Colette - La Gatta

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Colette La gatta

© Editions Bernard Grasset, 1933Titolo originale: La Chatte Traduzione di Enrico Piceni© Sellerio editore, 1993

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Eran le dieci e i giocatori del poker familiare cominciavano a dar segni di stanchezza. Camilla lottava contro la fatica di rimaner desta come si lotta a diciannove anni: vale a dire che, a tratti, ritornava chiara e fresca, poi sbadigliava dietro le mani congiunte e ricompariva pallida, col mento bianco, con le guance un po’ nere sotto la cipria color d’ocra e una lagrimuccia all’angolo degli occhi.

«Camilla, dovresti andare a letto.»«Alle dieci, mamma, alle dieci! Come si può andare a letto

alle dieci?»E con lo sguardo chiamava a testimone il fidanzato, già

vinto in fondo ad una poltrona.«Li lasci fare, – disse un’altra voce materna. – Devono

ancora aspettarsi per sette giorni. In questo momento han l’aria un poco intontita, e si capisce.»

«Appunto: ora più, ora meno… Camilla, dovresti proprio andare a letto… E anche noi.»

«Sette giorni! – esclamò Camilla. – Sicuro, oggi è lunedì: ed io che non ci pensavo! Alain, vieni, Alain!»

Scagliò la sigaretta in giardino, ne accese un’altra, mescolò e tagliò il mazzo del poker abbandonato e dispose le carte in modo cabalistico.

«Vediamo un poco se la bella piccola macchina, il roadster nuovo per noi ragazzi, arriverà prima della cerimonia… Guarda, Alain, non c’è trucco: eccolo che arriva, col viaggio e la notizia importante…»

«Chi?»«Ma il roadster, andiamo!»Senza alzar la nuca, Alain girò il capo verso la

portafinestra spalancata dalla quale entrava un dolce profumo di spinaci e di fieno fresco, perché avevan rasato i prati, quel giorno. Anche il caprifoglio, che ammantava un grande albero morto, offriva il miele dei suoi primi fiori. Un tinnir di cristalli annunciò che, sulle braccia tremanti del vecchio Emilio, facevano il loro ingresso gli sciroppi delle dieci, e l’acqua fresca: Camilla si levò per riempire i bicchieri.

Servì per ultimo il fidanzato e gli offri il bicchiere appannato con un sorriso di complicità. Lo contemplò mentre beveva, e di colpo fu turbata dalla bocca di lui che premeva sull’orlo del bicchiere. Ma Alain si sentiva stanco e rifiutò di partecipare a quel turbamento: si limitò a stringere un poco le dita bianche, le unghie rosse protese a riprendere il bicchiere vuoto.

«Vieni a colazione, domani?» gli chiese Camilla sottovoce.

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«Domandalo alle carte.»Camilla fece un passo indietro ed abbozzò una mimica

clownesca:«Mai canzonare Ventiquattr’ore! Poter canzonare coltelli

in croce, canzonare soldi bucati, canzonare cinema sonoro, canzonare Padreterno…».

«Camilla!».«Oh, scusa, mamma… Ma non scherzare con

Ventiquattr’ore. Lui buon piccolo diavolo, nero rapido gentil messaggero, fante di picche sempre smanioso…»

«Smanioso di che?»«Ma di parlare, si capisce! Pensa un po’: porta le notizie

delle prossime ventiquattr’ore e anche di quarantotto! Se lo accompagni con due carte in più a destra e a manca predice tutta la settimana…»

Parlava in fretta grattando con l’unghia acuta, agli angoli delle labbra, due piccole sbavature di belletto rosso. Alain la stava a sentire senza noia e senza indulgenza: la conosceva da molti anni e le dava il suo esatto valore di giovinetta moderna. Sapeva come guidasse l’automobile, un po’ troppo in fretta, un po’ troppo bene, con un grosso improperio sempre pronto, sulla bocca fiorita, per i conducenti di tassi. Sapeva che mentiva senza arrossire come i bimbi e gli adolescenti, ch’era capace di ingannare i genitori per raggiungere Alain dopo pranzo nei locali notturni, dove ballavano insieme: ma bevevano solo aranciate perché ad Alain l’alcool non piaceva.

Prima del loro fidanzamento ufficiale gli aveva concesso, al sole e all’ombra, le sue labbra (dopo averle prudentemente pulite), i suoi seni impersonali sempre prigionieri di una doppia tasca di tulle e di pizzo, e le sue bellissime gambe inguainate da calze impeccabili comperate di nascosto, calze «come quelle di Mistinguett, sai? Attento alle mie calze, Alain!». Le sue calze, le sue gambe: ecco quel che aveva di meglio.

“E’ graziosa – commentava Alain fra sé – perché nessuno dei suoi lineamenti è brutto, perché è regolarmente bruna e il brillar dei suoi occhi si accorda coi capelli puliti, lavati sovente, ingommati e color pianoforte nuovo.”Sapeva anche che poteva diventare, a tratti, brusca e ineguale come un fiume di montagna.

Camilla parlava ancora del roadster.«Ma no, papà, figurati se permetterò che Alain guidi

durante la nostra traversata della Svizzera! E’ troppo distratto, e poi, in fondo non gli piace veramente stare al volante. Lo conosco bene, io!».

“Mi conosce lei, – ripetè Alain fra sé. – Forse lo crede davvero. Anch’io le ho ripetuto venti volte: Ti conosco, ragazza

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mia! E anche Saha la conosce. A proposito, dov’è questa Saha?”.

Volse in giro lo sguardo in cerca della gatta e si sradicò dalla sua poltrona, prima una spalla, poi l’altra, poi le reni, e il sedere per ultimo; discese piano piano i cinque gradini della scalinata d’ingresso.

Il giardino, vasto, circondato da altri giardini, esalava nella notte l’odor grasso della terra da fiori nutrita, provocata senza posa alla fertilità. Da quando era nato Alain la casa aveva subito pochi mutamenti. “Una casa da figlio unico” pensava Camilla, che non dissimulava il proprio disprezzo per il tetto a pan di zucchero, per le finestre dei piani superiori incastrate nell’ardesia, e per certi modestissimi fregi ornamentali ai lati delle portefinestre del pianterreno.

Anche il giardino, come Camilla, pareva disprezzasse la casa. Altissimi alberi, dai quali pioveva la nera peluria calcinata che gli olmi perdono quando sono molto vecchi, la nascondevano agli occhi dei vicini e dei passanti. Un poco più lontano, in un «terreno da vendere», nel cortile di un liceo si potevano ritrovare gli stessi vecchi olmi, sperduti a coppie, relitti di una quadrupla e principesca allea, vestigia di un parco devastato dalla nuova Neuilly.

«Alain, dove sei?»Camilla lo chiamava dall’alto della scalinata, ma per

capriccio egli si astenne dal rispondere e raggiunse le tenebre più sicure, tentando col piede gli orli del praticello rasato.

A sommo del cielo stava una luna velata, resa più grande dalla bruma delle prime giornate tiepide. Un solo albero – un pioppo dalle giovani foglie verniciate raccoglieva il chiaror lunare, e gocciolava la luce come una cascata. Un riflesso argenteo si slanciò fuor da un macchione, guizzò come un pesce contro le gambe di Alain.

«Ah, eccoti, Saha! Ti cercavo. Perché non sei venula a tavola, questa sera?»

«Meruenn, – rispose la gatta, – meruenn.»«Come, meruenn? E perché meruenn? Che maniera di

parlare è mai questa?»«Meruenn, – insistè la gatta, – meruenn.»Alain accarezzò teneramente, a tentoni, la lunga schiena

più morbida che un pelame di lepre, si trovò sotto le dita le piccole narici fresche, dilatate da un attivo ronron.

“E’ la mia gatta, la gatta mia, mia…”«Meruenn, – diceva bassissimo la gatta, – ruenn.»

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Un nuovo richiamo di Camilla giunse dalla casa, e Saha scomparve sotto una siepe di fusari tagliati, verdeneri come la notte.

«Alain! Ce ne andiamo!»Egli corse verso la scalinata, accolto dal riso di Camilla.«Vedo i tuoi capelli che corrono, – gridava la fanciulla. –

Ma come si fa ad esser così biondi?»Alain affrettò la corsa, superò d’un balzo i cinque scalini e

trovò Camilla sola in salotto.«E gli altri?» le chiese sottovoce.«Guardaroba, – diss’ella sullo stesso tono. – Guardaroba e

visita ai “lavori”. Desolazione generale. “Sempre allo stesso punto! Non si finirà mai!”. E noi, come ce ne infischiamo! Se fossimo furbi lo terremmo per noi lo “studio” di Patrick. Patrick se ne cercherà un altro. Vuoi che me ne incarichi io?»

«Ma Patrick lascerà il suo studio solo per farti piacere!»«Naturalmente! E’ proprio di questo si approfitta!»Ella era raggiante di una immoralità esclusivamente

femminile, alla quale Alain non riusciva ad abituarsi. Ma egli la rimproverò soltanto per quel «si approfitta» in luogo del «noi». Camilla credette ad un rimprovero dettato dalla tenerezza.

«La prenderò presto, l’abitudine di dire noi…»Per dargli la tentazione di baciarla, ella spense, come per

gioco, la luce centrale; l’unica lampada rimasta accesa sopra un tavolino proiettò dietro la giovinetta un’ombra nitida e lunga, Camilla, colle braccia rialzate e annodate dietro la nuca, invitava Alain collo sguardo; ma quello non aveva occhi che per l’ombra.

“Com’è bella sul muro! Di una giusta snellezza, proprio come piacerebbe a me. ”

Sedette per confrontare la persona con l’ombra. Lusingata, Camilla arcuò la vita, sporse i seni e fece «la baiadera»: ma l’ombra conosceva quel gioco meglio di lei. Snodando le mani la giovinetta avanzò, preceduta dall’ombra esemplare. Giunta alla portafinestra spalancata, l’ombra balzò da un lato, fuggi nel giardino sulla ghiaia rosea di un viale, strinse, nel passare, tra le sue lunghe braccia, il pioppo rorido di luna…

«Peccato!» sospirò Alain. E rimproverò mollemente a se stesso la propria inclinazione ad amare, in Camilla, una forma migliorata o immobile di Camilla, quell’ombra, per esempio, o un ritratto, o il ricordo vivace ch’ella gli lasciava di certi abiti, di certe ore…

«Che cos’hai, questa sera? Vieni almeno ad aiutarmi a indossar la mia cappa.»

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Alain fu urtato dal sottinteso di quell’«almeno”, anche dal fatto che Camilla, varcando prima di lui la porta che conduceva in guardaroba e in cucina, avesse alzato impercettibilmente le spalle.

“Non ha proprio bisogno di alzarle, le spalle: ci pensano la natura e l’abitudine. Quando si abbandona, l’attaccatura del collo la fa apparire insaccata. Leggermente, leggermente insaccata. ”

In guardaroba trovarono la mamma di Alain e i genitori di Camilla che battevano i piedi – come se avessero freddo – sul tappeto di corda, lasciandovi tracce color di neve sporca.

La gatta seduta sul davanzale esterno della finestra li guardava con uno sguardo poco ospitale, ma senza malanimo. Alain prese a modello la pazienza di Saha e sopportò le rituali manifestazioni di pessimismo.

«Fare e disfare…»«In otto giorni non s’è mosso un passo avanti…»«Se devo dire proprio quel che penso, ci vorrà un mese,

ma che dico? due mesi ci vorranno, mia cara, prima che il loro nido…»

Alla parola «nido» Camilla si precipitò nella pacifica mischia in modo così brusco che Alain e Saha chiusero gli occhi.

«Ma dal momento che abbiamo rimediato a tutto! Anzi, sarà un divertimento accamparci in casa di Patrick: e per lui sarà una bazza perché è in bolletta… scusa mamma, è senza un soldo… Si fanno le nostre valigie e – hoplà – in pieno cielo, al nono piano… Vero, Alain?»

Egli riapri gli occhi, sorrise vagamente, e le posò la cappa chiara sulle spalle. Lo specchio, in faccia a loro, gli rimandò lo sguardo di Camilla, scuro di rimprovero: non ne fu intenerito.

“Non l’ho baciata sulla bocca mentre eravamo soli. Ebbene, no, non l’ho baciata sulla bocca. Oggi non ha avuto il suo saldo di ‘baci-sulla-bocca’. Ha avuto il bacio di mezzogiorno meno un quarto in un viale del Bois, quello delle due, dopo il caffè, quello delle sei e mezzo in giardino: le manca quello della sera. Bene: lo noti a mio debito, se non è contenta… Ma che ho? Sono ubriaco di sonno. Che vita idiota! Ci vediamo troppo e male. Lunedì me ne andrò tranquillamente in fabbrica e…

Sentì coll’immaginazione salirgli alle narici l’acidità chimica delle pezze di seta nuova. Ma il sorriso impenetrabile del signor Veuillet gli apparve come in sogno, e come in sogno udì parole che, a ventiquattr’anni, non aveva ancora disimparato a temere: “No, no, mio giovane amico: la spesa di una nuova macchina contabile che costa diciassettemila franchi

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può essere ammortizzata nel corso dell’anno? Ecco il problema. Permetta al più vecchio collaboratore del suo povero babbo…”.

E ritrovando nello specchio l’immagine vendicativa, i begli occhi neri che lo scrutavano strinse Camilla fra le braccia.

«Ma Alain!»«Lasciali fare, cara… Poveri ragazzi!» Camilla arrossi, e si

liberò dalle braccia di Alain, poi gli offri la guancia con una grazia così fraterna e compagnona che Alain fu lì lì per rifugiarsi sulla sua spalla: “Andare a letto, dormire… Oh, Dio mio, andare a letto, dormire…”.

Dal giardino giunse la voce della gatta: «Meruen… Rrrruen».

«Senti la gatta! E’ certo in caccia, – disse serenamente Camilla. – Saha! Saha!» La gatta tacque.

«In caccia? – protestò Alain. – Ma che dici? Anzitutto siamo in maggio, e poi dice meruen.» «E allora?»

«Non direbbe meruen se fosse in caccia. Quello che senti ora, cosa molto strana tra parentesi, è l’avvertimento, il grido, quasi, per chiamare a raccolta i piccoli.»

«Signore Iddio! – gridò Camilla alzando le braccia. Se Alain si mette ad “interpretare” la gatta non la finiamo più!»

Discese a balzi gli scalini, mentre sotto la mano tremolante del vecchio Emilio, due grossi pianeti azzurrini – alla moda antica – si accendevano in giardino.

Alain camminava con Camilla, davanti agli altri. Al cancello, la baciò dietro l’orecchio, respirò, attraverso un profumo che la invecchiava, un buon odore di pane e di pelame oscuro e strinse, sotto al mantello, i gomiti nudi della giovinetta. Quand’ella sedette al volante davanti ai genitori, si sentì sveglio e allegro.

«Saha! Saha!»La gatta scaturì dall’ombra, quasi sotto i suoi piedi, si mise

a correre quand’egli si mise a correre, lo precedette a lunghi balzi. Egli la intuiva, senza vederla; Saha fece irruzione prima di lui nell’atrio, e ritornò ad attenderlo a sommo della scalea.

Con la gorgiera gonfia, le orecchie abbassate, lo guardava arrivare provocandolo con lo sguardo dei suoi occhi gialli, profondamente incastonati, sospettosi, fieri, padroni di se stessi..

«Saha! Saha!»Pronunciato in un certo modo, a mezza voce con l’acca

fortemente aspirata, il suo nome la rendeva folle: essa frustò l’aria con la coda, balzò sul tavolino da poker e colle sue mani di gatta ben aperte sparpagliò le carte da gioco.

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«Quella gatta, quella gatta! – disse la voce materna. – Non ha alcuna nozione dell’ospitalità. Guarda com’è contenta che i nostri amici se ne siano andati!»

Alain uscì in una risata infantile, la risata che riserbava alla casa e alla stretta intimità, la risata che non oltrepassava il viale degli olmi e il cancello nero. Poi sbadigliò freneticamente.

«Dio, che aria stanca hai! Come si può aver l’aria tanto stanca quando si è felici? Vuoi ancora un po’ d’aranciata? No? Allora possiamo salire… Lascia, penserà Emilio a spegnere»

“Mamma mi parla come se fossi convalescente, o come se stessi per avere una ‘ricaduta’ di febbre tifoide…”

«Saha, Saha! Che diavolo scatenato! Alain, non potresti ottenere che quella gatta…»

Per un sentiero verticale a lei noto, e segnato sul broccatello consunto della tappezzeria, la gatta s’era arrampicata fin quasi al soffitto. Un attimo imitò la lucertola grigia, appiattita contro il muro, colle zampe ben divaricate, poi finse un attacco di vertigine ed arrischiò un piccolo, manierato grido di richiamo. Docilmente Alain venne a porsi sotto di lei, offri le spalle e Saha discese incollata al muro come una goccia di pioggia lungo un vetro: approdò sulla spalla di Alain, poi insieme raggiunsero la loro camera da letto.

Un lungo grappolo di citiso pendulo, nero davanti alla finestra aperta, divenne un lungo grappolo giallo chiaro quando Alain accese la lampada centrale e la piccola lampada vicino al cuscino.

Versò la gatta sul letto inclinando la spalla e si mise a gironzolare fra la camera e il bagno, da uomo stanco, troppo stanco per decidersi ad andare a letto.

Si sporse sul giardino, cercò, con uno sguardo ostile, l’ammasso bianco dei «lavori in corso», aprì e richiuse tiretti, scatole ove giacevano i suoi veri segreti: un dollaro d’oro, un grosso anello, un ciondolo d’agata appeso alla catena d’orologio di suo padre, alcune bacche rosse e nere provenienti da una pianta esotica; un rosario da comunicando, in madreperla; un esile braccialetto spezzato, ricordo di una giovane amante tempestosa, passata in fretta e chiassosamente nella sua vita… Il rimanente del suo patrimonio terreno consisteva in libri rilegati e in brossura, in lettere, fotografie…

Si gingillava, fantasticando, con quei piccoli rottami, brillanti e senza valore come le pietruzze colorate che si trovano nei nidi degli uccelli ladri.

“Bisogna che butti via tutta questa roba… O debbo lasciarla qui… Non ci tengo… O ci tengo, invece?”

La sua condizione di figlio unico faceva sì ch’egli fosse attaccato a tutto quanto non aveva mai diviso con altri o ad altri

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conteso. Vide il proprio volto riflesso nello specchio, e s’irritò contro se stesso.

«Ma vai a letto dunque! Sei sconquassato in modo da far vergogna» disse al bel giovanotto biondo. “Mi trovan bello soltanto perché sono biondo. Bruno, sarei orribile.”

Criticò ancora una volta il proprio naso un po’ cavallino, la guancia un po’ lunga: ma ancora una volta sorrise per mostrarsi i denti, accarezzò con mano leggera l’onda naturale dei capelli biondi troppo fitti, e fu soddisfatto del colore dei suoi occhi, grigioverdi fra le ciglia oscure. Due pieghe gli si formarono nelle guance, da una parte e dall’altra del suo sorriso, l’occhio s’infossò, cerchiato d’azzurro. La barba chiara e ispida, rasata il mattino, già gli ingrossava il labbro.

“Che muso! Faccio pietà a me stesso. Anzi disgusto… Che bella faccia, per una prima notte di matrimonio!…

Dal fondo dello specchio Saha, da lontano, gravemente lo scrutava. «Vengo,vengo!»

Si buttò nel fresco campo delle lenzuola senza disturbare la gatta. Le dedicò rapidamente alcune litanie rituali che si addicevano alle grazie caratteristiche e alle virtù d’una gatta dei Certosini, pura di razza, piccola e perfetta.

«Orsacchiottino paffuto… Piccola, piccola, piccola gatta… Piccioncino azzurro… Diavolino color di perla…»

Non appena egli spense la luce la gatta si mise a raspar delicatamente il petto dell’amico trapassando ogni volta con un’unghia sola la seta del pigiama e toccando l’epidermide quel tanto che bastava a procurare ad Alain un ansioso piacere.

«Ancora sette giorni, Saha» sospirò il giovane.Fra sette giorni e sette notti una vita nuova, in una nuova

casa, con una giovane donna innamorata e indomita…Accarezzò il pelame della gatta, caldo e fresco, profumato

di bosso appena reciso, di tuia, di prato florido.Saha faceva le fusa a piena gola e, nell’ombra, gli diede un

bacio da gatta posando, per un attimo, il suo naso umido sotto il naso di Alain, fra le narici e il labbro. Bacio immateriale, rapido e raramente accordato. «Ah, Saha, i nostri sonni…»

I fari di un’automobile, nel viale più vicino, trapassarono il fogliame con due bianchi raggi giganti. Sul muro della camera trascorsero le ombre ingrandite del citiso, di una magnolia isolata in mezzo ad un prato. Al di sopra del proprio volto Alain vide brillare e spegnersi il volto di Saha, sdraiata, cogli occhi fissi.

«Non farmi paura» la supplicò.Sotto l’influenza del sonno ritornava debole e chimerico,

come irretito in una interminabile e morbida adolescenza…

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Chiuse gli occhi, mentre Saha, vigile, seguiva il carosello dei segni misteriosi che, nell’oscurità, s’agitano intorno agli uomini addormentati.

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Alain sognava profusamente, e discendeva nel sogno per piani successivi. Quando si destava, poi, non raccontava mai le sue avventure notturne, geloso di un dominio fatto esteso da un’infanzia delicata e mal diretta, da lunghe permanenze fra le coltri durante la sua crescita brusca di lungo ragazzo filiforme.

Amava i suoi sogni, li coltivava e per nulla al mondo avrebbe tradito le tappe che lo attendevano. Al primo «alt», mentre percepiva ancora il suono dei clacson nella strada, incontrò volti girevoli ed estensibili, familiari e difformi ch’egli attraversò come avrebbe attraversato, salutando a destra e a sinistra, una folla benevola. Girevoli, convessi, si avvicinavano ad Alain facendosi sempre più grandi. Chiari su fondo cupo si schiarivano ancora come se avessero ricevuto la luce dal dormiente stesso. Muniti di un grosso occhio evolvevano secondo una rotazione leggera. Ma una volta sottomarina li respingeva lontano appena toccavano un’invisibile barriera. Nell’umido sguardo di un mostro rotondo, nella pupilla di una luna grassoccia o in quella dell’arcangelo traviato e crinito di raggi, Alain riconosceva la stessa espressione, la stessa «intenzione» che nessuno di essi aveva ancora chiarito e l’Alain del sogno notava con sicurezza: “Me la diranno domani…”.

Talvolta quelle apparenze perivano scoppiando, si sparpagliavano in detriti debolmente luminosi; talaltra esistevano solo come braccia, mani, fronte, globo ottico pieno di pensieri, polvere astrale di nasi, di menti, e sempre quell’occhio protuberante che, proprio al momento di spiegarsi, girava e mostrava l’altra sua faccia nera…

Alain addormentato passò, sotto la vigilanza di Saha, attraverso il suo naufragio quotidiano, oltrepassò l’universo delle figure convesse e degli occhi, discese attraverso una zona oscura che ammetteva soltanto un nero formidabile, indicibilmente variato e come composto di colori sommersi, e approdò finalmente al sogno maturo, completo e ben formato.

Cozzò contro una parete producendo un gran rumore simile al suono formicolante e prolungato di un cimbalo e sboccò nella città del sogno, fra i passanti, gli abitanti in piedi sulla soglia delle loro case, i vigili coronati d’oro nelle piazze, e le comparse che facevano ala al suo passaggio. Lui, Alain, era completamente nudo, munito di un bastoncino, ed estremamente lucido e scaltro: “Se cammino un po’ in fretta, dopo essermi annodato la cravatta in un certo modo, e soprattutto fischiettando, ci sono molte probabilità che nessuno si accorga della mia nudità”.

Si annodò la cravatta a forma di cuore, e fischiettò. “Già ma questo non si chiama fischiettare. Quel che io sto facendo sono le fusa. A fischiettare si fa così. ” E ancora faceva le fusa. “Bene. Non è il caso di scoraggiarsi. In fondo non si tratta che

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di attraversare questa piazza inondata di sole e di girare intorno al chiosco dove suona la banda militare. Un gioco da ragazzi. Mi slancio facendo qualche salto mortale per sviare l’attenzione e approdo nella zona d’ombra.”

Ma si sentiva paralizzato dallo sguardo caldo e minaccioso di una comparsa bruna, dal profilo greco perforato da un grande occhio di carpione…

“La zona d’ombra, la zona d’ombra…”Due lunghe braccia d’ombra, graziose e tutte stormenti di

foglie di pioppo accorsero alla parola «ombra» e portarono Alain a riposare, durante l’ora più ambigua della breve notte, nella tomba provvisoria dove i vivi in esilio sospirano, si bagnano di pianto, lottano e soccombono per rinascere – smemorati – col giorno.

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Il sole alto sfiorava la finestra quando Alain si destò. Il grappolo giallo di citiso pendeva, lucidissimo, sopra la testa di Saha, una Saha diurna, innocente e azzurra, assorta nella sua toletta.

«Saha!»«Me-rrenn!» rispose la gatta sonoramente.«E’ colpa mia se hai fame? Potevi andartene da basso a

chiedere il tuo latte, se avevi fretta.»Ella s’addolcì nell’udir la voce dell’amico, ripetè la

medesima parola in tono più sommesso, mostrando le sue fauci sanguigne, i bianchi canini. A quello sguardo pieno di leale ed esclusivo amore, Alain si allarmò:

«Dio mio, quella gatta! Che fare di quella gatta? M’ero dimenticato che sto per prendere moglie… E’ la necessità di abitare in casa di Patrick…».

Si volse verso il ritratto di Camilla, su acciaio cromato, dove la fanciulla brillava, come bagnata d’olio, con una macchia lucente al posto dei capelli, la bocca di smalto vetrificato d’un nero d’inchiostro, gli occhi vasti tra le palizzate delle ciglia.

«Magnifico lavoro!» brontolò Alain.Dimenticava di averla scelta proprio lui, per la sua camera,

quella fotografia che non somigliava né a Camilla, né ad alcun altro.

«Quell’occhio… L’ho già visto, quell’occhio.»Prese una matita, rimpicciolì un poco l’occhio, attenuò

l’eccesso di bianco, e non riuscì che a sciupare il ritratto.«Muek, muek, maaa» disse Saha rivolgendosi ad un

piccolo bombice prigioniero fra il vetro e la tendina di tulle. Le tremava il mento leonino, balbettava di cupidigia. Alain colse la farfalla con due dita e la offerse alla gatta.

«Antipasto, Saha.»Un rastrello, in giardino, pettinava con noncuranza la

ghiaia. Alain vide, col pensiero, la mano che guidava il rastrello, mano di donna ormai quasi vecchia, mano macchinale ostinata e liscia sotto un grosso guanto da gendarme.

«Buongiorno, mamma» gridò Alain.Gli rispose, da lontano, una voce; una voce di cui non

ascoltava le parole, murmure affettuoso, insignificante e necessario…

Discese di corsa, colla gatta alle calcagna. In pieno giorno, Saha sapeva mutarsi in una specie di cane turbolento, precipitar chiassosamente giù dalle scale, raggiungere il giardino a salti

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rozzi e privi d’ogni magia. Sedette sul tavolino della colazione, fra le macchie di sole, vicino al piatto di Alain.

Il rastrello, che s’era taciuto, lentamente riprese il suo lavoro.

Alain versò il latte di Saha, vi diluì un pizzico di zucchero e un pizzico di sale, poi si servi con gravità. Quando mangiava da solo non aveva da arrossire di certi gesti elaborati dal ricordo incosciente dell’età maniaca – fra i quattro e i sette anni. Poteva liberamente accecare di burro tutti gli occhi del pane e aggrottar le sopracciglia quando il livello del caffellatte oltrepassava una linea d’immersione costituita da un certo arabesco d’oro. Alla prima tartina, grossa, doveva seguirne una sottile, mentre la seconda tazza di caffellatte esigeva una zolla di zucchero supplementare… E poi un piccolissimo Alain dissimulato in fondo al giovanottone biondo e bello, aspettava con impazienza che la fine del pasto gli consentisse di leccare per ogni verso il cucchiaio del vasetto del miele, un vecchio cucchiaio d’avorio annerito e cartilaginoso.

“Camilla in questo momento fa colazione in piedi e camminando, morde una lama di prosciutto magro tra due fette di pan tostato. Posa e dimentica, su tutti i mobili, una tazza di tè amaro.”

Alzò gli occhi sul suo dominio di fanciullo privilegiato, dominio ch’egli prediligeva e credeva di conoscere. Sopra il suo capo i vecchi olmi severamente allineati fremevano soltanto colla punta delle loro giovani foglie. Una coltre di silene rosa, orlata di myosotis, spiccava in mezzo a un prato. L’albero morto lasciava pendere dal suo gomito scarnito una sciarpa di polygonium, palpitante ad ogni soffio di vento, misto a clematidi violette a quattro petali. Un apparecchio per innaffiare, ritto sopra l’unico piede, roteava in mezzo al prato aprendo la sua coda di pavone bianco attraversata da un instabile arcobaleno.

«Un giardino così bello, un giardino così bello» mormorò Alain. Misurò, offeso, il silenzioso ammasso di calcinacci, di travi e di sacchi di gesso che disonorava il lato occidentale della casa.

“Già, è domenica, non lavorano… Per me, era domenica tutta la settimana. ”

Sebbene fosse giovine, capriccioso e coccolato viveva secondo il ritmo commerciale dei sei giorni, e sentiva la domenica.

Un piccione bianco si mosse furtivo dietro i cespugli carichi di grappoli rosati.

“Non è un piccione, è la mano inguantata della mamma.”

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Il grosso guanto bianco, a fil di terra, raddrizzava uno stelo, strappava qualche filo d’erbaccia cresciuto nella notte. Due verdoni vennero a bezzicar sulla ghiaia le briciole della colazione, e Saha li segui coll’occhio, senza riscaldarsi. Ma una cingallegra, sospesa a testa in giù al ramo di un olmo proprio sopra la tavola, chiamò la gatta, per sfida. Seduta, colle zampe unite, il suo gorgerino da bella donna ben teso e la testa all’indietro, Saha cercava di dominarsi, ma le guance le si gonfiavano pel furore e le narici le si inumidivano.

«Bella come un demonio, più bella di un demonio» le disse Alain.

Volle carezzarle il cranio largo, abitato da un pensiero feroce, e la gatta lo morse bruscamente per dare uno sfogo al proprio corruccio. Alain contemplò sul palmo della propria mano due perline di sangue con l’ansia iraconda di un uomo morso dalla sua femmina in pieno piacere.

«Cattiva… Cattiva… Guarda che cosa mi hai fatto!»Saha abbassò la fronte, fiutò il sangue e interrogò timorosa

il volto dell’amico: ella sapeva come farlo sorridere, come intenerirlo. Colse sulla tovaglietta un biscottino e lo tenne alla maniera degli scoiattoli.

La brezza di maggio passava su di loro, piegava un rosaio giallo che odorava di ginestra. Fra la gatta, il rosaio, le cingallegre a coppie e gli ultimi maggiolini, Alain assaporò uno di quei momenti che sfuggono alla durata umana, l’angoscia e l’illusione di smarrirsi nella propria infanzia. Gli olmi ingigantirono, il viale larghissimo si perde sotto gli archi d’un pergolato scomparso… poi, come il dormiente in preda a un incubo che cade da una torre, Alain riprese coscienza dei suoi ventiquattr’anni.

“Avrei dovuto dormire un’ora di più: sono le nove e mezzo appena. E’ domenica. Anche ieri per me era domenica… Troppe domeniche… Ma domani…”

Sorrise a Saha con aria di complicità.«Domani, Saha, c’è l’ultima prova dell’abito bianco. Senza

di me… È una sorpresa… Camilla è bruna abbastanza perché il bianco le doni… E intanto io andrò a veder la macchina. Un roadster ha l’aria un po’ “gagà”, come dice Camilla… Ecco che cosa ci si guadagna ad essere “sposini tanto giovani”…»

Con un balzo verticale, salendo nell’aria come un pesce verso la superficie dell’acqua, la gatta raggiunse una pieride orlata di nero. La mangiò, tossi, sputò un’ala, si leccò con affettazione. Il sole scherzava sul suo pelame lilla e azzurrino come la gola dei colombi selvatici.

«Saha!»Ella volse il capo e gli sorrise apertamente.

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«O piccolo puma! Gattina cara cara! Creatura delle cime! Come farai a vivere quando saremo separati? Vuoi che entriamo in un convento tutt’e due? Vuoi che… non so, io…!»

Saha lo guardava, lo ascoltava con aria tenera e distratta, ma ad una inflessione più tremula della voce amica distolse lo sguardo.

«Intanto, verrai con noi perché non hai paura dell’automobile. Se invece del roadster prendessimo un cabriolet, dietro i sedili c’è uno sporto…»

Tacque e s’incupì al recente ricordo di una voce di giovinetta, voce vigorosa, ben timbrata, fatta per i richiami all’ aria aperta, appoggiata arditamente sulle grandi vocali A e O, una voce che sapeva elencare tutti i meriti del roadster. “E poi, sai Alain, quando si abbassa il parabrise, e si preme tutto l’acceleratore, è straordinario: si sente la pelle della faccia che retrocede fino alle orecchie…”.

«Che retrocede fino alle orecchie! Te lo immagini, Saha? Che orrore!»

Strinse le labbra, fece un viso lungo da ragazzo ostinato, esperto nel dissimulare.

“Non è ancor detta… E se preferisco il cabriolet, io? Voglio sperare che avrò anch’io voce in capitolo.”

Squadrò il rosaio giallo come se fosse la giovinetta dalla bella voce. E di nuovo il viale si allargò, gli olmi divennero più alti, il pergolato defunto resuscitò. Rifugiato contro le sottane di due o tre zie, altiere e colla fronte perduta fra le nubi, un Alain fanciullo spiava un’altra famiglia compatta, fra i blocchi della quale brillava una ragazzina molto bruna, con grandi occhi e capelli nerissimi e inanellati che gareggiavano di splendore ostile e minerale.

“Di’ buongiorno…, perché non vuoi dire buongiorno?”Era una voce d’altri tempi, indebolita, conservata

attraverso anni di infanzia, di adolescenza, di scuola, di noia militare, di finta gravità, di finta competenza commerciale. Camilla non voleva dir buongiorno. Si succhiava l’interno della guancia e accennava una breve rigida reverenza da bimba.

“Adesso la chiama ‘reverenza a storcipiede’… Ma quando è in collera si morde ancora l’interno della guancia… Curiosa! E non è brutta, in quei momenti…”

Si eccitò onestamente pensando alla fidanzata, contento, in sostanza, che fosse sana e un po’ comune nella foga sensuale. Evocò, nel mattino innocente, immagini atte a provocar talvolta la sua vanità e la sua impazienza, talaltra a suscitare l’apprensione e persino lo smarrimento… Quando uscì dal suo turbamento trovò il sole troppo bianco e il vento secco. La gatta era scomparsa, ma non appena Alain si alzò, gli fu vicina e

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l’accompagnò camminando con un passo lungo da cerbiatta, evitando i sassolini rotondi della ghiaia rosea. Si avvicinarono insieme ai “lavori”, ispezionarono con eguale ostilità il mucchio di calcinacci, la portafinestra nuova senza vetri, inserita in un muro, gli strumenti d’idroterapia, le piastrelle… Egualmente offesi valutarono il danno sofferto dal loro passato e dal loro presente. Un vecchio tasso, sradicato, moriva lentissimamente, a testa in giù, sotto la sua capigliatura di radici.

«Mai e poi mai avrei dovuto permettere una cosa simile, – mormorò Alain. – È una vergogna. Tu, Saha, quel tasso lo conoscevi solo da tre anni, ma io…»

In fondo al buco lasciato dal tasso, Saha fiutò la traccia di una talpa di cui l’immagine, se non l’odore, le sali al cervello. Per un minuto si lasciò prendere dalla frenesia, raspò come un foxterrier, si rotolò come una lucertola, saltò sulle quattro zampe come un rospo, covò una pallottola di terra fra le cosce come fa il topo di campagna coll’uovo rubato, balzò fuori dal buco in modo prodigioso, e si ritrovò seduta sul praticello, fredda, pudica, padrona del proprio respiro.

Alain, grave, non s’era mosso. Sapeva restar serio quando i demoni di Saha la trascinavano fuor di lei stessa. L’ammirazione e la comprensione dei gatti, rudimenti che gli avevano permesso poi di interpretare Saha con facilità, erano innate in lui. Alain la leggeva come un capolavoro dal giorno in cui, ritornando da un’esposizione felina, aveva posato sul praticello rasato di Neuilly una gattina di cinque mesi comperata a motivo della sua testina perfetta, della sua precoce dignità, della sua modestia senza speranza dietro le sbarre di una gabbia.

«Perché non ha comperato invece un bel gatto d’Angora?» gli aveva chiesto Camilla.

“Mi dava del lei, a quell’epoca… – pensava Alain. Non era soltanto una gattina ch’io portavo a casa: ma l’intera nobiltà felina, il suo illimitato disinteresse, il suo saper vivere, le sue affinità coi più eletti fra gli umani…” Arrossi e si scusò mentalmente: “Vedi, Saha, solo gli eletti posson capirti.”

Non era ancor giunto a pensar «somiglianza» invece di «comprensione», perché apparteneva ad un ambiente umano che non vuol riconoscere e neppur concepire le proprie parentele animali. Ma, all’età in cui gli altri desiderano un’automobile, un viaggio, una rilegatura rara, un paio di sci, Alain era rimasto pur sempre ilgiovanottochehacomperatoungattino. Il fatto aveva avuto una grande eco nel suo piccolo universo. Gli impiegati della Ditta Amparat & figlio in rue Petits-Champs ne eran rimasti sbalorditi e il signor Veuillet aveva chiesto informazioni intorno alla «bestiolina».

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«Prima di averti scelto, Saha, non avevo forse mai saputo come si potesse scegliere… Quanto al resto… Il mio matrimonio fa contenti tutti, compresa Camilla… E, qualche volta, fa contento anche me… Ma…» Si alzò dalla panchina verde, assunse il sorriso d’importanza del figlio Amparat che acconsente a sposare la piccola delle «essiccatrici Malmert», “una figliola che non è del tutto al nostro livello”, come diceva la signora Amparat. Ma Alain non ignorava che i Malmert-delle-macchine parlando degli Amparat-della-seta non dimenticavano mai di soggiungere, levando alto il mento: “Gli Amparat non sono più nell’industria della seta, madre e figlio hanno conservato solo una compartecipazione alla Ditta, e il figlio non la fa da padrone…”.

Guarita dalla sua stravaganza, coll’occhio dolce e dorato, la gatta pareva attendere la ripresa del colloquio mentale, del murmure telepatico verso il quale tendeva un orecchio orlato d’argento.

“E nemmeno tu sei soltanto un puro e scintillante spirito di gatto, no, nemmeno tu, – riprese Alain. – Il tuo primo seduttore, quel gattaccio bianco senza coda, ricordati, o bruttona, o svergognata, o peccatrice sotto la pioggia…”

«Che cattiva madre, la sua gatta! – aveva detto Camilla, indignata. – Non pensa nemmen più ai gattini che le han portato via!»

“Parole da giovinetta, – riprese Alain diffidente. Le giovinette son sempre buone madri, prima.”

Un colpo di campanello grave e rotondo cadde dall’alto dell’aria tranquilla, e Alain si alzò d’un balzo, come colto in fallo, al rumor della ghiaia macinata dalle ruote.

«Camilla! Dio mio: son le undici e mezzo!»Si strinse addosso la giacca del pigiama, annodò la cintura

con mano così nervosa che se ne rimproverò:«Ma che ho? Andiamo: fra una settimana capiterà ben

altro… Saha, le andiamo incontro?».Ma Saha era scomparsa e già Camilla avanzava

calpestando l’erba con passo ardito. “Ah! E’ veramente graziosa!”

Il sangue con un tuffo gradevole gli sali alla gola, gli arrossò le guance, ed egli si abbandonò completamente allo spettacolo di Camilla tutta vestita di bianco, con un pennellino di capelli neri ben tagliato sulle tempie, una sottile cravatta rossa al collo, e l’identico rosso sulle labbra. Dipinta con arte, con moderazione, la sua giovinezza non riusciva evidente che dopo qualche minuto: allora si scorgeva la guancia candida sotto l’ocra, la palpebra senza rughe sotto un po’ di cipria grigia, intorno all’occhio grande e quasi nero. Il brillante nuovo

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nuovo, alla sua mano sinistra, tagliava la luce in mille sprazzi colorati.

«Oh! – esclamò, – non sei ancora pronto! Con questo tempo!»

Ma s’interruppe nel vedere gli scarmigliati e ruvidi capelli biondi, il petto nudo sotto il pigiama, il rossore di Alain: e il suo volto di giovinetta espresse in modo così chiaro la calda indulgenza della donna, che Alain non osò più darle il bacio delle dodici meno un quarto, il bacio del giardino o del Bois.

«Baciami» supplicò Camilla sottovoce, come se chiedesse soccorso.

Timido, inquieto, mal difeso nel suo leggero pigiama, egli accennò agli arbusti carichi di grappoli rosa donde proveniva il rumore del secatore e del rastrello, e Camilla non osò buttargli le braccia al collo. Abbassò gli occhi, colse una foglia, ricondusse sulla guancia il pennellino lustro dei suoi capelli: ma, dal moto del suo mento sollevato, dal vibrar delle narici Alain comprese ch’ella cercava nell’aria, selvaggiamente, la fragranza di un corpo biondo appena coperto, di un corpo del quale – giudicò egli in segreto – non aveva abbastanza paura.

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Al suo risveglio non si pose, d’un balzo, a sedere sul letto. Perseguitato, anche nel sonno, dalla camera sconosciuta, socchiuse le ciglia e constatò che l’astuzia e la prudenza non l’avevano abbandonato del tutto durante il sonno, giacché il suo braccio sinistro, steso, delegato ai confini di una steppa di tela, era là in guardia, pronto per la difesa. Ma tutto il vasto letto alla sua sinistra era vuoto e fresco. Se non ci fossero stati l’angolo appena arrotondato della camera a tre pareti, in faccia al letto, e l’insolita oscurità verde e lo stelo di luce viva, giallo come un bastone d’ambra, che separava le due cortine d’ombra compatta, Alain si sarebbe riaddormentato, cullato anche da una canzonetta negra cantata a labbra chiuse.

Con precauzione girò il capo, socchiuse gli occhi e vide – bianca o azzurrina a seconda ch’ella entrasse nello stretto ruscello di sole o si rituffasse nella penombra – una giovane donna nuda, con un pettine in mano e una sigaretta fra le labbra, che canticchiava. “Ha una bella faccia tosta, – pensò. – Starsene così tutta nuda… Ma dove crede di essere?” Riconobbe le belle gambe che da tanto tempo gli erano familiari, ma il ventre, fatto più corto dall’ombelico un po’ basso, lo stupì. Una giovinezza impersonale salvava la natica muscolosa e i seni eran leggeri sopra le costole apparenti. “E’ dunque dimagrita?”

L’importanza del dorso, largo quanto il petto, urtò Alain.“Ha una schiena volgare.”Proprio in quel momento Camilla s’appoggiò coi gomiti a

una delle finestre e arrotondò il dorso sollevando le spalle.“Ha una schiena da serva.”Ma ella si raddrizzò ad un tratto, accennò due sgambetti,

fece un gesto delizioso come per abbracciare il vuoto.“No, no… è bella… Ma che… che disinvoltura… Mi

crede morto? Oppure le sembra una cosa naturalissima gironzolar così tutta nuda?… Ma cambierà…”

Ella si volgeva verso il letto, e Alain richiuse gli occhi. Quando li riapri, Camilla stava seduta davanti alla pettiniera, ch’essi chiamavano «la pettiniera invisibile», grossa lastra traslucida di bel cristallo posata sopra un’armatura di acciaio nero. Camilla s’incipriò il volto, si palpò colla punta delle dita la guancia, il mento, e sorrise a un tratto, distogliendo lo sguardo, con una gravità e una stanchezza che disarmarono Alain.

“È dunque felice? Felice perché?… Il merito non è mio… Ma perché è nuda?…”

«Camilla!» gridò.S’aspettava ch’ella corresse verso la camera da bagno,

incrociasse le mani sul sesso, velasse i seni con qualche

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indumento carpito a volo: invece ella accorse, si chinò sul giovane disteso, gli arrecò – rifugiato sotto le sue braccia, nascosto nell’alga di un azzurro cupo che le fioriva il piccolo ventre senza stile – il suo vigoroso odore di bruna.

«Caro! Hai dormito bene?»«Tutta nuda così!» la rimproverò Alain.Ella spalancò comicamente i suoi grandi occhi.«Già! E tu?»Scoperto sino alla cintola egli non seppe che rispondere.

Camilla si pavoneggiava per lui, così soddisfatta, così lontana da ogni idea di pudore che Alain le gettò, un po’ bruscamente, il pigiama che giaceva sul letto, tutto spiegazzato.

«Su, copriti… Ho fame, io!»«Mamma Buque è al suo posto, e tutto procede

regolarmente!»Ella scomparve e Alain volle alzarsi, vestirsi, lisciare i suoi

capelli arruffati, ma Camilla tornò subito, impacchettata in una grossa vestaglia da bagno nuova nuova e troppo lunga, recando allegramente un vassoio colmo.

«Che pasticcio, ragazzi miei! Una bacinella, una tazza di terracotta, lo zucchero nel coperchio di una scatola… Ma tutto andrà a posto! Il mio prosciutto è rinsecchito… Poche pesche clorotiche, avanzi del lunch… Mamma Buque non sa da che parte rifarsi colla sua cucina elettrica. Le insegnerò io a sostituire i piombi… Ho già provveduto a versar l’acqua pel ghiaccio negli scompartimenti del frigorifero… Ah, se non ci fossi io!… Ecco, signore, il suo caffè caldo, il suo latte bollente, e il suo burro durissimo… No, non toccare, quello è il mio tè… Che cosa cerchi?»

«No, nulla.»A cagione del profumo di caffè, cercava Saha. «Che ora

è?»«Oh, finalmente una parola tenera! – esclamò Camilla. –

Prestissimo, sposo mio. Ho visto alla sveglia di cucina che son le otto e un quarto.»

Mangiarono, ridendo spesso e parlando poco. Dall’odor sempre più forte delle tende di incerato verde Alain indovinava la forza del sole che le riscaldava e non riusciva a distaccare il proprio pensiero da quel sole esterno, dall’orizzonte estraneo, dai nove piani vertiginosi, da quella casa – immensa fetta di cacio – che per qualche tempo li ospitava.

Stava a sentir Camilla come meglio poteva, grato ch’ella fingesse l’oblio di tutto quel ch’era accaduto fra loro quella notte, si desse l’aria di trovarsi come in casa propria in quella dimora d’occasione, ostentasse la disinvoltura di una vecchia

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sposa d’otto giorni almeno. Da quando s’era vestita egli cercava un modo per testimoniarle la propria gratitudine.

“Non mi serba rancore per ciò che le ho fatto, né per ciò che non le ho fatto, povera piccola… Insomma la parte più seccante è passata… Saranno tutte così, un press’a poco, una triste violenza, le prime notti… Un mezzo successo, un mezzo disastro…”

Le passò cordialmente un braccio intorno al collo e la baciò.

«Oh, come sei caro!»Camilla aveva gridato così forte e con un tal cuore che

arrossi e gli occhi le si empirono di lacrime. Ma coraggiosamente sfuggi alla commozione che l’invadeva e balzò dal letto col pretesto di portar via il vassoio.

Corse verso le finestre, inciampò nella vestaglia troppo lunga, disse una parolaccia e si appese come un marinaio al cordame… Le tendine di tela cerata si arrotolarono, e Parigi, i suoi sobborghi evanescenti e sconfinati come il deserto, macchiati di verzura ancor chiara, di vetrate azzurre come elitre di insetti, entrarono d’un balzo nella camera triangolare che aveva una sola parete di cemento e le altre due di vetro, sino a mezza altezza. «Bello!» disse Alain sottovoce.

Ma era una mezza bugia, e la sua tempia cercò il rifugio di una giovane spalla emergente dall’accappatoio di spugna.

“Non è un’abitazione umana… Tutto quell’orizzonte in casa propria, nel proprio letto… E nei giorni di temporale? Abbandonati al sommo di un faro, tra gli albatros…

Camilla io aveva raggiunto sul letto, gli aveva circondato il collo con un braccio, e guardava senza paura, a volta a volta, i vertiginosi confini di Parigi e il biondo capo scarmigliato. La sua nuova fierezza – che sembrava facesse credito alla prossima notte, ai giorni venienti – s’accontentava certo delle licenze d’oggi: giacere in un letto comune, premere colla spalla e coll’anca il corpo nudo di un giovine uomo, abituarsi al suo colore, alle sue forme, alle sue offese, fissar con sicurezza lo sguardo sul petto arido e muscoloso, sulla curva delle reni che gli invidiava, sullo strano, capriccioso arabesco del sesso.

Addentarono la stessa pesca insipida, risero mostrandosi i bei denti umidi, le gengive un poco pallide da ragazzi stanchi.

«Che giornata, quella di ieri!… – sospirò Camilla. Quando si pensa che certa gente si sposa parecchie volte!»

Poi, ripresa dalla vanità, soggiunse: «Del resto è stato bellissimo. Nessun contrattempo, vero?».

«Già» assenti Alain mollemente.

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«Oh, tu! Come tua madre… Purché non calpestassero le aiole del vostro giardino e non gettassero mozziconi di sigaretta sulla ghiaia tutto andava benissimo. Non è vero? Però il nostro matrimonio sarebbe stato ancor più carino a Neuilly… Già, ma questo avrebbe importunato la gatta sacrosanta… Di’ un po’, cattivo, di’… Che cosa hai da guardarti intorno così?»

«Nulla, – egli rispose con sincerità, – poiché non c’è nulla da guardare… Ho visto la pettiniera, ho visto la sedia… abbiamo visto il letto.»

«Non vorresti vivere qui? Io sì, mi ci trovo benissimo. Pensa: tre camere e tre terrazze! Se ci fermassimo qui per sempre?»

«Ma Patrick ritornerà dalla sua crociera, fra tre mesi.»«E che cosa ce ne importa? Lui torna, noi gli spieghiamo

che vogliamo restare e lo scaraventiamo fuori.»«Oh! Saresti capace di una cosa simile?»Ella agitò affermativamente il suo ciuffo nero con una

raggiante e femminile disinvoltura nella sgarberia. Alain volle guardarla con severità, ma sotto quello sguardo Camilla mutò, si fece timorosa com’egli si sentiva, e allora la baciò di colpo sulla bocca.

Silenziosa, volenterosa ella gli rese il bacio, cercando con un moto delle reni l’incavo del letto, mentre la sua mano libera, che stringeva un nocciolo di pesca, cercava a tentoni nell’aria una tazza vuota o un portacenere.

Curvo sopra di lei egli attese, carezzandola leggermente, che la compagna riaprisse gli occhi. Ma Camilla stringeva le ciglia sopra due lacrimucce scintillanti che non voleva lasciar scorrere, ed egli rispettò quella discrezione, quella fierezza. Avevan fatto del loro meglio, lei e lui, in silenzio, aiutati dal tepore mattutino e dai loro due corpi odorosi e facili.

Alain ricordava il respiro accelerato di Camilla, che aveva dato prova di una calda docilità, di uno zelo un poco intempestivo, così piacevole… Non gli ricordava nessun’altra donna, ed egli, possedendola per la seconda volta, aveva pensato solo ai riguardi ch’ella meritava. Giaceva contro di lui, gambe e braccia mollemente ripiegate, colle mani semichiuse, felina per la prima volta…

“Dov’è Saha?”Macchinalmente accennò, su Camilla, una carezza «per

Saha», le strisciò delicatamente le unghie sul ventre. Ella gridò di sorpresa, irrigidì di colpo un braccio schiaffeggiando così Alain che fu lì lì per renderle il colpo. Seduta, coll’occhio ostile sotto un ciuffo di capelli ritto, Camilla lo guardava minacciosa.

«Saresti un vizioso, per caso?»

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Alain non si aspettava una simile uscita e scoppiò in una risata.

«Non c’è nulla da ridere, – gridò Camilla. – Ho sempre sentito dire che gli uomini che fanno il solletico alle donne sono viziosi, e anche sadici!»

Per rider meglio Alain scese dal letto, dimentico di esser nudo. Camilla tacque così bruscamente ch’egli si volse e sorprese il volto di lei raggiante, stupito, attento a quel giovine che una notte di matrimonio le aveva dato intero.

«Occupo il bagno per dieci minuti, permetti?» Aprì la porta a vetri, all’estremità della parete più lunga, che avevano battezzato ipotenusa.

«…E poi farò una scappata dalla mamma…» «Va bene… Vuoi che t’accompagni?»

Egli parve così urtato ch’ella arrossi, per la prima volta in quel giorno.

«Voglio vedere se i lavori…»«Oh, i lavori! Per quel che ti interessano, i lavori!

Confessa, – e incrociò le braccia al seno con gesto da tragedia, – confessa che vai a trovare la mia rivale.» «Saha non è tua rivale» rispose Alain con semplicità.

“E come potrebbe essere tua rivale? – prosegui fra sé e sé. – Tu non puoi avere rivali che nel regno dell’impuro…”

«Oh, non pretendevo una protesta così seria, caro… Va presto. E non dimenticare che oggi si fa colazione “da Leopoldo”, da scapoli! Finalmente scapoli! Tornerai presto? Ricordati che dobbiamo andare a spasso: hai capito?»

Egli capiva soprattutto che la parola «ritornare» assumeva un significato nuovo, stranissimo, forse inaccettabile, e guardò Camilla di traverso.

Ella metteva in mostra, rivendicava la sua stanchezza di sposa novella, il leggero gonfiore della palpebra inferiore, sotto l’angolo dell’occhio spalancato.

“Avrai dunque sempre, appena uscita dal sonno, un occhio così spalancato? Non sei capace di tenere gli occhi socchiusi? Mi dà il mal di capo vedere occhi così aperti…”

Provava un piacere maligno, un’elusiva comodità neh“interpellarla così, fra sé e sé: “È meno scortese che esser sinceri, dopo tutto…”.

Ebbe fretta di trovarsi nel bagno quadrato, nell’acqua calda, in una solitudine propizia alla meditazione. Ma poiché la porta a specchi aperta nell’ipotenusa lo rifletteva da capo a piedi Alain l’aprì con compiacente lentezza e non si affrettò a richiuderla.

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Nell’uscir dall’appartamento si sbagliò, si trovò su una delle terrazze che costeggiavano la Fetta-di-formaggio e ricevette in pieno viso la secca sventagliata del vento dell’est che inazzurrava Parigi, rapiva i pennacchi di fumo e faceva apparir nitide, laggiù, le cupole del Sacro Cuore.

Sul parapetto di cemento, cinque o sei vasi, recati da mani benintenzionate, contenevano rose bianche, gigli macchiati dal loro polline…

“Gli avanzi del giorno prima non son mai attraenti…” Però mise al riparo dal vento, prima di discendere, i fiori sciupati.

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Penetrò nel giardino come un adolescente che abbia, di nascosto, trascorso la notte fuor di casa. Il penetrante odor del terriccio appena innaffiato, il segreto vapor d’immondizie che nutre i fiori grassi e costosi, le perle d’acqua disperse dalla brezza… aspirò tutto con un profondo sospiro e scopri, al tempo stesso, che aveva bisogno d’esser consolato.

«Saha! Saha!»Saha arrivò solo dopo un momento ed egli non riconobbe

subito quel volto smarrito, incredulo, come velato da un brutto sogno.

«Saha, cara!»Se la raccolse sul petto, le lisciò i morbidi fianchi che gli

parvero un po’ cavi, le tolse, dal pelame negletto, fili di ragnatele, minuscoli fuscelli di pino e d’olmo… Ella si riprendeva rapidamente, riconduceva sui suoi lineamenti, nei suoi occhi d’oro puro un’espressione familiare e la dignità del gatto… Sotto i suoi pollici Alain percepiva le palpitazioni di un cuoricino duro e irregolare e anche un ronron nascente e malsicuro. La mise sopra un tavolino di ferro e l’accarezzò. Ma al momento di gettar, follemente e per la vita, come sapeva fare, la testina nella mano di Alain, Saha fiutò quella mano e indietreggiò d’un passo.

Alain cercava collo sguardo il bianco colombo, la mano inguantata dietro gli arbusti dai grappoli rosei, dietro i rododendri accesi di fiori; e si rallegrava che la «cerimonia» del giorno innanzi, rispettando il bel giardino, avesse devastato soltanto la dimora di Camilla.

“Quella gente… qui! E quelle quattro damigelle d’onore in carta rosa… E i fiori che avrebbero colto, sacrificati ai corsetti delle grosse signore… E Saha…”

Gridò, verso casa:«Ha mangiato, ha bevuto Saha? Ha una cert’aria! Son qui,

mamma!»All’ingresso dell’atrio apparve una figura bianca e greve

che rispose da lontano.«Ma no! Figurati che non ha pranzato ieri, e stamattina

non ha bevuto il suo latte… Credo che ti aspettasse… Stai bene, caro?»

Alain rimaneva deferente, dinanzi a sua madre, ai piedi della scalinata d’ingresso. Notò ch’ella non gli porgeva, come sempre, la guancia, e che teneva le mani, l’una sull’altra, alla cintura. Comprese e condivise, con imbarazzo e gratitudine, il pudore materno.

“Neppure Saha mi ha baciato.”

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«…Eppure, la gatta ti ha veduto partire altre volte e si rassegnava alla tua assenza.»

“Andavo meno lontano” pensò Alain.Vicino a lui, sopra un tavolino di ferro, Saha bevve

avidamente il suo latte come una bestia che avesse molto camminato e poco dormito.

«Alain, non vuoi anche tu una tazza di caffè caldo, un panino?»

«Ho già fatto colazione… Abbiamo già fatto colazione.»«Ma non troppo bene, immagino! In un simile

caravanserraglio!»Alain sorrise perché sua madre diceva sempre

«caravanserraglio» invece di «cafarnao». Con occhio da esiliato contemplò la tazza ad arabeschi d’oro vicino alla sottocoppa di Saha, poi il volto della madre grasso e amabile sotto i fitti capelli crespi precocemente bianchi.

«Non ti ho ancora chiesto se la mia nuova figliola è soddisfatta.»

Temette d’esser fraintesa e soggiunse in fretta in fretta:«…Sì, volevo dire, se sta bene».«Benissimo, mamma… Andremo a colazione nella foresta

di Rambouillet, per provare la macchina…»Rimasero soli, Saha e lui, in giardino, entrambi intorpiditi

dalla stanchezza, dal silenzio, tentati al sonno.La gatta si addormentò bruscamente sul fianco, col mento

all’aria, i canini scoperti, come una belva morta; la piuma di certi alberi, i petali delle clematidi piovevano su di lei senza ch’ella trasalisse dal fondo del sonno in cui gustava, certo, la sicurezza, la presenza inalienabile dell’amico. Il suo atteggiamento abbandonato, gli angoli tesi e pallidi delle sue labbra grigio-pervinca rivelavano una miserrima notte di veglia.

A sommo del tronco morto ammantato di rampicanti uno sciame d’api sull’edera fiorita sosteneva una nota grave di timpano, sempre la stessa, da tante estati…

“Dormire là, sull’erba, fra il rosaio giallo e la gatta… Camilla verrebbe soltanto per l’ora del pranzo… Sarebbe carino… E la gatta, mio Dio, la gatta…”

Dalla parte dei «lavori in corso» una pialla scorticava un’asticella, un martello di ferro batteva sopra una putrella metallica, e già Alain abbozzava un sogno villereccio popolato di misteriosi fabbri ferrai…

Quando un campanile vicino batté undici colpi, egli si rialzò e fuggi, senza avere il coraggio di svegliare la gatta.

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Venne giugno, colle giornate più lunghe, coi suoi cieli notturni senza mistero sollevati ai bordi – a levante e a ponente – da luci superstiti di tramonto o d’aurora…

Ma giugno è crudele soltanto per i cittadini senza automobile, strettamente incasellati tra le pietre calde, pigiati l’uno contro l’altro… Intorno alla grande Fetta-di-formaggio un’aria sempre mossa tormentava le tende gialle, traversava la camera triangolare e lo studio, soffiava contro la prora dell’edificio, inaridiva le piccole siepi di ligustro nelle cassette disposte lungo le terrazze. Alain e Camilla vivevano quietamente, facevano passeggiate quotidiane, resi buoni e torpidi dal caldo e dalla voluttà.

“Perché poi la chiamavo l’indomita giovinetta?” si chiedeva Alain stupefatto. Camilla bestemmiava meno, in automobile, perdeva le durezze d’espressione, non aveva più la mania delle boìtes, dove cantano le giovani tzigane dalle narici equine. Mangiava e dormiva molto, spalancava gli occhi raddolciti, dimenticava i numerosi «programmi» per l’estate e s’interessava ai «lavori in corso» visitandoli tutti i giorni. Le capitava di far tardi nel giardino della casa di Neuilly: e Alain all’uscir dal suo ombroso studio – nella Ditta Amparat figlio & Soci, rue des PetitsChamps – la ritrovava là, oziosa, disposta a prolungare il pomeriggio, disposta a correr via sulle strade calde.

Allora, s’incupiva, e stava ad ascoltarla mentre impartiva ordini ai decoratori canterini, agli alteri elettricisti. Camilla gli rivolgeva domande generiche e perentorie come se la presenza di lui le imponesse il dovere di abbandonare la nuova dolcezza.

«Vanno bene, gli affari? La crisi è sempre in vista? Sei riuscito a rifilargliene molta, di seta a pisellini ai “principi della moda?”»

Non rispettava neppure il vecchio Emilio e lo scrollava sino a farne piovere formule dense di pitica idiozia:

«Che cosa ne pensate, Emilio, del nostro nido? Non l’avrete mai veduta, eh?, una casa tanto bella».

Il vecchio cameriere bofonchiava, tra i favoriti, risposte senza rilievo e senza colore, come lui.

«Non si riconosce più nulla… Una volta, se mi avessero parlato di case tutte a buchi… C’è una bella differenza… Gli uni addosso agli altri, bel divertimento…»

Oppure versava a goccia a goccia su Alain benedizioni accese cupamente da un significato ostile.

«La giovane signora del signor Alain fa bella cera. Ha anche una bella voce… La sentono anche i nostri vicini, tanto parla forte… C’è poco da discutere con quella voce… E dice molto chiaro quel che vuol dire… Al giardiniere ha detto che la

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grande aiola di myosotis e di sileni sembrava un deretano… ne rido ancora!…»

E volgeva al cielo limpido un occhio pallido, color d’ostrica grigia, un occhio che non aveva mai riso. Neppure Alain rideva. Saha lo impensieriva. Dimagriva e pareva stesse perdendo una speranza, la speranza, certo, di rivedere Alain tutti i giorni, e solo. Non fuggiva più quando arrivava Camilla; ma non accompagnava più Alain sino al cancello e, quando lo vedeva sedersi vicino a Camilla, lo contemplava con profonda e amara saggezza.

“Il tuo sguardo da gattino dietro le sbarre… Lo stesso, lo stesso sguardo…” La chiamava a bassa voce «Saha, Saha» aspirando molto l’acca. Ma Saha non scattava più, non appiattiva sul capo le orecchie; e da quanti giorni non gridava il suo squillante: «Mereng!» e il «Muecmuecmuec!» del buonumore e dell’avidità.

Un giorno Camilla ed Alain furono convocati a Neuilly per constatare che il nuovo bagno-piscina, quadrato, massiccio, enorme, minacciava di far sprofondare il pavimento: e Alain udì sua moglie sospirare:

«Non finiranno mai, dunque!».«Ma… – disse sorpreso – credevo che tu preferissi la

Fetta-di-formaggio coi suoi cormorani, le sue procellarie…»«Sì, sì, ma insomma… E poi questa è la tua casa, la tua

vera casa… La nostra casa.»Pesava sul braccio di lui, un po’ molle, stranamente

smarrita. Il bianco dei suoi occhi, azzurrino quasi come il vestito estivo, il ritocco perfetto e inutile della sua guancia, della sua bocca e delle sue palpebre non lo commossero.

Eppure, per la prima volta, gli parve ch’ella chiedesse, senza parlare, il suo consenso.

“Camilla qui con me! Di già! Camilla in pigiama sotto le volte del rosaio…” Uno dei rosai, il più vecchio, gli porgeva, proprio all’altezza del suo volto, un fascio di rose appena sbocciate e già scolorite, che, la sera, imponevano il loro profumo orientale sino alla scalea.

“Camilla, in accappatoio di spugna sotto il viale degli olmi…”

Non era meglio, dopo tutto, tenerla ancora confinata nel piccolo belvedere della Fetta-di-formaggio?

“Qui no, qui no… non ancora…”La sera di giugno, gonfia di luce, tardava a declinar verso

la notte. Alcuni bicchieri vuoti, sopra uno sgabello di paglia, trattenevano i grossi calabroni rossicci, ma sotto agli alberi – salvo i pini – si allargava una zona di umidità impalpabile, una

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promessa di frescura. Né i gerani rosati che prodigavano il loro profumo meridionale né i papaveri di fuoco soffrivano della rude estate che incominciava.

“Qui no, qui no” scandiva Alain sul ritmo del suo passo.Cercava Saha ma non voleva chiamarla a voce alta. La

trovò accoccolata sul basso muricciolo che arginava un rialzo del terreno coperto di lobelie azzurre. Dormiva, o fingeva di dormire, arrotolata su se stessa, a turbante.

“Arrotolata così a turbante, a quest’ora e con questo tempo? Ma è un atteggiamento invernale questo!” «Saha, cara!»

Ella non trasali quand’egli la prese e la sollevò in alto; spalancò gli occhi incavati, bellissimi, quasi indifferenti.

«Mio Dio, come sei leggera! Ma tu non stai bene, caro piccolo puma.»

Con Saha in braccio raggiunse correndo la mamma e Camilla.

«Ma Saha è malata, mamma! Ha il pelo scarruffato, è leggera leggera: e non mi dite nulla!»

«E’ perché non mangia più, – disse la signora Amparat. – Non vuol mangiare.»

«Non mangia! E poi, che c’è, ancora?»Cullava la gatta contro il proprio petto e Saha si

abbandonava col respiro mozzo e le narici aride. Gli occhi della signora Amparat, sotto i riccioli bianchi, si rivolsero intelligentemente a Camilla.

«E poi nulla» disse.«Si annoia senza di te, – disse Camilla. – E’ la tua gatta,

vero?»Alain credette che Camilla si burlasse di lui, e rialzò il

capo in atto di sfida. Ma Camilla non aveva mutato espressione e osservava Saha con curiosità. Le fece una carezza, e la gatta chiuse gli occhi.

«Tocca le sue orecchie, – disse Alain bruscamente. Scottano.»

Pensò un attimo poi disse:«Bene. La porto via. Mamma, ti dispiace di farmi dare il

suo paniere? E’ un sacchetto di sabbia. Al resto penseremo noi. Capisci che non voglio assolutamente che… La gatta crede che…».

S’interruppe e si rivolse, finalmente, alla moglie:«A te non secca, vero, Camilla, che teniamo Saha con noi

fino al nostro ritorno qui?».

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«Figurati! Ma dove la metterai, di notte?» soggiunse con tanta ingenuità che Alain arrossi, per la presenza della madre. Rispose secco:

«Sceglierà lei».Se ne andarono in fila indiana.Alain portava Saha, muta nel suo paniere da viaggio, il

vecchio Emilio era curvo sotto il sacco di sabbia e Camilla veniva per ultima, responsabile di un vecchio plaid di kasha tutto sfrangiato, che Alain aveva battezzato «il Kashasaha».

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«Non avrei mai creduto che un gatto potesse acclimatarsi così in fretta.»

«Un gatto non è che un gatto. Ma Saha è Saha.»Alain, vanitoso, faceva la presentazione di Saha. Anche a

lui non era mai capitato di tenerla così chiusa, prigioniera in venticinque metri quadrati di spazio, visibile ad ogni ora e ridotta, per la meditazione felina, per la sua sete d’ombra e di solitudine a rifugiarsi sotto le poltrone gigantesche che vagavano senza ormeggi nello studio, o nell’anticamera embrionale, o in uno degli armadi mascherati da specchi.

Ma Saha voleva trionfare su tutti i tranelli.Si abituò alle ore incerte del mangiare, del coricarsi e del

levarsi, elesse a dimora notturna la camera da bagno e il suo sgabello-spugna, esplorò la Fetta-di-formaggio senza dimostrazioni di disgusto o di paura. Accondiscese ad ascoltare, in cucina, l’inutile loquela di mamma Buque che convitava la «micina» al pasto di fegato crudo. Quando Alain e Camilla uscivano, ella si disponeva sul vertiginoso parapetto e scrutava gli abissi dell’aria seguendo con l’occhio calmo, sotto di lei, i dorsi volanti delle rondini e dei passeri. La sua impassibilità sull’orlo dei nove piani, l’abitudine ch’ella aveva preso di ripulirsi a lungo sul parapetto, atterrivano Camilla.

«Levala di lì, – gridava ad Alain. – Mi dà la nausea, mi fa venire i crampi fin nei polpacci!»

Alain sorrideva con aria competente e ammirava la sua gatta riconquistata alla gioia di vivere e di nutrirsi. Non era certo molto fiorente né molto allegra, e il suo pelame non aveva ritrovato quell’iridescenza azzurrina da gola di piccione. Però, viveva meglio e aspettava il «pum» smorzato dell’ascensore che portava Alain, e accettava da Camilla cortesie fuori orario, come un minuscolo piattino di latte alle cinque del pomeriggio, o un ossicino di pollo offerto dall’alto, come a un cagnolino che si voglia far saltare.

«Non così!… Così» rimproverava Alain.E poneva l’ossicino sul tappeto da bagno o anche sul

tappeto bigio dalla lunga lana.«Povero Patrick, il suo tappeto!» protestava Camilla.«Ma un gatto non mangia un osso, né un pezzo di carne

sopra una superficie liscia. Quando un gatto prende un ossicino da un piatto e lo depone, prima di mangiarlo, sul tappeto, gli danno dello sporcaccione. Il gatto ha bisogno di tener la preda sotto la zampa mentre mastica o strappa, e non può far ciò che sulla terra nuda o sopra un tappeto. Ma la gente non lo sa…»

Stupita, Camilla lo interruppe:«E tu, come fai a saperlo?».

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Alain non ci aveva mai pensato, e se la cavò con una facezia:

«Zitta! Lo so perché sono intelligentissimo… Ma non dirlo a nessuno! Il signor Veuillet non lo sospetta neppure».

Alain insegnava a Camilla gli usi e i costumi dei felini come una lingua straniera ricca di troppe sottigliezze.

Senza volerlo, metteva un poco d’enfasi in tale insegnamento. Camilla lo osservava da vicino e gli rivolgeva mille domande alle quali egli rispondeva senza prudenza.

«Perché la gatta gioca con una cordicella, mentre ha paura del grosso cordone delle persiane?»

«Perché il cordone è un serpente. Ha il calibro del serpente. Ed essa ha paura dei serpenti.»

«Ma ha già visto un serpente?»Alain sollevò in faccia alla moglie gli occhi chiari tra le

nere ciglia, gli occhi ch’ella trovava così belli, «così traditori».«No… No di certo… Dove avrebbe potuto vederlo?» «E

allora?»«Allora lo inventa. Lo crea. Anche tu avresti paura del

serpente pur non avendolo mai veduto.»«Sì, ma a me lo hanno descritto. L’ho visto sulle figure. So

che esiste.»«Anche Saha lo sa.»«E come?»Alain la avvolse in un sorriso imperioso.«Come? Lo sa dalla nascita, come sanno le cose le persone

di classe.»«Allora io non sono una persona di classe?»Egli s’addolcì, ma solo per commiserarla.«Mio Dio, no… Consolati: neppure io del resto. Non credi

a quel che ti dico?»Camilla, seduta ai piedi del marito, lo contemplò coi suoi

occhi più grandi, gli occhi della ragazzina d’un tempo che non voleva dire buongiorno.

«Devo ben crederlo» fece poi, gravemente.Presero l’abitudine di pranzar quasi tutte le sere in casa:

per via del caldo, diceva Alain; «e per via di Saha» insinuava Camilla.

Una sera, dopo pranzo, Saha si accucciò sopra un ginocchio dell’amico.

«E io?» disse Camilla.«Ho due ginocchia» rispose Alain.

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La gatta, del resto, non si valse a lungo del suo privilegio. Misteriosamente avvertita, ritornò sulla tavola di lucido ebano, sedette sul proprio riflesso azzurrino immerso in un’acqua tenebrosa, e nulla in lei avrebbe denotato qualcosa di insolito, non fosse stata l’attenzione, la fissità con cui contemplava, diritto davanti a sé, gli invisibili.

«Ma che cosa guarda?» chiese Camilla.Era graziosa, tutte le sere, a quell’ora, in pigiama bianco,

coi capelli meno tesi, mobili sulla fronte, le guance molto brune sotto gli strati di cipria che, dal mattino, si sovrapponevano.

Alain indossava talvolta anche in casa il suo abito estivo, senza panciotto, ma Camilla alzava sopra di lui le mani impazienti, gli toglieva la giacca, la cravatta, gli slacciava il colletto, gli rimboccava le maniche della camicia, rivelava e cercava la nuda epidermide. Alain la trattava da sfrontata, ma si lasciava fare. Ella rideva un po’ dolorosamente, trattenendo la voglia. Ed era lui che abbassava gli occhi per celare un’apprensione non soltanto voluttuosa.

“Che tempesta di desiderio su quel volto!… Ha persino le labbra tese… Una donna così giovine… Chi le ha insegnato a prender così l’iniziativa?…”

Il tavolino rotondo, fiancheggiato da una piccola dispensa a rotelle, il «servitore muto», li riuniva sulla soglia dello studio, vicino alla veranda spalancata. Tre alti, vecchi pioppi, avanzi di un bel giardino distrutto, svettavano all’altezza del terrazzo e il gran disco del sole di Parigi, rosso cupo, immerso nei vapori, calava dietro le loro magre cime ormai quasi prive di linfa.

I manicaretti di mamma Buque, che serviva male e cucinava bene, mettevano allegria. Alain, sollevato, dimenticava la giornata di lavoro, gli uffici della Ditta Amparat, la tutela del signor Veuillet.

Le sue due «prigioniere» del belvedere gli facevan festa.«Mi aspettavi?» mormorava Alain all’orecchio di Saha.«Ti ho sentito arrivare, – gridava Camilla. – Si sente tutto,

di qui.»«Ti annoiavi?» le chiese egli una sera, col timore ch’ella si

lagnasse. Ma Camilla scrollò il ciuffo nero, in atto di diniego.«Nemmeno per sogno. Sono andata dalla mamma che mi

ha fatto conoscere “la perla”.»«Quale perla?»«La donnina che dovrà servirmi da cameriera laggiù…

Basta che il vecchio Emilio non le regali un bambino… E’ carina…»

Ella rise rimboccando sulle braccia nude le larghe maniche di crespo bianco prima di tagliare il cocomero dalla rossa

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polpa, intorno al quale Saha girava. Ma Alain non rideva, invaso d’orrore al pensiero di una nuova serva nella sua casa.

«Ma, sì, – confessò, – figurati che mia madre non ha più cambiato una persona di servizio da quand’ero piccino…»

«Si vede! – lo interruppe Camilla. – Che museo!»Mordeva una fetta di cocomero e rideva col viso rivolto al

tramonto. Alain constatò ammirato ma senza particolare simpatia quanto potevan essere vivi, sul volto di Camilla, una certa luce d’espressione cannibalesca, lo splendore degli occhi, della bocca, una specie di monotonia meridionale. Fece ancora uno sforzo per disinteressarsene.

«Non vai più a trovar le tue amiche? Dovresti…»«Quali amiche? – protestò subito Camilla. – E’ per farmi

capire che ti peso? E’ per sbarazzarti un po’ di me?»Egli alzò le sopracciglia, fece schioccar la lingua ed ella

cedette subito con un rispetto plebeo verso l’uomo adirato.«È vero, sai… Non avevo amiche neppure quand’ero

ragazzetta… Adesso poi? Mi ci vedi tu in compagnia di una giovinetta? Dovrei trattarla da bambina oppure rispondere a tutte le sue indecenti domande: “E come si fa questo, e come ti ha fatto quest’altro…”. Le fanciulle – gli spiegò con una certa amarezza – non stanno bene insieme, non hanno solidarietà fra di loro, non sono come voialtri giovanotti…»

«Scusa, scusa… Ma io non sono un “voialtri giovanotti…”.»

«Lo so, lo so, – diss’ella, malinconica. – E a volte mi chiedo se non preferirei…»

La malinconia passava raramente sopra di lei, e nasceva da una segreta reticenza o da un dubbio inespresso.

«Tu, – continuò Camilla, – tranne Patrick, che è lontano, non hai amici… E anche di Patrick, in fondo, te ne infischi…»

A un gesto di Alain, s’interruppe.«Sì, non parliamo di queste cose, – disse con intelligenza,

– se no ci bisticciamo.»Lunghe grida di fanciulli salivano dalla terra,

raggiungevano nell’aria lo stridio appuntito delle rondini. Il bell’occhio giallo di Saha, invaso a poco a poco dalla grande pupilla notturna, fissava nello spazio punti mobili, fluttuanti e invisibili.

«Che cosa guarda la gatta, di’? Non c’è nulla, là dove tien fissi gli occhi.»

«Nulla per noi…»

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Alain evocava, rimpiangeva il fremito leggero, la seducente paura che la sua amica gatta gli procurava venendo, nottetempo, ad accovacciarglisi sul petto.

«Non ti mette paura, almeno?» egli chiese con condiscendenza.

Camilla scoppiò in una risata come se non avesse atteso altro che quella parola insultante.

«Paura? Non son molte, sai, le cose che mi mettono paura.»

«E’ un’affermazione da sciocchina» disse Alain, urtato.«E va bene, – disse Camilla alzando le spalle. – Senti il

temporale…»Indicò la muraglia violacea di nubi che saliva colla notte:«Tu sei come Saha: non ti piace il temporale».«A nessuno piace il temporale.»«Io non lo detesto, – disse Camilla, con aria da

conoscitrice. – In ogni caso non lo temo.»«Il mondo intero teme il temporale» disse Alain ostile.«Ebbene, io non sono il mondo intero, ecco tutto.»«Per me sì» diss’egli con una grazia improvvisa e

artificiale da cui ella non si lasciò illudere.«Oh, – brontolò sotto voce, – ti picchierei.» «Picchiami!»Egli chinò verso di lei, attraverso il tavolino, i suoi capelli

biondi, fece brillare i denti.Ma Camilla si privò del piacere di scompigliare quei

capelli dorati, d’offrire il suo braccio nudo a quella bocca brillante.

«Hai il naso gobbo» gli disse invece ferocemente.«È il temporale» rispose Alain ridendo.Camilla non apprezzò lo spirito; ma i primi brontolìi bassi

di tuono sviarono la sua attenzione. Gettò il tovagliolo e corse sul terrazzo.

«Vieni a veder salire i bei lampi.»«No, – disse Alain senza muoversi. – Vieni tu.»«Dove?»Egli accennò, col mento, alla loro camera. Sul volto di

Camilla apparve l’espressione cocciuta, l’oscura cupidigia ch’egli ben conosceva. Pure ella esitò.

«Se prima rimanessimo un po’ a guardare i lampi?»Egli fece un cenno di diniego.«Perché, cattivo?»

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«Perché, io, ho paura del temporale. Scegli. Il temporale… o me.» «Figurati!»

Si mise a correre verso la loro camera con un moto pieno d’ardore che inorgoglì Alain. Quando la raggiunse vide ch’ella aveva, apposta, acceso una piccola vetrata luminosa vicino al vasto letto, e, apposta, la spense.

Dalla veranda spalancata la pioggia entrò, mentre essi ritrovavano la calma, tiepida e schioccante, profumata di ozono. Tra le braccia di Alain, Camilla gli faceva capire che avrebbe voluto, mentre il temporale saliva, ch’egli dimenticasse ancora una volta, con lei, la sua paura del temporale. Ma egli, nervoso, contava i vasti lampi a ventaglio, i grandi alberi abbaglianti, ritti contro le nubi, e si allontanava da Camilla. Ella si rassegnò, si alzò sul gomito e ravviò con una mano i capelli crepitanti del marito. Al palpitar dei lampi i loro due volti modellati in gesso azzurrino sorgevan dall’oscurità per risprofondarvisi.

«Aspettiamo la fine del temporale» acconsenti Camilla.“Ed ecco, – disse Alain fra sé, – ecco tutto quel che trova

da dire dopo un incontro, che, parola mia, meritava qualcosa di più. Poteva star zitta, almeno! Ma, come ha detto Emilio, la giovane signora sa parlar chiaro.”

Un lampo a scatti, lungo come un sogno, si specchiò, lama di fuoco, nel grosso cristallo della pettiniera invisibile. Camilla accostò ad Alain la gamba nuda.

«Fai così per darmi coraggio? Lo sappiamo che tu non hai paura del fulmine.»

Alzava la voce per dominare il cavernoso frastuono e le cascate di pioggia sul tetto piatto. Si sentiva stanco e irritato, disposto all’ingiustizia, atterrito di constatare che non era mai più solo. Con violenza tornò mentalmente alla sua antica cameretta, tappezzata di carta bianca a fiori freddi, la cameretta che nessuna mano aveva mai tentato di ornare o di imbruttire. Il suo desiderio fu così famelico che il murmure del vecchio calorifero mal regolato segui l’evocazione dei mazzolini chiari e piatti, murmure e alito caldo di cantina asciutta, uscente da una bocca dalle labbra di rame incastrata nel pavimento. Il murmure si uni a quello della casa intiera, bisbiglio di vecchi domestici lisciati dall’uso, inumati fino alla cintola nel loro sottosuolo, indifferenti persino alle attrattive del giardino… “Dicevano ‘lei’ parlando di mia madre, ma io, dal mio primo paio di calzoncini in poi, son sempre stato per loro ‘il signor Alain’…”

Un secco rumor di tuono lo strappò dal sonno breve nel quale stava scivolando dopo il piacere. Curva sopra di lui, appoggiata ai gomiti, la giovane moglie non si moveva.

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«Come mi piaci quando dormi! – disse. – Il temporale se ne va.»

Egli interpretò la frase come l’espressione di un desiderio, e si pose a sedere sul letto.

«Ed io farò come lui… Che umidiccio, qui… Me ne vado a dormire sulla panchina della sala d’aspetto.»

Avevano battezzato così lo stretto divano, unico mobile di una stanzetta bastarda, specie di corridoietto a pareti di vetro che Patrick destinava a sedute di elioterapia.

«Oh no, no, – supplicò Camilla, – rimani…»Ma già egli scivolava fuor del letto. La grande luce che

pioveva dalle nubi rivelò il duro volto offeso di Camilla.«Va’! Omettino da nulla!»E mentre usciva in questa inaspettata esclamazione gli tirò

il naso. Con uno scatto del braccio, quasi involontario, ma che non rimpianse, egli scacciò la mano irriverente. Una pausa improvvisa della pioggia e del vento li lasciò soli in mezzo al silenzio, e come sordi.

Camilla si stropicciava la mano intorpidita.«Ma… – disse alfine – ma… sei un bruto.»«Può darsi, – disse Alain. – Non mi piace che mi si tocchi

in faccia. Non ti basta il resto? Non toccarmi mai la faccia.»«Sì, sì, – ripetè lentamente Camilla, – sei un bruto.» «Non

continuare a ripeterlo… Del resto, non me ne importa nulla… Solo, stai attenta.»

Ricondusse sul letto la gamba nuda. «Vedi quel grande quadrato grigio sul tappeto? E’ il giorno che si leva. Vuoi che dormiamo?»

«Sì… Dormiamo…» rispose la stessa voce incerta. «Allora vieni.»

Distese il braccio sinistro perché ella vi posasse il capo, e Camilla si avvicinò docilmente con circospetta educazione. Soddisfatto di sé, Alain la scrollò amichevolmente, l’attirò a sé ponendole una mano sulla spalla, ma, ad ogni buon conto, la tenne a bada piegando un poco le ginocchia. E s’addormentò subito.

Desta, Camilla respirava senza abbandono e volgeva lo sguardo verso la macchia albescente del tappeto. Udì i passerotti festeggiar la fine del temporale sui tre pioppi che stormivano imitando il rumore della pioggia.

Quando, nel cambiar posizione, Alain ritirò il braccio, ella ricevette la carezza incosciente di una mano che, scivolando a tre riprese sulla sua testa, sembrava abituata a lisciare un pelame ancor più morbido dei suoi morbidi capelli neri.

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Fu verso la fine di giugno che l’inconciliabilità si stabili fra di loro come una stagione nuova, colle sue sorprese e, talvolta, coi suoi piaceri. Alain la respirava come un’aspra primavera inserita in piena estate. La sua repugnanza a trovare, nella casa natale, un posto per la giovine donna estranea, egli la portava con sé, la dissimulava senza sforzo, la rimestava e la coltivava misteriosamente con soliloqui e con la contemplazione sorniona del nuovo appartamento coniugale.

Un giorno di calor torrido Camilla, esausta, gridò dall’alto della loro passerella abbandonata dal vento:

«Oh! Piantiamo tutto in asso! Prendiamo il nostro macinino e andiamo a tuffarci in qualche luogo! Che ne dici, Alain?».

«Ci sto, – rispose Alain con una prontezza piena di riserve. – Dove andiamo?»

Potè starsene tranquillo mentre Camilla enumerava spiagge e alberghi. Coll’occhio fisso su Saha prostrata e piatta, meditava e concludeva:

“Non voglio viaggiare con lei… Non… non oso… Far delle gite, ritornare a casa la sera, o tardi nella notte, sta bene: ma niente più… Non voglio le serate all’albergo, le serate al ‘Casino’, le serate…”. Fremette…

“Ho bisogno di tempo… Lo so che ci metto molto tempo ad abituarmi, so di avere un pessimo carattere, ma… non voglio partire con lei.”

Ebbe un moto di vergogna nell’accorgersi che diceva «lei», come Emilio e Adele quando, sottovoce, parlavano della «Signora».

Camilla comperò delle carte stradali, e giocarono «a viaggiare» attraverso una Francia spalancata a sezioni sulla tavola d’ebano lucido che rifletteva due volti diluiti e rovesciati. Sommarono chilometri, parlarono male della loro macchina, si ingiuriarono cordialmente e si sentirono ravvivati, quasi riabilitati, da un’amicizia dimenticata. Ma acquazzoni tropicali, senza raffiche di vento, inondarono gli ultimi giorni di giugno e le terrazze della Fetta-di-formaggio. Saha al riparo delle vetrate chiuse osservava i ruscelletti piatti che si snodavano sulle piastrelle e che Camilla prosciugava calpestando asciugamani. L’orizzonte, la città, la pioggia, tutto aveva il colore delle nubi inesauribilmente gonfie d’acqua.

«Vuoi che prendiamo il treno?» suggerì Alain con voce soave.

Aveva previsto il balzo di Camilla all’abborrita parola. Il balzo fu seguito da una bestemmia.

«Ho paura – egli soggiunse – che tu ti annoi. Tutti i viaggi che avevamo architettato…»

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«Tutti quegli alberghi estivi… Tutte quelle trattorie piene di mosche… Tutte quelle spiagge piene di bagnanti… – continuò Camilla con tono querulo. – Vedi, quando noi partiamo non viaggiamo mica, percorriamo soltanto un certo numero di chilometri…»

Egli la vide un po’ addolorata e la baciò fraternamente. Ma Camilla si rivolse, gli diede un morso sulla bocca e sotto l’orecchio, e ancora una volta si dedicarono al gioco che accorcia le ore e allena i corpi a raggiunger facilmente il piacere amoroso.

Alain ci perdeva le forze. Quando pranzava dalla mamma con Camilla, e tratteneva gli sbadigli, la signora Amparat abbassava gli occhi e Camilla non poteva fare a meno di ridere, d’un piccolo riso gutturale. Notava con orgoglio l’abitudine che Alain aveva assunto di possederla: abitudine quasi rabbiosa, rapido corpo a corpo; dopo, ansante, la respingeva per rifugiarsi nella parte fresca del letto scoperto.

Ingenuamente ella gli si faceva ancor vicina, e Alain non glielo perdonava benché, senza nulla dire, le cedesse di nuovo. A tal prezzo poteva poi ricercare in pace le fonti di quella ch’egli chiamava la loro inconciliabilità. Era abbastanza saggio per situarle all’infuori dei frequenti possessi. Lucido, aiutato dalla stanchezza, risaliva ai nascondigli ove l’inimicizia tra uomo e donna si mantiene fresca e non invecchia mai. A volte ella gli rivelava un aspetto comune del suo corpo o dormiva, innocente, in pieno sole. Così, egli si stupì sino ad esserne scandalizzato nel constatare quanto Camilla fosse bruna.

A letto, disteso dietro di lei, osservava i capelli corti sulla nuca rasata, allineati come gli aculei di un riccio, disegnati sulla pelle come tratteggi orografici, i più corti visibili e azzurrini sotto l’epidermide sottile prima di emergere da un piccolo poro annerito.

“Ma non avevo mai avuta una donna bruna? – si diceva stupito. – Sì. Due o tre brunette, che non mi hanno lasciato un ricordo così scuro.” E protendeva nella luce il suo braccio, color bianco caldo, un braccio da uomo biondo, screziato da una peluria d’oro verde, irrigato da vene color di giada. Paragonava la propria capigliatura ai ricci dai riflessi viola che, sul capo di Camilla, lasciavan scorgere, fra gli increspamenti di alga e gli steli di un’abbondanza esotica, lo strano candor della cute. La vista di un sottile capello nerissimo appiccicato al bordo di una catinella gli diede la nausea. Poi la piccola nevrosi mutò e, lasciando le sfumature, s’attaccò alla forma. Tenendo stretto, pacificato il giovine corpo di cui l’oscurità gli velava le ombre precise, Alain si mise a criticare lo spirito creatore, rigoroso (come, in altri tempi, quello della sua nurse inglese: “non più prugne che riso, my baby, non più riso che pollo”), il quale aveva modellato Camilla senza avarizia ma anche senza

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nulla concedere alla fantasia e alla prodigalità. Portava con sé il biasimo e il rimpianto nel vestibolo dei suoi sogni durante l’attimo incalcolabile riserbato al paesaggio oscuro popolato di occhi convessi, di pesci dal naso greco, di lune e di menti. Là, desiderava che un deretano 1900, liberamente sviluppato sotto una vita snella, compensasse l’acerba piccolezza dei seni di Camilla. Altre volte transigeva, semiaddormentato, e preferiva un seno ingombrante, una mobile e duplice mostruosità di carne dalle punte sensibili… Simili appetiti, che nascevano dall’amplesso e gli sopravvivevano, non affrontavano la luce del giorno, né il risveglio completo e popolavano solo uno stretto istmo, fra l’incubo e il sogno voluttuoso.

In calore, quell’estranea odorava di legno morso dalla fiamma, di betulla, di violetta, tutto un mazzo di dolci odori cupi e tenaci che gli impregnavano per lungo tempo le palme. Quelle fragranze esaltavano Alain in modo contraddittorio, e non sempre suscitavano in lui il desiderio.

«Tu sei come il profumo delle rose, – disse un giorno a Camilla. – Togli l’appetito.»

Ella lo guardò, incerta, assunse l’aspetto un po’ imbarazzato e umile col quale accoglieva le lodi ambigue.

«Come sei milleottocentotrenta!» mormorò.«Meno di te, – rispose Alain. – Ma sì, meno di te: io so a

chi tu assomigli.»«A Marie Dubas, me l’han già detto.»«Errore gravissimo, figlia mia! Tu somigli, con i bandeaux

in meno, a tutte quelle che hanno pianto, sotto Loisa Puget, in cima a una torre… Piangevano sulla prima pagina delle romanze col tuo grande occhio greco, convesso, e quell’orlo grosso della palpebra che fa balzar la lacrima sulla guancia…»

I suoi sensi, l’uno dopo l’altro, illudevano Alain e condannavano Camilla. Egli fu costretto però ad ammettere ch’ella sapeva sostener bene, a bruciapelo, certe parole che erompevano brevemente da lui, parole più di provocazione che di gratitudine, allorché, disteso sul dorso, egli la esaminava collo sguardo filtrato dalle lunghe ciglia e valutava, senza indulgenza né parzialità, i meriti nuovi, la fiamma un po’ monotona, ma già sapientemente egoista, di una così giovane sposa, le sue particolari attitudini. Eran quelli momenti di luce schietta, di certezza, e Camilla cercava di prolungare quel mezzo silenzio da pugilato, quell’angoscia da corda tesa, da equilibrio pericoloso.

Priva di astuzia profonda ella non immaginava che, ingannato solo a metà dalle sfide interessate, dai patetici richiami e anche da una sorta di cinismo polinesiano, Alain possedeva ogni volta sua moglie per l’ultima volta… Si

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impadroniva di lei come le avrebbe messo una mano sulla bocca per impedirle di strillare, o come l’avrebbe accoppata.

Rivestita, verticale, seduta presso a lui nella loro automobile, egli, esaminandola, non ritrovava più ciò che aveva fatto di lei la nemica peggiore perché, riprendendo fiato, ascoltando il ritmo decrescente dei battiti del suo cuore, lui stesso cessava d’essere il drammatico giovine che si metteva nudo per abbattere la sua compagna: e il breve protocollo voluttuoso, i ludi ginnici, la simulata o reale gratitudine passavano nel novero delle cose finite e che non torneranno certamente mai più.

Allora rinasceva la preoccupazione maggiore ch’egli accettava come onorevole e naturale, il problema che riprendeva, per averlo da molto tempo meritato, il suo posto, il primo posto.

“Come impedire a Camilla di abitare la mia casa?”Passato il periodo di ostilità contro «i lavori» egli aveva

riposto, in piena buona fede, la sua speranza nel ritorno alla casa natale, nella tranquillante prospettiva di una esistenza al livello del suolo, di una esistenza appoggiata alla terra, a ciò che la terra produce.

“Qui ho la malattia delle cime… Ah! – sospirava, – il disotto dei rami… il ventre degli uccelli…” Terminava, severo: “La pastorale non è una soluzione”. E ricorse all’alleata indispensabile, la menzogna.

In un pomeriggio tutto fuoco, che ammolliva l’asfalto, egli si recò al suo feudo intorno al quale Neuilly non era che vie deserte, tranvai vuoti di luglio, giardini dove i cani sbadigliavano. Prima di lasciar Camilla aveva portato Saha sulla più fresca terrazza della Fetta-di-formaggio, vagamente inquieto come ogni volta che lasciava insieme, sole, le sue due femmine.

Il giardino e la casa dormivano, e la porticina di ferro non cigolò. Rose troppo sbocciate, papaveri rossi, i cespugli esotici rigurgitanti di rubini, i cupi antirrini bruciavano, a fasci, solitari, nei prati. Sul fianco della casa erano spalancate la porta e due finestre nuove in una piccola costruzione ad un piano, nuova nuova.

“Tutto è finito” constatò Alain. Camminava con precauzione come nei sogni, sfiorando l’erba.

Un mormorio di voci saliva dal sottosuolo: si fermò, e, senza pensarci, rimase in ascolto.

Erano le vecchie voci ben note – servilità, brontolìi rituali – le vecchie voci che una volta dicevano «lei» e «il signor Alain» e che stuzzicavano l’omettino biondo, la gracile forma virile, il suo pungolo infantile…

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“Ero re” si disse Alain sorridendo tristemente.«Allora, ci manca poco che lei venga a dormire qui?»

chiese distintamente una delle vecchie voci.“È Adele” disse fra sé Alain. Appoggiato al muro, ascoltò

senza scrupoli.«Come era deciso, – disse Emilio colla sua voce

tremolante. – Quell’appartamento è combinato proprio male!»La cameriera, una Basca grigia e barbuta, interloquì:«Altroché! Dalla stanza da bagno si può sentire tutto quel

che avviene nel water! Il signor Alain non sarà certo troppo contento».

«L’ultima volta che è venuta qui lei ha detto che non ha bisogno di tendine per il salottino, perché non ci sono vicini, dalla parte del giardino.»

«Non ci sono vicini? E noi, allora, quando andiamo in lavanderia? Vedremo tutto, quando lei sarà col signor Alain?»

Alain indovinò risa soffocate, e il vetusto Emilio riprese:«Oh, non ci sarà mica molto da vedere… Si farà mettere a

posto, lei, più spesso che non immagini… Il signor Alain non è uno da lasciarsi andare così, come capita, su un divano a qualunque ora del giorno o della notte…»

Durante una pausa di silenzio Alain non udì più che il rumor d’una lama sopra una cote, ma restò in ascolto contro il muro caldo, cercando distrattamente collo sguardo, fra un geranio ardente e il verde acido del prato, il pelame color pietra lunare di Saha.

«A me – disse Adele – il profumo che lei adopera mi fa venire il mal di capo.»

«E i suoi vestiti? – rincarò Giulietta la Basca. – Il suo modo di vestirsi non ha stile. Ha piuttosto il tipo artista, per via della sfacciataggine. Si dice poi che, come cameriera, lei si porterà dietro una del brefotrofio o peggio.»

Un finestrino si chiuse, e le voci si spensero. Alain si sentì vile; tremava un poco e respirava come un uomo sfuggito ad un assassinio. Non era né sorpreso né indignato. Il suo modo di giudicar Camilla non era molto lontano dal rigore dei giudici del sottosuolo. Ma il cuore gli batteva perché aveva ascoltato bassamente, senza esserne punito, e aveva raccolto testimonianze di complici ai quali nessun patto lo legava. Si asciugò il volto, e respirò profondamente come se quella ventata di unanime misoginia, quel pagano incenso dedicato al solo principio maschile l’avessero stordito.

Sua madre che, destandosi dal sonnellino pomeridiano, apriva le imposte della sua camera, lo vide in piedi, colla guancia ancora appoggiata al muro.

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Da madre saggia, gridò senza rumore:«Oh, ragazzo mio!… Ti senti male?».Egli le afferrò le mani sopra il davanzale, come un

innamorato:«Ma no, mamma… Passeggiando, son capitato qui». «È

stata un’ottima idea.»Ella non ci credeva affatto; ma entrambi, sorridendosi,

mentivano.«Posso chiederti un piccolo favore, mamma?»«Un piccolo favore… monetario, scommetto… E’ vero,

poveretti, quest’anno non siete troppo ben forniti…»«No, mamma… Vorrei solo chiederti di non parlare a

Camilla della mia visita d’oggi. Siccome son venuto senza un motivo, o meglio senz’altro motivo che il desiderio di darti un bacio, preferisco… E poi… un’altra cosa… Vorrei che tu mi dessi un consiglio… Fra noi, nevvero?»

La signora Amparat abbassò gli occhi, scompigliò i suoi capelli bianchi e ricciutelli, cercò di allontanare la confidenza.

«Sai che io parlo poco… Mi sorprendi così, tutta spettinata, come una vecchia zingara… Vuoi entrare al fresco?»

«No, mamma… Pensi tu che ci sia un modo, è un’idea che mi perseguita, un modo gentile, si capisce, e gradito a tutti, per impedire che Camilla venga ad abitare qui?»

Strinse le mani della mamma, aspettando che trasalissero o si ritraessero: ma quelle restarono fredde e docili fra le sue.

«Sono idee da sposino» disse, imbarazzata.«Come?»«Sì. Fra giovani sposi le cose vanno o troppo bene o

troppo male. Non so qual dei due casi sia da preferirsi; certo le cose non procedono mai normali.»

«Ma, mamma, non è questo che ti chiedevo, volevo soltanto sapere se non c’è un mezzo…»

Per la prima volta si trovava impacciato davanti a sua madre; ella non lo aiutava e Alain rivolse il capo, indispettito.

«Parli come un ragazzo. Te ne vai a spasso con questo caldo, e dopo un litigio vieni a farmi certe domande… che devo dire?… certe domande che trovano una risposta soltanto nel divorzio… O in un trasloco, o Dio sa in quale altra cosa.»

Quando parlava, subito la coglieva l’affanno, e Alain si rimproverò nel vederla così rossa e senza fiato per quelle poche parole.

“Per oggi basta” giudicò prudentemente.

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«Ma non ci siamo bisticciati, mamma. Sono io che non mi abituo all’idea, che non vorrei vedere…»

Indicò con un largo gesto imbarazzato il giardino che li circondava, lo stagno verde del praticello raso, il letto di petali sotto l’arco dei rosai, una nube d’api sopra l’edera in fiore, la casa brutta e riverita…

La mano ch’egli aveva trattenuta in una delle sue si chiuse, s’indurì in un piccolo pugno, ed egli baciò bruscamente quella mano sensibile.

“Basta, basta per oggi”.«Addio, mamma. Il signor Veuillet ti telefonerà domani

alle otto, per quella storia di ribasso nelle azioni… Ho miglior cera, adesso, mamma?»

Alzò gli occhi inverditi dall’ombra della magnolia, rovesciò il volto costringendolo, per abitudine, per tenerezza e per diplomazia, all’antica espressione infantile. Uno strizzar di palpebra per abbellire l’occhio, un sorrisetto di seduzione, un cenno delle labbra. La mano materna si riaperse, passò sopra il davanzale, raggiunse e palpò su Alain certi punti deboli e conosciuti – l’omoplata, il pomo d’Adamo, il sommo del braccio – e la risposta venne solo dopo il gesto.

«Sì, un po’ migliore… Sì, una cera un po’ migliore…»“Le ho fatto piacere pregandola di nascondere qualcosa a

Camilla.”Al ricordo dell’ultima carezza materna, strinse la cintola,

sotto la giacca.“Dimagro, dimagro… Non faccio più ginnastica… fuori

che quella dell’amore…”Se ne andava leggero, nel suo completo estivo, e la brezza

che cominciava a rinfrescare lo asciugava, spingendo avanti il profumo amaro del suo sudore biondo, parente del nero cipresso. Egli lasciava inviolato il suo baluardo nativo, intatta la sua alleata e sotterranea coorte, e il resto della giornata sarebbe trascorso agevolmente. Certo, sino a mezzanotte, seduto al fianco di Camilla inoffensiva avrebbe bevuto, in macchina, l’aria della sera, talvolta silvestre fra i querceti fiancheggiati di fossi melmosi, talaltra secca e recante un sentore di aie…

“E porterò a casa per Saha un po’ di gramigna fresca…Rimproverò a se stesso con violenza il destino della sua

gatta che viveva così discreta e silenziosa a sommo del belvedere.

“E’ diventata come la crisalide di se stessa, e per colpa mia…”

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All’ora dei ludi coniugali scompariva, ed Alain non l’aveva mai veduta nella camera triangolare. Mangiava appena appena, aveva perduto il suo variato linguaggio, le sue esigenze e preferiva ad ogni altra cosa la lunga attesa.

“È ancora ridotta ad aspettar dietro le sbarre… Mi aspetta.”

La voce sonora di Camilla, mentre egli giungeva sul pianerottolo, varcò la porta chiusa.

«E’ sempre quella sporcacciona di una bestia… Oh, se crepasse, una buona volta! Che?… Avete un bel dire voi, mamma Buque, no, no… Me ne infischio, me ne infischio!»

Distinse ancora qualche parola ingiuriosa. Piano piano girò la chiave nella toppa ma, varcata la propria soglia, non potè acconsentire ad ascoltare senz’essere visto.

“Sporcacciona di una bestia? Ma quale bestia? Una bestia in casa? ”

Nello studio Camilla, in pullover senza maniche, con un berrettino di maglia miracolosamente appiccicato sull’occipite, stava infilandosi rabbiosamente i guanti alla moschettiera e parve stupefatta nel vedere il marito.

«Sei tu? Ma da dove esci?»«Non esco. Rientro. E tu, con chi ce l’hai?»Ella girò l’ostacolo, attaccò Alain con un’abile finta.«Eh, perbacco, che arie, per una volta che arrivi in orario!

Son pronta anch’io, e t’aspettavo.»«Se arrivo in orario, non m’aspettavi… Con chi ce l’avevi?

Ho sentito: “Sporcacciona di una bestia”. Quale bestia?»Lo sguardo di lei si fece un po’ strabico, ma sostenne

quello di Alain.«Il cane, – gridò, – quel maledetto cane del piano di sotto,

il cane del mattino e della sera! Ricomincia! Lo senti abbaiare? Ascolta.»

Alzando un dito Camilla comandò l’attenzione, e Alain ebbe il tempo d’accorgersi che quel dito tremava. Egli cedette ad un ingenuo bisogno di certezza.

«Credevo che tu parlassi di Saha, figurati!»«Io? – gridò Camilla. – Parlare di Saha con quel tono? Non

mi arrischierei mai e poi mai! Chissà che cosa mi capiterebbe! Andiamo, dunque, vieni?»

«Comincia pure a far uscire la macchina dal garage. Cerco un fazzoletto, un pullover e ti raggiungo da basso…»

Cercò, prima d’ogni altra cosa, la gatta, ma non vide, sulla più fresca delle terrazze, vicino alla poltrona di tela ove

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Camilla talvolta dormiva, nel pomeriggio, che dei frammenti di vetro: e li guardò con occhio imbambolato.

«La gatta è con me, signore, – disse la voce flautata di mamma Buque. – Va matta pel mio sgabello di paglia: ci si affila le unghie.»

“In cucina! – pensò dolorosamente Alain. – Il mio piccolo puma, la mia gatta dei giardini, la mia gatta dei lillà e dei maggiolini, in cucina! Ah, ma le cose devono cambiare.”

Baciò Saha sulla fronte, le cantò sottovoce alcuni versetti rituali e le promise la gramigna fresca e i fiori d’acacia zuccherini. Ma gli parve che la gatta e mamma Buque mancassero di naturalezza; specialmente mamma Buque.

«Può darsi che torniamo per pranzo, e può darsi che non torniamo. La gatta ha tutto ciò che le occorre?»

«Sì, signore, sì, sì signore, – disse mamma Buque con precipitazione. – Stia certo, signore, che io faccio tutto quel che posso.»

La donnona era rossa in viso e sembrava lì lì per piangere: passò sul dorso della gatta una mano amichevole e impacciata. Saha fece la gobba e proferì un piccolo «m’enn», una parola da gatto povero e timido, che gonfiò di tristezza il cuore del suo amico.

La passeggiata fu più dolce di quanto non si aspettasse. Seduta al volante, l’occhio pronto, la mano e il piede in perfetto accordo, Camilla lo condusse sino al versante di Montfort-l’Amaury.

«Pranziamo fuori, Alain?… Caro…»Gli sorrideva di profilo, bella come sempre al crepuscolo,

colla guancia bruna e trasparente, l’angolo dell’occhio e i denti dello stesso scintillante candore.

Nella foresta di Rambouillet ella abbassò il parabrise e il vento riempi le orecchie di Alain d’un rumor di fogliame e d’acqua corrente.

«Un coniglio! – gridava Camilla. – Un fagiano!»«Un altro coniglio… Per cinque capelli….»«Non sa d’averla scampata bella, quello là!»«Hai una fossetta nella guancia come nelle tue fotografie

infantili» disse Alain che si animava.«Non parlarmene, sto diventando enorme!» disse Camilla

scrollando le spalle.Alain stette a spiare il ritorno del riso e della fossetta, e la

sua attenzione discese fino al collo robusto, esente da ogni traccia di collare di Venere, un collo inflessibile e rotondo da bella negra bianca.

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“E’ vero, è ingrassata… In un modo delizioso del resto, perché anche i seni…”

In un ritorno su se stesso s’imbattè nell’antico rancor virile:

“Lei ingrassa a far l’amore… Ingrassa a mie spese»Fece scivolare una mano preoccupata sotto la giacca, si

tastò le costole e cessò d’ammirar la fossetta e la guancia infantile.

Ma ebbe un moto di vanità, poco dopo, prendendo posto al tavolino di un ristorante celebre, nel vedere che gli altri clienti smettevano di parlare e di mangiare per ammirare Camilla: e scambiò con sua moglie il sorriso, il moto del mento, tutte le rituali civetterie che si addicono a una «bella coppia».

Fu per lui soltanto, del resto, che Camilla attenuò il suono della sua voce, mostrò un po’ di languore, ebbe certe attenzioni che non eran di prammatica. In compenso Alain le tolse di mano il piatto dei pomodori crudi, il cestino delle fragole, insistette perché prendesse un poco di pollo alla crema e le versò un vino che non le piaceva, ma ch’ella beveva in fretta.

«Lo sai bene che il vino non mi piace» diceva dopo aver vuotato il bicchiere.

Il sole, tramontando, non aveva sottratto ogni luce al cielo quasi bianco cosparso di piccole nubi pomellate, di un rosa cupo. Ma dalla foresta, diritta e massiccia dietro i tavolini della trattoria, pareva uscissero insieme la notte e la frescura.

Camilla posò la sua mano sopra quella di Alain.«Eh! Che cosa? Che c’è?» diss’egli sobbalzando.Ella ritirò la mano, stupita. Il poco vino bevuto rideva,

umido, nei suoi occhi ove danzava, piccina piccina, l’immagine dei palloncini rosa sospesi alla pergola.

«Ma niente, andiamo… Sei nervoso come un gatto… È forse proibito mettere una mano sulla tua?»

«Ho creduto, confesso vilmente, ho creduto che tu volessi dirmi qualcosa… di grave… Ho creduto – disse a un tratto – che tu stessi per dirmi che sei incinta…»

La risatina acuta di Camilla attirò sopra di loro l’attenzione di tutti gli uomini presenti.

«E la cosa ti ha così sconvolto?… Di gioia o… di noia?»«Non so bene neppur io… E a te che effetto farebbe?

Contenta o no?… Ci abbiamo pensato così poco… Io, almeno… Ma perché ridi?»

«E’ la tua faccia… Una faccia da condannato… troppo buffo… Mi farai scollare tutte le ciglia…»

Sollevava sui due indici le ciglia delle due palpebre.

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«Non è una cosa buffa, è una cosa grave» disse Alain felice di sviare il discorso. “Ma perché ho tanta paura?” pensava.

«E’ grave, – disse Camilla, – solo per quelli che non hanno una casa, o han solo due camere. Ma noi…»

Serena, rassicurata nel suo ottimismo dal vino traditore, fumava e parlava come fosse stata sola, seduta di fianco, colle gambe accavallate.

«Abbassa la sottana, Camilla.»Ella non l’udì, e continuò:«Noi abbiamo la cosa più necessaria ad un bimbo: il

giardino, e quale giardino!… E’ una camera bellissima colla sua stanza da bagno».

«Una camera?»«La tua vecchia camera, che faremo ridipingere. E a

proposito ti scongiurerei di non pretendere che dipingiamo una cimasa ad anitroccoli e abeti dei Vosgi su fondo azzurro cielo… Avrebbe una triste influenza sul gusto della nostra progenie.»

Egli si guardò bene dall’interromperla. Col viso acceso Camilla parlava abbondantemente, e contemplava, lontano, ciò ch’ella veniva costruendo. Non l’aveva mai vista così bella. L’attaccatura del collo – fusto senza pieghe, fascio di muscoli bene avvolti – attirava il suo sguardo, e anche le narici che soffiavano il fumo…

“Quando la faccio godere, chiude la bocca e apre le narici come un cavallino…”

Udì cadere, dalle labbra rosse e sdegnose, predizioni così pazzesche che cessarono di spaventarlo: Camilla procedeva tranquillamente nella sua vita di donna, fra le rovine del passato di Alain.

“Accidenti! – pensava, – com’è tutto organizzato… Buono a sapersi.”

…Un tennis avrebbe preso il posto del grande prato inutile…, la cucina… i servizi…

«Non ti sei mai reso conto di come siano malcomodi? E di quanto spazio occupino inutilmente? È come per la rimessa… Tutto questo, caro, lo dico perché tu sappia quanto io pensi alla nostra vera e definitiva sistemazione. Soprattutto, però, dobbiamo agire con ogni riguardo per tua madre, che è così gentile, e non far nulla senza la sua approvazione. No?»

Egli faceva segno di sì, faceva segno di no, a caso, raccogliendo le fragolette di bosco sparpagliate sulla tovaglia. Un provvisorio riposo, un presagio d’indifferenza lo avevano immunizzato a partire da «la tua vecchia camera».

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«Una cosa sola può spingerci ad affrettare le cose, continuò Camilla. – L’ultima cartolina di Patrick, attenzione, è datata dalle Baleari… Ci vuol meno tempo per Patrick a giunger dalle Baleari a qui, se non si indugia sulle spiagge, che al nostro decoratore per finir tutto. Gli dèi lo fulminino, quel figlio di Penelope e di una tartaruga maschio! Ma io farò la mia voce da sirena… “Mio piccolo Patrick…”. E tu sai che gli fa molta impressione, a Patrick, la mia voce da sirena…»

«Dalle Baleari, – interruppe Alain cogitabondo, dalle Baleari…»

«La porta accanto insomma… Dove vai?… Dove vuoi andare?… Si stava così bene…»

Dritta in piedi, svaniti i fumi del vino Camilla sbadigliava pel sonno e rabbrividiva.

«Prendo io il volante, – disse Alain. – Mettiti il vecchio soprabito ch’è sotto il cuscino. E dormi.»

Una mitraglia di effimeri, farfalle argento-vivo, lucani duri come ciottoli accorreva davanti ai fari e l’automobile respingeva come un’onda l’aria ingombra d’ali. Camilla s’addormentò veramente, diritta, abituata a non pesare, anche addormentata, sulla spalla e sul braccio del guidatore. Salutava soltanto, con piccoli cenni del capo, le asperità della strada.

“Dalle Baleari…” ripeteva Alain fra sé. Col favor dell’aria bruna, dei fuochi bianchi che afferravano, respingevano, decimavano le creature volanti, guadagnava il vestibolo popolatissimo dei suoi sogni, il firmamento cosparso di volti scoppiati, di grossi occhi nemici che rimandavano al giorno seguente una parola di resa, d’ordine, una cifra… Dimenticò, così, di prender la scorciatoia fra Pontchartrain e il dazio di Versailles, e Camilla brontolò nel sonno.

«Brava! – applaudi Alain. – Ottimi riflessi. Giovani sensi fedeli e vigilanti… Oh, come ti trovo amabile, come è facile andar d’accordo quando tu dormi e io veglio…»

La rugiada inumidiva i loro capelli nudi, le loro maniche, quando misero piede a terra nella strada nuova, deserta sotto il chiaro di luna. Alain alzò il capo: al centro della luna quasi piena, in cima ai nove piani, una piccola ombra cornuta di gatto, china, attendeva.

Egli la indicò a Camilla:«Guarda! Come aspetta!».«Hai una buona vista» rispose Camilla sbadigliando. «Se

cadesse! Per carità, non chiamarla!»«Puoi star tranquillo. Anche se la chiamassi, non

verrebbe.»«Sfido io!» ridacchiò Alain.

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Gli erano appena sfuggite quelle due parole, che già se lo rimproverava.

“Troppo presto, troppo presto! E come ho scelto male il momento! ”

La mano che Camilla tendeva verso il campanello s’arrestò.

«Sfidi? Che cosa sfidi?… Va’, va’, dillo pure! Ho mancato ancora di rispetto all’animale tabù? La gatta si è lagnata di me?»

“Bel risultato! ” pensava Alain chiudendo la rimessa.Riattraversò la strada e raggiunse sua moglie che lo

aspettava in atteggiamento di battaglia. “O batto in ritirata, in cambio d’una notte tranquilla, o finisco la discussione con una buona scrollata, o… E’ troppo presto.”

«Parlo con te, sai?»«Saliamo, prima» disse Alain.Tacquero, nell’ascensore esiguo, stretti l’uno contro l’altra.

Giunti nello studio Camilla buttò lontano il berretto e i guanti come per dimostrare che non rinunciava al litigio. Alain si occupava di Saha, la invitava a scendere dal suo pericoloso osservatorio. Paziente, attenta a non indispettirlo, la gatta lo segui nella stanza da bagno.

«Se è per quello che hai sentito stasera prima di pranzo quando sei tornato…» cominciò Camilla in tono acuto, non appena egli riapparve.

Alain aveva preso la sua decisione e la interruppe con aria stanca:

«Piccina mia, che cosa potremmo dirci? Tutte cose che sappiamo già: la gatta ti dà noia, hai sgridato mamma Buque perché la gatta ha rotto un vaso, o un bicchiere: ne ho visto i cocci… Io ti risponderei che tengo molto a Saha, che la tua gelosia sarebbe press’a poco la stessa se avessi conservato dell’affetto per un amico d’infanzia… E ci perderemmo la notte. Grazie tante. Preferisco dormire. Guarda, per la prossima volta ti consiglio di giocare d’anticipo e di procurarti un cagnolino».

Immobilizzata, imbarazzata dalla sua collera inutile, Camilla lo guardava colle sopracciglia rialzate.

«La prossima volta? Quale prossima volta? Che cosa vuoi dire? Giocare d’anticipo?»

Poiché Alain alzava le spalle ella si fece rossa e nel suo volto, tornato giovanissimo, l’intenso brillar degli occhi preannunciò le lagrime “Oh, che noia! – gemette internamente Alain. – Adesso confesserà tutto, mi darà ragione… Oh, che noia!”

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«Senti, Alain…»Con uno sforzo egli finse la violenza, imitò l’autorità.«No, piccola, no e poi no. Non riuscirai a far sì che questa

serata deliziosa termini con uno sterile litigio! No, tu non riuscirai a fare un dramma di ciò che è soltanto una puerilità… come non mi impedirai di amare le bestie.»

Una specie di amara gaiezza passò negli occhi di Camilla, ma ella non parlò. “Forse ho esagerato… Era inutile la parola puerilità… Quanto poi ad amare le bestie, che ne so io?” Una piccola forma d’un azzurro d’ombra, circondata, come da una nube, da un orlo argenteo, seduta sul limite vertiginoso della notte, occupò il suo pensiero e lo scostò dal luogo senz’anima dove, a palmo a palmo, difendeva le sue risorse d’isolamento, il suo egoismo, la sua poesia…

«Andiamo, piccola nemica, – disse con una grazia sleale, – andiamo a riposare…»

Ella aprì la porta della stanza da bagno, dove, accoccolata per la notte sullo sgabello-spugna, Saha parve accordarle solo un’attenzione minima.

«Ma perché, ma perché… Perché mi hai detto: “la prossima volta”?…»

Il rumore dell’acqua copriva e interrompeva la voce di Camilla, alla quale Alain non rispondeva più.

Quand’egli la raggiunse nel vasto letto, le augurò buonanotte, la baciò distrattamente sul naso senza cipria mentre la bocca di Camilla gli baciava il mento con un piccolo rumore avido.

Si destò presto e se ne andò piano piano a sdraiarsi sulla panchina della sala d’aspetto, l’esile divano chiuso fra due pareti di vetro.

E là egli, da quella notte, si recò a terminare il suo riposo. Chiudeva, da una parte e dall’altra, le tendine d’incerato, quasi nuove e pur già semidistrutte dal sole. Respirava sul proprio corpo l’aroma stesso della solitudine, l’aspro profumo felino della bunaga e del bosso fiorito. Con un braccio disteso, l’altro ripiegato sul petto riprendeva l’attitudine molle e sovrana dei suoi sonni infantili. Sospeso al vertice della casa triangolare favoriva con tutte le sue forze il ritorno dei sogni antichi che la fatica amorosa aveva disperso.

Sfuggiva a Camilla più facilmente di quanto ella non avrebbe voluto, fuggiva da «fermo», con un puro atto di ritrazione, poiché l’evasione non significava più una scala discesa a passi leggeri, lo sbatter dello sportello di un tassi, una lettera breve… Nessuna amante lo aveva preparato a Camilla e alla sua facilità di giovinetta, a Camilla e ai suoi appetiti senza

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calcoli, a Camilla, anche, e al suo punto d’onore da camerata offesa.

Evaso, sdraiato sulla panchina della sala d’aspetto, cercava colla nuca un cuscinetto rotondo che preferiva a tutti e tendeva un orecchio inquieto verso la camera che aveva abbandonato. Ma Camilla non riapri mai la porta. Sola, attirava a sé il lenzuolo spiegazzato, la coperta di seta ovattata, si mordeva pel dispetto e il rimpianto l’indice ripiegato e abbassava con un colpo secco la lunga palpebra di metallo cromato che proiettava attraverso il letto una sottile striscia di luce bianca.

Alain non seppe mai se ella aveva dormito nel letto vuoto dove imparava, così giovane, che una notte solitaria impone un risveglio armato: ricompariva infatti fresca, un po’ adorna, sdegnosa del pigiama o dell’accappatoio della sera prima. Ma ella non poteva comprendere che l’umor sensuale dell’uomo è una stagione breve, che talvolta ritorna, ma non ricomincia più.

Sdraiato, solo, l’infedele, bagnato d’aria notturna, misurava il silenzio e l’altezza della cima dai sibili smorzati dei battelli, sulla Senna vicina, e ritardava il sonno sino all’apparizione di Saha. Ella veniva a lui – ombra più azzurra dell’ombra – sull’orlo della vetrata aperta. Rimaneva là, in agguato e non scendeva sul petto di Alain sebbene egli la pregasse con parole che Saha riconosceva.

«Vieni, piccolo puma, vieni… Gatta delle cime, gatta dei lillà, vieni, Saha, Saha, Saha…»

Ella resisteva, seduta più in alto di lui sul davanzale della finestra. Di lei, egli distingueva soltanto, contro il cielo, il profilo felino, il mento chino, le orecchie appassionatamente orientate verso di lui: e non potè mai sorprendere l’espressione del suo sguardo.

A volte l’alba secca, l’alba prima del levar del vento li vide seduti sul terrazzo dell’est contemplare, guancia contro guancia, l’impallidire del cielo e il volo dei piccioni bianchi che lasciavano – ad uno ad uno – il bel cedro della Folie-Saint-Jammes. Insieme, si stupivano d’esser così alti sopra la terra, così soli e così poco felici. Con un movimento ardente e onduloso da cacciatrice Saha seguiva il volo dei piccioni ed esalava qualche «ek… ek…», eco indebolita dei «muek… muek…» d’eccitazione, di brama, e di gioco violento.

«La nostra camera, – le diceva Alain all’orecchio, – il nostro giardino, la nostra casa…»

Saha dimagriva nuovamente e Alain la trovava leggera, deliziosa. Ma soffriva nel vederla così dolce, e paziente come tutti coloro che una promessa sfibra e sostiene.

Il sonno riafferrava Alain a mano a mano che il giorno, sorgendo, accorciava le ombre. Frastagliato, prima, e ingrandito dalla bruma parigina, poi rimpicciolito, alleggerito e già

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ardente, il sole s’innalzava, accendendo un crepitio di passeri nei giardini. La luce accresciuta rivelava sulle terrazze, sui davanzali dei balconi, nei cortiletti dove languivano arbusti prigionieri, il disordine di una notte calda, un vestito dimenticato sopra una sedia a sdraio di canna d’India, bicchieri vuoti sopra un tavolinetto di lamiera, un paio di sandali. Alain odiava l’impudore dei piccoli appartamenti oppressi dall’estate e ritornava con un balzo al suo letto, attraverso una finestra aperta della veranda. Giù, giù, in fondo alla casa a nove piani, un giardiniere alzava la testa per vedere quel giovane tutto bianco che attraversava con un balzo da malandrino la parete traslucida.

Saha non lo seguiva. A volte inclinava un’orecchia verso la camera triangolare, a volte osservava senza interesse il risveglio di un mondo lontano, a livello del suolo.

Da una casetta caduca un cane, sguinzagliato, si slanciava, muto, girava intorno al giardinetto e non ritrovava la voce che dopo una corsa senza scopo. Donne comparivano alla finestra, una serva furibonda sbatteva le porte, scuoteva cuscini arancione sopra un tetto piatto all’italiana; uomini destati a malincuore accendevano la prima, amara sigaretta… Finalmente nella cucina senza fuoco della Fetta-di-formaggio si urtavano la caffettiera automatica a fischio e la teiera elettrica – dall’oblò della stanza da bagno uscivano il profumo e lo sbadiglio ruggente di Camilla…

Saha, rassegnata, ripiegava le zampe sotto il ventre e fingeva il sonno.

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Una sera di luglio, mentre tutt’e due attendevano il ritorno di Alain, Camilla e la gatta riposavano sullo stesso parapetto, la gatta accucciata sulle zampe ripiegate, Camilla appoggiata sulle braccia in croce. A Camilla non piaceva quel balconcino riservato alla gatta, limitato da due pareti in muratura che lo proteggevano dal vento e da ogni comunicazione con il terrazzo di prua.

Si scambiarono un’occhiata di pura indagine e Camilla non rivolse la parola a Saha. Si sporse sui gomiti come per contare le file di tende arancione tese come vele dall’alto al basso della facciata vertiginosa. Sfiorò la gatta che si alzò per farle posto, si stirò e andò a riaccucciarsi un poco più lontano.

Non appena era sola, Camilla tornava a somigliare alla ragazzetta che non voleva dir buongiorno ed il suo volto diveniva infantile, con quell’espressione di inumana semplicità, di durezza angelica, che nobilita il volto dei bambini. Lasciava vagare su Parigi, sul cielo dal quale la luce fuggiva ogni giorno più presto, uno sguardo imparzialmente severo, che forse non biasimava nulla. Sbadigliò nervosamente, mosse distratta alcuni passi, si sporse di nuovo, obbligando la gatta a saltare a terra.

Saha si allontanò con dignità e preferì rientrare nella camera. Ma la porta era chiusa e Saha sedette pazientemente. Un istante dopo doveva cedere il passo a Camilla, che si mise a camminare da una parete all’altra a passi bruschi e lunghi: e la gatta saltò sul parapetto. Come per gioco Camilla la fece sloggiare, affacciandosi, e Saha di nuovo si ritirò contro la porta chiusa.

Con l’occhio fisso all’orizzonte, immobile, Camilla le voltava le spalle: eppure la gatta contemplava la schiena di Camilla e il suo respiro si faceva più frequente. Si levò, girò due o tre volte su se stessa, interrogò la porta chiusa. Camilla non s’era mossa. Saha gonfiò le narici dimostrando un’angoscia che somigliava alla nausea, ed un miagolio lungo, desolato – misera risposta ad una decisione imminente e muta – le sfuggi; Camilla si volse.

Era un poco pallida ed il belletto, ora evidente, le disegnava sulle guance due lune ovali. Simulava un’aria distratta, come avrebbe fatto sotto uno sguardo umano. Si mise perfino a canticchiare a bocca chiusa e riprese la passeggiata dall’una all’altra parete sul ritmo del suo canto: ma la voce le mancò. La gatta fu costretta, per non essere schiacciata, a risalire d’un balzo sul suo stretto osservatorio, poi ad appiattirsi contro la porta.

Saha si era ripresa e sarebbe morta piuttosto che gettare un secondo grido. Braccando la gatta coll’aria di non vederla, Camilla passeggiava avanti e indietro, in assoluto silenzio. Saha balzava sul parapetto solo quando i piedi di Camilla erano sopra di lei, e non ritornava sul pavimento del balcone se non

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per evitare il braccio teso che l’avrebbe precipitata dall’altezza di nove piani. Fuggiva con metodo, saltava con cura, teneva gli occhi fissi sull’avversaria e non accondiscendeva né al furore né alla supplica.

L’emozione acutissima e la paura della morte bagnarono di sudore le sensibili piante delle sue zampe che lasciarono impronte di fiori sull’asfalto del balcone.

Parve che Camilla cedesse per prima e lasciasse disperdere la sua forza criminale. Ella commise l’errore di notare che il sole si spegneva, diede un’occhiata al suo orologio da polso, tese l’orecchio ad un tintinnio di cristalli nell’appartamento. Pochi istanti ancora e la sua risoluzione, abbandonandola come il sonno abbandona il sonnambulo, l’avrebbe lasciata innocente e sfinita… Saha sentì che la fermezza della sua nemica vacillava, esitò sul parapetto, e Camilla, tendendo le due braccia, la spinse nel vuoto. Ebbe il tempo di udire il raspar delle unghie sull’intonaco, di vedere il corpo azzurro di Saha contorto a S, aggrappato all’aria con una forza ascendente da trota. Poi indietreggiò e si appoggiò al muro.

Non mostrò alcuna tentazione di guardare giù, nel piccolo orto circondato da pilastri nuovi. Ritornata in camera sua portò la mano alle orecchie, le ritrasse, scosse la testa come se udisse un ronzio d’insetto, sedette, e fu lì lì per addormentarsi. Ma la notte che avanzava la rimise in piedi ed ella scacciò il crepuscolo, accendendo lastre di vetro, strie luminose, funghi accecanti, ed anche la lunga palpebra cromata che versava uno sguardo opalino attraverso il letto.

Si moveva con elasticità, toccava gli oggetti con mani leggere, agili, sognanti.

«Mi par quasi d’essere più magra» disse ad alta voce.Mutò d’abito, si vesti di bianco.«O mia mosca nel latte» disse imitando la voce di Alain.

Le sue guance ripresero colore al passar di un ricordo sensuale che la restituì alla realtà. E attese l’arrivo di Alain.

Curvava la testa verso l’ascensore ronzante, trasaliva a tutti i rumori – tonfi sordi di trampolini, schiaffi metallici, cigolìi di battelli ancorati, musiche strangolate che la vita discordante di una casa nuova esala: ma non si meravigliò che il bubbolio cavernoso del campanello sostituisse, nell’anticamera, il tentar di una chiave nella serratura, e corse lei stessa ad aprire.

«Chiudi la porta, – comandò Alain, – voglio vedere prima di tutto se non è ferita. Vieni ad accendermi la luce.»

Recava Saha, viva, tra le braccia. Andò diretto in camera, scostò i ninnoli della pettiniera invisibile, posò dolcemente la gatta sulla lastra di vetro. Saha rimase dritta in equilibrio sulle

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zampe, ma girò intorno lo sguardo dei suoi occhi profondamente infossati, come se si fosse trovata in una casa estranea.

«Saha! – chiamò Alain a mezza voce. – Se non s’è fatta nulla è un miracolo… Saha!»

Saha alzò la testa come per tranquillare l’amico e appoggiò la guancia contro la mano di lui.

«Cammina un po’, Saha… Cammina!… Una caduta di cinque piani… E’ stata la tenda dell’inquilino del secondo piano che ha attutito il colpo… Di là è rimbalzata sul praticello dei portinai; il portinaio l’ha vista passar per l’aria. Mi ha detto: credevo fosse un ombrello che cadesse… Ma cos’ha all’orecchio?… No, è un po’ di bianco del muro… Aspetta che le sento il cuore…»

Sdraiò la gatta sopra un fianco e auscultò le costole pulsanti, il meccanismo minuscolo e disordinato. Coi capelli biondi sparsi, gli occhi chiusi, parve dormire sul fianco di Saha, destarsi con un sospiro, e scorgere appena Camilla che guardava, dritta in piedi e silenziosa, il loro gruppo serrato.

«Incredibile!… Non s’è fatta nulla… o almeno io non trovo altro che un cuore terribilmente agitato… ma un cuore di gatto è normalmente agitato… Chissà come è potuto succedere! Già, lo domando a te, povera piccina, come se tu lo potessi sapere… E’ caduta da quella parte… – disse guardando la portafinestra spalancata. Salta a terra, Saha, se puoi…»

Dopo un momento d’esitazione Saha saltò, ma tornò a sdraiarsi sul tappeto. Respirava in fretta e continuava a girar per la camera uno sguardo incerto.

«Quasi quasi telefonerei a Chéron… Ma pure, vedi, si lava. Non si laverebbe se avesse un male nascosto. Ah, Dio mio!…»

Si stirò, gettò la giacca sul letto e s’avvicinò a Camilla.«Che spavento!… Ma come sei carina, così, tutta in

bianco… Dammi un bacio, mosca nel latte!»Ella s’abbandonò fra quelle braccia che si ricordavano

finalmente di lei e non potè trattenere un singhiozzo affannoso.«No?… Piangi?»A sua volta egli si commosse e nascose la fronte fra quei

morbidi e neri capelli.«Io… io… figurati! Non sapevo che tu fossi buona!»Camilla ebbe il coraggio di non allontanarsi, nell’udir

quella parola. Alain, poi, tornò subito a Saha e volle condurla sulla terrazza a prender caldo. Ma la gatta resistette, e si accontentò di accucciarsi sulla soglia, rivolta alla sera azzurrina

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come lei. Tratto tratto, aveva un lieve sobbalzo e sorvegliava dietro di sé il fondo della camera triangolare.

«È lo shock, – spiegò Alain. – Avrei voluto che andasse fuori…»

«Lasciala stare, – disse debolmente Camilla, – dal momento che non vuole.»

«I suoi capricci sono ordini. Specialmente oggi. Che cosa ci può essere ancora di mangiabile, a quest’ora? Nove e mezzo!»

Mamma Buque spinse la tavola sulla terrazza ed essi pranzarono davanti alla Parigi dell’est, la più picchiettata di lumi.

Alain parlava molto, beveva acqua e vino, accusava Saha di sbadataggine, di imprudenza di «errore felino».

«Gli “errori felini” son specie di errori sportivi, debolezze cagionate dallo stato di domesticità, di civiltà… Non hanno niente in comune con certe sbadataggini e rozzezze quasi volute…»

Ma Camilla non gli chiedeva più: «Come fai a saperlo?».Dopo pranzo prese in braccio Saha e trascinò Camilla

nello studio, dove la gatta acconsenti a bere il latte che aveva prima rifiutato. Bevendo, tremava per tutto il corpo, come i gatti ai quali si danno da bere liquidi troppo freddi.

«Lo shock, – ripetè Alain. – E’ meglio comunque che dica a Chéron di passare a vederla domattina… Ah, dimenticavo tutto! – gridò allegramente. – Citofona. Ho lasciato in portineria un rotolo portato da Massart, quel bel tipo del nostro tappezziere.»

Camilla obbedì, mentre Alain stanco, pacificato si lasciava cadere in una delle poltrone a rotelle e chiudeva gli occhi.

«Pronto! – citofonava Camilla. – Sì… Dev’esser quello… Un gran rotolo… Grazie, grazie…»

Cogli occhi chiusi Alain rideva. Ella era tornata vicino a lui e lo guardava ridere.

«Ma che bella vocina hai fatto… Che cos’è questa vocina nuova nuova? “Un gran rotolo… Grazie, grazie!”, – Le rifece il verso. – La riservi alla portinaia quella vocina? Vieni, in due avremo appena appena forza bastante per affrontare le ultime creazioni di Massart.»

Srotolò sul tavolo d’ebano un grande telo di whatmann. Subito Saha, innamorata di tutte le cartacce, saltò sul disegno acquerellato.

«Com’è cara! – esclamò Alain. – Fa così per dimostrare che non s’è fatta nulla! Oh, la mia sopravvissuta! Ma non ti pare che abbia un bernoccolo sulla testa? Toccale un po’ la

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testa, Camilla… No, non ci son bernoccoli… Ma toccala egualmente…»

Una povera, piccola assassina, docile, cercò di uscire dalla segregazione in cui stava sprofondando, sporse la mano e toccò piano, con un odio umiliato, il cranio della gatta.

Un selvaggio grido, un balzo epilettico risposero al suo gesto e Camilla fece «Ah!» come se si fosse scottata.

In piedi sul disegno srotolato, la gatta copriva la giovine donna di un’accusa infiammata, erigeva il pelo della schiena, scopriva i denti e il rosso secco delle sue fauci. «

Alain s’era alzato, pronto a proteggere l’una dall’altra Saha e Camilla.

«Attenta… E’ forse… forse… impazzita… Saha…»Saha lo guardò con violenza, ma con una lucidità

d’espressione che escludeva ogni follia.«Che cos’è avvenuto? Dove l’hai toccata?»«Ma non l’ho toccata.»Parlavano a bassa voce, a fior di labbra.«Oh, guarda!… – disse Alain. – Non capisco… Avanza

ancora la mano.»«No, basta! – protestò Camilla. E aggiunse: – Forse è

idrofoba.»Alain si arrischiò ad accarezzare Saha che distese il pelo

irto, si modellò sotto la palma amica ma ricondusse su Camilla la luce dei suoi occhi.

«Oh, guarda! – ripetè lentamente Alain. – To’, ha una scorticatura sul naso, non avevo visto… Sangue coagulato… Buona, Saha, buona» disse vedendo il furore che cresceva negli occhi gialli.

Colle guance gonfie, i baffi rigidi e aggressivi sporti in avanti, la gatta furibonda sembrava ridesse. L’allegria delle battaglie le stirava gli angoli violacei delle fauci, il mobile mento muscoloso, e tutto il viso felino anelava ad un linguaggio universale, ad una parola dimenticata dagli uomini.

«Che vuol dir ciò?» fece bruscamente Alain.«Che cosa?»Sotto lo sguardo della gatta Camilla ritrovava il coraggio e

l’istinto della difesa. Curvo sull’acquerello Alain studiava le impronte umide a gruppi di quattro piccole macchie intorno ad una macchia centrale irregolare.

«Le sue zampe… umide?» mormorò Alain. «Avrà camminato nell’acqua, – disse Camilla. Quante storie per nulla!»

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Alain levò il capo verso la notte azzurra e asciutta. «Nell’acqua? Quale acqua?»

Si rivolse alla donna, stranamente imbruttito dagli occhi arrotondati.

«Sai che cosa significano quelle tracce? – disse aspramente. – No, tu non ne sai nulla. Significano paura, capisci?, paura. Il sudore della paura, il sudore del gatto, il solo sudore del gatto… Dunque, ha avuto paura.»

Prese con delicatezza una zampa anteriore di Saha e con un dito ne asciugò la pianta carnosa. Poi rovesciò la vivente guaina bianca ove riposavano le unghie retrattili.

«Ha tutte le unghie rotte, – disse parlando tra sé. Si è trattenuta, aggrappata… Ha graffiato la pietra aggrappandosi… E…»

S’interruppe, prese senza più dir parola la gatta sotto il braccio e la portò nella stanza da bagno. Sola, immobile, Camilla tendeva l’orecchio. Teneva le mani intrecciate e, libera, sembrava carica di catene.

«Mamma Buque, – diceva la voce di Alain, – c’è del latte?»

«Sì, signore, nella ghiacciaia.» «Allora, è gelato.»«Ma posso farlo intiepidire sul fornello elettrico… un

attimo… E’ per la gatta? È malata…?» «No, è…»La voce di Alain s’arrestò di colpo, e mutò: «…è un po’

disgustata della carne, con questo caldo… Grazie, mamma Buque… Sì, sì, vada pure; a domani».

Camilla udì suo marito camminare avanti e indietro, aprire un rubinetto; seppe che provvedeva alla gatta, cibo e bevanda freschi. Un’ombra diffusa, sopra un paralume di metallo, saliva fino al volto di Camilla dove solo le grandi pupille lentamente si movevano.

Alain ritornò, stringendo con aria noncurante la cintura di cuoio dei pantaloni, e risedette alla tavola d’ebano. Ma non richiamò Camilla vicino a sé, ed ella dovette parlar per prima.

«Hai lasciato in libertà mamma Buque?»«Sì. Ho fatto male?»Accendeva una sigaretta e guardava strabico la fiamma

dell’accenditore.«Avrei voluto che domattina portasse… Oh, ma non

importa, non hai bisogno di scusarti.»«Ma non mi scuso… Già, avrei dovuto farlo…»Si avvicinò alla veranda aperta, attirato dall’azzurro della

notte. Studiava, nel suo intimo, un fremito che non veniva dall’emozione recente, un fremito paragonabile ad un

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«tremolo» d’orchestra, soffocato e annunciatore. Dalla Folie-Saint-Jammes un razzo sali, scoppiò in petali luminosi che ricadendo appassirono ad uno ad uno, e l’azzurro della notte ritrovò la sua pace, la sua polverulenta profondità. Nel parco della Folie una grotta di finta roccia, un colonnato, una cascata si illuminarono in un bianco incandescente, e Camilla si avvicinò.

«C’è una festa?… Aspettiamo i fuochi d’artificio… Senti le chitarre?»

Egli non le rispose, assorto nel suo fremito. Coi polsi e le mani formicolanti, le reni stanche e tormentate da mille punture, il suo stato gli ricordava un’esecrata stanchezza, la fatica delle antiche competizioni sportive, in collegio – corse a piedi, gare di voga – dalle quali usciva vendicativo, sprezzante della propria vittoria o della propria sconfitta; palpitante e sfinito. Era tranquillo in una sola parte dell’essere suo, quella che non era più inquieta per Saha. Da parecchi minuti – o forse da un attimo – da quando aveva scoperto le unghie rotte di Saha, da quando aveva assistito alla sua furibonda paura, non aveva più avuto esatta coscienza del tempo.

«Non è un fuoco d’artificio, – disse. – Forse, danze.»Dal movimento che Camilla fece, al suo fianco,

nell’ombra, comprese ch’ella non aspettava più la sua risposta.Camilla si fece più ardita, e più vicina. Alain la sentì

venire senza apprensione, scorse, di profilo, il vestito bianco, un braccio nudo, mezzo volto illuminato di giallo dalle lampade dell’appartamento, mezzo volto azzurro, assorbito dalla notte chiara: due mezzi volti divisi dal nasino regolare, dotati, ciascuno, di un grande occhio dalla palpebra quasi immobile.

«Già, ballano, – approvò Camilla. – Sono mandolini, non chitarre. Senti, senti: Quei che fan la seerenaata e le belle ascoltaatrii…»

Sulla nota più alta la voce vacillò, ed ella tossi per dissimulare la sua manchevolezza.

“Che vocina, – diceva fra sé Alain stupito. – Che cosa ne ha fatto della sua voce, aperta come i suoi occhi? Canta con una voce da ragazzina infreddata…”

I mandolini tacquero, la brezza recò un debole rumore umano di piacere e d’applausi. Poco dopo un razzo sali, scoppiò in un ombrello di raggi viola dai quali pendevano lacrime di fuoco vivo.

«Oh!» esclamò Camilla.Eran scaturiti entrambi dall’ombra come due statue,

Camilla in marmo viola, Alain più bianco, coi capelli verdastri e le pupille scolorite.

Spento il razzo, Camilla sospirò.

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«È sempre troppo breve» disse con aria querula.La musica lontana ricominciò. Ma un capriccio del vento

deviò il suono degli strumenti a risonanza acuta, e i tempi forti – due note d’accompagnamento – di uno degli ottoni salirono pesantemente fino ad essi.

«Peccato, – disse Camilla. – Hanno certo un ottimo jazz… Suonano Love in the night.»

Ne canticchiò la melodia con una voce inafferrabile, tremula, alta, una voce come di chi avesse appena finito di piangere. Quella voce nuova raddoppiava il malessere di Alain, faceva sorgere in lui un bisogno di rivelazione, il desiderio di spezzare ciò che – da parecchi minuti, o forse da un attimo – sorgeva tra lui e Camilla, ciò che ancora non aveva nome ma rapidamente cresceva, ciò che gli vietava di afferrar Camilla per il collo come un camerata, ciò che lo teneva affacciato e immobile, attento, presso al muro ancora tiepido del calor del giorno…

Si fece impaziente e disse:«Canta ancora».Una lunga pioggia tricolore, a ramificazioni pendule come

i rami di un salice piangente, striò il cielo sopra il parco e rivelò ad Alain Camilla sbalordita, già in atteggiamento di sfida.

«Cantar che cosa?»«Love in the night, o qualcos’altro.»Ella esitò, rifiutò:«Lasciami sentire il jazz… Anche di qui, si capisce che è

d’un morbido…».Alain non insistette, trattenne la sua impazienza, domò il

formicolio che faceva vibrare tutto il suo corpo.Uno sciame di piccoli allegri soli che gravitavano leggeri

sulla notte, prese l’avvio mentre Alain li confrontava segretamente colle costellazioni dei suoi sogni preferiti.

“Questi sono da ricordare… Cercherò di portarli laggiù, – notò gravemente. – Ho troppo trascurato i miei sogni…”

Nel cielo, infine, sopra la Folie nacque e si gonfiò una specie d’aurora vagabonda, gialla e rosa, che scoppiò in medaglie vermiglie, in felci fulminanti, in nastri di accecante metallo…

Grida infantili, dalle terrazze dei piani inferiori, salutarono il prodigio, alla luce del quale Alain vide Camilla distratta, assorta, richiamata in sé da altre luci…

La sua esitazione cessò non appena la notte si richiuse, ed egli fece scivolare il suo braccio nudo sotto il braccio nudo di Camilla. Toccandolo gli parve di vederlo, d’un bianco appena

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tinto dall’estate, vestito di una peluria sottile aderente all’epidermide, più dorata verso l’avambraccio, più pallida verso la spalla…

«Sei fredda, – mormorò. – Non stai bene?»Ella pianse silenziosamente, e così d’improvviso che Alain

la sospettò di aver preparato quelle lacrime.«No… Sei tu… sei tu che… che non mi ami.»Egli si addossò al muro e strinse Camilla contro il suo

fianco. La sentiva tremante e fredda, dalla spalla sino alle ginocchia nude sopra le calze arrotolate. Ella aderiva a lui fedelmente, abbandonandosi con tutto il suo peso.

«Ah, ah, non ti amo! Ho capito. E’ ancora una scena di gelosia a cagione di Saha?»

Egli percepì, in tutto il corpo che s’appoggiava a lui, un’onda muscolosa, una ripresa d’energia e di difesa, ed insistette, incoraggiato dall’ora, da una specie di indicibile opportunità.

«Invece di adottare come me quella cara bestiola… Non saremmo gli unici sposi affezionati ad un gatto, ad un cane… Vuoi forse un pappagallo, un uistiti, una coppia di colombelle, un cane, per farmi ingelosire a mia volta?»

Ella scrollò le spalle, protestando a bocca chiusa, con voce corrucciata. A testa alta Alain sorvegliava la propria voce e si incitava.

“Su, su, ancora due o tre fanciullaggini, qualche battuta di contorno, e riusciremo a qualcosa di serio… E’ come un boccale, Camilla, bisogna che lo rovesci per vuotarlo… Su, su…”

«Vuoi un leoncino, un giovine coccodrillo di appena cinquant’anni… No?… Va’, faresti meglio ad adottare Saha… Se appena ti ci mettessi…»

Camilla si strappò dalle sue braccia sì rudemente ch’egli vacillò.

«No, – gridò. – Questo mai! Capisci? Mai!»Esalò un furibondo sospiro, e ripetè a voce più bassa:«Ah no! Mai!».“Ci siamo” disse fra sé Alain con delizia.Spinse Camilla in camera, fece cadere la tenda esterna,

accese il rettangolo di vetro nel soffitto e chiuse la finestra. Con un movimento animale Camilla si avvicinò all’uscita che Alain riapri:

«A condizione che tu non gridi» disse.Fece rotolar vicino a Camilla l’unica poltrona e si mise a

cavalcioni dell’unica sedia a pie del letto ampio, scoperto,

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preparato per la notte. Le tende d’incerato, spiegate per la notte, davano un tono verdastro al pallore di Camilla e al suo abito bianco spiegazzato.

«Dunque? – interrogò Alain. – Accomodamento impossibile? Affaraccio? O lei o te?»

Ella rispose con un breve cenno del capo e Alain comprese che bisognava lasciar da parte il tono scherzoso.

«Che cosa vuoi che ti dica? – riprese dopo un silenzio. – La sola cosa che non voglio dirti? Sai bene che non rinuncerò a quella gatta. Ne avrei vergogna. Vergogna davanti a me stesso, davanti a lei…»

«Lo so» disse Camilla.«…e davanti a te» fini Alain.«Oh, io…» disse Camilla alzando una mano.«Conti anche tu, – disse Alain duramente. – Insomma, è

soltanto con me che ce l’hai? Non hai altro da rimproverare a Saha che il bene che mi vuole?»

Ella rispose soltanto con uno sguardo torbido e sfuggente: e Alain fu irritato di doverle rivolgere altre domande. Aveva creduto che una scena breve e violenta avrebbe risolto ogni cosa, era partito contando su quella facile soluzione. Ma, dopo aver gettato quel primo grido Camilla s’era ripiegata su se stessa e non offriva esca al fuoco.

Egli cominciò pazientemente:«Senti, piccola… Che c’è? Non posso chiamarti piccola?

Senti, se si trattasse di un altro gatto, e non di Saha, saresti più conciliante?».

«Certo, – ella rispose in fretta. – Non l’ameresti così.»«Giusto» disse Alain con calcolata lealtà.«Anche una donna, – continuò Camilla riscaldandosi, –

anche una donna non l’ameresti certo così.»«Giusto» disse Alain.«Tu non sei come gli altri che amano le bestie… Patrick,

lui, ama le bestie… Prende i grossi cani per la collottola, li fa rotolare, imita i gatti per veder la loro espressione sbalordita, rifa il verso agli uccelli…»

«Sì, insomma, non ha gusti difficili» disse Alain.«Tu, è un’altra cosa, tu ami Saha…»«Non l’ho mai nascosto, ma neppure ho mentito dicendoti

che Saha non era tua rivale…»S’interruppe e abbassò le palpebre sul suo segreto, ch’era

un segreto di purezza.«C’è rivale e rivale» disse Camilla con sarcasmo.

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Arrossì di colpo, s’infiammò d’improvvisa ebbrezza, s’avanzò verso Alain.

«Vi ho veduti, – gridò, – alla mattina, quando passi la notte sul divanino… Prima che spuntasse il giorno, vi ho visti, tutt’e due…»

Tese un braccio tremante verso la terrazza.«Tutt’e due seduti… non mi avete neppure sentita… Ve ne

stavate così, guancia contro guancia…»Andò sino alla finestra, riprese fiato, ritornò verso Alain:«Di’ tu, onestamente, se ho torto di non poter vedere

quella gatta, torto di soffrire».Egli rimase zitto così a lungo ch’ella si irritò di nuovo.«Ma parla! Di’ qualche cosa! Al punto in cui siamo… Che

cosa aspetti?»«Il seguito, – disse Alain. – Il resto.»Si alzò piano, si chinò sulla moglie e abbassò la voce

designando la portafinestra:«Sei stata tu, vero? Tu l’hai gettata…».Con un pronto scatto Camilla riparò a difesa dietro il letto

ma non negò. Egli la guardò fuggire con una specie di sorriso:«Tu l’hai gettata giù, – disse cogitabondo. – Ho ben sentito

che tutto era cambiato fra noi… Tu l’hai gettata giù, e lei si è rotta le unghie per aggrapparsi al muro…».

Chinò il capo, immaginò l’attentato.«Come hai fatto a buttarla? Tenendola per la collottola?…

Approfittando del suo sonno sul parapetto?… E’ molto tempo che meditavi il colpo? Vi siete battute, prima?»

Alzò la fronte, guardò le mani e le braccia di Camilla. «No, non sei segnata. Ti ha denunciato bene, eh, quando ti obbligai a toccarla… Era magnifica.»

Il suo sguardo abbandonò Camilla, abbracciò la notte, la cenere di stelle, le cime dei tre pioppi rischiarate dalla luce della camera.

«Bene, – disse semplicemente. – Me ne vado.»«Oh ascolta… ascolta…» supplico Camilla, come pazza, a

bassissima voce.Pure, lo lasciò uscir dalla camera. Egli aprì un armadio,

parlò alla gatta nella stanza da bagno. Il rumor dei suoi passi avverti Camilla ch’egli s’era messo le scarpe: macchinalmente ella guardò l’ora. Alain ritornò portando Saha in un paniere panciuto di cui mamma Buque si serviva per far la spesa. Vestito in fretta, coi capelli mal ravviati, un fazzoletto di seta al collo, aveva un’aria di disordine amoroso, e le palpebre di

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Camilla si gonfiarono… Ma ella udì Saha agitarsi nel paniere, e strinse le labbra.

«Ecco, me ne vado» ripetè Alain.Abbassò gli occhi, sollevò un poco il paniere e corresse

con calcolata crudeltà:«Ce ne andiamo».Assicurò il coperchio di vimini, spiegando: «Non ho

trovato altro in cucina». «Vai a casa tua?» chiese Camilla sforzandosi di imitare la calma di Alain. «Si capisce.»

«Ma tu… posso contare di vederti, in questi giorni?» «Ma certo.»

Ad un tratto ella sentì che stava per cedere ancora, giustificarsi, piangere, resistette a fatica.

«E tu, – disse Alain, – resti sola qui, stanotte? Non avrai paura? Se proprio tu lo volessi, resterei, ma…»

Rivolse il capo verso la terrazza:«…ma francamente non ci tengo… E che cosa conti di

dire, a casa tua?»Ferita nel sentirsi, con quelle parole, rimandare ai suoi,

Camilla si raddrizzò:«Non ho nulla da dir loro. Son cose che riguardano me

sola, penso, e non ho mai avuto alcuna predilezione per i consigli di famiglia».

«Non posso che darti ragione, per ora.»«Del resto potremmo decidere, a partir da domani…»Egli sollevò la mano libera per parare quella minaccia

d’avvenire:«No. Domani no. Oggi non ha domani».Sulla soglia della camera si voltò:«Nella stanza da bagno ho lasciato la mia chiave, e il

denaro che c’era in casa…».Ella lo interruppe, ironica:«Perché non una cassa di viveri in conserva e una

bussola?».Faceva la coraggiosa, lo squadrava con una mano sul

fianco, la testa diritta sul bel collo. “Cura la scena della mia sortita” pensò Alain. Volle replicare con un’analoga civetteria dell’ultima ora, scrollare i capelli sulla fronte, lanciarle uno sguardo smorzato fra le ciglia, sdegnoso di posarsi: ma rinunciò ad una mimica incompatibile col paniere delle provviste e si limitò ad un vago saluto verso Camilla.

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Ella mantenne il suo atteggiamento, il suo apparato teatrale. A distanza egli vide meglio, prima di uscire, com’eran cerchiati i suoi occhi, com’eran madide le sue tempie, e il collo impeccabile.

Da basso, traversò macchinalmente la strada colla chiave della rimessa in mano. “No, non posso far ciò” rifletté, e, voltate le spalle, si diresse verso il viale, piuttosto lontano, dove di notte passavano i tassi vagabondi. Saha miagolò due o tre volte ed egli la calmò colla voce.

“Già, non posso far questo, ma la macchina sarebbe veramente molto più comoda. Neuilly è impossibile, di notte. ”

Era stupito: aveva contato di provare un senso di riposo e invece, ora ch’era solo, s’accorgeva di perdere il suo sangue freddo; neppure camminare lo liberava dall’inquietudine nervosa. S’imbattè alfine in un tassi: e trovò lunga la corsa di cinque minuti.

Rabbrividiva nella notte tiepida, sotto il fanale a gas, in attesa che il cancello s’aprisse. Saha, che aveva riconosciuto l’odor del giardino, miagolava a piccoli scatti nel paniere posato sul marciapiede.

Il profumo dei glicini in seconda fioritura traversò l’aria e Alain tremò più forte appoggiandosi or sopra un piede or sopra l’altro, come per un freddo pungente.

Suonò una seconda volta, giacché nulla s’era destato nella casa, nonostante la sonorità grave e scandalosa del grosso campanello. Finalmente una luce apparve nelle piccole costruzioni della rimessa ed egli udì sulla ghiaia il passo strisciante del vecchio Emilio.

«Sono io, Emilio» disse quando il volto scolorito del vecchio servitore s’appoggiò alle sbarre del cancello.

«Il signor Alain? – disse Emilio accentuando il tremolar della sua voce. – La giovane signora è forse indisposta? L’estate è traditrice… Il signor Alain ha una valigia?»

«No, è Saha… Lascia, la porto io. No, non accendere i globi, la luce potrebbe destar la signora… Aprimi solo la porta d’ingresso e torna a letto.»

«La signora è sveglia… È lei che ha suonato per chiamarmi, io non avevo udito il campanello dell’ingresso… Sa, ero nel primo sonno, e allora…»

Alain s’affrettò per sfuggire alla litania del vecchio, al rumor di passi incerti che lo seguivano. Non inciampava alle svolte dei viali benché la notte fosse illune. Il grande prato, più pallido delle aiole a fiori, lo guidava. L’albero morto, coperto di rampicanti, al centro del prato, sembrava un uomo enorme, diritto in piedi, col mantello sopra un braccio. L’odore dei

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gerani annaffiati arrestò Alain, afferrandolo alla gola. Egli si chinò, aprì a tentoni il paniere, liberò Saha.

«Saha, il nostro giardino.»Egli la sentì colar fuor dal paniere e, per tenerezza, cessò

di occuparsi di lei. Le rese, le dedicò la notte, la libertà, la terra morbida e spugnosa, gli insetti desti e gli uccelli addormentati.

Dietro la persiana del pianterreno una lampada attendeva, e Alain s’incupì.

“Parlare, parlare ancora, spiegare a mia madre… Spiegar che cosa? E’ così semplice, è così difficile…”

Desiderava soltanto il silenzio, la camera tappezzata di mazzolini a tinte piatte, il letto e soprattutto le lacrime veementi, i grossi singulti, rauchi come una tosse, compenso colpevole e furtivo.

«Entra, caro, entra…»Nella camera materna era entrato poche volte. La sua

egoistica avversione per le fiale contagocce, le scatole di digitalina e i tubetti omeopatici datava dall’infanzia e durava tuttora. Ma non seppe resistere alla vista del letto stretto e senza ricercatezza, della donna dai capelli bianchi e fitti, che si sollevava puntando le braccia.

«Sai, mamma, nulla di straordinario…»Accompagnò la frase sciocca con un sorriso di cui ebbe

vergogna, un sorriso orizzontale a guance irrigidite. La stanchezza gli piombava d’un tratto addosso e gli infliggeva una smentita che egli accettò. Sedette presso il guanciale della mamma e sciolse il fazzoletto che gli circondava il collo.

«Ti chiedo scusa se mi presento così vestito… son venuto come mi trovavo. Arrivo ad un’ora impossibile senza neppur avvisare.»

«Ma tu hai avvisato» disse la signora Amparat.Gettò un’occhiata alle calzature impolverate di Alain.«Hai delle scarpe da vagabondo…»«Vengo direttamente da casa… Ma ho dovuto cercare un

tassi per un bel po’… Portavo la gatta.»«Ah, – fece la signora Amparat, con l’aria di chi ha capito,

– hai riportato la gatta?»«Si capisce… se tu sapessi…»Si fermò, trattenuto da un bizzarro sentimento di

discrezione. “Son cose che non si raccontano… Non son storie per i genitori…”

«Camilla non vuol molto bene a Saha, mamma.»«Lo so» disse la signora Amparat.

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Si sforzò di sorridere, scrollò i suoi capelli crespi.«La cosa è molto grave!»«Per Camilla sì» disse Alain malevolo.Si alzò, passeggiò fra i mobili ricoperti di fodere bianche,

per l’estate, come nelle case di provincia. Da quando aveva deciso di non denunciare Camilla non trovava più nulla da dire.

«Sai, mamma, non ci son state scene, né rottura di stoviglie. La pettiniera di cristallo è intatta, e i vicini non han dovuto accorrere. Però… ho bisogno di un po’ di… di solitudine, di riposo. Non ti nascondo che non ne posso più» disse sedendo sul letto.

«No, non me lo nascondi» disse la signora Amparat. Posò una mano sulla fronte di Alain, e rovesciò verso la luce quel giovane volto d’uomo dove spuntava una barba pallida. Egli si lamento, distolse i suoi occhi cangianti e riuscì a differire ancora il tumulto di lacrime che si riprometteva.

«Se nel mio vecchio letto non ci son le lenzuola, mi ci accomoderò egualmente, in qualche modo.»

«Nel tuo letto ci son le lenzuola» disse la signora Amparat. A quelle parole egli abbracciò la mamma, la baciò alla cieca sugli occhi, sulle guance, sui capelli, le mise il naso nel collo, balbettò «buonanotte» e uscì respirando forte dal naso.

Nel vestibolo si riprese e non sali subito le scale perché la notte al suo termine, e Saha, lo chiamavano. Ma non andò lontano, la scala d’ingresso gli bastò. Sedette nell’ombra su un gradino e la mano ch’egli stese incontrò il pelame, i baffi – antenne sottili – e le fresche narici di Saha.

La gatta girava e rigirava su se stessa secondo il costume della fiera carezzevole: parve ad Alain piccolissima, leggera come un gattino neonato, e poiché egli aveva fame, pensò ch’ella aveva bisogno di mangiare.

«Mangeremo domani… fra poco… il giorno è vicino…»Già era profumata di menta, di geranio, di bosso. Era lì,

fiduciosa ed effimera, destinata a dieci anni soli, forse, di vita, ed egli soffriva pensando alla brevità di un sì grande amore.

«Dopo di te io sarò di chi mi vorrà… di una donna… di molte donne… Ma di un altro gatto mai.»

Un merlo zufolò quattro note, di cui risonò tutto il giardino, e si tacque. Ma i passeri l’avevano udito, e risposero. Sul prato, sui cespugli in fiore nascevano i fantasmi dei colori. Alain distinse un bianco svogliato, un rosso intirizzito più triste del nero, un giallo invischiato nel verde circostante, un fiore giallo rotondo che presto gravitò più giallo, seguito da occhi e da lune… Barcollante, soggiogato dal sonno, Alain raggiunse la

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sua camera, gettò gli abiti, scopri il letto chiaro, e la freschezza delle lenzuola lo conquistò tutto.

Sdraiato sul dorso, con un braccio steso, mentre la gatta, muta e assorta, premeva colle zampe alterne la sua spalla egli discendeva a picco e senza arresti nel più profondo riposo quando un sobbalzo lo ricondusse verso l’alba, l’oscillar degli alberi appena svegli, lo stridere del lontano tranvai.

“Che cos’ho?… Volevo… Ah sì, volevo piangere…”Sorrise, e ricadde addormentato.Sonno febbrile, zeppo di sogni. A due o tre riprese credette

di destarsi e di riprender coscienza del luogo ove riposava, ma ogni volta fu disingannato dall’espressione scontrosa delle pareti della camera che spiavano un occhio svolazzante.

“Ma io dormo, insomma, dormo…”“Dormo… – rispose ancora allo scricchiolio della ghiaia. –

Ma se vi dico che dormo!” gridò a due piedi strascicanti che sfioravano la porta. I piedi si allontanarono, e il dormiente, in sogno, s’applaudì Ma il sogno, così frequentemente stuzzicato, era ormai maturo e Alain aprì gli occhi.

Il sole, ch’egli aveva lasciato in maggio sul davanzale della finestra, era diventato ormai un sole d’agosto e non oltrepassava più il tronco serico della magnolia di fronte alla casa.

“Com’è invecchiata, l’estate” disse Alain fra sé.Egli si alzò, nudo, cercò qualcosa da mettersi indosso;

trovò un pigiama troppo corto dalle maniche strette, un accappatoio scolorito, e li infilò con gioia.

La finestra lo chiamava, ma egli si imbatté nella fotografia di Camilla, dimenticata presso il capezzale. Esaminò con curiosità il ritrattino inesatto, lustro, qua impallidito, là annerito.

“E’ più somigliante di quanto non credessi, – pensò. – Come mai non me n’ero accorto? Quattro mesi or sono dicevo: ‘Oh, lei è molto diversa, fine, meno dura…’ ma sbagliavo…”

La brezza lunga ed eguale correva attraverso gli alberi con un murmure fluviale. Intontito, collo stomaco attanagliato dalla fame, Alain si abbandonava:

“Com’è dolce, una convalescenza…”.A render più perfetta quell’illusione, un dito batté alla

porta e la Basca barbuta entrò, recando un vassoio:«Oh, avrei mangiato in giardino, Giulietta!».Ella abbozzò una specie di sorriso tra i suoi peli grigi.«Credevo che… Vuole che le porti il vassoio giù?»

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«No, no, ho troppa fame… Lascia pure qui… Saha entrerà dalla finestra.»

Chiamò la gatta, che sorse da un invisibile rifugio, quasi nascesse al suo richiamo: ella si slanciò sul cammino verticale delle piante rampicanti e ricadde: s’era dimenticata delle sue unghie rotte.

«Aspettami, vengo!»Andò a prenderla, la riportò in braccio e insieme si

rimpinzarono, lei di latte e di biscotti, lui di tartine e di caffè bollente. In un angolo del vassoio una rosellina fioriva l’orecchio del vaso da miele.

“Non è una rosa della mamma” giudicò Alain.Era una rosellina mal fatta, un po’ misera, una rosa

strappata dai rami bassi, che esalava un violento profumo di rosa gialla.

“Questo, è un omaggio della Basca.”Saha, raggiante, sembrava ingrassata, dal giorno innanzi.

Col gorgerino ben teso, le quattro righe ben marcate fra le orecchie fissava il giardino con occhi da despota felice.

«Com’è semplice, nevvero, Saha? Per te, almeno.»Il vecchio Emilio entrò a sua volta, s’impadronì delle

scarpe di Alain.«C’è uno dei legacci che sta per rompersi… Non ne ha un

altro, signorino? Non fa nulla, ne metterò uno dei miei» belò tutto commosso.

“Decisamente è la mia festa” si disse Alain. Questa parola lo respinse per contrasto verso la preoccupazione di tutto ciò che ieri era quotidiano, la toletta, l’ora di andare in ufficio, l’ora di tornare a colazione con Camilla…

«Ma non ho nulla da mettermi!» esclamò.Il rasoio un po’ arrugginito, l’ovulo di sapone rosa, il

vecchio spazzolino, li riconobbe nella stanza da bagno e se ne servi con una gioia da naufrago per burla. Dovette scendere in giardino col suo pigiama troppo corto perché la Basca aveva portato via i suoi abiti.

«Vieni, Saha, Saha…»Ella lo precedette, e Alain si mise a correre, impacciato dai

sandali di rafia sfilacciata, che gli calzavan male. Protese le spalle alla cappa di sole tiepido, e socchiuse gli occhi disabituati al riverbero verde dei prati, al calore ascendente proiettato da un blocco massiccio di amaranti dalla cresta carnosa, da un cespuglio di salvia rossa circondato di eliotropi.

“Oh, la stessa, la stessa salvia! ”

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Quella piccola aiolà a forma di cuore Alain l’aveva sempre conosciuta rossa, e sempre circondata da eliotropi e protetta da un ciliegio vecchio, magro che a volte, in settembre, dava qualche ciliegia…

«Ne vedo sei… sette… sette ciliegie verdi!»Parlava alla gatta che, coll’occhio vuoto e dorato, investita

dallo smisurato odore degli eliotropi socchiudeva la bocca colta dall’estasi nauseata delle fiere sottoposte ai profumi violenti.

Saha masticò un’erba per rimettersi, ascoltò delle voci, strofinò il muso contro i duri fuscelli dei ligustri tagliati. Ma non si abbandonò ad alcuna esuberanza o irresponsabile allegria e camminò nobilmente sotto il piccolo nimbo argenteo che d’ogni parte la circondava.

“Scaraventata dall’alto di nove piani, – pensava Alain guardandola. – Afferrata… o spinta… Forse si è difesa, forse è scappata per esser ripresa e buttata… Assassinata…”

Cercava, così fantasticando, di accendere in se stesso la giusta collera, e non ci riusciva.

“Se amassi veramente, profondamente Camilla, sarei furibondo…”

Intorno a lui il suo regno splendeva, minacciato come tutti i regni.

“Mia madre sostiene che, fra vent’anni, nessuno potrà più tenere case, giardini come questo. Può darsi. Son disposto a perderli: ma non a lasciarvi entrare i…”

Una scampanellata del telefono, dall’interno della casa, lo mise in allarme.

“Via! Avrei forse paura…? Camilla non è tanto stupida da telefonarmi. Rendiamole questa giustizia: non ho mai veduto una giovane signora usare con maggior discrezione quell’ordigno…”

Ma non potè trattenersi dal correre come poteva, perdendo i sandali, inciampando sulla ghiaia rotonda, e dal gridare:

«Mamma, chi telefona?».Il grosso accappatoio bianco apparve sulla balconata, e

Alain ebbe vergogna d’aver chiamato.«Come mi piace il tuo grosso accappatoio bianco, sempre

lo stesso, sempre lo stesso…»«Ti ringrazio pel mio accappatoio» disse la signora

Amparat.Prolungò per un attimo l’attesa di Alain.«Era il signor Veuillet. Sono le nove e mezzo. Non conosci

dunque più le consuetudini della ditta?»

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Pettinò con le dita i capelli del figlio, gli abbottonò il pigiama troppo stretto.

«Oh, sei proprio carino! Hai deciso di trascorrere la tua vita a piedi scalzi, ora?»

Alain le fu grato di quel modo così abile di interrogarlo.«No, certo, mamma. Adesso penserò a sistemar tutto…»La signora Amparat arrestò teneramente il gesto ampio e

vago:«Dove andrai, questa sera?».«Qui!» gridò Alain, e gli occhi gli si empiron di lacrime.«Oh Dio mio, che ragazzo!» disse la signora Amparat, ed

egli accolse la definizione con una gravità da collegiale.«Può darsi, mamma. E vorrei appunto prendere un po’

coscienza di quel che devo fare, uscire da questa infanzia…»«E in che modo? Attraverso un divorzio? È una porta che

fa rumore…»«Ma che dà aria» osò rispondere, pronto, Alain.«E… una separazione temporanea, un regime di riposo, o

di viaggi… non potrebbe dare buoni risultati?»Egli alzò le braccia, indignato.«Ma, cara mamma, tu non sai nulla… Sei lontanissima

dall’immaginare…»Stava per dir tutto, per raccontare l’attentato.«Bene… lasciami lontanissima! Son cose che non mi

riguardano, abbi un po’… di riservatezza, andiamo» disse precipitosamente la signora Amparat, e Alain approfittò del suo pudico errore.

«E adesso, mamma, c’è ancora il lato seccante… voglio dire il punto di vista famigliare che si confonde con quello commerciale… Dal punto di vista dei Malmert, il divorzio sarebbe senza scuse, quali che siano le responsabilità di Camilla… Una sposina di tre mesi e mezzo… Mi par già di sentirli.»

«Ma perché parli di un punto di vista commerciale? Non avete la firma in comune, tu e la piccola Malmert. Una coppia non è mica una ragion sociale.»

«Lo so, mamma. Ma se le cose si metteranno come prevedo, dovremo attraversare un periodo odioso di formalità, di colloqui, di… Non è mai tanto semplice come si dice, un divorzio…»

Ella ascoltava il figlio con dolcezza, sapendo che certe cause fruttano effetti imprevisti e che un uomo è obbligato, nel

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corso della sua vita, a nascere parecchie volte senz’altro soccorso che il caso, le contusioni, gli errori…

«Non è mai semplice lasciare ciò che abbiamo voluto legare a noi, – disse la signora Amparat. – Non è poi così cattiva, quella piccola Malmert… Un po’… rozza, un po’ priva di modi… No, non è cattiva… Così almeno penso io… Ma non voglio importi il mio modo di vedere… c’è tempo per riflettere…»

«Ho già avuto cura di farlo, – disse Alain con sostenuta cortesia. – E sebbene preferisca, pel momento, tener per me una certa storia…»

Il suo volto s’illuminò d’un sorriso, d’una infanzia ritrovata. Diritta sulle zampe posteriori, Saha, con la zampa a cucchiaio sopra un innaffiatoio pieno, pescava le formiche annegate.

«Guardala, mamma. Non è un prodigio di gatta?»«Sì, – sospirò la signora Amparat, – è la tua chimera.»Egli si stupiva sempre quando sua madre usava una parola

rara. Salutò questa curvandosi a deporre un bacio sopra una mano precocemente invecchiata, dalle grosse vene, chiazzata di quelle lunule brune che Giulietta, la Basca, chiamava lugubremente «macchie di terra».

Una scampanellata, al cancello, lo fece tornar dritto.«Nasconditi – disse la signora Amparat. – Siamo sul

passaggio dei fornitori… Vai a vestirti… Vuoi che il garzone del macellaio ti sorprenda conciato così?»

Ma entrambi sapevano che il garzone del macellaio non suonava al cancello principale e già la signora Amparat voltava le spalle e si affrettava su per la scalinata sollevando a due mani l’accappatoio.

Al di là della siepe tagliata Alain vide passare, correndo, la Basca, che se la dava a gambe col suo grembiule di seta nera al vento, e uno strascicar di pantofole sulla ghiaia denunciò la fuga del vecchio Emilio.

Alain gli tagliò la strada.«Avete aperto, almeno?»«Sì, signor Alain, la giovane signora è arrivata colla sua

macchina…»Alzò al cielo uno sguardo atterrito, si strinse fra le spalle

come sotto la grandine e disparve.“Quanto a paura, è una bella paura… Avrei voluto

vestirmi… To’, ha un tailleur nuovo.”Camilla lo aveva scorto e veniva diritta a lui, senza

affrettar troppo il passo. In uno di quei momenti di turbamento

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quasi ilare, che scaturiscono dalle ore drammatiche, egli pensò confusamente: “Magari viene a far colazione…”.

Truccata con cura e con leggerezza, armata di ciglia nere, di belle labbra dischiuse, di denti brillanti, ella parve smarrire un po’ della sua decisione quando Alain le mosse incontro; egli, infatti, le si avvicinava senza staccarsi dalla sua atmosfera protettrice, sfiorava l’erba nativa sotto la complicità fastosa degli alberi, e Camilla lo contemplava con occhi da povero.

«Scusami… Ho l’aria di un collegiale cresciuto troppo in fretta… Non avevamo preso appuntamento per stamattina, mi pare.»

«No, ti ho portato la valigia grande piena.»«Ma non dovevi!… – protestò Alain. – Avrei mandato

oggi Emilio…»«Buono, quello! Volevo dargli appunto la tua valigia, ma il

vecchio idiota si è messo a fuggire come se avessi la peste… La valigia è là, in terra, vicino al cancello.»

Arrossendo d’umiliazione Camilla si morse l’interno della guancia. “Cominciamo bene” pensò Alain.

«Mi spiace molto… Sai com’è Emilio… Senti, – decise, – andiamo alla Rotonda: vi staremo più tranquilli che in casa.»

Si penti subito della scelta perché la Rotonda – piccola architettura di alberi tagliati intorno ad uno spiazzo dove c’erano alcune sedie di vimini – aveva altre volte nascosto i loro baci clandestini…

«Aspetta che tolgo questi fuscelli… Non devi sciupare il tuo bel vestito, che non conoscevo.»

«E’ nuovo» disse Camilla con un accento di tristezza profonda come se avesse detto: «È morto».

Sedette di sbieco, guardandosi intorno. Due arcate, una di fronte all’altra, foravano la rotonda di verzura. Alain ricordò una confidenza di Camilla: “Non hai idea di quanto m’intimidisse il tuo bel giardino… Ci venivo come la ragazzina del villaggio che viene a giocar col figlio dei castellani nel parco. Eppure…”. Con una parola aveva sciupato tutto, coll’ultima parola, quell’«eppure» che evocava la prosperità delle «essiccatrici Malmert», a confronto della Ditta Amparat in declino…

Egli notò che Camilla non s’era tolta i guanti. “È una precauzione che si rivolge contro di lei… Senza quei guanti non avrei forse pensato alle sue mani, a ciò che hanno commesso… Ah ecco, finalmente, un pochino di collera, – pensò ascoltando i battiti del proprio cuore. Ce n’è voluto del tempo…”

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«Allora, – disse Camilla con voce senza colore, – allora che conti di fare?… Forse non hai ancora avuto il tempo di pensarci.»

«Sì» disse Alain.«Ah!»«Sì. Non posso ritornare.»«Capisco bene che oggi non è possibile…»«Non voglio ritornare.»«Del tutto?… Mai?…»Egli alzò le spalle.«Che cosa significa, mai? Non voglio ritornare. Adesso no.

Non voglio.»Ella lo studiava cercando di discernere il falso dal vero,

l’irritazione voluta dal fremito autentico. E lui, le rendeva sospetto per sospetto. “È piccola stamane. Ha un po’ l’aria della graziosa modistina. È come smarrita in mezzo a tutto questo verde. Abbiamo già detto un discreto numero di parole inutili. ”

Laggiù, attraverso una delle verdi arcate, Camilla scorgeva sopra una delle facciate della casa la traccia dei «lavori», una finestra nuova, le persiane verniciate di fresco… Coraggiosamente si buttò allo sbaraglio:

«E se non avessi detto nulla, ieri? – suggerì bruscamente. — Se tu non avessi saputo nulla?»

«Ecco un’idea proprio femminile, – ridacchiò lui. Ti fa onore.»

«Oh, – disse Camilla scrollando il capo, – onore, onore… Non sarebbe questa la prima volta che la felicità di una coppia dipende da qualche cosa di inconfessabile, o di inconfessato… Ma io ho idea che nascondendo questa storia non avrei fatto che indietreggiare per saltar meglio… Non ti sentivo… come dire…?»

Cercava la parola, e la mimava annodando le mani. “Ha torto di mettere in evidenza le mani, – pensò Alain vendicativo. – Quelle mani che hanno giustiziato qualcuno…”

«Insomma, tu sei così poco… così poco come me, disse Camilla. – No?»

Colpito, ammise mentalmente ch’ella non aveva torto. Egli taceva e Camilla insistette, con una voce querula, ch’egli ben conosceva:

«Di’, cattivo, di’…?».«Ma buon Dio, – scattò Alain, – non è di ciò che si tratta…

Quel che può interessarmi, interessarmi a te, è di sapere se tu rimpiangi quello che hai fatto, se tu non puoi non pensarci, se a

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pensarci ti fa male… Rimorso, insomma, rimorso… Esiste pure, il rimorso!»

Si alzò, trasportato dal suo eccitamento, fece il giro della Rotonda, asciugandosi la fronte colla manica del pigiama.

«Ah! – fece Camilla con aria contrita e non naturale, – ma si capisce, andiamo… Rimpiango mille volte di aver fatto ciò, e certo dovevo aver perduto la testa…»

«Menti! – proruppe Alain abbassando la voce. Rimpiangi solo di aver fallito il colpo. Non c’è che starti a sentire, che guardarti, col tuo cappellino di traverso, i tuoi guanti, il tuo vestito nuovo, tutto quel che hai combinato per sedurmi… Se il tuo dispiacere fosse sincero, te lo leggerei in viso, lo sentirei!»

Gridava colla voce soffocata, aspra, e non era più del tutto padrone della collera che aveva alimentato. La stoffa vecchia del pigiama si ruppe al gomito, ed egli strappò quasi tutta la manica che gettò poi sopra un cespuglio.

Camilla, dapprima, non ebbe occhi che per quel braccio nudo e gesticolante, stranamente bianco sul blocco cupo degli alberi.

Alain si copri gli occhi colle mani e si sforzò di parlar più piano.

«Una piccola creatura innocente, azzurra come i sogni più belli, una piccola anima… Fedele, capace di morir delicatamente, se le viene a mancare ciò ch’essa ha scelto… E tu, l’hai tenuta nelle tue mani sopra il vuoto, e hai aperto le mani… Sei un mostro… Non voglio vivere con un mostro…»

Alain scopri il volto madido e s’avvicinò a Camilla cercando le parole che più potessero colpirla.

Ella respirava breve, guardando ora il braccio nudo ora il volto non meno pallido, disertato dal sangue.

«Una bestia! – gridò con indignazione. – Mi sacrifichi ad una bestia!… Sono tua moglie, dopo tutto: e tu mi abbandoni per una bestia!…»

«Una bestia?… Sì, una bestia…»Calmo, in apparenza, egli si rifugiò dietro un sorriso

misterioso e consapevole. “Voglio ammettere che Saha sia una bestia… Se veramente lo è, che cosa esiste di superiore a questa bestia, e come potrei farlo capire a Camilla? Mi fa ridere questa piccola criminale, tutta linda, tutta indignata e virtuosa, che pretende di sapere che cosa è una bestia…”

La voce di Camilla lo distrasse dai suoi ironici pensieri.«Sei tu, il mostro!» «Come?»«Sì, sei tu! Disgraziatamente io non sono capace di

spiegare perché: ma ti assicuro che non sbaglio. Io ho voluto sopprimere Saha. E’ una brutta cosa. Ma uccidere ciò che la

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ostacola o la fa soffrire è la prima idea che viene ad una donna, soprattutto ad una donna gelosa… È una cosa normale… Quel che è raro, quel che è mostruoso, sei tu, è…»

Ella faticava per farsi capire e al tempo stesso scrutava in Alain i segni accidentali che imponevano il loro significato un po’ delirante: la manica strappata, la bocca tremante e ingiuriosa, le guance abbandonate dal sangue, i biondi capelli in tempesta… Egli non protestava, disdegnava ogni difesa, sembrava perduto in una esplorazione senza ritorno.

«Se avessi ucciso, o voluto uccidere una donna per gelosia, probabilmente tu mi perdoneresti… Ma ho alzato la mano sulla gatta, e la mia partita è chiusa… Come vuoi che non ti dia del mostro?»

«Ho detto che non volevo?» interruppe Alain con sussiego.Camilla alzò gli occhi atterriti sopra di lui, fece un gesto

d’impotenza. Cupo e distante egli seguiva in ogni movimento la giovine mano di lei, esecrabile e inguantata.

«E adesso… andando avanti, che cosa faremo? Che cosa capiterà, Alain?»

Egli fu lì lì per gemere d’impazienza, per gridarle: “Ci si separa, si tace, si dorme, si respira, l’uno senza l’altra! Mi rifugerò lontano, molto lontano, sotto quel ciliegio, per esempio, o sotto le ali di quella gazza bianca e nera, oppure nella coda di pavone di quell’innaffiatore… O anche nella mia camera fresca, sotto la protezione di un piccolo dollaro d’oro, d’un pugno di amuleti e di una gatta dei Certosini…”. Ma si dominò, e menti con calma:

«Nulla per ora… È troppo presto per prendere una decisione… Poi vedremo».

Quest’ultimo sforzo di moderazione e di sociabilità lo sfini. Vacillò ai primi passi, quando si alzò per accompagnare Camilla che accettava quella vaga conciliazione con avida speranza.

«Sì, è così, è troppo presto… Fra qualche giorno… Non ti muovere, non importa che mi accompagni al cancello: con quella manica, crederebbero che ci siamo accapigliati… Senti, andrò forse a nuotare un po’ a Ploumanach dove ci sono il fratello e la cognata di Patrick… La sola idea di viver con la mia famiglia in questo momento…»

«Prendi la macchina» propose Alain. Ella arrossi, ringraziò troppo.

«Te la rimanderò subito, appena tornata a Parigi… Puoi averne bisogno, non far complimenti… Del resto ti avvertirò della mia partenza e del mio ritorno…»

“Già ella organizza, già ella abbozza una trama, già raccoglie, ricuce, ritesse… È terribile… È questo che mia

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madre apprezza in lei? Sarà anche una bellissima cosa, ma io non mi sento più capace di capirla, di ricompensarla… Come si trova bene, lei, in mezzo a tutto ciò che io non posso soffrire… Se ne vada adesso, se ne vada…”

Camilla se ne andava, guardandosi bene dal porgergli la mano. Non osò, sotto l’arcata verde, sfiorarlo, inutilmente, coi suoi seni fioriti.

Solo, egli si abbandonò in una poltrona e vicino a lui, sul tavolino di vimini, sorse, prodigiosamente, la gatta.

Una curva del viale, una breccia nel fogliame permisero a Camilla di rivedere, a distanza, la gatta e Alain. S’arrestò di botto, ebbe uno slancio come per tornar sui suoi passi: ma esitò soltanto un attimo, e si allontanò più in fretta.

Infatti, mentre Saha, in guardia, seguiva umanamente la partenza di Camilla, Alain semisdraiato giocava la mano agile e incavata a zampa – coi primi marroni d’agosto, verdi ed irti.