acquisizionali, anche da altri punti di vista come quelli semiotici. Tali ulteriori letture sono pertinenti soprattutto se da tali modelli si possono attingere categorie che, senza collidere con le ricerche acquisizionali, possono dar luogo a ulteriori elementi di interpretazione di una materia complessa quale quella che trattiamo.

Il ricorso alle prospettive semiotiche di analisi può aiutare a fornire di una solida base generale le modellizzazioni interlinguistiche dell'acquisizione della L2; sono almeno due i punti dove il dialogo fra ambiti disciplinari diversi può far scoprire inaspettate e profonde prospettive interculturali: il primo è il concetto stesso di lingua; il secondo riguarda il ruolo del locutore nel momento in cui è impegnato nel processo di acquisizione della L2.

3.2 - Lingua e cultura, lingua è cultura

Occorre avere innanzitutto un modello di "lingua" e di "linguaggio" per poter valutare l'applicabilità di una prospettiva semiotica ai processi di apprendimento/insegnamento. Non è questo il luogo, però, per ripercorrere, nemmeno sinteticamente, le concezioni relative al più potente sistema semiotico a disposizione degli esseri umani (per una ricognizione sulle idee e teorie linguistiche si veda Formigari 2001; per un modello generale di attività semiotica e della lingua in quanto sistema semiotico, si veda De Mauro 2002). Ci sia consentito, comunque, sottolineare che, in quanto sistema semiotico, la lingua storico-naturale, concretizzazione del linguaggio verbale, costituisce una "forma culturale": una "forma di vita", per il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche.

Non raramente si è assistito alla contrapposizione fra la lingua e la cultura, spesso proprio all'interno delle discussioni glottodidattiche. Da una prospettiva che oppone le due, la lingua (e soprattutto il suo insegnamento come L2) è vista come qualcosa di non culturale, ma di strumentale, essendo considerato cultura solo ciò che è testimoniato dalle forme di produzione artistica, letteraria e, in generale, intellettuale. Questa posizione non contrappone solo la cultura alla lingua, ma anche una cultura "alta" (quella, appunto, intellettuale) e una "bassa" (che va dalle sue forme popolari a quelle divulgative, a quelle dei codici non dotati di prestigio sociale).

In realtà, tale duplice contrapposizione non sembra avere senso se si considera la funzione e la posizione del linguaggio verbale umano all'interno dell'universo dei codici. Innanzitutto, tale linguaggio, come tanta altra parte di tale universo, non si attua semplicemente nel 'dare nomi alle cose', ma nel creare forme articolate a partire da una materia che pare ampiamente informe prima di tale intervento. In questo senso, le articolazioni operate dal linguaggio verbale costituiscono modi di creazione di entità, nelle quali gli individui e i gruppi sociali riconoscono le proprie identità. L'attività semiotica è, allora, un'attività di creazione di realtà concettuali che guidano le azioni degli esseri umani, cioè il loro essere in relazione sociale (sul rapporto fra linguaggio e azione entro un

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modello generale di attività semiotica si veda Petrilli 2002); le lingue storico-naturali sono sistemi di forme di identità, strumenti non solo e non tanto di trasmissione di unità concettuali, quanto sistemi che creano forme concettuali, cioè forme di vita nelle quali si riconoscono i soggetti individuali e collettivi. Le diverse lingue, di conseguenza, appaiono come diversi sistemi di forme di identità che danno luogo ai modi di vita individuali e sociali: in questo senso le lingue sono culture, in tutte le loro manifestazioni, da quelle - spesso talmente irriflesse da sembrare automatiche - dell'espressione e della comunicazione quotidiana a quelle delle produzioni intellettuali. La presunta contrapposizione fra lingua e cultura non appare avere senso perché ogni forma culturale è una forma di vita, una forma di identità la cui pertinenza sta nell'adeguatezza ai processi relazionali degli individui e delle collettività.

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UD 4 - La creatività linguistica

Il concetto che più consente di trattare in modo nuovo e più organico di processi acquisizionali anche nelle loro implicazioni educative è il concetto semiotico di "creatività". La creatività accompagna sempre la produzione semiotica che si concretizza nel linguaggio verbale, pur non essendo esclusiva di questo, e viene a caratterizzare il processo primigenio di costituzione dell'identità. A nostro avviso, il concetto semiotico di "creatività linguistica" può consentire di mettere a fuoco ulteriormenteanche il senso dei processi di sviluppo dell'interlingua a livello individuale, e di esaminarli soprattutto al fine di valutarne le possibili implicazioni applicative.

4.1 - La creatività regolare e non regolare

4.2 - Creatività e processi acquisizionali

4.3 - Il contatto (inter)linguistico come luogo del contatto (inter)culturale

4.1 - La creatività regolare e non regolare

Il concetto di "creatività linguistica" può essere inteso, facendo riferimento alle sistematizzazioni di De Mauro (1982,1994, 2002, 2003), nelle due accezioni di creatività "regolare" e "non regolare". Con la prima si intende la capacità di produrre un numero infinito, aperto, non prevedibile di segni (testi, in accezione semiotica) a partire dal numero limitato di elementi costitutivi del sistema mediante l'applicazione dei suoi meccanismi, cioè delle sue regole. La creatività non regolare è, invece, la possibilità di far funzionare i meccanismi semiotici di costituzione del senso pur violando le regole "formali" del codice o cambiandole nel farsi stesso della comunicazione.

Mentre la creatività regolare consente di produrre gli infiniti eventi linguistici applicando le regole del sistema, quella non regolare permette di far rientrare nella normale attività semiotica i processi di scambio comunicativo, di produzione di senso, di comprensione in presenza di violazione delle regole formali. Sono manifestazione di tale principio anche la creazione di nuovi codici: le lingue artificiali, le lingue inventate (Albani - Buonarroti 1994).

De Mauro introduce la dialettica dei processi creativi entro il linguaggio verbale:

Una lingua è come un'aritmetica in cui ognuno sa e usa alcuni simboli ignoti ad altri. È come un'aritmetica in cui le dieci cifre arabe di base, da 0 a 9, sono note a ciascuno in parte solamente. È come un'aritmetica in cui, attraverso il tempo, le classi sociali, lo spazio geografico, simboli e cifre di base possono cambiare di numero e valore. Un'aritmetica del genere sarebbe un indovinello permanente. E tale, effettivamente, è la lingua. Invece d'essere un codice non-creativo, come debbono essere i calcoli, una lingua è un insieme fortemente creativo. Di continuo mutano i vocaboli con cui possono costruirsi le frasi. E ogni giorno è possibile incontrare parole assolutamente nuove, "neologismi", o parole già in uso ma nuove per chi le sente e ascolta per la prima volta. Grande è la diversità degli insiemi di vocaboli noti a ciascun parlante di una lingua. Tuttavia, in qualche modo, ci si intende. Ma tale modo non è quello della applicazione di un numero definito e ristretto di unità con cui operare. È un modo che, invece, deve fare appello a tutta la capacità creativa che gli esseri della specie umana hanno in eredità con il loro patrimonio biologico (De Mauro Guida all'uso delle parole: 81).

Proprio lo sviluppo di un processo acquisizionale che abbia come suo prodotto un'interlingua in un suo determinato stato, con una sua propria configurazione di regole, ci appare come un processo che gode dei due tipi di creatività. Ancora una volta citiamo De Mauro quando mette in evidenza un

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tipo di processo creativo che ci sembra molto adeguato ai processi acquisizionali in cui un apprendente ricostruisce un nuovo sistema (inter)linguistico:

Tuttavia, per quanto modesta, rispetto alla creazione dal niente del Dio della Bibbia, la coniazione di una parola e ogni altra invenzione dell'uomo sono pur sempre una manipolazione imprevista dei materiali a disposizione. La "creatività" come invenzione, cioè come capacità di manipolazione imprevedibile di materiali, ha una gran parte nel linguaggio (85).

Anche nel caso dell'acquisizione della L2 e dello sviluppo della competenza in una nuova lingua, vediamo l'apprendente impegnato a manipolare l'input linguistico con il quale entra in contatto e a manipolarlo per estrarne (ipotesi di) regole di funzionamento, regole che lo guideranno negli usi comunicativi con i nativi e nella manipolazione del nuovo input con il quale entrerà in contatto.

Data questa premessa, ecco come De Mauro sintetizza i tratti dei due tipi di creatività che contraddistinguono il linguaggio verbale e che qui evidenziamo come caratterizzanti anche il processo acquisizionale:

Della creatività come invenzione imprevedibile in situazioni straordinarie l'esempio migliore ci è dato da due storie famose: Alessandro Magno dovette una volta dare prova di sé sciogliendo il nodo di Gordio che mai nessuno aveva saputo sciogliere, Cristoforo Colombo fu chiamato a dare prova di sapienza facendo stare dritto un uovo. Dinanzi all'inscioglibile nodo gordiano Alessandro estrasse la sua spada affilata e tagliò il nodo. Colombo, come si sa, ruppe il fondo dell'uovo e lo fece stare dritto. In tutti e due i casi il problema fu risolto cambiandone i termini, manipolandoli e trasformandoli. Trasformare, alterandoli, i termini del problema, cambiare le regole del gioco e, come si dice, le carte in tavola: questo è inventare.

Accanto a questa c'è un'altra creatività. Se la prima è quella che cambia termini e regole del gioco, quest'altra è la creatività rispettosa al massimo di termini e regole. È la creatività di chi si muove entro una tecnica data e ne sfrutta sapientemente le possibilità, di chi accetta i termini e le regole di un calcolo e grazie agli uni e alle altre risolve il maggior numero possibile di problemi che gli si pongono. [...] L'una e l'altra forma di creatività, quella 'inventiva' ed estroversa, e questa seconda, 'regolare', sono preziose in tutta la nostra vita e, soprattutto, in tutto il nostro parlare. [...] La creatività regolare presiede al costituirsi della generalità delle nostre frasi, così come dei segni di ogni altro codice calcolistico, e alla loro comprensione. La creatività inventiva interviene soltanto là dove, come accade in una lingua e non in un calcolo, ci troviamo dinanzi a parole radicalmente ignote o alla necessità di farci capire inventando una parola o una costruzione, forzando cioè i limiti già noti (a noi e talvolta a tutti) del vocabolario e della sintassi della nostra lingua (93-94).

In generale, il processo di acquisizione della L2 mette in moto processi cognitivi, culturali, linguistici che lo collocano entro due confini: da un lato, i limiti dell'adeguatezza all'input che gli dà avvio e che lo nutre; dall'altro, quelli della deviazione dai caratteri di tale input. I confini dell'adeguatezza sono tendenziali, frutto dello sforzo di ricostruzione dell'input messo in atto dall'apprendente; costituiscono punti di riferimento della sua rielaborazione cognitiva, culturale e linguistica che lo porta a fare ipotesi di regolarità soggiacenti all'input, a ricostruirle in forma di sistema, ad applicarle nei suoi comportamenti comunicativi sistematici.

Al contrario, i confini della deviazione dalle regole dell'input sono dati dalla distanza fra la ricostruzione fatta dall'apprendente e le caratteristiche intrinseche dell'input: si tratta di confini che, se vengono valicati, portano alla non elaborazione dell'interlingua (a base italiana, ad esempio), e all'impossibilità di comunicare con i nativi. E comunque, i tratti della deviazione si accompagnano a quelli della regolarità nello sviluppo della competenza interlinguistica, in una dialettica i cui punti di equilibrio sono funzionali in maniera relativa alla possibilità di sopravvivenza comunicativa dell'apprendente, mai in maniera assoluta: i punti di equilibrio non costituiscono in sé momenti di sviluppo dell'apprendimento, ma semmai sono stadi entro i quali le tensioni verso la deviazione e quelle verso la regolarità si bilanciano. Tali momenti di equilibrio si scompongono, però, sotto la spinta delle forze interne al sistema o di quelle esterne, di tipo sociolinguistico, che portano a rimettere in moto i processi di sviluppo acquisizionale.

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Tutto ciò appare ampiamente confermato dai risultati delle ricerche acquisizionali anche applicate all'italiano L2: la prospettiva semiotica permette, in aggiunta, di interpretare i confini entro i quali si sviluppano i processi acquisizionali mediante il ricorso al concetto di "creatività".

4.2 - Creatività e processi acquisizionali

Ci sembra che entro le prospettive acquisizionali sia possibile usare il concetto di creatività in entrambi i suoi sensi. I meccanismi di deviazione dalla norma, quelli cioè che portano l'apprendente a elaborare regole distanti da quelle presenti nell'input, possono essere considerati il terreno dove si applica la creatività non regolare, nel tentativo, comunque, di creare un sistema regolare. È proprio tale spinta alla regolarità, che procede verso l'adeguatezza alle norme dell'input, a manifestare la creatività regolare: la tensione verso il confine dell'adeguatezza rappresenta per l'apprendente il terreno di ricostruzione della creatività regolare del nativo, e pertanto della propria.

In generale, le due funzioni di creatività appaiono sorreggersi reciprocamente ed essere strettamente dipendenti fra di loro entro i processi acquisizionali, che anche in questo senso manifestano la loro rilevanza generale per la ricerca scientifica, secondo il "paradigma jakobsoniano" dei casi limite, dei processi estremi e marginali considerati, nel discorso sul metodo del linguista, come i casi più capaci di illuminare la portata generale dei processi nella loro normalità di funzionamento. Entrambe le forme della creatività, infatti, sono contemporaneamente presenti nelle normali attività espressivo-comunicative in L1 del nativo: queste sono giocate costantemente fra le tensioni dell'adeguatezza alla norma (condivisa, in relazione alla natura istituzionale del codice di comunicazione) e quelle della libertà individuale che dagli atti di parole trascorre negli idioletti e nei comportamenti sistematici riscontrabili solo dopo che si siano verificati, e interpretabili come manifestazioni di nuove regole o di regolarità non di tipo formale, ma pragma- e sociolinguistico (per il significato di parole contrapposto a quello di langue, vedi la scheda Ferdinand de Saussure).

Nel caso dei comportamenti espressivo-comunicativi di un apprendente L2 le due funzioni di regolarità sono tese al loro estremo: non sono impegnate solo nella gestione degli scambi comunicativi, ma nella costruzione stessa di un sistema di comunicazione le cui articolazioni possano dare forma ai contenuti di senso e che possano garantire la pratica sociale della comunicazione. In questa prospettiva, sia i risultati delle tensioni verso l'adeguatezza, sia quelli delle tensioni verso la deviazione sono i frutti di un processo creativo: la creazione di un nuovo idioma, ovvero dell'interlingua. Questa diventa, allora, il luogo di una non solo potenziale, ma graduata e comunque costante creatività espressiva. L'apprendente, lungi dall'essere considerato un soggetto impegnato esclusivamente ad assimilare le strutture della lingua bersaglio, è un soggetto costantemente impegnato in un'opera di creazione e di ricreazione di forme nelle quali strutturare l'identità del proprio rapporto con sé stesso, con gli altri, con il mondo: un rapporto che crea il mondo dell'espressione dei sentimenti, delle sensazioni, delle percezioni, delle idee, delle azioni.

Abbiamo accennato all'inizio che il ricorso a una prospettiva semiotica nell'interpretazione dei processi acquisizionali, lungi dall'interferire con le ricerche di tipo ricostruttivo dei meccanismi formali, che sono state fortemente produttive di risultati conoscitivi, può aiutare a definirne le possibili ricadute applicative. A nostro avviso, queste ne traggono beneficio almeno riguardo a due diversi temi.

Il primo è costituito dal rapporto fra input linguistico e processo acquisizionale: la necessaria analisi di tipo sociolinguistico può sicuramente rafforzare la consapevolezza che le 'deviazioni' della lingua degli immigrati (paradigma dei casi di apprendimento naturale della L2), oltre ad avere specifici

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caratteri propri, condividono molti tratti della deviante grammatica del parlato dei nativi, e pertanto sono molto più regolari di quanto ci si possa aspettare (Berruto 1994 e Vedovelli 1994).

Alla considerazione sociolinguistica si può aggiungere quella semiotica che giustifica, con la dialettica fra creatività regolare e non regolare, la possibilità di ripresa dell'input da parte dell'apprendente, che si concretizza nell'elaborazione e nell'assimilazione delle forme cui è esposto (quelle del parlato, innanzitutto), ma anche nella innovativa messa in atto di modelli di gestione dell'espressione e della comunicazione derivati dalla pratica sociale: schemi di negoziazione del senso, mediazioni fra modalità culturali in contatto, creazione di nuovi schemi di azione comunicativa.

Il secondo tema riguarda sempre una dimensione sociolinguistica, ovvero il tipo di collocazione delle varietà interlinguistiche entro lo spazio linguistico della nostra società. In quanto nuovo sistema, dinamico e insieme sufficientemente strutturato, la lingua / le lingue / le interlingue degli immigrati entrano nello spazio idiomatico italiano: l'italiano degli immigrati può contribuire, in quanto frutto di sforzi creativi provenienti da diverse fonti linguistico-culturali, a inserire nuovi moduli di creativa espressività entro i circuiti della nostra comunicazione. Quanto la società italiana sappia riconoscere tali sforzi di creatività e sappia attingervi per promuovere ulteriori processi del proprio sviluppo è oggetto ancora ampiamente da studiare: è istruttiva in tal senso la testimonianza delle già ricordate lingue immigrate, presenti nella nostra quotidianità comunicativa, ma poco percepite dai nativi, secondo un processo di occultamento le cui basi risiedono in ampia parte, a nostro avviso, nell'insicurezza linguistica nazionale.

4.3 - Il contatto (inter)linguistico come luogo del contatto (inter)culturale

Almeno in riferimento alle due menzionate caratteristiche semiotiche dell'attività linguistica è possibile parlare dell'inevitabilità di una prospettiva interculturale anche nelle analisi linguistico-acquisizionali. Se la lingua è cultura, il contatto linguistico, in quanto cornice dei processi di apprendimento della L2, è un processo interculturale, dove i codici, cioè le forme culturali di identità, si incontrano e si ricreano secondo nuove forme. Il dubbio iniziale dal quale siamo partiti in questo contributo, ovvero il rischio di un'analisi linguistica priva di prospettiva semioticamente culturale, e il rischio di un approccio interculturale dal quale sia assente la lingua, appare risolto: non è possibile un qualsiasi tipo di analisi delle lingue in contatto che non metta in gioco le categorie semiotiche delle culture in contatto. Proprio perché questo processo è il regno della creatività, il contatto implica un continuo trapasso di forme di identità da un codice all'altro, da una cultura all'altra: il miscuglio dei codici, lungi dall'essere il luogo dell'imbastardimento della cultura, diventa la forma più pura della normale creatività linguistica. L'apprendente una L2, il migrante come esempio paradigmatico, ricrea costantemente forme di identità nella dialettica della distinzione e del miscuglio, dove la regola non è la norma codificata della lingua bersaglio, ma la tensione che si stabilisce nell'interazione con gli altri interlocutori, nativi innanzitutto: la scelta orientata verso l'uso di una lingua; il grado di ricerca del mistilinguismo o della distinzione dei codici (seppure come auspicio e comunque a seconda della capacità comunicativa dei locutori-apprendenti); ebbene, tutto ciò costituisce il luogo in cui il singolo negozia interattivamente il senso, costruisce e afferma la propria identità, si appropria di quelle altrui e le ricrea in uno spazio linguistico che quanto più sarà ampio tanto più sarà strumento di identità affermata del soggetto. I migranti 'che ce l'hanno fatta' sono proprio quelli che hanno saputo negoziare il senso nell'interazione sociale, mettendo in gioco la propria capacità di creare multiformi sistemi di identità.

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La scuola italiana, con l'esponenziale aumento della presenza immigrata, può agire come ambiente in cui il concetto di "italiano come lingua di contatto" permette di riconoscere, valorizzare e sviluppare gli sforzi di intrinseca creatività degli apprendenti stranieri adulti e bambini. Dal punto di vista dell'educazione linguistica, che nei suoi paradigmi rinnovati si è sempre fondata sulla dialettica fra creatività e regolarità, facendone uno dei suoi fondamenti, la considerazione della lingua degli immigrati non come insieme di deviazioni e di limitazioni espressive, ma come frutto di sforzo elaborativo e perciò creativo, può diventare ulteriore guida per l'azione didattica.

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UD 5 - Linee guida per una linguistica educativa in prospettiva semiotica

In questa unità didattica cerchiamo di individuare alcuni punti di riferimento per definire le linee di una possibile linguistica educativa applicata alla L2, fondandola su una prospettiva semiotica, cercando, cioè, di inserire in un quadro capace di guidare l'azione di insegnamento della L2 su alcune delle caratteristiche semiotiche che abbiamo evidenziato nelle unità didattiche precedenti. Nelle idee comuni, così largamente diffuse fino a diventare mode e ideologie culturali, anche di tipo didattico-linguistico, insegnare una lingua straniera significa trasmettere ad uno straniero gli elementi e le regole che gli consentiranno di comunicare con i parlanti nativi di tale lingua, o anche proporgli i modelli di uso linguistico-comunicativo. Quale che sia il processo di trasmissione (diretto ed esplicito, oppure realizzato attraverso l'immersione nella comunicazione e nelle sue strutture), la trasmissione presuppone un modello di sistema della lingua e delle strutture di comunicazione che diventa il punto di riferimento per identificare gli obiettivi dell'insegnamento e il percorso didattico, nonché per valutare i livelli di competenza raggiunti dall'apprendente straniero. La possibilità di trasmettere la lingua a uno straniero è affidata a una figura sociale istituzionalizzata (il docente), che regola e controlla il processo, determinandone gli obiettivi e i percorsi. L'intento del modulo è di ridefinire tale modello adeguandolo maggiormente alla centralità del ruolo dell'apprendente.

5.1 - L'autonomia dell'apprendente: l'incontrollabilità dei suoi processi di elaborazione linguistica

5.2 - L'incontrollabile interlingua dell'apprendente

5.3 - Il contatto nei territori semiotici e il ruolo degli apprendenti

5.4 - Il possesso sociale della L2. Il caso degli pseudoitalianismi

5.5 - La poesia degli apprendenti stranieri

5.6 - L'educazione linguistica e il processo sociale istituzionalizzato dell'apprendimento della L2

5.1 - L'autonomia dell'apprendente: l'incontrollabilità dei suoi processi di elaborazione linguistica

Se quelli evidenziati nelle UD 3 e 4 sono alcuni dei tratti fondanti di un certo modello del processo di apprendimento della lingua straniera, riteniamo che esistano diversi motivi per integrare i modelli di linguistica educativa con una prospettiva semiotica.

Se siamo netti nelle nostre posizioni, lo dobbiamo al banco di prova costituito dalla situazione dell'italiano nel mondo che è, a nostro avviso, una lingua sottoposta di volta in volta alle pressioni contrastanti della variabilità e fluttuazione più incontrollata da un lato, e alle ricorrenti tentazioni centralistiche e monocratiche, fino al sogno del dirigismo linguistico, dall'altro. In ogni caso, ne deriva una casualità e occasionalità di interventi e di progetti che limita le potenzialità di sviluppo della nostra lingua nel consesso internazionale e ostacola la diffusione dei valori culturali che,

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tramite la lingua e le sue produzioni, possono rappresentare un'alternativa a quelli oggi diffusi massivamente.

Nel modello "trasferitivo" di una L2, che presuppone che l'apprendente assimili le regole e gli elementi di un modello fornito dal docente e dai materiali didattici, l'apprendente dipende dal docente, dalle sue scelte, dalla quantità e qualità degli input e del materiale linguistico-comunicativo che questi lancia nella comunicazione didattica.

Questo modello trasferitivo, che vede l'autonomia dell'apprendente fortemente limitata dal riferimento al ruolo centrale del docente nella didattica linguistica, è plausibile? Un tale modello può fondare una efficace prassi di insegnamento della L2?

Nonostante le complesse modellizzazioni di questi processi, sfugge, però, ancora largamente alla conoscenza il quadro esaustivo di quali linee segua l'apprendente nell'elaborazione dei dati linguistici di input. Non abbiamo dubbi sul fatto che si arriverà a definire compiutamente tale quadro, ma per adesso la realtà della didattica linguistica vede tale aspetto sfuggire alla possibilità di pieno e deterministico controllo da parte del docente. Al superamento di tale limite concorreranno i risultati delle ricerche di ambito psicolinguistico e più in generale delle scienze cognitive; vi daranno un contributo decisivo le moderne metodiche di rilevazione dell'attività cerebrale, così come le prospettive psicoanalitiche. Le ricerche linguistiche, aperte all'interazione fra modelli acquisizionali e socio-psicolinguistici, si collocheranno, allora, entro un quadro capace di scolpire i modi di elaborazione dei dati comunicativi e di costruzione della competenza in L2. Sono molti e molto promettenti i risultati acquisiti negli ultimi anni, ma ad oggi ancora non si può affermare di avere un disegno certo e globale dei principali processi con cui l'apprendente a livello cognitivo elabora il risultato del suo contatto con la L2. Ancora più difficile è il tentativo di derivare dalle risultanze delle ricerche scientifiche una serie coerente di indicazioni che permettano, in sede di concreta gestione didattico-linguistica del processo di apprendimento, l'applicazione di programmi i cui risultati siano prevedibili, ripetibili, verificabili oggettivamente.

La distanza fra il piano teoretico e quello applicativo serve a coprire e a giustificare tale impotenza, che trova, a livello applicativo, una soluzione di emergenza nel porre l'apprendente al centro del processo, considerando la sua autonomia come obiettivo e strumento del consapevole sviluppo della competenza linguistica, espressiva, comunicativa. Si tratta, a nostro avviso, di una scelta teorico-metodologica importante, centrata su concetti che pertinentizzano anche le questioni dell'eticità entro i processi espressivo-comunicativi in fase di apprendimento, ma che conferma l'impossibilità di gestire totalmente e deterministicamente l'alterità costituita dall'apprendente e dai suoi processi elaborativi. Dunque, la prima risposta alla domanda che ci siamo posti (ovvero se sul modello trasferitivo si possa fondare un'efficace prassi di insegnamento della L2) è negativa per l'incontrollabilità dei processi di elaborazione linguistica messi in atto dall'apprendente. Il docente non può trasmettere i contenuti dell'apprendimento ed essere sicuro di controllarne gli effetti proprio perché sfuggono al suo pieno controllo i processi elaborativi dell'interlingua dell'apprendente.

5.2 - L'incontrollabile interlingua dell'apprendente

Nella prospettiva acquisizionale, sia di studio teorico, sia di proposta applicativa (didattica acquisizionale), l'idea che l'apprendente subisca passivamente i dati proposti in sede di insegnamento viene sostituita da una che lo vede impegnato nella gestione di un territorio di contatto fra lingue, appunto l'interlingua. Questa si sviluppa secondo sequenze implicazionalmente

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regolari, la cui ricostruzione impegna le ricerche acquisizionali: sequenze regolari, almeno come linee generali di tendenza, come linee medie di sviluppo, dalle quali si allontanano le variazioni infinite degli individui che apprendono e le dimensioni della lingua che intrinsecamente sfuggono alla regolarità formale (ad esempio, il lessico).

Il punto che riteniamo più critico, però, è costituito dalla contraddizione che anima le prospettive acquisizionali: da un lato, aspirano a modellizzare il processo acquisizionale generale; dall'altro, si limitano programmaticamente a indagare singoli fenomeni linguistici (soprattutto morfosintattici, fonetici e lessicali); in generale, i fattori di apertura e incontrollabilità degli schemi formali sono messi a lato, marginalizzati, assunti più formalmente che sostanzialmente.

Le ricerche acquisizionali, a nostro avviso, pur nell'ambizione di descrivere esaustivamente e interpretare proprio il farsi del processo di elaborazione della competenza in L2, si limitano a una formalizzazione che non riesce a dare pienamente conto proprio dei processi che si svolgono nei territori di contatto fra le lingue, aperti, indefiniti, sfumati e perciò fonti primarie della produzione del senso da parte del locutore-apprendente. Proprio a causa di questo limite una didattica acquisizionale è stata finora più auspicata che delineata teoreticamente e concretizzata.

Nei processi di apprendimento il contatto con il nuovo idioma prende spesso le forme dell'interferenza con la lingua originaria, la cui azione si fa sentire in diversi punti del processo. Nella costruzione del nuovo senso, infatti, l'apprendente/locutore si appiglia alle forme di senso della L1, che funzionano da schemi cui conformare i nuovi confini, con gli effetti di contaminazione e di interferenza che si concretizzano, di fatto, in forme devianti da quelle originarie della L1 e da quelle dell'input in L2. Tali forme devianti non di rado sono considerate negativamente nella visione "trasmissiva" del processo di insegnamento/apprendimento della L2, con il risultato di non comprendere la potenzialità espressiva di tali processi e prodotti, di non vederne la complessità e di non affrontarla con gli adeguati strumenti di gestione glottodidattica (la deviazione, quando si situa al di qua di una soglia di funzionalità espressivo-comunicativa, marginalizza anche socialmente l'apprendente / locutore deprivandone le possibilità espressive).

Anche considerando tali fatti, l'esigenza di pertinentizzare alcuni fondamenti semiotici in un progetto di linguistica educativa per la L2 ha la sua ragione nella ancora non definita e ancora incontrollabile interlingua dell'apprendente: se appare impossibile governare i processi di elaborazione dell'apprendente, appare ugualmente debole il controllo sui loro prodotti, ovvero sull'interlingua di apprendimento.

5.3 - Il contatto nei territori semiotici e il ruolo degli apprendenti

Dalle ricerche interlinguistiche e acquisizionali deriva la consapevolezza che gli apprendenti sono i reali artefici del processo di elaborazione della competenza in L2 proprio perché dal contatto fra gli idiomi deriva un territorio semiotico nuovo, un confine contaminato e aperto, luogo di movimenti di andata e ritorno fra strutture e piani di senso, regno della forza di ri-creazione di entità ed identità semiotiche da parte degli apprendenti.

La competenza in L2 appare sempre di più non come la copia del sistema soggiacente agli input linguistico-comunicativi cui i locutori-apprendenti sono esposti, ma come il risultato di una ricreazione che, pur mirando all'adeguatezza rispetto alla lingua fonte ed obiettivo, di fatto ne modifica il panorama: lo straniero si appropria della lingua nel senso che la ricrea, e tale ri-creazione è rimessa nel gioco degli scambi comunicativi nel momento in cui anche lo straniero vi si

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inserisce. La lingua-obiettivo dell'apprendimento/insegnamento si vede dunque cambiata proprio nel momento in cui l'apprendente entra in contatto con essa: cambia la natura dei suoi utenti - non più nativi; nel suo spazio linguistico entrano usi sistematici che sembrano solo deviazioni dalle regole formali della lingua, diventate norme regolanti gli usi comunicativi, e che invece innescano forze che portano al suo cambiamento e che comunque cambiano gli atteggiamenti e i comportamenti degli utenti.

La visione della L2 si depura dei suoi tratti considerati devianti rispetto alla lingua fonte ed obiettivo, e si apre a un panorama dove i tratti-copia delle sue regole e i nuovi, i tratti normali e quelli innovativi sono il frutto della capacità creativa semiotica generale del soggetto, del locutore-apprendente. Il peso e ruolo di quest'ultimo nel rapporto sociale determina la possibilità di successo dei suoi usi nell'interazione: se la condizione di chi apprende una lingua vivendo lontano dalla società in cui è usata sembra minare tale tesi, la condizione delle lingue immigrate e del come stanno cambiando i panorami linguistici e semiotici delle società a componente immigratoria la confermano. Ancora una volta gli stranieri si impossessano della lingua che apprendono e la plasmano per le loro esigenze espressive e secondo le loro sensibilità, strutture culturali, sistemi sociali.

Dunque, le forme e gli esiti del contatto fra i codici semiotici sono nelle mani degli apprendenti, che, in quanto soggetti, non entrano passivamente nei nuovi territori semiotici: vi scoprono nuovi spazi e vi creano nuove frontiere di senso, fondandosi sulla pluralità delle loro identità, intese non tanto in modo "tribale" come muri di confine, ma come fattore intrinsecamente connesso all'essenza stessa dei linguaggi e delle lingue, ovvero come condizioni di possibilità dell'esperienza. Tali visioni del mondo si toccano e si intrecciano, nel processo di insegnamento-apprendimento, e in ciò l'impegno personale e sociale degli individui e dei gruppi è notevole, può portare al conflitto e pur risentendo delle inspiegabili scelte individuali, supera globalmente la somma degli sforzi individuali.

5.4 - Il possesso sociale della L2. Il caso degli pseudoitalianismi

Proprio il piano delle reti sociali è uno dei regni in cui gli stranieri stabiliscono i termini di un rapporto di proprietà o di sudditanza nei confronti della lingua con cui sono entrati in contatto. Una lingua (e l'italiano in una maniera del tutto eccezionale) non entra solo nella competenza individuale di un apprendente, ma viene assunta entro contesti generali di comunicazione, dove non si ha a che fare con veri e propri processi formali e istituzionalizzati di apprendimento della L2. I contesti di comunicazione pubblica/sociale ne sono un esempio paradigmatico. Le vie e le piazze delle città sono luoghi di incontro fra lingue nelle insegne commerciali, nei manifesti, nella pubblicità, in tutti i testi lanciati da un emittente a un destinatario indistinto, a un ricevente che è l'intero corpo sociale.

In questi contesti la lingua non viene insegnata e appresa, ma solo proposta, lanciata nella comunicazione, recepita, spesso riconosciuta, fino ad essere rielaborata dai riceventi. In tale gioco di lancio-ricezione la scelta della lingua è funzione di un valore che le viene attribuito, e perciò la specifica lingua "esotica" viene esaltata nella visibilità sociale: è scelta proprio perché ritenuta in grado di creare identità non altrimenti esprimibili nella lingua locale; perché ritenuta veicolo di valori e modelli di prestigio o comunque di riferimento per la società.

Così è oggi per l'italiano nel mondo (Vedovelli 2005): gli italianismi riempiono le strade di tutte le città di tutti i Paesi, legati a ambiti di referenza tradizionalmente ascritti all'italianità (la ristorazione, ad esempio), ma in grado consistente appartenenti agli ambiti più vari: lingua fonte, nella sua

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totalità, di elementi da assumere, lanciare, esaltare per il solo fatto di essere italiani e di veicolare valori di senso legati all'italicità.

Nel momento in cui l'esotismo (l'italianismo) è assunto nella comunicazione pubblica/sociale, il suo destino sfugge alle leggi della lingua fonte: subisce le manipolazioni di forma e di senso che originano dai nuovi utenti. Ne rimane un'aura di origine, non più la sua identità originaria. Testimoni eccezionali di tale processo sono gli pseudoitalianismi che oggi sono creati in misura sempre maggiore proprio nei contesti di comunicazione pubblica/sociale a livello planetario: elementi lessicali, parole che devono sembrare italiane nell'intenzione di chi le crea, ma che tali non sono per originari senso e forma.

Gli pseudoitalianismi sono, in realtà, testimoni del fatto che la lingua, una volta nelle mani degli stranieri, viene ricreata, come oggetto nuovo, nuovo anche per i legami con le strutture di origine. La lingua, ancora una volta, non viene trasmessa: gli stranieri se ne impossessano e la ricreano; gli elementi di origine sono ricontestualizzati e risemantizzati in modo incontrollato dalla comunità degli utenti originari. In questo processo di impossessamento della lingua da parte degli stranieri, fino ad arrivare alla sua ri-creazione, ci sembra esemplare il caso di freddoccino: si tratta di una parola inventata all'estero per denominare una sorta di cappuccino freddo inventato da una multinazionale non italiana dell'alimentazione. Nel nome il suo demiurgo ha voluto far emergere nettamente il carattere di italicità, la capacità di evocare il paradigma italiano del gusto. Nessuna parola italiana esistente poteva corrispondere all'oggetto inventato (non un semplice cappuccino freddo, ma una bevanda da far scendere da una macchinetta a gettoni); ecco, allora, la necessità di costruire un nome che ricordasse l'italicità del gusto e che, perciò, fosse in grado di garantire la qualità della bevanda, la sua eccellenza in quanto inserita nel panorama dei valori di senso (e dei sensi) italiani.

Oltre a freddoccino circolano nel mondo, soprattutto nel contesto della comunicazione pubblica/sociale, molti altri pseudoitalianismi, frutto della rielaborazione creativa applicata dagli stranieri e dalle altre società alla nostra lingua: questa è da loro sentita propria nei termini di un sistema di valori semiotici capace di evocare valori di senso alternativi a quelli "di plastica", massificati, di una globalizzazione che omogeneizza le coscienze, i saperi, e anche i sapori. Così freddoccino convive con frescoccino e frosticcino, mokaccino e frappuccino: l'archetipo della serie è la bevanda con il suo nome, il cappuccino, il cui modello appare produttivo di una serie di internazionalismi che devono far trasparire la loro archetipicità italiana, ma che danno luogo anche a un processo di produzione stereotipica che alimenta i tradizionali tratti dell'immaginario (positivo) che gli stranieri hanno sull'italicità: fonte di gusto e di buon gusto; modello di sani comportamenti; paradigma dell'eccellenza, della qualità, dell'eleganza, del ben vivere.

In questo processo di ri-creazione dell'italiano e dei valori semiotico-culturali che è capace di evocare, la nostra lingua appare sempre più essere lingua non tanto "per" gli stranieri, come vorrebbe un modello ormai usurato di promozione culturale, ma lingua "degli" stranieri, sistema di cui questi si impossessano, si sono ormai impossessati sia sul piano degli elementi lessicali, sia su quello dei meccanismi morfologici più trasparenti. Gli stranieri si impossessano della lingua italiana perché le riconoscono la funzione di creare nuovi territori di senso, di aprire nuove prospettive di espressione, più profonde di quelle di una massificata lingua internazionale di plastica da aeroporto, più capaci di portare alla realizzazione dei valori fondanti di una proposta di un modello di umanità.

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5.5 - La poesia degli apprendenti stranieri

In queste nostre considerazioni sulla possibilità di fondare una linguistica educativa della L2 entro una prospettiva semiotica stiamo sempre più procedendo in un cammino che porta alle ragioni della creatività, all'insondabile processo che fa usare un sistema di regole ed elementi linguistici per dare forma al senso, per far emergere entità dall'indistinta e oscura materia dove percezioni e coscienza, cognizione e sensazioni precedono l'identità nell'informe condizione del non-essere, del non-detto. Così una sorta di creatività collettivamente configurata negli usi e nei valori degli stranieri si manifesta nella manipolazione, da parte loro, della lingua italiana. Gli stranieri hanno coscienza che tale lingua in modo elettivo appare manipolabile, e perciò ricca di produttività creativa. Ugualmente il processo di impossessamento creativo si colloca nella dimensione individuale, dove il poeta è il demiurgo del senso, il testimone privilegiato dello sforzo di scavare nell'insondabile profondità del dicibile, del non-detto. Siamo arrivati, cioè, al luogo dove si inscrive lo sforzo del singolo locutore di produrre senso, di scavare negli strumenti linguistici per creare identità nelle quali riconoscere la propria e l'altrui nel rapporto interumano. E ancora una volta dobbiamo chiederci se la L2 sia insegnabile, se abbia una posizione e un ruolo, in questo processo.

Così come lo abbiamo definito, appare chiaro che il processo creativo non è appannaggio esclusivamente dei vati, delle persone riconosciute istituzionalmente nel loro ruolo di poeti, o di isolate, vere, grandiose personalità poetiche: è, al contrario, un processo collocato nella sfera di possibilità espressiva di cui è dotato ogni essere umano impegnato nella elaborazione del senso attraverso gli strumenti della semiosi e, fra questi, in particolare il linguaggio verbale. Il poeta, però, sceglie in modo cosciente la via di usare la parola per illuminare ambiti oscuri nei quali il significato ancora non appare e per aprire nuovi territori di senso all'umanità.

Ci chiediamo, allora, se in questo contesto, entro questo sforzo di creazione, sia possibile insegnare la L2 per la poesia, se sia possibile cioè trovare un legame fra l'apprendimento della L2 e la poesia.

La scelta di apprendere una L2, anche se fatta per fini strettamente strumentali (ad esempio, in vista dell'avanzamento di posizione professionale o per la ricerca di un lavoro), è da noi ritenuta comunque un terreno nel quale trova spazio la creatività, e ciò in conseguenza del fatto che la nuova lingua costituisce un'istanza non di reduplicazione delle forme espressivo-comunicative della L1, ma di nuova formazione della materia concettuale-esperienziale e perciò una vera e propria creazione di nuovo senso. Indipendentemente dal grado di consapevolezza che l'apprendente ha della via intrapresa, indipendentemente, dunque, dal grado di coscienza metalinguistica e metasemiotica del locutore/apprendente, il risultato è che il processo rende questi in una qualche misura "creatore", demiurgo di senso, scopritore di nuove parole e di nuove configurazioni semiotiche di identità.

La prima risposta che diamo alla domanda se sia possibile insegnare la L2 per la poesia è positiva. In quanto strumento, la lingua con i suoi elementi costitutivi e le sue regole può diventare oggetto di addestramento all'uso degli artifici per la creatività. Più precisamente, questa via consente la migliore gestione dei meccanismi strumentali per il controllo della ricerca di senso nel momento in cui il locutore/apprendente abbia fatto la scelta consapevole di inserirsi in un percorso di sviluppo della capacità di controllo dei propri strumenti linguistici. Tale scelta può derivare dal senso di inadeguatezza del modo in cui l'espressione/comunicazione, ovvero il processo semiotico fondante, si svolge e dei suoi risultati, quando l'apprendente consideri questi come troppo poveri di senso, privi di profondità semiotica, inadeguati all'esigenza di dare ulteriore forma all'indistinta materia percettivo-emotivo-cognitiva-esperienziale. Tale esigenza primaria di senso può spingere a

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rafforzare le proprie abilità di controllo dei meccanismi espressivi insiti nel sistema di funzionamento della nuova lingua: si tratta di un passo avanti importante nella scelta consapevole di crescere nella competenza linguistico-comunicativa. È il passo che porta molti a frequentare le scuole di scrittura creativa, le scuole di poesia.

Questo avviene nella normalità dei processi di sviluppo della competenza in L2. Quando un locutore/apprendente decide di produrre testi che si inscrivono entro le coordinate della poesia, ha fatto un ulteriore passo nella consapevolezza del suo ruolo, nella scelta di volerlo dominare e di voler conformare ad esso la sua identità.

È un fatto che gli stranieri che imparano la L2 non di rado scrivono poesie in L2. In questo caso la L2 diventa strumento di intenzionale creazione, di esplorazione delle possibilità espressive offerte dalle coordinate semiotiche della nuova lingua: in altri termini, la L2 si propone all'apprendente/locutore come nuovo territorio (rispetto a quello della L1) capace di rispondere su un ulteriore piano alle esigenze di ricerca di senso che possono averlo mosso, magari inizialmente nei termini della pura curiosità o dell'esigenza strumentale, nel contatto con il nuovo idioma. Nel momento in cui i bisogni espressivi dell'apprendente trovano soddisfazione nelle nuove forme di cui si sta impossessando, in lui scatta la consapevolezza dei nuovi mondi di senso che gli si presentano e che sente di poter attribuire alle forme della L2. In una lingua straniera, allora, si può sognare, come ci ricordano Jorge Luis Borges, Henry Graham Greene e Mario Vargas Llosa (Borges, Greene, Vargas Llosa 1991).

Di fatto, la nuova lingua subisce sollecitazioni e pressioni dalle pulsioni di senso dello straniero: sia pure adeguata nella forma alle strutture normali, manifesta o nasconde nel profondo nuovi mondi di senso. Di fatto, lo straniero ha ricreato una lingua, non l'ha imparata. Né basta dire che per scrivere poesia ha dovuto imparare la L2: questa, sin dal primo momento, gli si è rivelata come un plasmabile universo di senso e, insieme, come uno strumento per plasmare nuovi sensi. Ancora una volta, poco viene trasmesso, molto viene ricreato. Ancora una volta, la poesia segna il confine fra il senso e la sua inflazione, fra la creazione di senso nelle nuove forme espressive e l'uso inflazionato nella comunicazione quotidiana. Chi è impegnato in tale processo è il padrone della lingua, non chi intende trasmetterla: la poesia nega l'effetto-copia (Simone 1990) nell'apprendimento della L2, proprio perché implica un rapporto creativo con l'input linguistico di apprendimento.

5.6 - L'educazione linguistica e il processo sociale istituzionalizzato dell'apprendimento della L2

Se la lingua straniera è appresa entro un quadro di autonomia e creatività semiotica, non ha più senso un modello trasferitivo di insegnamento. Che cosa rimane, allora? Qual è una possibile alternativa? A nostro avviso, rimane solo la possibilità che essa possa essere offerta, data in dono, agli stranieri. Questi la potranno accettare o rifiutare, ma nel momento stesso in cui la lingua è offerta agli stranieri, essa non è più nelle mani dei suoi parlanti nativi. Cambiano i ruoli, si modificano i rapporti di forza. Una lingua perde un padrone e ne trova altri, ritrova nuova vita espressiva, si modifica, apre nuovi orizzonti.

Cambiano i rapporti sociali fra i locutori nativi e non nativi, e lo sforzo di negoziazione del rapporto sociale e semiotico coinvolge entrambi, con esiti imprevedibili, ma che in ogni caso riformulano gli assetti antecedenti al contatto.

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Così, anche la politica linguistica messa in atto dalle istituzioni si vede chiaramente posta di fronte alla sua contraddizione primaria: credere di poter possedere le linee lungo le quali diffondere e imporre una lingua, e di fatto invece veder andare l'idioma per le strade dei suoi reali utenti. Nel caso dell'italiano le nostre istituzioni hanno fatto e fanno ancora fatica a comprendere che la lingua non si impone: l'italiano ha la capacità di donarsi, di proporsi come strumento di nuove identità senza correre dietro a eserciti o a economie. Le istanze di imperialismo linguistico, che fanno tutt'uno con quelle politico-economiche, si svuotano di fronte alla capacità culturale della lingua italiana, alla capacità, cioè, di proporre strutture di senso, di identità che assumono sempre di più un valore agli occhi degli stranieri per il loro essere alternative ai valori più diffusi attualmente.

Se non si può insegnare, una L2 si deve offrire agli altri, e la si deve offrire, porgere in coerenza con il dovere etico di assumersi la responsabilità di lasciarla andare per le nuove strade e, insieme, di coltivarne lo sviluppo. E agli altri, che se ne sono impossessati, rimane il dovere di poter creare con la nuova lingua nuove identità, per se stessi e per l'umanità.

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Massimo Vedovelli (2005), L'italiano nel mondo da lingua straniera a lingua identitaria: il caso 'freddoccino', in " SILTA - Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata", XXXIV, 2005, 3: 585-609.