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1 Storia contemporanea II Comboni Alice Matricola 144143 Filosofia e linguaggi della modernità LM Il ruolo di intellettuali nella nascita dell’antisemitismo fascista Con la presente relazione mi sono proposta di analizzare, senza la pretesa di essere esaustiva, il ruolo degli intellettuali - chierici e laici - nella genesi dell’antisemitismo fascista, mostrando come non solo fatti politici, ma anche risvolti culturali hanno contribuito alla diffusione di un razzismo strisciante e diffuso in tutta la popolazione italiana e all‘adozione di una legislazione antigiudaica. I. L’antisemitismo dei cattolici e dei nazionalisti Nell’Italia post unitaria fino all’età giolittiana, l’unica corrente antiebraica storicamente significativa fu quella di matrice clericale. Progressivamente, verso la metà degli anni Dieci si diffuse un antisemitismo di matrice nazionalista, che tendeva a superare i deboli confini tra antisionismo e antisemitismo e a concentrare la propria attenzione - e le proprie critiche - sul potere della cosiddetta plutocrazia ebraica. L’antisemitismo cattolico rappresentava in Italia, dagli anni precedenti la rivoluzione francese fino agli anni del razzismo fascista, una realtà corposa, radicata e diffusa. Un certo tasso di ostilità antiebraica era quindi in un certo senso connaturato alla mentalità cattolica. La presenza dell’antisemitismo nella cultura dei cattolici Italiani era caratterizzata dalla diffusione di un pregiudizio strutturato, comune e diffuso. Gli ebrei venivano additati come i colori quali avevano diffuso nel mondo il socialismo, il comunismo, la massoneria, il dominio delle banche, ecc. Vi era inoltre un’insistente polemica contro l’usura ebraica, simbolo della nuova realtà capitalistica e urbana, che caratterizzava in particolar modo il movimento delle casse rurali cattoliche. L’antisemitismo si fuse con l‘opposizione alla plutocrazia, al municipalismo, al modernissimo, alla borghesia e all’industria. Padre Agostino Gemelli, fondatore e rettore dell’Università Cattolica di Milano, sulla rivista Vita e Pensiero, nell’agosto 1924, in occasione della morte di Felice Momigliano scriveva: Ma se infine con il positivismo, il socialismo, il libero pensiero, e con il Momigliano morissero tutti giù dei che continuano l’opera dei criteri che hanno crocifisso Nostro Signore, non è vero che al mondo si starebbe meglio? Sarebbe una liberazione, ancor più completa se, prima di morire, sentiti, chiedessero l’acqua del battesimo. 1 L’antisemitismo cattolico moderno non era caratterizzato esclusivamente da vecchi pregiudizi religiosi, né circoscritto alle tradizionali accuse di deicidio, immoralità e corruzione, omicidi rituali. Esso era caratterizzato dall’accusa rivolta dai cattolici agli ebrei di avere comportamenti politici, economici e nazionali contrari al bene comune. 1 R. Moro, La cultura cattolica e l’antisemitismo, in L’intellettuale antisemita, a cura di Roberto Chiarini, Marsilio, Venezia 2008, p. 18.

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Storia contemporanea II

Comboni Alice Matricola 144143 Filosofia e linguaggi della modernità LM

Il ruolo di intellettuali nella nascita dell’antisemitismo fascista Con la presente relazione mi sono proposta di analizzare, senza la pretesa di essere esaustiva, il ruolo degli intellettuali - chierici e laici - nella genesi dell’antisemitismo fascista, mostrando come non solo fatti politici, ma anche risvolti culturali hanno contribuito alla diffusione di un razzismo strisciante e diffuso in tutta la popolazione italiana e all‘adozione di una legislazione antigiudaica. I. L’antisemitismo dei cattolici e dei nazionalisti Nell’Italia post unitaria fino all’età giolittiana, l’unica corrente antiebraica storicamente significativa fu quella di matrice clericale. Progressivamente, verso la metà degli anni Dieci si diffuse un antisemitismo di matrice nazionalista, che tendeva a superare i deboli confini tra antisionismo e antisemitismo e a concentrare la propria attenzione - e le proprie critiche - sul potere della cosiddetta plutocrazia ebraica. L’antisemitismo cattolico rappresentava in Italia, dagli anni precedenti la rivoluzione francese fino agli anni del razzismo fascista, una realtà corposa, radicata e diffusa. Un certo tasso di ostilità antiebraica era quindi in un certo senso connaturato alla mentalità cattolica. La presenza dell’antisemitismo nella cultura dei cattolici Italiani era caratterizzata dalla diffusione di un pregiudizio strutturato, comune e diffuso. Gli ebrei venivano additati come i colori quali avevano diffuso nel mondo il socialismo, il comunismo, la massoneria, il dominio delle banche, ecc. Vi era inoltre un’insistente polemica contro l’usura ebraica, simbolo della nuova realtà capitalistica e urbana, che caratterizzava in particolar modo il movimento delle casse rurali cattoliche. L’antisemitismo si fuse con l‘opposizione alla plutocrazia, al municipalismo, al modernissimo, alla borghesia e all’industria. Padre Agostino Gemelli, fondatore e rettore dell’Università Cattolica di Milano, sulla rivista Vita e Pensiero, nell’agosto 1924, in occasione della morte di Felice Momigliano scriveva:

Ma se infine con il positivismo, il socialismo, il libero pensiero, e con il Momigliano morissero tutti giù dei che continuano l’opera dei criteri che hanno crocifisso Nostro Signore, non è vero che al mondo si starebbe meglio? Sarebbe una liberazione, ancor più completa se, prima di morire, sentiti, chiedessero l’acqua del battesimo.1

L’antisemitismo cattolico moderno non era caratterizzato esclusivamente da vecchi pregiudizi religiosi, né circoscritto alle tradizionali accuse di deicidio, immoralità e corruzione, omicidi rituali. Esso era caratterizzato dall’accusa rivolta dai cattolici agli ebrei di avere comportamenti politici, economici e nazionali contrari al bene comune.

1 R. Moro, La cultura cattolica e l’antisemitismo, in L’intellettuale antisemita, a cura di Roberto Chiarini, Marsilio, Venezia 2008, p. 18.

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All’interno del cattolicesimo dall’inizio del ventesimo secolo, R. Moro2 distinguere tre diverse correnti: � una tradizione religiosa anti-giudaica tradizionale; � un antisemitismo cattolico di contenuto socio-politico; � un minoritario ma significativo filo-giudaismo. Gli ebrei, all’interno degli ambienti cattolici, venivano tradizionalmente visti come i nemici della religione cristiana cattolica; il termine ebreo veniva usato costantemente come insulto, e spesso associato ai termini massonico o bolscevico. Per molti cattolici Italiani l’atteggiamento più diffuso era quello favorevole ad un antisemitismo moderato, che si considerava equilibrato e lontano dagli estremismi, ma che condivideva l’idea dell’esistenza di un problema ebraico e che lo Stato avesse il diritto e il dovere di affrontarlo. L’antisemitismo cattolico radicale era di natura prevalentemente clericale: i sentimenti antigiudaici venivano ricondotti ad una prospettiva religiosa e teologica di lotta apocalittica con l’anticristo, vedendo nel sionismo, nel bolscevismo e nella massoneria parti di un unico diabolico piano giudaico. I clericali più accaniti protestarono apertamente contro il principio della tolleranza religiosa, contro l’equiparazione tra ebrei e cristiani e contro l’emancipazione degli ebrei. Questo tipo di antisemitismo era un fenomeno minoritario costituito prevalentemente da ecclesiastici. L’antisemitismo della la letteratura cattolica fu assai influente nell’opinione pubblica italiana. Nelle riviste cattoliche l’ebraismo veniva presentato come un momento di decomposizione della civiltà moderna. Il pregiudizio antisemita tra i cattolici se da una parte fu alimentato dalla stampa, dall’altra fu accompagnato dal silenzio pontificio. Durante il magistero pontificio di Leone XIII (1879 - 1903) il periodico La Civiltà Cattolica per circa un ventennio fu impegnata in una violentissima campagna contro gli ebrei; la Santa Sede aveva mantenuto sull’antisemitismo un silenzio pubblico quasi assoluto, tant’è che agli studiosi appare alquanto strano che in ambito Vaticano si fosse evitato di parlare di antisemitismo, dal momento che in quei decenni era divenuto un fenomeno vistoso in tutti i grandi paesi europei3. Accanto all’antigiudaismo religioso tradizionale, va annoverato un antisemitismo socio-economico, caratterizzato dalla denuncia dell’affarismo e della mercantilismo ebraico. L’accusa rivolta all‘ebreo, era quella di essersi modernizzato e imborghesito più e meglio del cristiano, grazie ad una smodata sete d‘oro e all‘affarismo spietato. Tra gli anni Settanta ed Ottanta dell’Ottocento, gli ebrei acquistarono nelle analisi politiche e nella polemica della stampa cattolica una maggiore rilevanza, fino a d essere dipinti come i veri responsabili degli sconvolgimenti politici in corso. Con la costituzione del Regno d’Italia e la definitiva caduta del potere temporale dei papi, a Roma si assistette ad una rapida spinta assimilazionistica di molti ebrei che, usciti dal ghetto, acquistarono case e terreni, svolgevano incarichi politici, occupavano i posti tradizionalmente appartenuti all’élite cattolica. Pio IX nei suoi discorsi ai pellegrini allude più volte agli ebrei con estrema durezza, appellandoli come “cani, bovi […] non conoscono Dio e scrivono bestemmie e oscenità nei giornali, popolo duro

2 R. Moro, op. cit. p. 15-44. 3 Basti pensare alla grande risonanza del caso Dreyfus.

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e sleale, consacrato all’amore della pecunia“.4 I rivoluzionari del presente assunsero tratti eminentemente ebraici: venivano dipinti con le stesse caratteristiche con cui gli ebrei furono connotati per secoli: empietà, odio insensato per il Cristo e la per sua religione, ostinazione al male, perversità […], adorazione e amore per la materia, sete dell’oro. Pio IX in quegli anni fece più volte riferimento alla figura della sinagoga di Satana per definire l’insieme delle forze che cospiravano per distruggere la Chiesa. L’ascesa sociale degli Ebrei negli ultimi secoli dell’Ottocento fu proporzionale alla crescita di un maggior odio antiebraico. La società dell’allora presente veniva definita dalla Chiesa una società giudaizzata, sia per il ruolo che in essa veniva svolto dagli ebrei sia perché l’intera società andava progressivamente laicizzandosi, riproponendo una sorta di rifiuto del Cristo e del magistero della Chiesa. In questi stessi anni maturò alla convinzione secondo la quale gli ebrei non sono solo i principali beneficiari della rivoluzione, ma sono i veri artifici di essa. Alla fine del 1880 il periodico La civiltà cattolica condusse per un ventennio una violentissima campagna contro gli ebrei, esplicitamente indicati come i veri artefici della lotta tesa ad arginare il potere della Chiesa. Negli articoli della civiltà cattolica accanto ai temi tradizionali della polemica e degli stereotipi antiebraici cristiani, si ribadiva l’urgenza di combattere la preponderanza ebraica. Tra questi stereotipi vi era quello riguardante l’omicidio rituale, ossia l’accusa mossa agli ebrei di servirsi di sangue di bambini cristiani per preparare il pane azzimo della Pasqua. L’accusa di omicidio rituale era molto frequente nella stampa cattolica di fine Ottocento, e faceva parte integrante di quel antisemitismo politico che la Santa Sede accettava, se non addirittura fomentava5. Verso la metà del pontificato di Leone XIII si verificò un profondo mutamento: attorno a 1884 la stampa cattolica riprese con un ritmo crescente di attacchi contro gli ebrei. La pubblicistica clericale identificò il giudaismo nella massoneria e nelle organizzazioni anticlericali, radicali, socialiste, dipingendole come un frutto del genio maligno ebraico6. Verso la fine del Ottocento la pubblicistica cattolica aveva inoltre parlato di una congiura, tesa a distruggere il cristianesimo e a sostituirlo con il deismo e l’anarchia, facendo dell’ebraismo la matrice di tutta una serie di teorie, movimenti, forze, organizzazioni anticlericali. Con il ventesimo secolo, l’antisemitismo cattolico italiano si arricchì di nuovi elementi; esso era alimentato in particolar modo dalla rivista dei gesuiti La civiltà cattolica. Tra i temi più ricorrenti vi era il tema della degenerazione della religione israelitica che avrebbe condotto il popolo ebraico al deicidio, il supremo delitto di Cristo (e da qui il castigo divino della diaspora). Tra gli articoli della rivista La civiltà cattolica, De Felice cita in particolar modo l’articolo di padre F.S. Rondina (1827-97), pubblicato nel 1892, intitolato La morale giudaica:

La nazione ebrea non lavora, ma traffica sulle sostanze e sul lavoro altrui; non produce, ma vive e ingrassa quei prodotti dell’arte e dell’industria delle nazioni che le diedero ricetto. È il polipo che co’ suoi smisurati tentacoli tutto abbraccia e attira a sé; che ha lo stomaco nelle banche…e le sue ventose o i suoi succhiatoi da per tutto: negli appalti e ne’ Monopoli, negli istituti di credito e nelle banche, delle poste e nei telegrafi, nelle società di navigazione e delle ferrovie,

4 nel testo a pagina 225. Discorsi del sommo pontefice il pio nonno pronunziati in Vaticano ai fedeli di Roma, Roma 1874-1878. 5 Basti pensare alle posizioni della Santa Sede a proposito del caso Dreyfus: vi è una vera e propria contraddizione tra l’atteggiamento apertamente anti-dreyfussardo di molte associazioni religiose e della maggior parte della stampa cattolica francese ed italiana e, la convinzione che si respira in Vaticano dell’innocenza di Dreyfus. 6 Va precisato che il Papa non aveva mai, né nell’Humanum genus né in qualsiasi altra sede fatto dell’antisemitismo o accusato gli ebrei di essere l’anima della massoneria.

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nelle casse comunali e nelle finanze degli Stati. Essa rappresenta il regno del capitale, neutralità finanziaria, l’aristocrazia dell’oro, che oggi è succeduta a quella dell’ingegno del sangue.7

L’articolo era chiaramente volto ad indirizzare il malcontento popolare e i sentimenti anticapitalistici in senso antigiudaico. L’Italia veniva dipinta da La civiltà cattolica, come avvolta dal caos, dalla violenza e dell’immoralità: tutto ciò a causa della grande macchina ebraica che, con la sua infinita potenza, era considerata l’artefice del degrado economico, religioso, morale. Il rimedio ufficialmente proposto dalla stampa cattolica era l’abolizione dell’uguaglianza e il ripristino delle vecchie limitazioni tra religioni. Tra i principali autori cattolici degli anni Venti possiamo ricordare Papini: una volta convertito pubblicò più volte attacchi violenti caratterizzati da volgari pregiudizi rivolti contro gli ebrei. Nell’opera Storia di Cristo (1921) - il libro religioso più diffuso in Italia negli anni 20 - l’autore condannava il parlamentarismo, l’egualitarismo, la tecnocrazia, il mondo borghese del mercato e il capitalismo finanziario. Accanto ciò vi furono numerosi passi che riprendevano numerosi stereotipi antigiudaici, tra cui l’accusa di deicidio, quella di adorare il demonio, e l‘interpretazione della diaspora come punizione divina.8 Secondo Papini vi era un legame occulto fra ebrei, oro e adorazione satanica. L’ebraismo venne dipinto come il fulcro della corrosione anticristiana della modernità. Papini effettua inoltre una lungo elenco nomi di illustri ebrei che, a suo avviso, avrebbero scardinato le fondamenta del mondo contemporaneo: Marx, Freud, Einstein, ecc.9 La maggioranza del movimento cattolico organizzato, la sua stampa, le sue organizzazioni e lo stesso PPI nei primi anni del dopoguerra e del fascismo avversarono il sionismo e, per estensione, l’intero giudaismo. Con lo sfaldamento dell’Impero ottomano e con l’inizio dell’influenza e della penetrazione occidentale in Palestina, la Chiesa cattolica sviluppò una sempre più intensa azione di difesa dei Luoghi Santi e dei diritti della cristianità su di essi. Mentre veniva sviluppandosi questa spinta cattolico-italiana verso i Luoghi Santi, parallelamente si diffondeva e si affermava il sionismo, che auspicava la creazione di uno stato ebraico in Palestina. Questa regione era quindi esposta ad una vera e propria invasione giudaica, condotta, secondo gli ambienti vaticani, con un notevole odio nei confronti del cristianesimo. L’11 ottobre 1924 l’Unione cattolica pro Luoghi Santi e pellegrinaggi in Palestina si rivolse al Governo Italiano e alla Società delle Nazioni chiedendo che venisse respinto il movimento sionistico e le sue tendenze propriamente nazionalistiche nella zona della Palestina, in modo tale da assicurare il diritto inviolabile della cristianità, più volte esposto alle vessazioni delle “luride accozzaglia giudaiche”10. Tutto ciò si univa alla convinzione che la dispersione bi-millenaria degli ebrei non era altro che una punizione divina per colpire il popolo ebraico, responsabile di deicidio. Ovviamente non tutti cattolici facevano proprie tali posizioni. Esse erano più che altro appannaggio dei gruppi clericali, intransigenti e soprattutto dei gesuiti. La maggior parte dei cattolici liberali e dei

7Padre Rondina, La morale giudaica, in La civiltà cattolica, 1892, fascicolo 1022. Citazione riportata da De Felice, op. cit., p. 44-45. 8 “L’ebreo della leggenda porta indosso monete. Anzi ha ritrovato una patria nuova nell’oro” […] e rastrella “l’oro che cade dall’orifizio escrementale di Satana”. R. Moro, op. cit., p. 25. 9 vedi pagina 29. 10 A tal proposito si veda De Felice, op. cit., p. 71.

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gruppi organizzati, tra cui quello dei democratici-cristiani di Romolo Murri, respinsero sostanzialmente queste impostazioni della questione ebraica. Con l’inizio del nuovo secolo all’antisemitismo cattolico, o meglio clericale, venne progressivamente affiancandosi quello dei nazionalisti e, successivamente, a quello dei fascisti. Gli argomenti ricorrenti erano quelli dell’ebreo anticristiano, massone, sanguisuga della ricchezza nazionale, anti-nazionale e bolscevico. I nazionalisti avversavano soprattutto il movimento sionista, biasimavano gli ebrei per avere due patrie, quella in cui risiedevano ed Erez Israel, e di anteporre gli interessi sovranazionali della propria comunità religiosa, a quelli patriottici. Non era possibile, per i nazionalisti, essere contemporaneamente buoni cittadini e buoni ebrei. Basti pensare che nel 1926 la rivista filofascista La Tribuna11 si pronunciò aspramente contro il sionismo italiano, intraprendendo una polemica che si consumò sulla carta stampata con la rivista ebraica Israel. La polemica tra le due riviste portò alla luce tensioni e problemi da tempo latenti, soprattutto circa i rapporti tra l’ebraismo italiano e il regime fascista. La polemica si concentrò quindi sul rapporto tra sionismo ed Italianità, tra identità religiosa e appartenenza nazionale. L’Israel non volle rinunciare a sottolineare sia l’Italianità degli ebrei residenti sul suolo del Regno, sia la naturalezza dell’adesione dell’ebraismo italiano al sionismo internazionale:

Gli ebrei che da secoli vivono nell’adorata terra italiana e da oltre tre generazioni sono stati accolti, in parità di diritti, a vivere con pienezza la vita nazionale […] sono Italiani di stirpe e di fede ebraica, ma Italiani nella pienezza del senso di questa santa parola, facenti parte integrale del popolo italiano. 12

Gli attacchi sferrati da La Tribuna si avvalevano degli stereotipi comuni della stampa dell’epoca, e mostravano come all’interno dello Stato liberale, pur non essendoci una questione ebraica propriamente definita, vi erano una serie di problematiche e tensioni latenti riguardanti la presunta infedeltà nazionale degli ebrei. L’ebraicità, nonostante venisse concepita dalla maggior parte della popolazione italiana come una dimensione religiosa individuale, cominciò ad essere percepita in alcuni ambienti come espressione di un’appartenenza ad una collettività sovranazionale animata da interessi particolari contrastanti con quelli specificatamente nazionali. La cornice politico-culturale offerta dallo Stato liberale aveva nel complesso garantito le condizioni per una pacifica convivenza tra ebrei e Italiani, evitando di mettere in discussione la pienezza della lealtà nazionale dei primi e favorendo così il processo di integrazione. Nell’Italia liberale benché non esistesse una ideologia ariana predominante, erano tuttavia presenti alcuni segnali di antisemitismo strisciante. Carducci in una lettera inviata a Lidia da Bologna il 17 maggio 1874, espone senza mezzi termini la propria opposizione alla tradizione giudaico-cristiana e scriveva:

11 La Tribuna fu un quotidiano fondato a Roma nel 1883 dai politici Alfredo Baccarini e Giuseppe Zanardelli. Fu attivo fino al novembre 1946. Nel 1923, con l'avvento del regime fascista, La Tribuna fu rilevata da un gruppo finanziario filofascista. A partire dal dicembre 1925 il nuovo direttore fu Forges Davanzati (1880 - 1936), politico e giornalista italiano, personaggio di spicco del PNF. 12 M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, da 1848 alla guerra dei sei giorni, Franco Angeli, Mi.

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Già il cristianesimo è una religione semitica, cioè il ebrea. […] Ci mancava anche questo, che a noi, greco latini, nobile razza ariana, dovesse essere infusa una religione semitica, a noi, figli del sole, adoratori del sole e del cielo. Cotesto innesto ci ha guastati, ci ha fatti falsi, tristi, pusillanimi, indolenti, eccetera.13

Una stereotipizzazione con accezione negativa delle caratteristiche somatiche del semita emerge anche in alcuni articoli giovanili di Leonida Bissolati (1857-1920), uno dei principali esponenti del socialismo riformista, nonché primo direttore dell’“Avanti!”:

[Gli ebrei] superiori ai gialli, non possono andare confusi cogli Ariani o indoeuropei […]. Hanno per caratteri esteriori: il cervello schiacciato, i capelli crespi, il naso fortemente ricurvo, le labbra molto pronunciate carnose, le estremità grosse, il piede piatto.”14

Numerosi furono gli stereotipi antisemiti nel settimanale satirico Il mulo, fondato a Bologna nel novembre 1907 da Cesare Algranati15. Il settimanale sarà mandato in stampa fino al dicembre 1924. Tale periodico volle contrapporsi al più famoso L’Asino, settimanale satirico socialista e anticlericale diretto da Podrecca e Galantra. Secondo Algranati il nemico da combattere era la modernità, voluta dagli ebrei per antico odio anticristiano. Il liberalismo, massoneria e socialismo non erano altro che gli strumenti di cui si serviva il giudaismo per raggiungere i propri scopi. Del resto queste argomentazioni erano largamente diffuse dai movimenti cristiano-sociali di fine secolo16. Il mulo trovò i maggiori appoggi e finanziamenti dai parroci di campagna e dalla popolazione rurale scarsamente alfabetizzata; il successo del periodico fu subito notevole, tant’è che già nel gennaio del 1908 circa 80.000 erano le copie vendute settimanalmente. Il prezzo del periodico - 10 centesimi - chiaramente ne favoriva la diffusione presso le classi meno agiate. Lo scopo dichiarato della rivista fu quello di entrare in contatto con le classi più umili, per conoscerne i dolori, i bisogni, le passioni e per ideare un qualche rimedio a tanti mali. Per questo Il Mulo era caratterizzato da grandi

13 G. Carducci, Edizione nazionale delle opere, Lettere, IX:1874-1875, Bologna, Zanichelli,1955, p. 108. Citazione riportata da Mario Raspanti, Il mito ariano nella cultura italiana tra Otto e Novecento, p. 81 in Nel nome della razza, il razzismo nella storia d’Italia, a cura di A. Burgio, Il Mulino, Bologna, 1999. 14 L. Bissolati, Il principio logico dell’ascetismo, in Rivista repubblicana, II, 1879, p. 281. In M. Raspanti, op. cit., p. 83. 15 Già direttore del periodico L’Avvenire d’Italia, Algranati, nato nel 1865 ad Ancona da genitori ebrei, ripudiò a 21 anni la sua religione e la famiglia, divenendo cattolico. La rottura drammatica con la famiglia e la sua controversa condizione possono spiegare almeno in parte il violento odio antiebraico che egli sfoderava in tutti i suoi scritti. Negli anni 1890-93 collaborò a diversi giornali cattolici, quali la Libertà cattolica, L’Italia reale, L’osservatore cattolico. Il direttore dell’Osservatore cattolico don Davide Albertario, considerato dal giornalista come uno dei suoi maestri, si contraddistingueva per i suoi duri e persistenti attacchi contro gli ebrei. Nel 1896 insieme all’abate Giuseppe Piovano fondò a Torino il settimanale La democrazia cristiana, divenendone il direttore. La rivista si proponeva di promuovere gli interessi morali e materiali del popolo, e di combattere gli agenti del liberalismo, cioè giudaismo e massoneria. Nel giugno 1902 si trasferì a Bologna per dirigere il quotidiano L’Avvenire: egli seppe trasformare completamente il giornale facendone un foglio vivace moderno, aperto alle correnti più nuove del cattolicesimo italiano, in particolare a quelli di R. Murri. Nel 1907 egli fondò il periodico Il mulo, settimanale satirico popolare sul quale riversa a tutti i suoi umori anti-moderni, in nome di una società organicamente cattolica. 16 Basti pensare che in qualità di direttore del periodico La patria, nell’autunno del 1900, pubblicò un articolo in cui sosteneva che l’attività principale degli ebrei non era il lavoro onesto ma l’usura e il furto legalizzato: per questo motivo gli ebrei costituivano una minaccia per la sopravvivenza dei cristiani. Il giornale proponeva quindi il boicottaggio degli affari giudaici, al fine di privare l’intera comunità ebraica dei disonesti mezzi di sussistenza. In seguito a denuncia della comunità ebraica di Ancona, Algranati fu condannato a 62 lire di multa e quattro mesi di carcere.

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raffigurazioni a colori, spesso dai toni satirici, e dall’abbondanza di caricature e di vignette per spiegare ed alleggerire il contenuto degli articoli. In queste vignette vi sono tutta una serie di stereotipi che entrarono a far parte dell’immaginario collettivo della popolazione, e costituirono una prima base per la formazione di un diffuso e strisciante antisemitismo. Durante l’età giolittiana, in particolar modo negli anni che vanno dal 1907 al 1914, Algranati diede libero sfogo alla polemica integralista contro il neoliberalismo giudaico-massonico e contro il partito socialista. Per dimostrare l’esistenza dell’odio degli ebrei contro i cristiani, egli era solito ricorrere a citazioni decontestalizzate, tratte dal Talmud, dalla Qabbalah, e da autori ebrei di prim’ordine, come ad esempio M. Maimonide che nell’opera Misnè Torah afferma che è precetto affermativo prestar denaro con usura ad un cristiano. È chiaro che simili frasi corredate da parole oscure - quali dovevano apparire ai lettori de Il mulo i termini in lingua ebraica - suscitavano nei lettori poco colti una grande impressione. A tali frasi, estrapolate dal contesto storico e letterario, si aggiungevano vignette satiriche in cui spesso apparivano caricature di uomini ebrei nella tipica veste di banchieri o di avidi usurai, rappresentati da figure longilinee e magre, con gli occhi spiritati e la carnagione giallastra, lunga barba e capelli in disordine: tutti attributi che si ricollegano a quelli classici dell’avarizia. Spesso l’ebreo veniva raffigurato abbracciato alla Massoneria, raffigurata come una grossa megera con al collo i suoi simboli, squadra e compasso. Nella lunga serie di ingiurie ai danni degli ebrei, ricorrono più volte: � Le considerazioni degli ebrei in quanto stranieri alla nazione italiana; � Il disprezzo per gli ebrei romani, da poco usciti dai ghetti, considerati complici, se non

addirittura fautori della fine dello Stato Pontificio; � L’accusa di aver costituito un’alleanza giudaico-massonica a danno dei cristiani; � L’accusa di controllare la stampa socialista. Uno dei bersagli privilegiati della satira de Il mulo fu Ernesto Nathan, ebreo, gran maestro della massoneria, sindaco di Roma (1907-14), eletto da una maggioranza che comprendeva radicali, repubblicani e socialisti. Le accuse ripetitive così come disegni satirici antisemiti se da una parte generavano assuefazione, dall’altra penetrarono subdolamente nell’opinione pubblica dello strato più basso e meno colto della popolazione, costituendo una base sulla quale i pregiudizi razziali degli anni Trenta attecchirono facilmente. Nel dopoguerra Il mulo assunse dei toni più politici e meno satirici: nemici principali non furono più individuati negli ebrei, bensì nei socialisti e nei comunisti; tuttavia la rivista non mancò di rivolgere accuse anche a Mussolini e alla rivista Il popolo d’Italia per l’acceso anti-clericalismo. Pochi furono gli accenni contro gli ebrei, ma ormai lo stereotipo dell’ebreo usuraio, massone e anti-cristiano era ben consolidato in un ampio sostrato della popolazione. Gli stereotipi dell’antisemitismo cattolico che Algranati aveva contribuito a diffondere rimarranno nella memoria popolare e affioreranno durante le leggi razziali del 1938.

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II. Il primo fascismo Al termine della prima guerra mondiale la tematica ariana tornò alla ribalta maggiormente ideologizzata, politicizzata, e caratterizzata dall’opposizione tra razza ariana e razza semita17. Sul fronte più propriamente politico-ideologico, a seguito della Rivoluzione d’Ottobre, Mussolini nel 1919 insinuò che la rivoluzione comunista era stata organizzata da ebrei, e che questi ultimi a Mosca e a Budapest si stavano prendendo una rivincita contro la razza ariana. Egli inoltre definiva la nascita del fascismo una manifestazione “di questa nostra stirpe ariana e mediterranea”.18 Al contempo i Gesuiti sulla rivista La civiltà cattolica nel 1922, una settimana prima della marcia su Roma, proponevano una lettura della rivoluzione russa come uno scontro fra il comunismo, inteso come il pervertimento di una fantasia tipica della razza giudaica, e gli ordinamenti tradizionali dovuti al buon senso della stirpe ariana.19 La crisi dello stato liberale e lo sforzo di costruzione del regime fascista, unito ad un generale aumento dell’antisemitismo su scala europea, contribuirono ad aumentare la discriminazione e gli stereotipi anti-ebraici, che fino ad allora rimasti ai margini della vita politica italiana. Le posizioni di Mussolini e del primo fascismo nei confronti degli ebrei mostrarono una scarsa chiarezza di idee sul tema e una certa dipendenza da stereotipi antibolscevichi e nazionalisti. Il fascismo delle origini non ebbe una posizione decisa riguardo alla questione ebraica, ma solo una serie di posizioni individuali. Mussolini riconosceva nel popolo ebraico una serie di doti e di capacità, specie in campo economico e finanziario20, benché non fosse esente dai pregiudizi e dagli stereotipi anti-ebraici comuni21. Tuttavia nella seconda metà degli anni Trenta, anche a causa dell’amicizia italo-tedesca, l’idioma culturale ariano fu trasformato in una vera e propria ideologia di Stato, dando così inizio ad una politica totalitaria tesa all’arianizzazione della società italiana. De Felice osserva più da vicino la situazione ebraica italiana, fornendo alcune cifre significative: nel 1911 gli ebrei Italiani risultavano essere 32.825; nel 1931 39.112. L’incremento tra le cifre del 1911 e quelle del 1931 da un lato è determinato dalle annessioni territoriali del 1918: in questa occasione l’ebraismo italiano si arricchì di circa 7000 nuove unità, residenti soprattutto a Trieste; in secondo luogo il censimento del 1931 fu fatto con maggior accuratezza. La popolazione ebraica italiana risiedeva per lo più in città dell’Italia centro-settentrionale (Trieste, Livorno, Roma, Milano, Venezia, Torino, Ancona, Firenze, Genova, Ferrara) e nel complesso si trattava di un fenomeno urbano circoscritto, dal momento che l’unica vera comunità cospicua e alla comunità ebraica di Trieste.22

17 Si diffonde il paradigma di un’umanità suddivisa in razze ben strutturate, psico-somaticamente, e gerarchizzate, al cui vertice si trova la razza ariana. 18 Mussolini, discorso di Bologna, 3 aprile 1921, in Il popolo d’Italia, 6 aprile 1921. In M. Raspanti, p. 84. 19 Scritto anonimo, La rivoluzione mondiale e gli ebrei, in La civiltà cattolica,73, quaderno 1736, 21 ottobre 1922, pagina 119. In M. Raspanti, op. cit., 84. 20 Basti pensare che nel 1932 Mussolini nominò Ministro delle finanze Guido Jung, sostenendo che la presenza di un ebreo nella gestione degli affari finanziari fosse indispensabile; ai suoi intimi egli era solito ricordare che erano stati gli ebrei ad aver dato un Dio solo all’umanità. 21 R. De Felice, Storia degli ebrei Italiani sotto il fascismo, Einaudi Editore, 1961 p. 80. 22 Nel 1938 gli ebrei Italiani censiti erano 47.252, a fronte di circa 42 milioni di abitanti che risiedevano nel Regno sabaudo. Nell’agosto 1938 le regioni in cui risiedevano il maggior numero di ebrei presenti in Italia erano il Lazio con 12.943 unità, la Lombardia 11.559, Venezia Giulia e Zara 8285, Toscana 5931. Le province con un maggior numero di ebrei erano Roma con 12.799 unità, Milano 10.219, Trieste 6085, Torino 4060, Livorno 2332, Firenze 2326, Genova

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In che misura, si chiede De Felice, questa esigua minoranza pesava sulla vita italiana? I razzisti, gli antisemiti e i nazionalisti vedevano negli ebrei una vera e propria piovra che soffocava la vita economica, culturale, amministrativa, politica e nazionale. In realtà il censimento effettuato nel 1938 dalla Demografia e Razza mostrò una situazione in termini politico-economici ben differente: la maggior parte degli ebrei Italiani erano dediti all’industria, per un totale di 3788 unità, di cui 1527 erano impiegati e 1027 operai; al commercio, per un totale di 7417 unità, di cui 4785 titolari delle attività commerciali e 2304 impiegati. Seguivano poi le attività di credito e assicurazioni, per un totale di 10.007 unità, di cui la maggior parte, 8.161, erano impiegati. Nell’amministrazione pubblica vi era un‘esigua minoranza, non nei ceti dirigenziali, bensì in quelli impiegatizi. Essendo una comunità esigua, il peso che essi esercitavano sulla vita nazionale, economica, sociale, amministrativa e politica era altrettanto esiguo e geograficamente circoscritto. Va inoltre aggiunto che da un punto di vista morale e psicologico in Italia non esisteva una questione ebraica: liberi e parificati agli altri cittadini, gli ebrei si erano rapidamente assimilati. L’assimilazione fu morale e materiale, tant’è che molti ebrei abbandonarono la religione ebraica, uscirono dai ghetti e si distaccarono progressivamente dalla vita delle comunità e dalla stessa pratica religiosa; vi furono un certo numero di conversioni al cattolicesimo e un crescente numero di matrimoni misti. In generale è possibile evidenziare una spiccata tendenza assimilazionistica tipica dell’ebraismo italiano, in particolar modo del gruppo borghese che, del resto, costituiva anche il gruppo numericamente più consistente.23 Da un punto di vista prettamente politico, gli ebrei non costituivano una minaccia per il fascismo: essi si erano dispersi nei partiti politici di tutte le tendenze, e si rapportavano rispetto al fascismo non in quanto ebrei ma in quanto Italiani, in quanto singoli e non in quanto comunità. In questi anni si diffonde anche in Italia, sebbene molto lentamente, il sionismo24: deboli sostenitori vi sono a Firenze, Livorno, Pisa, Milano, Genova, Padova, Trieste. Il Corriere israelitico25 e successivamente l’Israel26 furono impiegati in una vera propria lotta contro l’assimilazionismo. Tuttavia la maggior parte dei sionisti Italiani intendeva il sionismo come il modo per salvare i correligionari oppressi e perseguitati, e per essi l’adesione a questo movimento si tradusse nella pratica ad un mero contributo economico e ad una sentita solidarietà morale. Nell’Italia degli anni Venti-Trenta l’antisemitismo era limitato ad ambienti ristretti e socialmente arretrati ed era perlopiù caratterizzato da stereotipi tradizionali: l’ebreo tirchio, l’ebreo sporco,

2263, Venezia 2189 […] Brescia 195, […] Trento 51. Dati in De Felice, op. cit. 23 In una relazione, a riservatissima, del settembre 1941 della Demografia e Razza, si legge: “La situazione ebraica in Italia non rivestiva carattere di eccezionale gravità come in altre nazioni, sia per il numero limitato di ebrei residenti nel Regno, sia per il grandissimo numero di matrimoni celebrati tra ebrei ed ariani. […] Il vero sentimento di diffidenza verso gli ebrei […] era in Italia diffuso solo verso gli ebrei delle classi più umili, che esercitavano i mestieri caratteristici del ghetto” 23. De Felice interpreta ciò come una sorta di ammissione dell’inesistenza non solo di una questione ebraica nell’Italia fascista, ma anche di sentimenti antisemiti all’interno dello stesso fascismo. De Felice, op. cit., p. 20. 24 Il sionismo lanciò agli ebrei sparsi in tutto il mondo una duplice parola d’ordine: da una parte quella di dare agli ebrei una sede nazionale in Erez Israel, in cui realizzare la propria autonomia politica e la propria trasformazione sociale; dall’altra quella della rivendicazione della propria ebraicità, cioè della insieme di quelle caratteristiche tipicamente ebraiche in materia di religione, cultura, tradizione. 25 Rivista mensile riguardante per lo più la storia, la letteratura ed il patrimonio culturale ebraico; fondato a Trieste nel 1863 da A. Vito Morpurgo. 26 Rivista italiana d’ispirazione ebraica e sionista.

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l’ebreo affarista, l’ebreo socialmente distaccato dalla vita collettiva. Quasi mai il problema ebraico veniva visto in termini propriamente razzistici. Quando si parlava di razza ebraica, raramente lo si faceva in un’accezione propriamente razzistica e biologica, ma piuttosto facendo riferimento agli usi, costumi, tradizioni e attitudini tipicamente ebraiche. I primi anni dopo la marcia su Roma furono nel complesso molto buoni per quanto riguarda i rapporti tra ebrei e fascismo. Rimaneva comunque una reciproca diffidenza: da parte ebraica si era talvolta troppo portati ad interpretare come manifestazioni di antisemitismo atti che erano dettati dalla logica antidemocratica del nuovo regime; da parte fascista vi era una accentuata tendenza ad interpretare in senso antifascista gran parte delle iniziative e delle istanze morali e culturali dell’ebraismo.27 Tra le riviste diffuse negli anni Venti ricche di spunti antiebraici, De Felice cita Il Fascio, settimanale fascista milanese, diretto da Mario Giampaoli, figura di spicco del fascismo. Il 14 agosto 1926 la rivista scagliò un violento attacco contro gli ebrei, definendo il movimento ebraico un grave pericolo per l’Italia e per l‘Europa:

L’esistenza di questo popolo sparso per l’Europa rappresenta, e rappresenterà sempre, uno dei maggiori incagli e dei peggiori pericoli per la sicurezza europea. […] Essi accaparrano per sé i capitali, essi maneggiano i nostri denari, e con questi naturalmente i nostri destini. […] Stringono in pugno la nostra esistenza e possono affamarci quando vogliono e vilipenderci sicuri di rimanere impuniti.28

Quello de Il Fascio appare qui un antisemitismo motivato esclusivamente da logiche economiche; accanto alle discriminazioni di carattere economico - tra le quali quella di tessere le fila dell’alta finanza internazionale - si univano le note e ricorrenti accuse di far parte della massoneria, delle organizzazioni bolsceviche e dei circoli anti-fascisti ed anti-Italiani. Nel 1926-27 i rapporti tra ebrei e fascismo incominciarono a subire un costante miglioramento. La prima manifestazione del miglioramento fu una conferma, nell’aprile 1926, da parte di Dino Grandi, allora Sottosegretario agli Esteri, nel corso di un’intervista all’agenzia telegrafica ebraica, di quanto dichiarato da Mussolini, ossia che in Italia non esisteva una questione ebraica: la collaborazione entusiastica degli ebrei al Risorgimento e alla Grande Guerra avevano dimostrato chiaramente che gli ebrei italiani avevano gli stessi ideali della nazione.29 Vi fu poi l’udienza concessa da Mussolini a David Prato, alla vigilia della partenza di quest’ultimo per Alessandria d’Egitto per ricoprirvi la carica di rabbino. Il colloquio fu molto cordiale e Mussolini riaffermò l’inesistenza di un antisemitismo fascista in Italia. Ai primi di giugno Mussolini ricevette il dottor Jacobson, delegato dell’esecutivo sionista e quasi negli stessi giorni autorizzò la costituzione di un Comitato Italia-Palestina. Infine Mussolini ricevette il presidente dell’esecutivo sionista Sokolov, il quale riconobbe esplicitamente che il fascismo era immune da preconcetti antisemitici. Da parte ebraica si moltiplicarono le manifestazioni di fedeltà all’Italia e al regime: le iscrizioni al PNF ripresero con ritmo incessante; al contempo i vari ministeri autorizzavano le prime concessioni, come quella di non far cadere gli esami pubblici in festività ebraiche.

27 De Felice sostiene che un fondo di antisemitismo tradizionale esisteva indubbiamente nel fascismo delle origini, ma esso non ebbe fino al 1936-37 un significato eminentemente politico.De Felice, op. cit., p. 90. 28 Citazione in De Felice, op. cit., p. 92. 29 De Felice, op. cit., p. 107. Citazione da Israel, 24 maggio 1926.

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Tuttavia le trattative tra Stato e Chiesa avevano destato in molti ebrei qualche apprensione. Si temeva infatti che il Concordato potesse portare ad un aggravamento della posizione giuridica degli ebrei o ad una maggior ingerenza dello Stato nella vita religiosa e amministrativa delle minoranze non cattoliche. L’ascesa alla cancelleria di Hitler il 30 gennaio 1933 e la successiva pubblicazione del proclama hitleriano contro gli ebrei, il 29 marzo 1933, non mutarono l’atteggiamento di Mussolini nei confronti della minoranza ebraica italiana. Tuttavia le ripercussioni non tardarono a farsi sentire anche in Italia. Inizialmente Mussolini stigmatizzò il razzismo hitleriano, e cercò di intervenire per frenare l’applicazione dei provvedimenti tedeschi e si pose ufficialmente come mediatore tra Hitler e l’ebraismo internazionale. Ciò di fatto contribuì ad una forte emigrazione di ebrei ashkenaziti provenienti dalla Germania e dall’est europeo in Italia. III. Gli anni della svolta antisemita Mussolini a partire dal 1930 e, più intensamente nel 1932-33, suggerì più volte a Hitler l’adozione di un atteggiamento più morbido nei confronti degli ebrei, meno ideologico e più politico, senza scosse violente, ma con una graduale eliminazione degli ebrei dai posti di responsabilità. In quegli stessi anni Mussolini aveva avviato una prassi persecutoria simile, che mirava a rimuovere gli ebrei dai luoghi di responsabilità. Nel frattempo nel 1933 si era giunti ad un concordato fra Berlino e la Santa Sede. La stampa cattolica tentò di nascondere l’antisemitismo, condannando soprattutto il razzismo nazista. I gesuiti de La civiltà cattolica tuttavia non seppero nascondere il proprio zelo anti ebraico. Tuttavia mentre Mussolini conduceva un’azione internazionale di mediazione a favore degli ebrei tedeschi in particolare e, degli ebrei europei in generale, l’antisemitismo andava pian piano riaffacciandosi in alcuni ambienti e in alcune pubblicazioni fasciste. Le prime avvisaglie della campagna antisemita si ebbero non appena Hitler salì al potere. I primi attacchi, prima vaghi poi sempre più duri, furono lanciati dalla rivista Il Tevere30. Nei primi mesi del 1934 la rivista attaccò duramente il sionismo definendolo un “reato di lesa Italianità” e riproponendo ai lettori una serie di stereotipi tipicamente antiebraici. La campagna antisionista del gennaio-aprile 1934 ebbe gravissime ripercussioni; l’ebraismo italiano ne uscì indebolito e fortemente frammentato. Verso il sionismo italiano Mussolini nutriva pregiudizi e diffidenze tipici dei nazionalisti. La convinzione che i sionisti avessero due patrie, di cui una, l’Italia, subordinata all’altra urtava contro il concetto monolitico ed esclusivo tipicamente fascista della patria. I rapporti tra fascismo ed ebrei nel 1935-37 furono apparentemente buoni. Gli ebrei parteciparono in maniera entusiastica all’impresa africana e durante la guerra il Ministero della Guerra diede la

30 Quotidiano fondato nel 1924 da Telesio Interlandi su mandato di Mussolini. Alla "terza pagina" del "Tevere" collaborarono, tra gli altri, Luigi Pirandello, Emilio Cecchi, Giuseppe Ungaretti, Vincenzo Cardarelli, Vitaliano Brancati, Antonio Baldini, Corrado Alvaro, Carlo Bernari, Ercole Patti, Ardengo Soffici, Julius Evola, Luigi Chiarini, Umberto Barbaro, Giorgio Almirante e Alfredo Mezio. Fu la voce più conforme e ligia del pensiero fascista.

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propria approvazione per una assistenza rabbinica ai soldati e ai volontari ebrei in missione, attraverso l’istituzione di un rabbinato militare. La vittoria e la proclamazione dell’Impero furono salutate dalla stampa ebraica con entusiasmo. Nel marzo 1937 Mussolini visitò il quartiere ebraico di Tripoli e vi furono manifestazioni di simpatia reciproche. Tra la fine del 1936 i primi del 1937 si verificarono una serie di incidenti a Tripoli che da alcuni studiosi vengono considerati come una delle prime manifestazioni di antisemitismo nello stato fascista. Tuttavia, osserva De Felice, gli incidenti di Tripoli31 non furono considerati manifestazioni di antisemitismo né dalla stragrande maggioranza degli ebrei italiani né dai giornali e dalle riviste fasciste più antisemite; inoltre il protagonista degli incidenti a Tripoli fu Italo Balbo, allora governatore della Libia, un uomo appartenente alle file del fascismo non antisemita32. La decisione di Mussolini di introdurre in Italia un antisemitismo di Stato fu determinata principalmente dalla convinzione che per rendere solida l’alleanza italo-tedesca fosse necessario eliminare ogni contrasto della politica dei due regimi. L’antisemitismo ricopriva un posto troppo determinante nell’ideologia nazista : non allinearsi alla politica anti-semita del regime nazista significava implicitamente di non voler stringere una solida alleanza; l’introduzione della politica antisemita significava automaticamente vincere ogni diffidenza tedesca verso l’Italia. Va precisato che fino ad allora gli scopi e i limiti della razzismo mussoliniano non erano mai andati oltre la realizzazione di una politica sanitaria, demografica ed eugenetica, uniti all’aspirazione di sostituire negli Italiani alla coscienza borghese dell’Italietta una coscienza imperiale e alla vitalizzazione e al potenziamento fisico e morale degli Italiani. A tal proposito il Duce avrebbe dichiarato a B. Spampanato:

Io ho fatto del razzismo fin dal 1922, ma un mio razzismo. La sanità, la conservazione della razza, il suo miglioramento, la lotta anti-tubercolare, lo sforzo di masse, i bambini alle colonie, questo era il razzismo come io intendevo. Ma vi è anche una razzismo morale che io ho predicato, l’orgoglio di appartenere a questa stirpe millenaria nata tra le nevi alpine e il fuoco dell’Etna. Il nostro razzismo all’estero? L’esaltazione del prestigio italiano, dell’ingegno, della nostra civiltà.[…] Il Manifesto della razza poteva evitarsi. Si è trattato di una astruseria scientifica. […] Io ho sempre considerato il popolo italiano un mirabile prodotto di diverse fusioni etniche sulla base di una unica varietà geografica, economica e specialmente spirituale. Uomini che avevano sangue diverso furono portatori di un’unica splendida civiltà. Ecco perché io sono lontano dal mito di Rosensberg.33

Appare evidente come Mussolini intendesse il concetto di razza in maniera del tutto diversa da quella nazista: una concezione né antropologica né biologica, ma avente un carattere

31 Balbo era interessato ad un incremento delle attività economiche sociali già esistenti e alla creazione di nuove. Egli era abituato agli ebrei assimilati dell’Italia, ed in particolar modo di Ferrara. Quand’è gli propose di mantenere aperte le attività economiche sociali il sabato la comunità ebraica di Tripoli in sorte contro il provvedimento di fare del sabato una semplice giorno scolastico e lavorativo. Balbo scrisse al capo della comunità ebraica chiedendogli di fare opera a assimilatrice e indurre gli ebrei ad aprire il negozio di sabato da qui una serie di incomprensioni che culminarono nei gravi incidenti del 1936-37. L’avvio fu dato da un’un ordina che imponeva a tutti i negozi di vendita al pubblico, l’obbligo di rimanere aperti tutti i giorni della settimana esclusa la domenica. Vi furono una serie di disordini e due ebrei furono fustigati, mentre un terzo ebreo fu condannato a tre mesi di carcere. L’episodio in sé poco significativo suscitò un grande clamore negli ambienti ebraici internazionali. De Felice, op. cit., p.232-237. L’autore è cauto nel considerare questi episodi come prime manifestazioni di anti-semitismo. 32 Basti pensare che nella seduta del Gran Consiglio del 6 ottobre 1938 Balbo si batterò contro i provvedimenti decisi da Mussolini. 33 Citazione in De Felice, op. cit., p. 293-294.

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spiritualistico34. Con la seconda metà del 1936 la posizione mussoliniana in merito agli ebrei cominciò a mutare. Le cause di questo cambiamento furono, in ordine di tempo: � prese di posizione antifasciste e antitaliane di singoli ebrei e successivamente di organizzazioni

ebraiche, in particolar modo in occasione della guerra d’Etiopia e della guerra di Spagna; � industriali e uomini d’affari ebrei, fino ad allora a favore del fascismo, cominciarono a muovere

critiche alla politica economica intrapresa dal governo; � indirettamente, la conquista dell’Etiopia implicò una nuova fase di politica della razza:

l’esistenza di una colonia e la convivenza di militari Italiani e coloni fece sorgere in Mussolini l’esigenza di evitare un fenomeno di meticciato su vasta scala. Ciò fu realizzato attraverso una propaganda volta dare agli Italiani una coscienza di razza.

� non va inoltre sottovalutata l’influenza dell’entourage mussoliniano: molti fascisti specie della nuova generazione non furono esenti da forme più o meno marcate di antisemitismo.Tra gli esponenti delle entourage di Mussolini possiamo ricordare Emilio De Bono, il quale in sede di Gran Consiglio si oppose ai provvedimenti ma, nel suo diario inedito appare chiaro che egli non si oppose né per motivi morali né umani, ma solo perché riteneva la mossa politicamente sbagliata. Il diario di Galeazzo Ciano è pieno di spunti antisemiti, tuttavia egli riteneva poco conveniente scatenare in Italia una campagna antisemita, dal momento che in Italia non esisteva una questione giudaica. Preziosi, antisemita di vecchia data, aveva teorizzato l’antisemitismo e lo aveva propagandato per anni sulla sua rivista, Il mulo, e poi su Il regime fascista. Fin dal primo dopoguerra egli aveva avuto rapporti con i nazisti e il fin dal 1933 si era fatto assertore della loro politica. Vittorio Emanuele III non poteva essere considerato un antisemita, tuttavia anche egli nutriva qualche pregiudizio: ciò forse spiega perché non si oppose ai primi provvedimenti antisemiti. In un colloquio con Balbo il Re sembra giustificare l’operato di Mussolini, dal momento che gli ebrei “durante la guerra d’Africa si sono schierati in America, in Inghilterra, in Francia, contro di noi con un’acredine da non dire. […] Mussolini se l’è legata al dito questo atteggiamento ostile”35.

Tappe fondamentali della politica razziale fascista: � il 1 aprile 1936 Mussolini impartì istruzioni per un orientamento più marcatamente filo-tedesco. � 23 dicembre 1936: Mussolini incominciò ad allontanare i collaboratori ebrei dalla rivista Il

popolo d’Italia. � gennaio 1938: la stampa italiana scatenò la campagna antisemita. � 16 febbraio 1938: venne pubblicata l’Informazione diplomatica n.14 � 3-9 maggio 1938: si ebbe la visita di Hitler in Italia. � 14 luglio 1938: venne pubblicato Il manifesto della razza. � 26 luglio 1938 fu emanato il comunicato del Partito Nazionale Fascista sulla razza. � 7 settembre 1938: decreto legislativo contro gli ebrei stranieri. � 6 ottobre 1938: il Gran Consiglio decise la persecuzione. La prima manifestazione ufficiale dei provvedimenti antisemiti fu la pubblicazione dell’Informazione diplomatica n.14, del 16 febbraio 1938.

34 Tuttavia tra il materiale conservato a Roma nell’Archivio centrale dello Stato vi è un certo numero di libri provenienti dalla biblioteca di Mussolini, tra cui Vita di Gobineau, di Lorenzo Gigli e la Sintesi della Dottrina della razza di Evola. Entrambi i volumi furono letti da Mussolini nel 1933. 35 Citazione tratta da De Felice, op. cit., p. 282.

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L’Informazione, redatta personalmente da Mussolini, sentenziava:

Le recenti polemiche giornalistiche poterono suscitare in certi ambienti stranieri l’impressione che il governo fascista stia per inaugurare una politica antisemita. Negli ambienti responsabili romani si è in grado di affermare che questa impressione è completamente errata. […] Il fatto che in Italia esistano degli ebrei non comporta necessariamente che esista un problema ebraico specificatamente italiano. […] Il governo fascista non pensò mai, né pensa adesso, a prendere misure politiche, economiche, morali, contrarie agli ebrei in quanto tali salvo, beninteso, nel caso in cui si trattasse di elementi ostili al regime. […] La legge che regola e controlla la vita delle comunità ebraiche rimarrà invariata. Il governo fascista si riserva tuttavia di vegliare sull’attività degli ebrei di recente giunti nel nostro paese.36

Ciano affermò che l’informazione fu definita da Mussolini un vero e proprio capolavoro di propaganda antisemita. Redatta con tono apparentemente conciliante, in realtà era ricca di precisazioni che costituivano il preludio ad imminenti annunci riguardanti l’introduzione di provvedimenti antisemiti. Né l’opinione pubblica italiana né la Santa Sede erano pronte ad accettare l’introduzione dei provvedimenti antisemiti: consapevole di ciò il Duce lasciò che la campagna di stampa avesse un certo effetto sulle coscienze degli Italiani. Il 14 luglio fu pubblicato il Manifesto degli scienziati razzisti37. Dei dieci paragrafi di cui è costituito solo uno, il nono, parla in maniera specifica degli ebrei:

9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato al di fuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia, perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diverse in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.38

Il Manifesto fu pubblicato anonimo su numerose testate italiane. Solo il 25 luglio un comunicato del PNF rendeva noti i nomi di coloro che lo avevano compilato e di coloro che vi avevano aderito, precisando che il testo era stato redatto sotto la guida del Ministero della Cultura Popolare. Il testo originale - scritto da vari scienziati - fu ampiamente rimaneggiato da Mussolini e probabilmente da vari funzionari della Cultura Popolare e della segreteria del PNF. Dopo la pubblicazione del Manifesto e del comunicato del 25 luglio la macchina della persecuzione si mise in moto: i primi di settembre del 1938 il Gran Consiglio decise la persecuzione. Tali decisioni furono salutate da tutta la stampa con un grande entusiasmo. Notevole fu l’attività propagandistica promossa dai CAUR39, i comitati d’azione per l’universalità di Roma; l’attività propagandistica fu svolta dai GUF, i gruppi universitari fascisti, tant’è che presso ogni GUF sede di università fu costituita una sezione della Demografia e Razza. Tra i più attivi ci furono i GUF di Campobasso, Taranto, Macerata, Trieste, Perugia, Catanzaro.

36 Renzo de felice pagina 321 c’era il testo completo dell’informazione. 37 Per il testo completo si veda De Felice, op. cit., p. 611. 38 De Felice, op. cit., documento 15, pagina 611-612. 39 I CAUR furono un’organizzazione politica italiana avente come scopo quello di coltivare l’unione tra tutti i partiti fascisti presenti nel mondo, con l’obiettivo di creare un panfascismo. Costituiti da B. Mussolini nel 1933 su ispirazione di S. Gravelli, furono affidati alla presidenza di E. Coselschi.

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Nel giro di poco tempo il Gran Consiglio del fascismo stabilì: � il divieto di matrimoni ministri; � il divieto di entrata e l’espulsione degli ebrei stranieri; � la percentuale di sangue che faceva di un uomo un ebreo; � le procedure di discriminazione tra gli ebrei di cittadinanza italiana; � limitazioni politiche, della proprietà privata e dei mezzi di produzione, nonché l’esonero dal

servizio militare.40 Questo insieme di provvedimenti era contenuto nella Dichiarazione programmatica del Gran Consiglio; ad essa seguirono varie leggi e disposizioni volte a trasformare la Dichiarazione in parte integrante della legislazione statale. La stragrande maggioranza degli ebrei Italiani fu colta completamente alla sprovvista dall’adozione dei primi provvedimenti razziali, anche perché in Italia si era sempre negata l’esistenza di una questione ebraica. Il R.D.L. 17 novembre 1938 n. 1728 è stato da qualcuno considerato la Magna Charta del razzismo italiano. Il documento fu tuttavia redatto con una conoscenza estremamente scarsa della realtà ebraica italiana. Mussolini da un lato non voleva lanciare una immediata persecuzione, ma dall’altro ormai non poteva più tirarsi indietro. La prima legge di attuazione della persecuzione fu il R.D.L 9 febbraio 1939 n.126 relativo alle disposizioni dell’articolo 10 del R.D.L. 17 novembre 1938 n.1728, riguardanti i limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini Italiani di razza ebraica. Con il R.D.L. 29 giugno 1939 n. 1054 fu disciplinato l’esercizio delle professioni da parte degli ebrei: con tale legge il fascismo vietò a tutti gli ebrei la professione di notaio e di giornalista.41 Con il R.D.L. 13 luglio 1939 n. 1055 furono stabilite le norme relative alla materia testamentaria e ai cognomi. Fu istituito il Tribunale della razza, una commissione composta da tre magistrati e due funzionari del Ministero dell’Interno, che aveva il compito di decidere l’appartenenza o meno alla razza ebraica42. Tale tribunale di basava sull’arbitrio più assoluto e frequenti furono gli episodi di corruzione. La politica razziale fascista era ormai giunta ad una completa attuazione. Ciò avvenne senza una particolare indignazione da parte dell’opinione pubblica, sintomo del fatto che gli stereotipi antisemiti promulgati dalle riviste nel corso degli anni precedenti avevano ormai condizionato subdolamente l’opinione pubblica italiana e stavano quindi riscontrato un certo successo. In questi stessi anni alcuni giornali riproposero i tipici argomenti anti-ebraici: l’origine giudaica del bolscevismo, le accuse deicidio, l’eccessivo interesse per gli affari di lucro, il materialismo. Nel frattempo la campagna di stampa anti-semita cominciò ormai ad avere un certo effetto nella coscienza popolare.

40 Per un elenco completo si veda De Felice, op. cit., p. 348-350. 41 De Felice, op. cit., p.396-397. 42 L’articolo 8 del R.D.L. 17 novembre 1938 specificava i criteri di appartenenza alla razza ebraica: i nati da genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera; i figli di madre ebrea e il padre ignoto; coloro i quali professavano la religione israelitica alla data del 1 ottobre 1938; coloro i quali avevano sangue misto venivano considerati ebrei se erano iscritti ad una comunità e se avessero fatto in qualsiasi altro modo manifestazione di ebraismo. Le norme per gli accertamenti della razza elaborati dal Ministero dell’Interno nella prima metà del 1939 stabilivano una casistica che allargava ancor di più il numero di coloro che doveva essere considerati ebrei.

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La dottrina razzista antisemita si diffuse in maniera massiccia in Italia a partire dal 1937, grazie ad alcuni scritti di autori filonazisti e fortemente antisemiti. J. Evola e G. Cogni sulla rivista Quadrivio, sintetizzando alcuni filoni dell’antisemitismo europeo, formularono la teoria del razzismo spirituale, una concezione di razzismo nettamente contrapposta a quella di matrice eminentemente biologica tipica della Germania razzista, basata quasi esclusivamente sul mito della razza ariana. Nell’aprile 1937 Paolo Orano pubblicò Gli ebrei in Italia, effettuando una duplice polemica: contro i sionisti e contro gli ebrei antifascisti. Orano fu un personaggio di un certo peso nella vita culturale fascista, e da lì a poco il regime lo nominerà senatore e successivamente Rettore dell’Università di Perugia. L’opera riprendeva lo stereotipo della ragnatela ebraica che avvolge il mondo soffocandolo e costituiva una sintesi delle infamanti argomentazioni della polemica antisemita. Gli ebrei sionisti e quelli che pur non osservando alla ritualità religiosa ebraica conservavano una identità ebraica e una qualche coscienza collettiva, assunsero la qualifica di irriducibili nemici dell’Italia fascista totalitaria. Il «Popolo d'Italia», recensendo il libro di Orano, richiamava all’attenzione dei lettori il tema usuale della doppia lealtà ebraica, chiedendosi n maniera sarcastica se gli ebrei si sentivano “ebrei in Italia“, e in quanto tali ospiti passeggeri sul suolo italiano, o “ebrei d’Italia” e, in quanto tali, parti integranti della popolazione. Nel mese di agosto Giovanni Preziosi rincarava la dose dalle colonne della Vita italiana, affermando che «La razza dell'ebreo è lungi dall'essere un puro dato biologico e antropologico. La razza è la legge». IV. La difesa della razza Il 1938 vide la stampa italiana impiegata in una violenta campagna razzista e antisemita. In particolar modo le riviste Il Tevere, Il Quadrivio, Il regime fascista e La difesa della razza. Tutte le notizie filo-ebraiche, per esempio attorno al patriottismo degli ebrei Italiani, sparirono. Fu data grande rilevanza a tutti i reati comuni commessi da ebrei e ai provvedimenti antisemiti adottati da altri Paesi. Fu utilizzata ogni altra notizia che poteva essere usata in funzione antiebraica. Veniva messa in grande rilievo la potenza e l’invasione ebraica in Italia. Gli attacchi si articolano principalmente in due direttrici principali: contro lo strapotere ebraico in Italia e contro il pietismo, cioè contro coloro che non capivano o non stimavano la politica della razza ( vale a dire la maggioranza degli Italiani). Un particolare approfondimento merita la rivista La Difesa della razza, quindicinale diretto da Telesio Interlandi43, (1894 - 1965) fondato nell’agosto 1938, dall’unione di due gruppi di

43 Interlandi a soli 19 anni era redattore capo del quotidiano catanese Il giornale dell’isola. Dopo la prima guerra mondiale, alla quale partecipò come ufficiale di artiglieria di montagna, giunge a Roma; collaborò con numerosi periodici; come inviato del quotidiano La nazione egli ebbe modo di osservare da vicino la marcia su Roma e la nascita del fascismo. Nel 1923 a Roma diviene redattore capo del quotidiano reazionario-futurista Impero. Poco dopo la crisi Matteotti egli intervistò l’amico Pirandello, che in quei giorni si era iscritto al partito fascista, accentuandone l’adesione, al punto che lo stesso Pirandello inviò una lettera di precisazione, pubblicata sulla rivista Impero il 26 settembre. Dopo circa un mese dall’intervista a Pirandello, egli venne scelto da Mussolini per dirigere un nuovo quotidiano romano, il Tevere. Il primo numero del Tevere uscì il 27 dicembre 1924. La rivista riuscì a sopravvivere, a partire dal 1926, grazie ai

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giornalisti provenienti da distinti ambiti razzisti: il gruppo di giornalisti legati da tempo ai periodici interlandiani ed alcuni degli scienziati firmatari del Manifesto della razza. La rivista si configurò come una vera e propria macchina propagandistica, in cui argomentazioni biologizzanti e culturalizzanti44 convergevano in un progetto di trasformazione della società, della cultura e dell’arte italiane in senso antisemita. La difesa della razza non fu il frutto di una improvvisazione dovuta alle esigenze dettate dall’alleanza con la Germania, bensì il prodotto di una vera e propria logica antisemita nata all’interno del fascismo. L’antisemitismo e il razzismo del fondatore e direttore della rivista, Interlandi, non sono dovute all’opportunismo, ma costituiscono un dato culturale intrinseco della sua formazione intellettuale e della sua interpretazione radicale e intransigente del fascismo. Numerosi gli apprezzamenti che Rosenberg dedica al Tevere, fin dall’aprile 1926, segno della profondità e della radicalità del pregiudizio anti-ebraico presente negli scritti di Interlandi. Per Interlandi il pericolo maggiore non deriva dall’ebreo visibile, ma da quello invisibile, dall’ebreo arianizzato e perfettamente inserito nella società, ed è per questo che la rivista insiste in modo ossessivo sul concetto di ebraizzazione della nazione, della società, della cultura, facendo della guerra all’ebreo - e innanzitutto alle ebreo nascosto - la chiave della trasformazione dell’assetto politico, economico, sociale, culturale e spirituale dell‘Italia. L’equazione ebreo = antifascista è frequente in Interlandi. Già sulla prima pagina dell’ Impero, nell’ottobre 1924, il giornalista definisce l’Aventino “il ghetto della nazione”. Egli inoltre descrive il conflitto fascismo-antifascismo come “una guerra di razze che sia avversano perché non si intendono né si intenderanno mai”, dipingendo gli ebrei come portatori di un infinito disprezzo nei confronti degli Italiani. L’ebreo è un vero e proprio nemico politico, in quanto antifascista e internazionalista, un nemico culturale in quanto europeista, ed un nemico economico. Egli individua nella massoneria - descritta come associazione a delinquere internazionale, in cui l’ebreo gioca un ruolo rilevante - il principale nemico del fascismo. Interlandi si pronuncia in maniera critica nei confronti del sionismo e del progetto di riunire l’intero popolo ebraico in Erez Israel, ritenendo ciò incompatibile con le caratteristiche tipiche del popolo

contributi che giunsero direttamente dal PNF e dall’ufficio stampa della Presidenza del consiglio. Numerose le firme illustri apparse sulla rivista: Luigi Pirandello, più volte recensito, Giuseppe Ungaretti, Vincenzo Cardarelli, ecc. Nell’agosto 1933 Interlandi fondò il Quadrivio, settimanale illustrato di Roma. Nelle colonne di queste due riviste si formano quei i giornalisti destinati a costituire il lungo elenco di collaboratori de La difesa della razza. Tra di essi Cassata ricorda: Giuseppe Pensabene, architetto e critico d’arte originario di Palermo, Gino Sottochiesa, polemista cattolico, scrittore Alfredo Mezio, il pedagogista Nazareno Padellaro, i filosofi tradizionalisti Massimo Scaligero e Julius Evola, l’antropologo Guido Landa, lo storico della letteratura italiana Francesco Biondolillo, il giornalista, esperto di esercito e area nautica a Antonio Trizzino, il critico cinematografico e regista, sceneggiatore e produttore Domenico Paolella, il critico letterario Aldo Capasso, i giornalisti Giovanni Savelli e Giorgio Almirante. 44 Due sono gli orientamenti del razzismo fascista: l’orientamento biologico e l’orientamento spiritualista, declinato perlopiù in chiave nazionalistica. L’orientamento de La difesa della razza è di tipo biologico, e saldamente ancorato ai dieci punti del Manifesto, in contrapposizione sia con dalle correnti nazionaliste (Pende, Acerbo, Visco), sia con quelle di Preziosi ed Orano. A tal proposito le differenze tra l’antisemitismo di Orano e quello di Interlandi appaiono significative: � per Orano il problema ebraico consisteva soprattutto negli ideali del popolo eletto; una soluzione possibile viene

quindi trovata in una attenta e totale assimilazione, a costo di annullare completamente l’identità ebraica del suddetto popolo;

� per Interlandi il problema consisteva invece in ciò che gli ebrei sono, per cui l’unica soluzione possibile è la persecuzione fondata sul criterio quantitativo.

Nei mesi successivi alla primavera 1937 sarà questa seconda linea a prevalere, registrando la progressiva maturazione della razzismo mussoliniano in senso biologico.

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ebraico, nomade per definizione e privo di attaccamento per la terra. Nel maggio 1933 vi fu una polemica fra Interlandi e la rivista dei sionisti Italiani Israel. Il giornalista si chiedeva come gli ebrei potevano lamentarsi dei presunti eccessi di razzismo quando essi stessi si consideravano il popolo eletto. Viene qui ripreso il consueto stereotipo dell’ebreo padre di tutti i razzismi, argomentazione tipica delle strategie autodifensive dell’antisemitismo moderno. Interlandi sottolineava come gli ebrei, per millenni condannati alla diaspora, erano riusciti a mantenere intatte le qualità positive e negative della razza, proprio grazie ad una serie di pregiudizi razzistici nei confronti delle nazioni ospitanti. Il sionismo venne inoltre definito da alcuni giornalisti un reato di lesa Italianità, proprio per sottolineare l’incompatibilità tra sionismo - o più precisamente nazionalismo ebraico - e Italianità. L’ebreo quindi è al tempo stesso un nemico della nazione e un nemico ideologico-politico. Interlandi fu inoltre uno dei principali sostenitori della non-assimilabilità razziale degli ebrei:

L’ebreo non si assimila, perché nell’assimilazione vede una diminuzione della sua personalità e un tradimento della sua razza; l’ebreo esige una doppia nazionalità, diciamo pure una doppia patria.45

Nel gennaio 1937 il Tevere è tra i pochi giornali autorizzati dal Ministero della Stampa e Propaganda a commentare i nuovi Provvedimenti per i rapporti fra nazionali e indigeni, un progetto di legge finalizzato a vietare - in Italia e nelle colonie - le relazioni tra cittadini Italiani e i sudditi dell’Africa Orientale Italiana, attuate per impedire un fenomeno di meticciato su vasta scala. Nel suo editoriale Interlandi insiste particolarmente sugli “effetti disgenici dell’incrocio”, per cui la razza superiore sarebbe stata assorbita da quella inferiori. In questo contesto emerse la figura di Giulio Cogni46. Nel luglio 1936 Cogni assuse la veste di teorico di punta della nuova campagna antisemita dei periodici Tevere e Quadrivio. Entrambe le riviste nel luglio 1936 pubblicarono un lungo articolo del filosofo intitolato Razza. In questo scritto si negava che il problema razzistico fosse soltanto il frutto di un orgoglio nordico: al contrario riconoscere la razza voleva dire riconoscere nella realtà corporea i valori dello spirito. In secondo luogo si affermò la superiorità antropologica degli Italiani47. La successiva produzione del filosofo culminò nella pubblicazione di due volumi: Il razzismo, uscito nel novembre 1936 e I valori della stirpe italiana, uscita dalla primavera del 1937. Nel primo vi è una sintesi dei contenuti della razzismo tedesco, mentre nel secondo si insiste soprattutto sul carattere nordico della razza italiana. Le riviste di Interandi lasciarono grande spazio a recensioni e interviste di Cogni; in particolar modo su due questioni: � la comune origine ariana e nordica di italiani e tedeschi che, pur nelle loro differenze, hanno

fondamentalmente una comune visione del mondo e comuni caratteri fisici; � l’importanza di una rigido controllo, anche sotto il profilo genetico, delle unioni, ai fini del

miglioramento biologico della razza italiana. Più volte Interlandi utilizzò l’espressione meticciato intellettuale, per definire in senso dispregiativo l’insieme di quegli intellettuali, per lo più ebrei, che non sentivano dei vincoli affettivo - patriottici con la nazione italiana

45 F. Cassata, op. cit., p. 20. 46 Cogni, laureato in giurisprudenza, studioso di filosofia vicino a Giovanni Gentile, docente di filosofia presso un liceo di Perugia e infine docente presso l’Istituto italo-germanico di cultura ad Amburgo. Nel 1933 egli era giunto all’onore delle cronache per il suo libro Saggio sull’amore come nuovo principio di mortalità, dedicato a Gentile. 47 L’autore dichiara infatti che la vera latinità non si distingue solo per i caratteri fisici e per generiche parentele con i popoli nordici, bensì da valori che le sono propri, e che sono assenti in qualsiasi altra razza nordica o meridionale.

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Nel 1937 Interlandi impostò una nuova campagna di stampa razzista e antisemita in una duplice direzione: � Cogni venne sostituito da Gino Sottochiesa, roveretano, esponente del cattolicesimo facista e

razzista, pubblicista e scrittore. � l’idealismo biologizzante del filosofo senese viene progressivamente sostituito dal modello

biologico-eugenetico tipicamente nazionalsocialista proposto nella rubrica Il razzismo è all’ordine del giorno, curata dal giornalista altoatesino Helmut Gasteiner.

Per razza Interlandi intendeva l’insieme degli individui con medesime caratteristiche fisiche e psichiche trasmissibili ereditariamente. Basandosi su rigorose basi biologiche, questi autori puntavano il dito contro l’eugenetica positiva condotta dal regime fascista fin dalla metà degli anni Venti: la provvidenza sociale, l’igiene, le buone condizioni economiche sono fattori di primo ordine nella vita della nazione, ma non sono tutto poiché non hanno alcuna influenza sulla razza. Neppure la profilassi medica può servire a difendere alla razza. L’unico rimedio possibile per evitare la degenerazione consiste in un serrato controllo delle nascite attraverso il giusto accoppiamento: esso è l’unico mezzo per conseguire un efficace miglioramento biologico della razza. La riproduzione non può essere lasciata alla mercé del materialismo, dell’egoismo personale, dell’attrazione sessuale, ma deve essere gestita managerialmente dall’autorità statale, la quale avrebbe dovuto mettere la razza in cime alle priorità del governo. All’inizio del 1938 Interlandi favorì il contatto tra Mussolini e Guido Landra , antropologo ventiquattrenne, collaboratore del Tevere nel 1931. Il 2 febbraio 1938, Mussolini incaricò l’antropologo - attraverso la mediazione del Ministro della Cultura Popolare Alfieri - di costituire un comitato scientifico per lo studio e l’organizzazione della campagna razziale. Landra inviò al ministro due giorni dopo una lista di collaboratori che fu approvata da Mussolini l’11 febbraio. Il 24 giugno Mussolini ricevette personalmente il giovane antropologo, per impartirgli direttive precise sul problema razziale, ordinandogli di creare un ufficio studi con l’obiettivo di stabilire entro 56 mesi i punti fondamentali per iniziare la campagna razziale in Italia. Il 28 giugno Landra presentò al Duce il testo del Manifesto degli scienziati, pubblicato il 14 luglio 1938 in forma anonima sulla prima pagina del Giornale d’Italia, con il titolo Il fascismo e i problemi della razza. Ciò diede modo a numerosi giornali, ed in particolar modo al Tevere, di ribadire quelli che erano considerati gli elementi razziali costitutivi della popolazione italiana, nettamente opposti agli elementi razziali costituitivi delle popolazioni semitiche. Nel frattempo il Ministero della Cultura Popolare progettò un’azione ben studiata di propaganda, definita nel dettaglio il 19 luglio da un documento che conteneva delle precise disposizioni circa la creazione dell’Ufficio della Razza, che sorse il 16 agosto. Nel medesimo documento si auspicava la pubblicazione di una rivista a carattere divulgativo, in grado di trattare in maniera confacente all‘ideologia fascista il problema della razza: da lì a poco verrà fondato il quindicinale interlandiano. Il primo numero de La difesa della razza uscì nelle edicole sabato 6 agosto 1938. Gestita inizialmente dal Ministero della cultura popolare, la rivista fu stampata con una tiratura imponente che oltrepassava le 140.000 copie, e venduta al prezzo di una lira a fascicolo. Il prezzo relativamente basso consentiva una maggiore diffusione della rivista. Il quindicinale esprimeva quello che si potrebbe definire un antisemitismo totale: da una lato sosteneva la tesi della impossibilità di assimilazione degli ebrei; dall’altro la visione cospirazionista

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della storia, secondo la quale l’ebreo era fautore di un complotto ai danni delle nazioni ospitanti, sia a livello locale sia a livello sovranazionale. Fin dai primi numeri del 1938-39, i modelli antisemiti riproposti erano di matrice cattolica, proprio per dimostrare con un’insistita propaganda che le misure assunte dal governo contro gli ebrei non facevano altro che ripetere quanto già detto con lungimiranza dalla Chiesa nel passato - dall’accusa di deicidio, alla superstizione dei riti, fino allo stereotipo dell’ebreo che sacrifica i bambini cristiani non per questioni meramente rituali, ma perché crudele e criminale per natura, fedele l’esecutore dei precetti assassini del Talmud (es. Simonino); per non citare l’insieme delle accuse economico-politiche. Per ragioni di propaganda, numerosi furono gli articoli pubblicati che descrivevano e spiegavano le bolle pontificie anti-ebraiche, così come altrettanto numerose furono le immagini che riproducevano santi antisemiti, impiegati nella battaglia contro l’usura praticata dagli ebrei in ogni tempo e in ogni luogo. La difesa della razza, inoltre, fin dal settembre 1938 sviluppò una filologia antropologico-criminologica del Talmud, descrivendolo come un perfetto manuale di razzismo ebraico. Il quindicinale individuò nella contrapposizione fra antica Roma e giudei il primo sintomo della inconciliabilità razziale fra ebraismo e Italianità. Nel settembre 1938 Giorgio Almirante non ebbe alcuna esitazione nel fornire un’interpretazione giudeofobica del mondo romano: egli affermò infatti che gli antichi romani nutrivano contro il popolo eletto una forte avversione, poiché quest’ultimi si erano adoperati in ogni modo per scalzare le basi dell’Impero. Gli scritti di Cesare, Livio, Orazio, Tacito furono utilizzati in maniera eccessivamente libera e di fatto trasformati in manuali di razzismo ante litteram, mostrando come il problema antiebraico in Italia risalisse sin dai tempi più remoti. Vespasiano e Tito venivano celebrati come eroi, in quanto distruttori di Israele. Vennero ripresi, con toni enfatici, l’opera dell’Inquisizione contro il mondo ebraico del Trecento, la cacciata degli ebrei dalla Sicilia, dalla Sardegna e dalla regno di Napoli ad opera dei re spagnoli, i provvedimenti antigiudaici dei papi della controriforma, in particolare papa Paolo IV e il Pio V. Gli ebrei furono dipinti come gli artefici della rivoluzione francese e, successivamente, del crollo dell’Impero napoleonico. L’Ottocento venne considerato il secolo d’oro dell’ebraismo: in Francia, Italia e Gran Bretagna si diffuse il capitalismo finanziario, strumento attraverso il quale gli ebrei creavano disordine sociale nel mondo moderno. Da qui la teoria della cospirazione demo-pluto-capitalistica. Interlandi respinse l’immagine risorgimentale dell’ebreo patriota che prende parte al progetto di unificazione nazionale: l’ebreo che si dice italiano, secondo il giornalista, mente consapevole di mentire; egli in realtà è sempre l’elemento dissolutore delle società nelle quali occasionalmente si accampa. La prima guerra mondiale segnò - secondo il giornalista - il momento più drammatico del complotto del giudaismo internazionale ai danni della nazione italiana. Gli ebrei furono dipinti come i maestri del feroce e integrale disfattismo, rei di aver provocato il conflitto per perseguire i propri interessi, per poi sottrarsi astutamente e subdolamente al bagno di sangue. Il patto di Londra venne dipinto come una manovra imbastita da Sydney Sonino, figlio di un ebreo angolo egiziano, per avvantaggiare la burocrazia ebraica. Gli ebrei furono inoltre considerati come i responsabili della vittoria mutilata: fu una riunione giudeo-massonica tenutasi nel 1917 a Parigi, a decidere l’annessione di Trieste, fiume e della Dalmazia alla Jugoslavia, così da costituire, nell’interesse dell’alta banca ebraica, il triangolo egemonico di Fiume, Danzica e Costantinopoli. La stessa pace di Versailles venne considerata il frutto di una manipolazione giudaica. Tuttavia il più mostruoso delitto del giudaismo si incarnava dal bolscevismo: i maggiori autori della Rivoluzione d’ottobre furono ebrei e il finanziatore della rivoluzione fu un banchiere ebreo di nome

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Jacob Scriff. Di fatto sulla base dell’identificazione dell’Italia con la Roma imperiale prima, e con il centro della cristianità poi, le disgrazie europee furono mostrate come frutto del genio maligno ebraico, attuando così una giustificazione della legislazione antisemita fascista. La difesa della razza recuperò l’accusa di omicidio rituale, definendolo un’espressione della dedizione dell’ebreo alla delinquenza e alla rottura dell’ordine sociale. Il quindicinale si occupò ampiamente del tema della criminalità degli ebrei, dando ampio spazio a delitti più o meno gravi, più o meno infamanti, di cui gli ebrei venivano ritenuti colpevoli. Guido Landra, statistiche alla mano, tentò di dimostrare l’ereditarietà biologica della tendenza ebraica a compiere crimini contro l’ordine politico-economico e contro la morale pubblica. L’ebreo venne dipinto come colui il quale distrugge la morale tradizionale, devasta la stabilità dei rapporti familiari e matrimoniali, getta fango sui rapporti sociali e affettivi. Vi fu inoltre un riferimento al gran numero di delitti riguardanti il sesso: ciò costituì un pretesto per introdurre il tema, ricorrente nella pubblicistica antisemita, del carattere degenerato della sessualità ebraica, al punto che i giudei furono stigmatizzati con l’appellativo di etnia puttana. La difesa della razza tratteggiò un tipo ebraico anche dal punto di vista strettamente somatico. Nel terzo numero uscito il 5 settembre 1938, Giuseppe Genna, direttore dell’Istituto di antropologia dell’Università di Roma, fornì una prima descrizione delle caratteristiche somatiche dell’ebreo. I lineamenti del prototipo giudaico sono: naso fortemente incurvato, che produce un profilo a becco d’avvoltoio; labbra carnose, delle quali l’inferiore sporge molto fortemente; occhi poco incavati nelle orbite. Accanto a questi caratteri, ve ne sono altri meno frequenti e meno decisivi, quali i spalle leggermente incurvate, piedi piatti, atteggiamenti da rapace e andamento dinoccolato48. Oltre che dai caratteri somatici, l’ebreo viene individuato anche dalle malattie specifiche di cui è portatore. L’antropologo francese si concentra sul problema della patologia razziale, definendo il legame fra malattie e predisposizioni razziali ereditarie, insistendo particolarmente sulla figura dell’ebreo isterico e nevrotico; le malattie più comuni che riguardano gli ebrei sono: turbamenti ipocondriaci, malattie erotico-sessuali, schizofrenia, nevrastenia, lebbra, arteriosclerosi, cancrena spontanea, glaucoma, astigmatismo, ecc. Le deformità morfologiche - es. naso enorme e ricurvo, occhi protrudenti - non rappresentano altro che l’aspetto visibile della malattia interna. Gli ebrei furono discriminati anche dal punto di vista culturale: il culmine della campagna antigiudaica fu raggiunto con il numero del 5 luglio 1939, in cui vi fu un’ampia analisi dell’ombra giudaica sulla vita italiana, in particolare nel campo della letteratura, dell’arte, della scienza, del giornalismo, del cinema, della banca, del diritto, della finanza.

48 Sul tema dei caratteri del tipo ebraico, i contributi più rilevanti apparsi sulle pagine del quindicinale si devono alla penna del etnologo francese Georges Montandon. Gli articoli spesso comprendevano anche distinzioni somatiche tra ashkenaziti e sefarditi: da un mix di elementi asiatici, orientali, e forse anche nordici, si sarebbero sviluppati gli ashkenaziti, con tratti grossolani, testa più larga, brachicerfala, naso grosso, carnoso, capelli ricci e complessione chiara; da elementi asiatici, mongoloidi e alpini si sarebbero sviluppati i sefarditi, caratterizzati da cranio essenzialmente dolicomorfo, fisionomia fine, naso sottile, spesso convesso, complessione prevalentemente scura.

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V. Le reazioni del mondo accademico L’atteggiamento degli intellettuali Italiani di fronte ai provvedimenti antisemiti fu caratterizzato nel complesso da un certo allineamento, dettato non solo dalla paura, ma anche dal conformismo, dall’opportunismo e, di fatto, dalla radicamento e della diffusione di stereotipi antiebraici anche nel ceto intellettuale. A seguito dell’adozione dei provvedimenti antisemiti, il mondo accademico conobbe un vero e proprio sconvolgimento: sostituzioni di docenti, cambiamenti ai vertici delle istituzioni universitarie, esclusioni di studenti ebrei, eliminazione di testi di autori ebrei. Emblematico fu il caso di G. Gentile - uno dei maggiori intellettuali Italiani del primo Novecento e al contempo una delle personalità più coinvolte nel fascismo. A. Capristo49 riporta il carteggio tra G. Gentile e G. Chiavacci risalente al luglio 1938 nel quale il filosofo mostra tutta la sua preoccupazione per la vicenda. L’inquietudine di Gentile è visibile anche in un altro carteggio scambiato con Girolamo Palazzina, direttore amministrativo dell’Università Bocconi50 (di cui Gentile era vicepresidente). Gentile avversava il razzismo in quanto concezione naturalistica e, negli anni dell’antisemitismo fascista, riuscì a mantenere un certo distacco nei confronti della politica ufficiale del regime; tuttavia egli non prese mai pubblicamente posizione contro la politica antiebraica intrapresa dal governo italiano né manifestò alcun segnale di critica o di distacco. Il filosofo partecipò alla seduta del Senato del 20 dicembre 1938, durante la quale vennero votati i provvedimenti antiebraici, ma non fece alcun intervento. La votazione avvenne a scrutinio segreto, per cui non è possibile stabilire se si espresse a favore o contro tali provvedimenti. Al silenzio pubblico tuttavia seguì l’appoggio privato offerto da Gentile ad alcuni studiosi ebrei con i quali il filosofo aveva collaborato nel corso degli anni e verso i quali nutriva una profonda stima. L’intervento più noto è quello a favore di Paul Oskar Kristeller, filologo, esule dalla Germania nazista; nel 1935 Gentile gli aveva procurato un posto come lettore presso la Normale di Pisa. L’interessamento di Gentile era motivato dal forte desiderio di non interrompere una collaborazione scientifica assai proficua per la propria casa editrice, la Sansoni, presso la quale il filologo avrebbe dovuto pubblicare un testo su M. Ficino. Gentile intervenne anche a favore di Arnaldo Momigliano, per anni suo collaboratore all’Enciclopedia italiana, scrivendo un testimonial che il giovane studioso allegò al proprio curriculum inviato a numerose università straniere. In base all’articolo 2 del RDL 5 settembre 1938.XVI n. 1930 furono cacciati dalle istituzioni scolastiche gli studenti di razza ebraica, lasciando la possibilità di terminare gli studi universitari solo a coloro i quali erano già immatricolati al momento dell’emanazione del decreto. Secondo le stime oltre duecento studenti universitari furono colpiti dai provvedimenti antisemiti. Il Ministero dell’Educazione nazionale, già nel gennaio 1938 chiese ai rettori il numero esatto di studenti ebrei di nazionalità straniera iscritti nei propri atenei. Apparve quindi evidente che ben prima del R.D.L. del 15 novembre erano state attuate delle iniziative che facevano presagire l’impossibilità di proseguire negli studi universitari.

49 Annalisa Capristo, Gli intellettuali Italiani di fronte alla cacciata dei colleghi ebrei a università e accademie, in R. Chiarini, op. cit.. 50 L’Università Bocconi era l’unica università italiana libera – non regia – guidata nel 1938 da un rettore ebreo, l’economista Gustavo del Vecchio. La nomina di Del Vecchio fu proposta nel 1933 e sostenuta dallo stesso Gentile.

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L’allontanamento degli ebrei dalle scuole italiane – come prevedeva il R.D.L. 23 settembre 1938.XVI n. 1630 - precedette la medesima l’iniziativa tedesca. Furono cacciati docenti di ogni ordine e grado. Nella scuola media furono colpiti 279 tra presidi e professori; un numero imprecisato di maestri di scuole elementari. I professori universitari ordinari e straordinari obbligati a lasciare la cattedra furono 96, il 7% dell’intera categoria. Amplissimo fu sia lo spettro delle discipline interessate sia le sedi universitarie colpite. Bologna fu la maggiore università colpita: 11 professori su 86 e numerosi altri dipendenti furono costretti ad abbandonate il luogo di lavoro. Si è stimato che circa il 20% del personale universitario bolognese fu travolto dalle leggi razziali. Con la circolare n. 33 del 30 settembre 1938 il Ministero dell’Educazione metteva al bando 114 autori – di origini ebraiche – di libri di testo. Lo zelante artefice di questa “bonifica” fu Giuseppe Bottai51. Nell’estate 1938 i membri delle accademie e i professori universitari ricevettero dal Ministero dell’Educazione il questionario per il censimento razzista: compilare e firmare il questionario comportava automaticamente la partecipazione ad una schedatura finalizzata all’estromissione dei colleghi ebrei dalle università e dalle accademie. Agli ebrei fu chiesto di auto-denunciarsi per rendere più efficace l’opera di arianizzazione delle università. Ai non ebrei fu richiesta una dichiarazione ufficiale di conformità al regime e un contributo personale nell’isolamento e nella pratica di allontanamento dei colleghi ebrei. La risposta all’appello fu unanime, eccetto pochissime dissociazioni. L’unica dissociazione motivata esplicitamente dal rifiuto della legislazione antisemita finora reperita è quella di Benedetto Croce il quale manifestò il suo sdegno in una lettera del 21 settembre all'Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti.

Ricevo oggi qui il questionario che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l'avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. Ha senso domandare a un uomo che ha circa sessant'anni di attività letteraria e ha partecipato all'attività politica del suo Paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose? L'unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me […] all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo proprio quando questa gente è perseguitata.52

Le risposte dei questionari furono molteplici: alcuni si limitarono a dichiararsi ariani e cattolici, altri aggiunsero annotazioni – non richieste - a carattere esplicitamente antisemita. Tra gli zelanti spiccano i nomi di: Francesco Severi, matematico e docente all’università di Roma; verso la fine degli anni Venti egli aderì al fascismo e successivamente, quando il regime nel 1938 avviò la campagna antisemita. Si distinse per lo zelo con cui appoggiò i provvedimenti attuati dal regime. Egli tentò di arianizzare la rivista più prestigiosa della matematica italiana, Gli Annali di Matematica pura e applicata, facendo eliminare dal comitato di redazione alcuni colleghi ebrei. In privato realizzò alcuni circoscritti gesti di aiuto a favore di intellettuali con cui aveva intrattenuto rapporti personali intensi. Carlo Albizzati, professore di archeologia all’università di Pavia, membro dell’Istituto di studi

51 Giuseppe Bottai (Roma, 3 settembre 1895 – Roma, 9 gennaio 1959) governatore di Roma, Ministro elle Corporazioni e Ministro dell’Educazione Nazionale. 52 Citazione tratta da Quando gli Italiani si scoprirono ariani, Corriere della Sera, 26 settembre 2008, in www.pbmstoria.it/giornali4350.

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etruschi di Firenze. Oltre alla compilazione del questionario, egli scrisse una lettera intrisa di contenuti antigiudaici al presidente del suddetto istituto, definendo la persecuzione una giusta punizione divina. Antonio Tamarelli, soprintendente emerito alle antichità e alla belle arti della Sardegna, professore di archeologia, senatore, socio nazionale dell’Accademia dei Lincei. Anch’egli allegò al questionario una lettera in cui mostrò una vera e propria adesione intellettuale alla politica razziale del regime. Tra gli allineati: Luigi Einaudi, economista, senatore; compilò almeno 4 schede del questionario ed aggiunse una nota con la quale specificava di appartenere alla fede cattolica data ab immemorabile. Nel luglio 1933 aveva tessuto un elogio della politica culturale del regime. Anch’egli intervenne privatamente offrendo aiuto ad un suo studente ebreo, R. Fubini, morto ad Auschwitz nel 194. Gioele Solari, professore ordinario di filosofia del diritto all’università di Torino. Nella scheda del questionario precisò le origini nobiliari della propria famiglia e l’assenza nel corso delle generazioni di conversioni all’ebraismo. Gianfranco Malipiero, compositore e musicologo, direttore dell’istituto musicale C. Pollini di Padova e dal 1939 del conservatorio B. Marcello di Venezia. Nel compilare il questionario rispose con un netto NO ai quesiti sulla razza e ad eventuali conversioni. Pochissimi i dimissionari, tra cui : Gaetano de Sanctis, storico dell’antichità, professore nelle Università di Torino e Roma, direttore della sezione Antichità classiche della Enciclopedia Italiana. Perse le cattedra a seguito del suo rifiuto nel 1931 di prestare giuramento di fedeltà al regime fascista. Per lo stesso motivo nel 1934 fu dichiarato decaduto all’Accademia dei Lincei e all’Accademia delle scienze di Torino. Nel 1938 non restituì la scheda del questionario né all’Accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo, né all’Istituto di studi etruschi di Firenze, dal quale si dimise. Nelle memorie pubblicate postume egli riferì che presentò le dimissioni proprio come atto esplicito di protesta contro l’espulsione di colleghi ebrei. Ranuccio Bianchi Bandinelli, archeologo e storico dell’arte antica. Compilò il questionario e diede le dimissioni dall’Accademia senese, senza però motivarne la scelta. Dopo l’8 settebre 1943 diede rifugio ad alcuni ebrei presso la propria abitazione di Geggiano. Aldobrandino Malvezzi de Medici, studioso di storia, politica e diritto coloniale, collaboratore del Corriere della sera e docente all’Istituto Cesare Alfieri di Firenze. Non restituì le schede del questionario a nessuna delle istituzioni culturali a cui apparteneva e di dimise da socio. Il gesto non fu motivato dal disappunto nei confronti dei provvedimenti razziali, né dalla solidarietà nei confronti dei colleghi ebrei, ma poiché ritenne la richiesta offensiva e superflua per un nobile del suo rango. Appare ovvio che egli non comprese la portata sociale e politica del censimento relativo alla razza disposto dal governo. Tra i dissenzienti: Benedetto Croce - come già detto - fu l’unico grande intellettuale italiano a prendere pubblicamente posizione contro i provvedimenti antisemiti, soprattutto nella rivista La Critica e su vari organi di stampa stranieri. Nei suoi taccuini annotò più volte il disagio per la crescente escalation di discriminazione e violenza. Si rifiutò di compilare il modulo del questionario e nel privato si adoperò per aiutare numerosi ebrei costretti ad emigrare. Nel 1940 si impegnò in prima persona per far togliere il sequestro da alcuni libri di autori ebrei presso la case editrice Laterza. Attilio Cabiati, contestò apertamente la politica antisemita del regime perdendo così la cattedra di politica economica e finanziaria all’Università di Genova.

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VI. Conclusione Appare chiaro quindi come l’antisemitismo italiano nella cultura e nella società civile si sia nutrito di stereotipi di varia natura - clericale, nazionalista, razzista, economica, etnica, antropologica - e, attraverso il mezzo della stampa, si sia diffuso in sordina in tutti gli strati della popolazione, non solo presso le classi meno colte, ma anche presso gli intellettuali, la cui adesione spesso fu dovuta a scelte opportunistiche. In numerosi testi consultati più volte appare la figura di un Mussolini inizialmente privo di un sostanziale odio antisemita, di un fascismo delle origini privo di ideali razzisti; le circostanze politiche, sole, non sono in grado di spiegare questa radicale svolta che avvenne all’interno del Fascismo ma che, non va dimenticato, fu accolta senza particolare sdegno dall’intera popolazione italiana. Bibliografia:

L'intellettuale antisemita, a cura di Roberto Chiarini, Marsilio, Venezia 2008.

L'ultimo fascismo, Roberto Chiarini, Marsilio, Venezia 2009.

Nel nome della razza, a cura di R. Burgio, Il Mulino, Bologna 1999.

Ebraismo e antisemitismo in Italia, M. Toscano, FrancoAngeli.

L'università italiana e le leggi antiebraiche, R. Finzi, Ed. Riuniti.

Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, R. De Felice, Einaudi, 1961.

La difesa della razza: politica, ideologia ed immagine del razzismo fascista, F. Cassata, Einaudi,

Torino 2008.

La menzogna della razza, a cura del centro Furio Jesi, Grafis, Bologna 2004.