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CARLO SINI

La fenomenologia e il destino della civiltà occidentale

Lezione su Derrida e la «differ[a]nce»1

Cercheremo di capire il rapporto di Derrida con la fenomenologia ch’è d’altronde un argomento non marginale, anzi direi che è proprio il fuoco della questione – nasce lì – e poi ha molti ed ulteriori sviluppi che tuttavia non mutano mai il punto di partenza. Anche ultimamente Derrida ha detto di non stare a fare altro che la decostruzione di cui aveva parlato all’inizio, che poi la si vada applicando a campi diversi dell’etica, della politica, non significa che si abbia cambiato modo di pensare: alla base c’è questa riflessione della “differance”, la quale a sua volta è una eredità fenomenologica (cosa che cercheremo di capire qui oggi).

Derrida molto giovane, intorno agli anni ’63-’67, getta già le basi di quello che sarà tutto il suo cammino di pensiero con alcuni testi veramente straordinari a cominciare dal suo commento alla Appendice III della Krisis, “L’origine della geometria”, poi “La voce e il fenomeno”, “Della grammatologia”, che sono tutti testi coevi, nei quali si è indubbiamente messo in luce, anche se la comprensione di Derrida ha messo parecchio tempo ad imporsi alla considerazione generale; ci sono voluti quindici vent’anni perché ci si cominciasse ad accorgere della effettiva sostanza di questo pensiero.

Io comincerei con due citazioni di Derrida che sono tratte da due interviste nelle quali dice il suo debito nei confronti di Husserl e di Heidegger. Più volte Derrida ripete che senza il lavoro di Husserl – in particolare le Ricerche logiche, Logica formale e trascendentale, Ideen, mentre è molto meno familiare con i testi dell’ultimo Husserl che non discute mai (cioè p. es. la Krisis… sfasatura ch’è quindi molto significativa) – non avrebbe detto nemmeno una parola, anche se tutto il suo lavoro è decostruttivo <proprio> nei confronti di Husserl, cioè è una messa in discussione dei fondamenti della fenomenologia, e lo stesso poi, o qualcosa di analogo, dirà di Heidegger.

In questa intervista, ch’è stata tradotta in italiano con il titolo Posizioni, uscito nel ’75 per l’Editore Bertani di Verona, Derrida parla della Voce e il fenomeno del ‘67 , e dice:

«[La voce e il fenomeno] è forse il saggio cui tengo di più [allora, non so se oggi direbbe la stessa cosa, ma penso di sì]. Certo avrei potuto collegarlo, come se fosse una lunga nota ad una delle due altre opere [cioè a La scrittura e la differenza e alla Della grammatologia]. La Grammatologia vi fa infatti spesso riferimento e ne utilizza lo sviluppo. In una architettura filosofica classica però La voce e il fenomeno

1 Lezione tenuta in occasione delle Vacances de l’Esprit del luglio 2002, patrocinate dall’ASS. A.S.I.A.

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verrebbe prima. In quest’opera infatti in un punto che, per ragioni che non posso spiegare qui, sembra decisivo si pone il problema del privilegio della voce e della scrittura fonetica rispetto a tutta la storia dell’Occidente, [che sarebbe determinata come metafisica, come la direbbe Heidegger, da una particolare concezione della voce e della scrittura, la quale da luogo al fenomeno del “fono-centrismo”, cioè avente il suo carattere nella centralità della voce, nell’essenzialità della voce] così come l’Occidente si rappresenta nella storia della metafisica e in quella che è la sua forma più moderna più critica e più attenta che è la fenomenologia trascendentale di Husserl». Husserl è visto come la sintesi di tutta la storia dell’Occidente e di cammino all’avanguardia nel senso di recupero di tutta la filosofia occidentale. «Cos’è il ‘voler dire’ [della voce]? Quali rapporti storici ha con ciò che crede di identificare sotto il termine ‘voce’ e sotto il valore della presenza (presenza dell’oggetto, presenza del senso alla coscienza, presenza a sé nella parola cosiddetta viva e nell’autocoscienza)?». Donde questo privilegio della voce che è il luogo, il veicolo attraverso il quale noi abbiamo la presenza vivente della cosa detta e quindi appresa, e la presenza vivente della coscienza a se stessa? Perché la coscienza si identifica nel sentirsi parlare della voce? (Riferimento tacito ma ovvio all’opinione platonica secondo cui la coscienza è “una voce silenziosa”, una voce ‘aneuphoné’, senza suono, che risuona dentro di noi e che ci rende perciò consapevoli di noi stessi). « Si può leggere il saggio che pone queste domande [La voce] quale l’altra faccia di un precedente saggio pubblicato nel ’62 quale Introduzione a “L’origine della geometria” in Husserl, in esso veniva già posta la problematica della scrittura come tale, collegata alla struttura irriducibile della “differance” nei suoi rapporti con la coscienza, con la presenza, con la scienza, con la storia della scienza. In essa si ha la scomparsa o, quantomeno, il ritardo dell’origine». Nella scrittura della voce, nella “differenza” tra voce e scrittura si ha l’eliminazione dell’arché, il venir meno del principio, dell’origine, o il suo differimento senza termine e limite. E’ chiaro che in questa frase viene messa in discussione tutta la metafisica, in quanto la metafisica, sin dall’inizio della lettura di Aristotele ma poi in Aristotele stesso, è la ricerca del principio e della causa (Arché e Aitia) che permettono la conoscenza, la comprensione dell’ente in quanto tale.

In un altro momento di questa intervista Derrida fa invece riferimento ad Heidegger: «Nessuno dei miei tentativi sarebbe stato possibile senza l’apertura delle domande heideggeriane. Heidegger dunque, in primo luogo, poiché qui dobbiamo esporre le cose brevemente senza fare attenzione a ciò che Heidegger chiama la “differenza” tra l’essere e l’essente, la differenza ontico-ontologica quale resta impensata in certo modo dalla filosofia. E tuttavia malgrado questo debito verso il pensiero heideggeriano, o anzi proprio per esso, io tento di riconoscere nel testo heideggeriano – che non è più di qualsiasi altro testo omogeneo, continuo e ovunque all’altezza della forza e di tutte le conseguenze delle sue domande – i segni che lo mostrano appartenere ancora alla metafisica o a ciò che Heidegger chiama onto-teologia». Cioè scoprendovi un “essere” al di sotto delle sue domande, cioè una situazione heideggeriana per la quale il tentativo di sfuggire alla metafisica è in realtà contrassegnata da una ricaduta nella metafisica. Derrida lavora entro l’orizzonte della fenomenologia husserliana ed heideggeriana ma ne mette in luce i paradossi e i “passi indietro”. «D’altra parte Heidegger stesso riconosce di aver dovuto, e che si deve sempre, prendere a prestito in maniera strategica le risorse sintattiche e lessicali del linguaggio della metafisica nel momento stesso in cui la si decostruisce» D’altronde, dice, Heidegger stesso sa bene che quando si dice “essere”, “ente”, si dicono le parole di Aristotele, della metafisica, ché non abbiamo in fondo un altro linguaggio per decostruire la metafisica o per distruggere la storia dell’essere (la ripetizione del cammino della storia della metafisica, viene indicato da Heidegger con il termine “distruzione”, che vuole dire “smontamento” nel senso, appunto, di ‘decostruzione’). La prima immagine in questo senso è quella di Nietzsche: “rovesciare il castello incantato dell’Olimpo e guardarne i sotterranei”. «Dobbiamo quindi riconoscere queste prese metafisiche e riorganizzare continuamente la forma e il luoghi dell’interrogazione [dobbiamo riconoscere il debito metafisico ineliminabile che abita le nostre domande e

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quindi riproporle sempre – Husserl avrebbe parlato di un esercizio – perché non siamo mai arrivati per poter parlare della metafisica al di fuori della metafisica stessa – questo per Derrida è anzi assolutamente impossibile]; ora fra tali prese di distanza mi sembra che la determinazione ultima della “differenza”, come differenza ontico-ontologica, per quanto decisiva e necessaria ne sia la fase, rimanga ancora per qualche strano modo all’interno della metafisica. [Quindi sta dicendo che ciò ch’è indicato come “differenza ontologica” non è affatto come Heidegger pensa un mettere in questione l’impensato della metafisica e quindi in questo senso porre una questione al di là della metafisica – che si fa carico della tradizione metafisica mettendola in questione –, per Derrida per certi versi proprio quella “differenza” testimonia del contrario, testimonio il fatto che lì si è ancora catturati dalla metafisica dentro il discorso dell’Occidente, dentro il fonocentrismo occidentale] Bisognerebbe allora, con un gesto che sarebbe più nietzscheano che heideggeriano, aprirsi percorrendo fino in fondo il pensiero della verità dell’essere ad una “differance” che non fosse ancora determinata nella lingua dell’Occidente come differenza tra l’essere e l’esssente». Bisognerebbe, cioè, con un coraggio più nietzscheano, e quindi con un abbandono totale del linguaggio metafisico (come appare nel Nietzsche dello Zarathustra o in quello della Genealogia della morale), andare sino in fondo alla questione della verità dell’essere, andare al di là della differenza di essere ed essente, perché la differenza tra essere ed essente è ancora all’interno di quella verità dell’essere che è propriamente metafisica. Ma questo allora vorrebbe dire pensare la “differenza” in un altro modo. Ed infatti Derrida usa qui una parola geniale, una ingegnosa maniera di intendere la parola “differenza”… «Certo, un simile gesto non è possibile oggi, ma forse si potrebbe mostrare come esso si prepari». Qui Derrida è abbastanza ottimista, riconoscerà poi che la stessa parola “differenza” come lui la intende, che è uno sporgersi al di là della differenza ontologica, non è come tale sganciata dalla metafisica, davvero al di là della metafisica, invece qui dice che forse è preparatoria di un momento in cui riusciremo a dire la “differenza” senza dire né ‘differenza’ né ‘differance’ (ma questo ottimismo è del giovane Derrida, come credo che molti testi testimonino, e come lui stesso dica: che non si tratta di questo, che bisogna rassegnarci al non esserci alcun luogo oltre la metafisica per il discorso occidentale). «La “differenza” nominerebbe provvisoriamente questo dispiegarsi della “differenza” e in particolare, ma non esclusivamente né anzitutto, della “differenza ontologica”, certo però esiste un fonologismo heideggeriano [Heidegger ha preparato tutto questo, ma resta legato al privilegio della voce, resta legato al fonologismo], un privilegio acritico che egli, come tutto l’Occidente, accorda alla voce, a una determinata sostanza dell’espressione [cioè c’è l’espressione, ma c’è l’interno dell’espressione, e questa sarebbe appunto la ‘voce’ come fenomeno originario]. Questo privilegio, che ha delle conseguenze notevoli e sistematiche, si riconosce p. es. nella significativa prevalenza di metafore foniche, in una meditazione sull’arte che, attraverso esempi scelti in un modo molto caratteristico, riconduce sempre all’arte come messa in opera della verità». Heidegger vede l’arte come luogo della parola dell’essere, e quindi luogo della <phoné tes aletheias>, della parola della verità, e quindi messa in opera della verità. Derrida vede tutto questo come un debito della metafisica o addirittura come un acritico modo di frequentare ancora totalmente il pensiero metafisico. «Ora, l’ammirevole meditazione heideggeriana, in cui si riformula l’origine e l’essenza della verità non mette mai in questione il legame con il logos e con la phoné». Ammirevole la domanda heideggeriana che rimette in gioco la questione originaria della verità, l’origine della verità dell’essere, ecc. Ma non si avvede mai, sostanzialmente, di fare questo ammirevole lavoro di scavo, di ritorno all’origine, senza mettere in questione il terreno della voce, la phoné, e il suo rapporto con la scrittura.

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II parte.

L’avventura della fenomenologia come una resa dei conti con l’Occidente, con tutti i suoi privilegiamenti, con i suoi dualismi – costantemente Derrida cerca di mettere in luce che i dualismi caratteristici della cultura occidentale non sono che una conseguenza di come l’Occidente, a partire dalla filosofia, ha concepito la voce e la sua espressione, cioè la teoria del linguaggio e del segno che è implicito in tutto l’Occidente… è da qui che partono tutti quei dualismi che più volte lui elenca ed esemplifica e che sono: il ‘significato’ e l’ ‘espressione’; l’anima e il corpo; l’uomo e la natura; il soggetto e l’oggetto; l’interno e l’esterno; la cultura e la materia; lo spirito e la materia; l’Occidente e tutte le altre culture. Questi dualismi che sono così caratteristici non sono che conseguenze del modo dualistico con cui l’Occidente ha concepito la lingua, il linguaggio, cioè la ‘voce’ e la ‘scrittura’; la ‘phoné’ come significato e l’ ‘espressione’ come corpo sensibile del significato. E’ su questo modello che si modella la fondamentale distinzione occidentale anima/corpo sino a Cartesio e sino alle attuali scienze ecc.

Ma detto questo in linea programmatica dobbiamo capire perché Derrida dice questo, cioè quali sono le evidenze in base alle quali questo discorso, per così dire, regge o sta in piedi. Procediamo quindi con il mostrare i due “camminamenti” che Derrida percorre in Husserl e in Heidegger, mostrando nell’uno e nell’altro quello che a lui sembra il “peccato di fonologismo” e di “logocentrismo”.

Logos tes alethéias (la parola della verità; la verità in quanto è detta; in quanto la verità è sempre presa nella parola, assunta sempre all’interno della definizione verbale) secondo una prima ed una seconda prospettiva fenomenologica, appunto quella husserliana e quella heideggeriana:

I prospettiva fenomenologica, Husserl delle Ricerche logiche : Evidenza del senso (≠ espressione/significato [differenza tra espr. e sign.]). (Se però portassimo le medesime questioni sul piano della Krisis non funzionerebbero più: Husserl direbbe: “mi sono riveduto e corretto!”. Sarebbe cioè da vedere se le obiezioni di Derrida sarebbero valide anche nei confronti del progetto husserliano finale). Verità = il riempimento di senso. L’intenzionalità, l’atto intenzionale della coscienza ha il suo compimento quando la “cosa stessa” (Die Sache selbst), cioè la verità del fenomeno, appare e compie l’atto. Sicché Husserl continuamente privilegia il momento intuitivo dell’evidenza di senso, quando dice che “la cosa è lì davanti in carne ed ossa”, e la cosa può essere una cosa percettiva, un ricordo (si ricordino le varie forme dell’intenzionalità). Insomma è nella presentazione vivente (leibhaft <corporale, corporeo>, “in carne ed ossa” traduciamo noi), è nella presenza vivente della “cosa stessa” che abbiamo il riempimento di senso, cioè la verità. Il logos tes alethéias si ha quando la cosa stessa si presenta depurata dai suoi segni, dai suoi ricoprimenti. Fenomenologia è appunto questo per Husserl, togliere il ricoprimento e far apparire l’essere stesso della cosa.

Già, però sin dall’inizio Husserl è consapevole che vi è una differenza tra il ‘senso’ in quanto visione diretta dell’essenza, e il “senso” in quanto ‘espressione’ di questa visione diretta. Questo non è altro che ciò che abbiamo già ricordato, cioè che per Husserl (e lui di questo si dà vanto), per la fenomenologia come lui la intende, si ha l’immediata apprensione del senso nel momento stesso della sua espressione, nel momento stesso della sua sensibilità presente: non soltanto è presente “questo rosso”, ma è presente anche “il rosso”, quindi ho la Wesensschau , la ‘visione d’essenza’ che è “spontaneamente offerente”, si offre da sé e non la devo cercare, o come pensano gli empiristi “astrarre”, o come pensano i razionalisti “avere una

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illuminazione divina”: la “cosa stessa” si presenta nella sua essenza se io la so guardare, ma attraverso la “differenza” – ecco che cominciano a lavorare i tarli di Derrida – del suo essere qui manifesta nei suoi segni sensibili. Si manifesta “il rosso”, ma si manifesta ora come “contingente rosso”: come “il rosso” di quel tetto.

Ma più propriamente, andando più a fondo nella cosa, prendendo la questione appunto dal lato del logos tes alethéias, la parola stessa è fatta così. Husserl infatti, nelle Ricerche logiche combatte a lungo sulla differenza tra ‘espressione’ e ‘significato’: non soltanto c’è un problema di omogeneità – che in realtà non c’è – bensì di disomogeneità tra la specie rosso che, sì, avanza nell’intuizione offerente, ma avanza con il “supporto materiale” di questo tetto, di quella maglietta, di questa camicia e così via. C’è sempre una situazione di compromissione dell’essenza piena, intuitivamente presente, con qualcosa d’altro che è il suo “esterno”, che non si identifica con l’essenza, che la trasporta, che ne è segno appunto, che non è l’essenza. Ma questo accade ancor prima e ancor più prontamente nella ‘parola’ stessa – ecco perché tutti i drammi dell’Occidente nascono da una certa concezione della parola. Infatti quando io dico “rosso”, dico un’essenza – prendiamo la semplice parola: “rosso”, dico un’essenza, ma la dico in un’ ‘espressione’ che non è l’essenza: quello che dico non corrisponde alla materialità del dire, all’espressione, come diceva Hussserl: posso dire “rosso”, posso dire “red”, posso dire in tanti modi, posso indicare qual’è il luogo nell’arcobaleno in cui starebbe ciò che io intedo “rosso”. Coma fa notare Derrida la logica moderna ci ha familiarizzato con questa molteplicità dell’espressione e unicità del significato: io posso dire “il vincitore di Jena”, posso dire “lo sconfitto di Waterloo”, sono due espressioni totalmente diverse che però vogliono dire tutte e due “Napoleone”. Quindi, noi abbiamo una molteplicità accidentale dell’espressione che non corrisponde assolutamente, che non è lo specchio, dell’essenza che dice – se fosse lo specchio non servirebbe, avremmo un’unica espressione – ma non abbiamo mai l’identità tra l’ ‘essenza’ e l’ ‘espressione’, c’è sempre una differenza tra queste due, sempre qualcosa che non torna. Tutto lo sforzo di Husserl nelle Ricerche logiche è di mostrare come, attraverso la differenza dell’espressione, diciamo il segno (infatti lì Husserl si confronta con il problema del segno); c’è tuttavia la possibilità di descrivere e cogliere una sorta di grammatica pura dei significati. Quindi <per Husserl>, le espressioni sono sì differenti, ma se noi oltrepassiamo il carattere puramente mondano, fenomenico, dell’espressione siamo poi di fronte all’intuizione diretta della “cosa stessa”, dell’ “essenza”. Husserl tra l’altro <proprio> in quel testo dice che la cosa si risolve così: la differenza tra l’essenza e l’espressione dell’essenza nasce dalla necessità di comunicarcele queste benedette essenze, cioè di dirci cosa vogliamo dire. Ma perché c’è questa differenza tra espressione e significato, tra ‘segno verbale’ e ‘significato’ del segno verbale (per cui io dico “rosso”, dico “red” ma il significato è sempre quello, uguale per tutti… teoricamente)? Perché la lingua è presa nella necessità della comunicazione, e allora io devo esprimere all’altro il voler dire, creando “un ponte” tra il mio interno e il suo interno; naturalmente “il ponte” è qualcosa di empirico ed obbedisce a contingenze empiriche . Ma, dice Husserl, quando parlo con me stesso non uso le espressioni, non ho bisogno di spiegarmi che “rosso” vuol dire ‘rosso’, che “red” vuol dire ‘rosso’, perché lì sono direttamente in contatto con il mio ‘voler dire’, non ho bisogno della mediazione del segno, ch’è la mediazione di un “esterno” per dire un “interno”: non ne ho bisogno perché lì sono già nell’ “interno”, sono già nell’intuizione, nella piena offerenza del significato (non è vero, tra l’altro).

>>Insomma, lasciando da parte questo, l’obiezione di Derrida ora si muove su questa “differenza”: guardiamo questa differenza tra ‘significato’ ed ‘espressione’. E qui Derrida si rifà alla teoria linguistica di De Saussure – che verrà anch’essa ampiamente criticata. De Saussure dice grossomodo la stessa cosa di Husserl solo che la dice in una maniera che diventa più problematica, che mostra il problema per noi. Infatti De Saussure da grande, da geniale linguista, radicalizza la posizione husserliana e dice che non solo – è vero – c’è una differenza tra il ‘significato’ e l’ ‘espressione’, tra ‘ciò’ che si vuol dire con la parola “rosso” e la

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‘parola’ “rosso”, che potrebbe essere anche tutt’altra, basta che c’intendiamo; ma anche i due lati del ‘segno’ linguistico, il ‘significato’ e l’ espressione’, non sono che fenomeni differenziali. Cosa vuol dire lo descrive molto bene De Saussure nel suo Trattato di linguistica generale: possiamo noi assumere nella lingua un significato, comprenderlo come tale, senza tener conto della totalità di tutti gli altri significati? Possiamo dire ad una persona che non conosce nessuna parola <di alcuna lingua>, la parola “rosso” e pensare che la capirà? Certamente no. Questo è tanto vero che solitamente, quando si parla di orgine del linguaggio, p. es. a partire da Agostino – anche Wittgenstein si rifece a queste celebri pagine di Agostino – si crede che l’unica via di uscita sia l’ostensione, l’indicazione. Cioè io posso dire “rosso” perché dico: «vedete, per “rosso” intendo questo», ma è evidente che questa è una soluzione che non regge, che non ha nessun senso, perché per poter fare tutto questo devo avere una lingua, e per poter avere qualcosa come “rosso” devo avere già la parola. Quindi non solo non avrei le cose rosse senza l’espressione, appunto, “rosso”, ma non potrei nemmeno indicarla ad un altro, e nemmeno avrebbe molto successo quest’indicazione. La supposizione che le cose possano andare così nasce dall’esperienza empirica di persone che parlano differenti lingue, allora sì, essendo noi già nel linguaggio posso dire p. es. ad un inglese: «quello che tu dici “red” è questo qua che io dico “rosso”», e allora lui capisce che “rosso” vuol dire quel che lui dice quando dice “red”, cioè tutti e due ci accomuniamo nella indicalità del segno – ma dobbiamo già avere il ‘segno’, dobbiamo essere già entrati nella lingua che organizza il mondo secondo un insieme, una totalità di significati che sono differenziali, cioè che mi fanno comprendere il significato di una parola perché io so che “rosso” è ‘colore’, che ‘colore’ vuol dire tante gamme, tante variazioni della unità ‘colore’ dal bianco al nero, che tra queste quindi c’è il blu, il verde, il violetto, il giallo, l’arancione e finalmente anche il rosso. E’ solo perché istantaneamente io penso in questo modo che posso parlare, donde il concetto famoso saussuriano di ‘langue’. La ‘langue’ è un sistema, un sistema che abbiamo nella testa senza saperlo, inconsapevole, ma è quello che continuamente usiamo nel momento in cui parliamo, perciò non possiamo mai isolare un significato, non possiamo averlo nella presenza piena, come Husserl invece pretenderebbe, senza avere le molteplici differenze con tutti gli altri significati. (Dico molto in nota che questo è il risultato del sillogismo disgiuntivo hegeliano. Hegel c’era già arrivato, cioè io non posso avere un concetto se non come sistematica totalità delle differenze interne di tutto il concetto, di tutto il concepire). Noi parliamo così, ci intendiamo così, sapendo che ogni significato è differenziale rispetto a tutti gli altri significati. Questa è la struttura ‘langue’ ideale, poi la struttura ‘langue’ entra nel tempo, cioè noi parliamo nel tempo e [tale struttura] si modifica nel tempo, e allora diventa la ‘parole’ vivente che la modifica. Ma come si modifica? Cosa vuol dire che il nostro italiano non è più l’italiano del Trecento? Non semplicemente che questa parola è cambiata, che sono cambiate alcuni significati, ma che si è ristrutturato il sistema generale, che il sistema generale ha dato luogo a fenomeni differenziali complessi ma ben fissi, fissi quel tanto che ci consente di intenderci. C’è un mutamento per così dire impercettibile della ‘langue’ ma questa resta per noi idealmente in uno spaccato che ci consente la comunicazione.

Abbiamo quindi una duplice differenza: non solo tra espressone e significato, ma già nel significato:

S= ≠∞ [Significato = differenze all’infinito]

Il significato è un fenomeno differenziale, è un continuo differire, è ciò per cui il significato della parola italiana “rosso” alla fine di luglio 2002 è linguisticamente definibile solo per differenza da tutti gli altri significati che le danno il suo luogo. E’ possibile che noi stiamo dicendo “rosso” con una impercettibile differenza da come lo si diceva dieci anni fa o cento anni fa. È certo che i latini quando dicevano “rosso” non dicevano il nostro “rosso”, dicevano “porpora”, dicevano… un colore che noi non sappiamo più identificare perché questa parola stava in una situazione differenziale diversa rispetto alle parole che erano

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più vicine e più lontane nell’ordine del significato. Allora, il ‘significato’ è una serie di differenze, ma anche il

‘significante’, [cioè] anche l’ ‘espressione’ – in quello che De Saussure rappresenta con S/s [Significato “su” significante] – è una seria di differenze. In che senso? Nel senso che il ‘significante’, il suono della voce (ecco che viene fuori la ‘voce’) veicola il significato non perché la ‘voce’ sia naturalmente legata al significato: io posso dire “rosso”, “red”, “rojo”, “purpureo”, ecc., è indifferente come dico, nessuna delle espressioni ‘r’, ‘o’, ‘s’, ‘s’, ‘o’, è “rossa”. Queste sono semplici espressioni convenzionali, arbitrarie: il significante linguistico è totalmente arbitrario. E’ perché “siamo abituati a dire così” che ci intendiamo, e proprio per questo, nota De Saussure, ne derivano due conseguenze interessantissime: [1] che la lingua può mutare, possiamo dire in un altro modo, ed in effetti muta; [2] ma la sua tendenza principale è di non mutare, perché non abbiamo ragione di cambiarla. Ci sono allora queste due contemporanee caratteristiche della ‘langue’, che da un lato tende a ripetersi: è così che ci intendiamo e non c’è motivo di fare altrimenti, non c’è una ragione naturale che lega il significante [s] al significato[S], non c’è più motivo di dire “rosso” piuttosto che in un altro modo (già lo notava il Cratilo di Platone: dico “cavallo” per dire ‘cavallo’, ma se dico “bue” per dire ‘cavallo’ è lo stesso, basta che ci intendiamo); ma nello stesso tempo, proprio perché non c’è motivo di mutare, non c’è motivo neanche di non mutare, storicamente la lingua cambia. Al di là di queste geniali notazioni di De Saussure, è chiaro quindi che anche il ‘significante’ non è altro che una serie di differenze all’infinito:

s=≠∞

Nel ‘significante’ quello che interessa è che la ‘l’ non è la ‘m’, la ‘m’ non è la ‘n’, la ‘n’ non è la ‘p’, ecc., cioè che il carattere fonetico dell’espressione si caratterizzi in modo che sia chiaro che ho detto ‘m’ e non ‘l’. Ma allora non c’è la ‘m’, la ‘l’, ognuno di questi suoni è quello che è per differenza dagli altri. Un ‘concetto’ (il ‘significato’ è un ‘concetto’ mentale) ha la sua essenza, come voleva Husserl, il suo riempimento di senso solo in relazione a tutti gli altri, ma nello stesso tempo anche la sue espressione è fatta così.

III parte.

Adesso però facciamo un ulteriore passo, e questo è quello decisivo col quale frana a terra e si frantuma tutto il “sogno” della fenomenologia husserliana prima maniera. Perché De Saussure nota un’altra cosa straordinaria: non soltanto i due lati del segno linguistico (ogni parola è fatta così:

S/s

cioè ‘significato’ e ‘significante’, come li chiama De Saussure, ‘concetto’ ed ‘ espressione’, come direbbe Husserl), non soltanto sono in se stessi differenziali (ogni ‘S’ è una totalità differenziale di significati, ogni ‘s’ è una totalità differenziale di significanti), ma il problema è che S/s sono in una relazione per cui essi stessi sono fenomeni differenziali nella loro reciprocità. Voglio dire che qui siamo di fronte al paradosso del segno linguistico così come l’Occidente l’ha pensato, siamo di fronte a quel problema che De Saussure non sa assolutamente come risolvere, di cui dà semplicemente conto come linguista dicendo che “la lingua è fatta così, non chiedetemi perché, che non lo so!” (fa vaghe illazioni e poi pensa che il problema può essere tutt’al più risolto “dagli psicologi” – che poveretti non è proprio il caso dimetterli in questi guai!). Qual è il problema? Potrei io avere un significato senza un significante? Posso dirmi ‘leone’ senza questi suoni <con cui pronuncio>? Posso avere il significato ‘leone’ senza la differenzialità del significante? Evidentemente no. Non posso ‘comunicare’ qualcosa che non ha suono, che non risuona, che non si articola . La lingua, dice De

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Saussure, è un fenomeno articolatorio: l’uomo comincia a parlare non quando ha vaghe immagini – posto che le abbia –, l’uomo comincia a parlare quando articola i suoni e fa corrispondere ad una certa articolazione un certo significato. Se dico ‘leone’ o come altrimenti si vuole, comunque una certa articolazione la devo avere per determinare che si tratta di quel significato lì, sennò come ve lo do il significato? E già, ma nello stesso tempo devo dire anche il contrario: come faccio ad articolare dei suoni a piacere, infinitamente componibili in infiniti modi, così da costruire la parola ‘leone’, se non ho già il significato ‘leone’? E allora, qui il paradosso è totale! Io devo già sapere cosa significa leone per, diciamo così, “scegliere” (in realtà non si “sceglie” si viene da una tradizione) sul piano del significante le lettere adatte a trasmettere questo significato che avrei già. Ma il significato non lo posso mai avere già se non lo avessi già articolato in suoni significanti. E allora ecco che, il concetto è indispensabile per spiegare cos’è il significante, ma il significante è indispensabile per spiegare cosa è il concetto significato: siamo continuamente rimbalzati dall’uno all’altro.

Quella “linea” (‘/’) che delimita la differenza tra ‘S’ e ‘s’ è allora una linea “problematica”: non solo è “problematica” ma propriamente non c’è! <S ‘/’ s> è una “linea” che continuamente si rivolge nel suo opposto e che non si sa da dove comincia: dove cominciamo quando noi parliamo? Dai significati o dai significanti? Ma cosa vuol dire ‘significato’ se non ho un ‘significante’? E cosa vuol dire che un ‘significante’ è un ‘significante e non un suono a caso? È “qualcosa” che risuonando dice quel significato, se non avessi già il significato. Ecco, questa “tragedia” [laugh], chiamiamola così, questa situazione drammatica, tragica, di fronte alla quale qualunque filosofo naturalmente si dispera (“se così stanno le cose non abbiamo capito niente!”), ecco questa, proprio questa [S ‘/’ s], Derrida la chiama la « d i f f e r a n c e » . Ma con un gioco di una sottigliezza “diabolica”, diciamo così, in una conferenza tenuta alla Società filosofica francese a Parigi, poi pubblicata anche in italiano, con una trovata davvero geniale lui diceva al pubblico: “différence!” [laugh], e naturalmente il pubblico francese pensava <al segno grafico> ‘d i f f è r e n c e’ , ma invece Derrida scriveva « d i f f e r a n c e ». L’astuzia, la sottigliezza di questo gioco sta che questa ‘a’ <della parola «Differ[a]nce», scritta da Derrida> (in francese, che in italiano naturalmente il gioco non si può fare) è esattamente <ha lo stesso valore di> questa “linea” [S ‘/’ s] che non si può scrivere, non si può definire, non si può dire, e che però è la condizione di ogni dire. Perché questa ‘a’ non si sente, e tuttavia è decisiva per capire se lui dice “differénce” o “differance”: questa ‘a’ in francese non ha suono, è <aneuphoné> appunto, perché io dico comunque “differ[é/a]nce” e nessuno può sapere se io penso ‘differénce’ o ‘differance’. (E Derrida appunto si diverte nel corso della conferenza a prendere per il naso i suoi ascoltatori perché di volta in volta deve sempre spiegare: « “differance” con la ‘a’; “differénce” senza la ‘a’»). Ma questo gioco mostra appunto che l’evidenza piena del senso, la congruenza tra espressione e significato non c’è, è linguisticamente affidata ad un ‘gesto di scrittura’ che precede la phoné, che precede la voce, che ci rimanda dal ‘voler dire’ all’ ‘inavvertito’: «voleva dire questo o voleva dire quell’altro?»; non lo si potrà stabilire mai attraverso la phoné. Allora il privilegio del ‘voler dire’, della ‘voce’ che comunica agli altri quello che “ti volevo dire” o della voce che comunica silenziosamente a se stessa quello che “io intendo dire”, tutto questo, come vedete, viene affetto, invaso, contaminato (tutte espressioni di Derrida), fatto “marcir dentro” dall’intrusione di un “esterno” che lui chiama «écriture», la «scrittura».

Ma la “scrittura” perché qui l’ha fatto vedere con questa scrittura, in realtà la “scrittura” di cui lui parla è un «Archi-scrittura». Ciò vuol dire che la sua critica al fono-centrismo, alla centralità della voce, al privilegio della voce che crolla di fronte l’evidenza secondo la quale la ‘voce’ che dice i “significati puri” deve compromettersi col corpo [s], con l’espressione, con il significante, ma “compromettersi” vuol dire distruggersi, perché entra in un paradosso (deve avere già il corpo l’anima per girare per il mondo, ma non avrebbe il corpo se non ci fosse <avesse> già l’anima, siamo in questo circolo vizioso): la scrittura dell’Occidente è per l’appunto una scrittura falsa, finta. De Saussure è il primo a testimoniare questa sua

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incapacità di pensare davvero la scrittura. Cosa pensa De Saussure, cosa pensa tutto l’Occidente, cosa pensa Aristotele nel De Interpretatione, cosa pensa Husserl nelle Ricerche logiche? Che prima c’è la voce, poi viene la scrittura, e la ‘scrittura’, il nostro alfabeto, come si ama dire, è la trascrizione della voce. “Oh, la grande invenzione dei Greci!”, e fu sicuramente una grandissima invenzione. “Oh, la grande invenzione dell’alfabeto!”, che con questi “segnetti”, una ventina o poco più, io posso trascrivere qualunque espressione della voce, e quindi dare “corpo” all’invisibile interiore: quindi prima c’è la voce poi c’è la sua trascrizione, questo pensa l’Occidente (e lo stesso De Saussure pensa costantemente così nel suo Corso di linguistica generale). E Derrida dice no, non è vero, all’origine c’è la «differance» [S ‘/’ s]. Una «differance» ch’è si l’invasione della “scrittura”, ma più propriamente di un’«Archi-scrittura», cioè di una “scrittura” che non corrisponde all’idea che voi vi siete fatti della “trascrizione alfabetica”.

Il perché lo mostra con una semplicità stupefacente. Prendiamo un testo scritto. Come si presenta un testo scritto? E’ davvero la trascrizione della voce, o non c’è nel testo scritto molto di più della trascrizione della voce? Non c’è semplicemente l’uso delle lettere dell’alfabeto una per una per dire la ‘voce’: ‘l’ per il suono <l> di <leone>, ‘e’ per il suono <e> di <leone>, ecc. Ci sono anche gli spazi bianchi, c’è anche la punteggiatura, c’è anche l’ “a capo”. Come potremmo dare il senso del nostro parlare senza questi strumenti non-alfabetici? Allora l’alfabeto, la scrittura alfabetica, mostra qualcosa di più di quello che noi siamo soliti intendere, essa non è la trascrizione della voce in subordine alla voce, non dice dopo la ‘voce’ che è sovrana e che ha il dominio dei significati e del voler dire. C’è una “scrittura più antica”, per così dire, della scrittura alfabetica, è quella “scrittura” che per l’appunto non si sente, non si può dire, non vuole dire o non ha niente da dire. E’ quella scrittura della «differenza originaria» [S ‘/’ s], che fa ‘segno’, e che compone i significati, ma li compone, come dire, in una “dimensione seconda” che ha perso l’«origine », che ha perso l’«Arché». Perché? (questo è quello che mi chiedevano i miei amici appunto del perché siamo sempre “nel due”) Beh, è evidente che, se ogni segno della lingua rimanda, voglio dire è comprensibile per differenza da tutti gli altri segni, e per differenza interna tra la sua “anima” e il suo “corpo”, per dire così, se quindi siamo sempre di fronte ad un differimento del senso – “cosa propriamente voglio dire quando dico…”, “cosa propriamente voglio scrivere quando scrivo…” – se questo si può dire soltanto “non ora”… Non è <infatti> detto qui e ora, è “detto dopo”! Perché uno mi dice, “cosa volevi dire, cosa intendi dire, “rosso” in che senso, “leone” in che senso”? E’ un “rosso” metaforico, un “leone” metaforico? E’ proprio l’animale dello zoo, è proprio una gamma di colore che tu vuoi dire? Oppure tu dici come dice il poeta “il giorno ‘rosso’ dell’ira”? Che ‘rosso’ è, cosa vuoi dire? Alludi al “sangue”, cos’è? Ma questo non è solo del poeta (il poeta è <solo> il più bravo in queste cose), questo è di tutti: tutti non appena parliamo siamo “differiti”, perché usiamo un segno – non ci sono che segni! – ed usando un segno usiamo una «differance» [S ‘/’ s], usiamo una differenza da altri segni. E allora <è> il nostro “voler dire” <ch’>è differito: la «differance» non è soltanto questo gioco della [a] e della [é] <della parola «differ[é/a]nce»>, nell’ambiguità tra voce e scrittura, ma è anche nel senso della temporalizzazione, nel differimento verso l’ “origine” del “volevo dire”. Ma come faccio a dirlo? Non sarò mai di fronte all’origine, non potrò mai dire che cosa volevo dire, perché continuamente lo avrò da dire, continuamente sarà differito il mio senso. Allora questo mostra molto chiaramente che non c’è parola piena, che non c’è significato evidente nel senso pieno dell’ ‘espressione’ o, detto in maniera che piacerebbe a Derrida (ma che lo ha detto lui stesso), non c’è prima la parola: prima della parola parlata, cosiddetta “vivente”, c’è sempre un «testo».

Noi parliamo come testi scritti, nel senso che appunto il testo scritto ha quel carattere che io vi ricordavo: noi <p. es.> leggiamo nei Vangeli «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, e diciamo cosa significa? Perché il Cristo che sta volando in Cielo, e la Croce è il suo trionfo, sta lamentandosi di essere abbandonata da Dio? <Ebbene>, su questo non c’è risposta; appunto, noi diciamo che nel testo scritto quel che si dice si apre ad infinite interpretazioni, ma questo è già vero della

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‘voce’ (ecco la scoperta derridiana)! Non è che se fossimo stati lì davanti al Cristo avremmo detto: “ah, beh, è del tutto chiaro!”; avremmo <invece> dovuto, come racconta un aneddoto ebraico in cui il maestro sta morendo e tutti i discepoli in fila con grande premura, che però gli vogliono fare l’ultima domanda: “maestro, dicci cos’è la vita, che cos’è il significato della vita”; allora il maestro risponde una cosa, questa torna indietro, ma i discepoli non sono contenti; allora ritornano a domandare: “rabbi, abbi pazienza, precisa meglio cose volevi dire”; sinché il rabbi si stufa e dice: “guardate, come non detto!”. <Questo> perché non si può dire quel che si ha da dire, il che vuol dire che ogni dire è già uno scritto, è già una scrittura che originariamente tace, che originariamente è “an-archica”, non ha “arché”, non ha principio, si radica nel non-poter, non-voler, non-aver da dire. <In> ogni ritorno indietro dell’espressione in questo differimento di senso infinito, di incontra l’«archi-scrittura», cioè quel fenomeno originario per il quale io sono già iscritto in una scrittura che parla prima di me ma parla differendo il senso all’infinito. Direi poi che questa è una cosa che Derrida dice in una comunione molto profonda con due componenti del suo pensiero che sono sempre presenti, da un lato la tradizione ebraica, è evidente, si ricollega <cioè> a tutta la tradizione ebraica sulla ‘phoné’, la voce “del dio”, sul “soffio” che Dio impone ad Adamo; e sulla prescrizione ebraica di non scrivere le vocali perché la loro scrittura è appunto sacrilega, poiché avrebbe la pretesa di dare un corpo fisico [s], un significante al “soffio” di Dio. Derrida è il rovesciamento di tutto ciò entro una mentalità che qui si vede molto bene: ha dei debiti con la cultura ebraica, quindi con <Maurice> Blanchot, con <Emmanuel> Lévinas, che sono suoi compagni di strada, con <Edmond> Jabès che intende tutto il cammino ebraico della parola come un cammino della scrittura, come il libro infinitamente da scrivere che non si potrà scrivere mai; e dall’altra parte il debito che ha nei confronti di Freud, cioè la convinzione freudiana che quel che ho detto è sempre altro da quel che volevo dire, e quel che volevo dire è sempre altro da quel che ho detto, cioè che c’è un infinito differimento del senso, sicché nessuno è proprietario della propria espressione e del proprio significato: ognuno è collocato in questa dispersione infinita dei segni e cerca disperatamente di sostenersi nella sua parziale evidenza, ma non appena deve tener fermo il significato che ha detto, questo gli è già sfuggito e lui si trova già in un altro luogo; perché è attraversato dai segni, non è padrone dei segni (vedete come il tema heideggeriano dell’uomo che non è padrone del linguaggio ma è il linguaggio ch’è padrone di lui drammaticamente si trasformi o problematicamente si trasformi in Derrida).

II prospettiva fenomenologica, Heidegger: la differenza ontologica.

E <tutto> questo adesso lo vediamo proprio qui [differ[a]nce], cioè come la tesi heideggeriana “il linguaggio parla prima dell’uomo”, “il linguaggio parla nell’uomo” e non è l’uomo padrone del linguaggio – tesi che in Heidegger si specifica come «differenza ontologica» –… perché l’uomo parla qui, cioè nella parola ‘ente’, l’uomo dice la parola ‘ente’, cioè dice ‘fiume’, ‘fontana’, ‘bosco’, ecc., dice tutto quello che dice, nella lingua in cui lo dice, ma per poterlo dire deve essersi rivelato l’essere, deve essersi aperta la “radura” che rende possibile il dire. Ecco che Heidegger si esprime in questa maniera magniloquente e ricca di tradizione metafisica; da bravo tedesco è molto serio [laugh], molto professore e molto profondo, ma sta dicendo poi quello che la leggerezza ammirevole di De Saussure dice più semplicemente: “tu stai dicendo che bisogna avere un significato per avere un significante”, che perché l’uomo parli, quindi dia corpo alle parole, dia fiato alla voce, dica qualcosa [laugh], dica <p. es.> ‘bosco’ [e] non un’altra cosa, bisogna che si sia già aperta la “radura luminosa”, la “Lichtung” (tutti questi giochi molto interessanti, fascinosi, ma poi insomma…), deve già essere nella verità dell’essere, cioè al cospetto del significato primo che ovviamente non si apre grazie alla parola: è la parola che si apre grazie a lui. Sta dicendo questa direzione <da S a s> che già De Saussure aveva notato come fortemente problematica. Io posso avere una lingua, cioè una serie di suoni

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che sono significativi, che sono veicoli del significato, se ho già il significato; se non ho niente da dire non parlerò mai e non saprò nemmeno che cos’è una lingua, se non ho niente da dire taccio: sono un animale o sono un bambino infante. E’ solo quando sono colto dall’evidenza del significato, dalla luce del significato, dalle essenze, dall’evidenza del senso, dalla “cosa stessa”, solo allora, quando mi si apre davanti, posso volerla dire, e quindi tradurla nel corpo della parola ontica, del parlare, chiacchierare, dell’essere umano. <Significato> che quindi deve essere preso da qualcosa che è «Ur-sprache», ‘linguaggio originario’ non linguaggio umano; significati originari dell’essere evidentemente, che mi si rivelano, mi si manifestano; ed allora: “voglio dire ‘rosso’”, ma le cose non possono andare così perché io la debbo già avere la materialità del significante anche solo per concepire un significato. Allora quella che, in maniera molto drammatica, molto interessante e importante certo per la storia della metafisica, Heidegger chiama «differenza ontologica», differenza tra l’essere e l’ente, non è propriamente la “differenza ontologica”, è la «differ[a]nce». Cioè all’origine di questa “differenza ontologica”, che per Heidegger è il senso di tutta la tradizione occidentale, ed è il dramma della metafisica, ed è “il problema che è davanti a noi e non dietro di noi” della fenomenologia perché il suo gran tormentone è “con che parola diremo l’essere” – se l’essere è il luogo che dona le parole, che mostra all’uomo la linguisticità di ogni ente – per Derrida è ancora metafisica, <Heidegger> pensa ancora con le parole della metafisica. Ma soprattutto non è solo perché dice essere invece che dire un’altra cosa: Heidegger c’ha provato a dire un’altra cose, a dire «Ereignis», a barrare la parola ‘essere’, ma non è lì il problema; il problema è che quel che si tratterebbe di dire è quel che proprio non si può dire, cioè la “barra” [S ‘/’ s], l’identica “barra” [differenza ‘/’ ontologica], l’identica differenza tra la differenza [ontologica] stessa. Si tratterebbe di dire non l’essere diversamente dall’ente o fuori dall’ente o indipendentemente dall’ente perché sennò diciamo l’Ente sommo e allora siamo daccapo, abbiamo identifica l’essere con un ente e non abbiamo visto la “differenza”. Già, ma per vedere questa differenza dovremmo dire la differenza, ma dire la differenza non si può, si può soltanto con il gioco della «differ[a]nce». Si può soltanto porre la differenza nella differenza in ciò che non risuona come differenza, cioè si può soltanto richiamarsi ad un’anonima scrittura della differenza, cioè ad un’«archi-traccia»,ad un’«archi-scrittura». In altre parole noi dobbiamo porre la questione del come operiamo la “barra”. In un altro luogo Derrida fa notare che quando Heidegger cercando di sfuggire ai paradossi nei quali si trova coinvolto barrando <la parola> l’essere – il che vuol dire vedere come dietro ad un cancello l’ “essere” da cui veniamo – <che sta> per la sua cancellazione, quindi un nuovo pensiero che non è più il pensiero dell’essere, della metafisica come essere, che si fa carico quindi della “differenza” da questa metafisica… l’osservazione di Derrida è “sì, ma mi dovresti mostrare come fai a barrarlo!”, perché barrarlo è semplice, ma è “barrarlo” quello lì?

Allora vi farò comprendere questo punto decisivo di Derrida con un es. bellissimo di Peirce, che lo sollevava per altre sue questioni ma neanche troppo lontane da queste. L’esempio è questo: immaginiamo un cerchio, e diciamo che questo cerchio è metà rosso e metà blu. Domanda: ciò che fa la differenza tra rosso e blu, il luogo dove essi differiscono, è rosso o è blu? E’ evidente che non c’è risposta. (Questi sono i giochini interessanti dei filosofi). Questo che sta dicendo Peirce è esattamente quello che intende dire Derrida: che la “traccia”, la “linea”, la “barra” che dovrebbe indicare la differenza tra significato e significante, tra essere ed ente, tra concetto ed espressione, questa “barra” non è un “segno carnale”, diciamo così, non è un segno che possiamo né tracciare né rintracciare. Infatti quando dico: “la differenza, questo segno!”, sono già nel significato. La ‘differenza’ è un significato, il ‘segno’ è un significato, la ‘traccia’ è un significato. E allora il luogo della differenza, il luogo del segno, il luogo della traccia è un ni-ente che possiamo indicare soltanto come «archi-traccia», «archi-scrittura», «traccia della traccia», «nome del nome» dirà Derrida, ma è chiaro che il “nome di un nome” non è un nome, è chiaro che l’ “archi-traccia della traccia” non è una traccia. E’ insomma un luogo del silenzio – il silenzio della [a] di “differ[a]nce”, che

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non si sa, che bisogna verla tracciata per saperla, ma prima ancora è inaudita – che precede ogni parola e che la rende possibile, perché senza la distinzione ‘significato’ ‘espressione’ [S/s] non parleremmo (quella distinzione indubbiamente la descrive bene il segno linguistico come siamo abituati ad intenderlo). Se noi non avessimo una “linea” che non è né rossa né blu, non avremmo la “differenza” tra rosso e blu. Voi direste che si potrebbe porla nera, beh allora si pone la differenza tra rosse e nero e tra blu e nero.

La metafisica ha pensato questa cosa: l’ “argomento del terzo uomo” di Platone ed Aristotele. Se ci pensate, questi giochi che stanno facendo questi illustri colleghi… e se fossero tutti insieme presenti (io sono stato quattro giorni a fare un seminario insieme con Derrida, e ci siamo molto divertiti devo dire, a <Mainarde> ed è stato molto interessante) direi: “ma non vi pare che la metafisica a suo modo l’abbia già pensato come problema quando Aristotele obiettava a Platone, in realtà usando un argomento di Platone…?”. Questo è l’uomo in carne ed ossa, empirico o come dir si voglia [Sini disegna la figurina stilizzata di un uomo], ma è uomo perché è simile a l’‘uomo’ in sé (indichiamolo così genericamente [Sini disegna un cerchietto distante d’un tratto al di sopra della figura precedente]): questo è un uomo perché lo confronto con l’uomo in sé: dico “ecco un uomo” e penso l’uomo in sé: ‘significato’ ed ‘espressione’ (è la stessa cosa). Ma questo <uomo empirico> non è l’uomo in sé, altrimenti sarebbe l’uomo in sé, c’è una differenza tra i due. Ma allora, come facciamo ad operare questa mediazione per cui quando noi parliamo riconosciamo in questo uomo l’uomo in sé? Beh, non c’è altra via a questo punto che metterci un altro “omino” in mezzo e dire che c’è una somiglianza dell’uomo qui davanti con un terzo uomo che dev’essere per un lato simile all’uomo in sé e per l’altro lato simile a questo uomo, cioè dobbiamo inserire la particolarità tra l’individuo e l’universale. Già, ma allora la “spaccatura” si riproduce qui <nel terzo uomo>; perché c’è una parte del terzo uomo ch’è simile all’uomo in sé, e una parte ch’è simile a questo uomo: ma allora ce ne vuole un quarto, un quinto… la cosa non finisce mai. Allora questo significa che la “differance”, la differenza tra ‘significato’ ed ‘espressione’, universali ed individuali, anima e corpo, concetto e parola fonicamente espressa, non è dell’ordine di questi enti, non è pronunciabile in nessuno di essi, non è dicibile e tuttavia è condizione della loro dicibilità. Senza questa “differenza operante”, si potrebbe dire, questa “archi-traccia” che si ritrae dalla traccia, che […iv, v, vi, vii, …] infinitamente sfugge alla presa, che infinitamente non si può dire, ma che rende possibile il dire inavvertitamente posta in opera in ogni dire, ecco che questa “differance” è la “differance” del “di fuori” della metafisica. Ma non c’è via verso questo “di fuori” della metafisica, è il “di fuori” della metafisica, basta. Stando dentro la metafisica, decostruendone la sua struttura – come stando dentro la linguistica di De Saussure e decostruendo il segno linguistico dei linguisti – noi incontriamo il limite del nostro cammino, il “luogo” limite del nostro cammino. Ogni pretesa di andare al di là mostra la sua insensatezza. Non abbiamo possibilità quindi di uscire dalla storia della metafisica, non c’è alternativa, possiamo solo starci in modo diverso avendo compreso qual è il suo limite, le “invisibili mura del nostro carcere” che però resta il nostro carcere non sormontabile in alcun modo. Prima leggevamo «forse la “differance” è un’anticipazione…», questo lo pensa il giovane Derrida; via via che si approfondisce il suo pensiero si accentua la consapevolezza del fatto che la fine della onto-teologia è infinita – cioè del concetto, del segno che si muove a partire dalla “voce piena”, la voce del dio, la voce dell’autocoscienza assoluta, e che ha nell’espressione il “corpo-servo”, il corpo al servizio di questa voce (mentre ora abbiamo visto che “servo” e “signore” si confondono tra di loro, si compenetrano. Qui c’è tutta l’eredità hegeliana e marxiana di Derrida. Abbiamo vista la contaminazione del segno, la disseminazione del significato). Visto questo, la onto-teologia non è sormontabile in un’altra verità, in un’altra parola, in un’altra pienezza, in un’altra evidenza del senso.

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IV parte.

Vi leggo ora la conclusione del suo straordinario saggio sulla «differance» che ci dà alcune indicazioni interessanti. Poi una considerazione sul significato che la decostruzione assume nel cosiddetto secondo Derrida (tutti i pensatori hanno un loro secondo sennò che pensatori sono). Recentemente Derrida è tornato sull’argomento dicendo: “ma quale secondo Derrida! Sono sempre il primo. La mia decostruzione ha un significato morale e politico. Che io svolga questi significati senza più parlare di decostruzione non vuol dire che ho cambiato idea. Vuol dire semplicemente che do per scontato che questo è il lavoro della decostruzione, che non è un semplice gioco sofistico”. Non è il piacere di mettere nel sacco Husserl, Heidegger, la fenomenologia e tutto l’Occidente dicendo: “sapete cari signori, non si può dire niente! L’unica cosa che si può dire è il non avere niente da dire”, non sono un sofista come Gorgia (posto che loro fossero così). No, tutto questo ha un significato molto pregnante, molto “carnale”: indica un orientamento nel mondo di oggi sotto il profilo etico-politico.

Intanto parla della “traccia” come simulacro di una presenza, cioè la “traccia” sembrerebbe una presenza (p. es. la differenza tra rosso e blu, si dice: “c’è in presenza la differenza tra rosso e blu”, ma non c’è, perché non è né rossa né blu. Quindi quello che fa la differenza è una “presenza cancellata”, è un’origine che non c’è, è in questo senso è un “due”, non un uno, sempre segno di qualcosa d’altro che non si presenta e non si può presentare), quindi abbiamo propriamente una “cancellatura” (poi lui trova tutte queste espressioni anche in Heidegger, è bravissimo!). <<Il presente, allora, [quella presenza vivente alla quale si riferiva Husserl sotto il profilo della coscienza trascendentale pienamente riempita, Heidegger come la “luce dell’essere”, nella sua presenzialità fuori del tempo e che ha in sé tutto il tempo] diventa segno del segno, [“traccia della traccia”: ogni presente è un segno che differisce il suo significato infinitamente indietro e infinitamente avanti]; non è più ciò cui ogni rinvio rinvia in ultima istanza, <ma> diventa una funzione in una struttura di rinvio generalizzato: è traccia ed è cancellamento della traccia [ogni traccia in fondo ricopre la “archi-traccia”, cancella, non fa più vedere quello che davvero è accaduto, cioè una separazione originaria indicibile, una differenza originaria che non è nemmeno differenza, che diventa tale quando prende il corpo della traccia, ma il corpo della traccia è posticcio, è appunto traccia della traccia, è luogo di cancellazione del ‘gesto originario’]>>. <<In questo modo noi dobbiamo pensare sempre il “di fuori” come “di fuori” di un testo [chiaro che qui la parola “testo” ha un significato metaforico: noi siamo sempre un “testo”, siamo sempre una scrittura già accaduta il cui significato è rinviato all’infinito. O si potrebbe dire che la <risposta alla> domanda kantiana “che è uomo?”, tradotta magari in maniera ancora più pregnante “chi sono io?” non la posso sapere perché l’ho da dire all’infinito: ho infinitamente da dire chi sono io (questo è quello che succede dallo psicanalista, che uno dice infinitamente senza mai poter dire “dunque insomma io sono questo, mi vedo chiaramente”. Ogni volta che dice, è traccia della traccia, è rinvio infinito e differito ad un’origine prima che non si dà mai in originale ma sempre nel suo segno differenziale)]. Quindi non appare mai la traccia stessa – questo lo dice anche Heidegger quando parla della Lichtung, ma poi non lo pensa davvero. A questo punto che non vi sia essenza della differenza [che non si può parlare di essenza della differenza, sennò non possiamo parlare della “differance”, ma parliamo della differenza come della differenza tra bere e mangiare, cioè della differenza ontica, che diventa un significato tra gli altri significati, diventa una parola tra le altre parole: la differenza empirica ha già stabiliti i termini della differenza: c’è differenza tra bianco e nero, si sta parlando della differenza tra i due; ma la “differance” è quella che pone la possibilità di porre questa differenza, quella che appunto non è né bianca né nera. Quella che quindi non si può dire in nessun significato della lingua, che non è la differenza banale empirica] implica che non vi sia né essenza, né verità nel gioco della scrittura, in quanto il gioco della scrittura introduce la “differenza” [Quindi non possiamo più parlare né di essenza né di verità del gioco della scrittura che ognuno incarna poiché è quel gioco che fa accadere ciò che noi chiamiamo verità, ciò noi che

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chiamiamo scrittura, ma ciò che sta alle spalle di tutto ciò non si può dire con nessuna di queste parole] . Per noi la “differenza” resta un nome metafisico [<come se dicesse> “capisco benissimo che tuttavia “differance” allude a questo gioco, ma preso come tale resta non di meno catturata dal gioco metafisico: è pur sempre una parola, ci siamo pur sempre capiti] e tutti gli appellativi che riceve nella nostra lingua sono ancora, in quanto sono nomi, metafisici. In particolare quando denotano la determinazione della “differance” come differenza tra presenza e presente [come dice Heidegger] ma soprattutto in modo più generale quando dicono la determinazione della “differance” nella differenza tra essere ed ente [differenza ontologica] troviamo che, più vecchia dell’essere stesso, una simile “differance” non ha alcun nome nella nostra lingua [<come se dicesse> “io dico ‘differance’ ma è come un accenno: non c’è nome per la differenza tra essere ed ente, non c’è nome per la differenza tra ‘significato’ ed ‘espressione’, tra ‘mente’ e ‘corpo’ della lingua, tra ‘concetto’ e ‘significante’, ‘fonema’, ecc.]. Tuttavia sappiamo già che se è innominabile non lo è provvisoriamente [non è come se dicesse: “per ora non abbiamo un nome, ma aspetta un po’ che di penso”], poiché la nostra lingua non ha ancora trovato o acquisito questo nome, oppure perché bisognerebbe cercarlo in un’altra lingua al di là del sistema finito della nostra: non vi è nome per essa, neppure quello di essenza e di essere, nemmeno quello di “differance”. Questo innominabile non è un essere ineffabile, cui nessun nome potrebbe avvicinarsi, Dio p. es. [qui Derrida parla contro il suo ebraismo, da laico ateo di cultura ebraica], è il gioco che rende possibili gli effetti nominali [la nominazione], le strutture relativamente unitarie o atomiche che sono chiamate ‘nomi’, catene di sostituzione di nomi, nelle quali p. es. l’effetto nominale, “differance”, è esso stesso trascinato [quando dico “differance”, già per il fatto di dirlo lo sto trasferendo come nome tra i nomi, come nome un po’ bislacco, un po’ originale, ma diventa subito nome e non dice quel che vorrebbe dire perché quel che vorrebbe dire non è da dire e non ha niente da dire, è solo il gioco della differenza dei nomi, quindi viene iscritto di nuovo nel gioco della differenza dei nomi]. Ciò che sappiamo, ciò che sapremmo se qui si trattasse semplicemente del sapere [perché non è in gioco semplicemente la scienza, è in gioco la condizione, la archi-traccia di ogni sapere, qualcosa che precede il sapere, e non nel senso del precategoriale husserliano, ma nel senso di ciò che nel suo non sapere è traccia del sapere, è archi-traccia del sapere. E’ chiaro quello che poi Derrida sta dicendo: è che questa è la “morte”; è che tutto questo indica come nel ‘nome’, nel ‘voler dire’, nel ‘continuare a dire’, viene mascherata continuamente l’iscrizione dell’essere umano nella morte, cioè di quel “luogo” in cui non si ha parola, non c’è parola, non c’è significato, ma c’è la presenza della scrittura dei corpi nella loro insignificanza. La ‘morte’ come l’insignificanza del senso della vita] è che non è mai esistita né esisterà mai una parola unica, un nome sovrano, poiché il pensiero della lettera ‘a’ di “differance” non è la prescrizione originaria, né l’annuncio profetico di una nomina imminente e ancora inaudita. Questa parola non ha nulla di kerigmatico, per poco che se ne possa percepire la maiuscolazione. Mettere in causa il nome del nome. Non vi sarà un nome unico, fosse anche il nome dell’essere, e lo si deve pensare senza nostalgia, cioè liberi dal mito della lingua puramente materna o paterna della patria perduta del pensiero. Al contrario lo si deve afferrare nel senso in cui Nietzsche mette in gioco l’affermazione in un certo sorriso e in un certo passo di danza. Dopo questo “riso” e questa “danza” [chiaro che pensa a Zarathustra], dopo questa affermazione estranea ad ogni dialettica, viene in questione l’altra faccia della nostalgia che chiamerei la “speranza heideggeriana” [anche questa quindi non va bene:nessuna nostalgia e nessuna speranza, ma “gioco” e “danza”]. Mi rendo ben conto del possibile effetto perturbante di questa parola, tuttavia mi assumo il rischio senza escludere alcuna implicazione, e la metto in rapporto con ciò che il detto di Anassimandro mi pare conservare di metafisico: la ricerca del nome proprio e del nome unico. Parlando della prima parola dell’essere (das erste Wort des Sein), “katà to kreon” [“è necessario che…” <“secondo necessità”>, dice Anassimandro] Heidegger scrive:

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«Il rapporto al presente, all’ente presente, dispiegando il proprio ordine nell’essenza stessa della presenza è unico (ist ein einziger) [è un “unicum”, diciamo]. Resta del tutto incomparabile a qualsiasi altro rapporto, appartiene all’unicità dell’essere stesso, perciò la lingua per dire ciò che si dispiega nell’essere dovrebbe trovare una sola parola, la parola unica, la parola singolare (ein einziges das einziges Wort) [Heidegger sta dicendo: “per poter dire il dispiegarsi della presenza nell’ente presente – l’essere, la verità, la Lichtung – dovremmo dire una parola singolare, unica, una “parola” che non è una parola quindi, appunto perché le parole sono un fenomeno differenziale (Heidegger sa benissimo e come dice De Saussure: “dovremmo trovare quella cosa che non esiste, che non ha senso, che è la parola singolare”: “le parole sono sempre plurali” aveva detto <Maurice> Blanchot: ogni parola per essere intesa rimanda ad un’altra parola, non posso capire cosa significa la parola ‘padre’ se non in relazione a ‘figlio’ a ‘madre’, ecc.]. Da ciò si può misurare a quale rischio vada in contro ogni parola del pensiero, ogni parola pensante (denkende Wort) che sia indirizzata all’essere. Tuttavia non si tratta di un rischio impossibile poiché l’essere parla ovunque e costantemente attraverso tutto il linguaggio»

[Quindi Hiedegger sta dicendo – è bravo Derrida – la stessa cosa che dice Derrida, ma la “guarda” dal lato “della speranza” (ha detto lui). Sta dicendo, come Derrida, che il “nome del nome” è un unicum che non è neanche più un nome, che la “parola singolare” non è nemmeno una parola, che, cioè, tutto ciò che precede e fa differenza nel linguaggio – donde la differenza degli enti che si dispiegano nella presenza – tutto ciò cha dà questa differenza non è dicibile nemmeno come differenza – perché già la parola “differenza” è al di qua – e quindi sta al di là di ogni nominazione, è il nome di un nome che non può essere un nome. Anche Heidegger se ne rende conto, dice: dovremmo dire, per dire il dispiegarsi dell’essere nella presenza degli enti, dovremmo dire qualcosa di assolutamente singolare, una parola che non è nemmeno una parola. Però, dice, si dà la speranza: non è un rischio impossibile, se consideriamo che però comunque l’essere parla ovunque, parla in ogni parola del linguaggio. E Derrida conclude: Ma questo è proprio il problema: l’alleanza della parola e dell’essere nel nome unico, nel nome proprio infine [il nome di Dio sostanzialmente]. Tale è il problema che si inscrive nell’affermazione giocata della “differance” [questo è proprio il problema della “differance”]. Essa, la “differance”, conduce su [aperta parentesi] “(ciascuno dei componenti proprio di questa frase)” [che è quella che ha detta Heidegger]: “l’essere parla ovunque e costantemente attraverso ogni lingua” [e Derrida barra ogni parola. Sta dicendo: ma questo è proprio il problema, non la soluzione o la speranza del problema. Il problema è che il gioco della “differance” mette in questione l’intero senso della frase poiché ne mette in questione ogni parte, e di ogni parte mostra che è già giocata appunto dalla “differance”, e che coma tale quindi, la sua somma non può sperare mai di dire la parola dell’essere. Non è vero che la parola dell’essere parla in ogni parola, in ogni ente parola. Diciamo piuttosto che si sottrae in ogni parola il gioco della nominazione, senza più nemmeno dire che “è l’essere che si sottrae però ci donerà, ecc.” No, non si sottrae altro che il gioco della “differance” che noi non possiamo in alcun modo identificare in nessun nome, e quindi in nessun sapere, in nessun fono-centrismo, in nessun dominio del logos sulla verità del mondo].

Dicevo che tutto questo per Derrida non è un gioco sofistico – è troppo profonda la cosa per pensare che uno è diventato matto a fare queste cose, per il semplice scopo di mettere in trappola Husserl e Heidegger – lui sta dicendo che la mancanza di un pensiero post-metafisico, la soluzione del problema dell’Occidente, un non aver futuro della domanda sul senso dell’Occidente (vi ricordate le questioni che sollevava Husserl, quelle della Krisis, quando diceva: cosa siamo noi europei? Siamo un fenomeno antropologico tra gli altri o invece siamo portatori di una verità che in qualche modo può essere il senso dispiegato dell’umanità

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planetaria? Perché se non siamo così, noi indubbiamente da questa crisi non usciremo mai) va posta in un altro modo. Sta dicendo: la presa di coscienza del carattere contingente della fonetica occidentale, la presa di coscienza che la verità dell’Occidente non è altro che un fenomeno della lingua dell’Occidente – in questo d’accordo con Heidegger, è vero, diamo importanza alla lingua, noi siamo la nostra lingua, non c’è altra realtà che non sia dentro la lingua – però la nostra lingua è un fenomeno fonetico tra infiniti altri, la sua pretesa di dire la verità della storia, la sua pretesa di dire la verità del mondo (come dice la scienza), la sua pretesa di presentarsi come organizzazione economico-politico dell’esistenza planetaria (questo lo dice soprattutto negli ultimi tempi) è inscritta in un paradosso irresolubile, in una si stazione di stallo, la quale è tuttavia eticamente più “alta” di chi tuttavia non si rende conto dello stallo. E i suoi esempi privilegiati, sui quali oggi più si discute, sono il “dono” e l’ “ospite”. Qui si vede il limite della razionalità occidentale e l’assurdità della sua pretesa di aver risolto il problema del significato, di modo che sia condivisibile da tutti e che sia armonicamente distribuibile nelle varie contingenze della vita umana sulla terra. Perché, lo dico in due parole: il “dono” è quello che appunto fa la “differance”. Il tormentone della madri e dei padri ai figli: “ti ho dato il dono della vita”, e l’altro dice: “ma io non l’avevo chiesto”. Il “dono” è quello che fa la “differance”, cioè inevitabilmente il dono pone una differenza incolmabile, una “archi-traccia” che nessuna traccia potrà esaurire tra il donatore e il donato, cioè colui che riceve il dono. Stabilisce quella “differenza” che non potrà essere colmata mai più: tutta la vita ti dovrò essere grato perché mi hai donata la vita, e già perché non c’è gesto che possa colmare questo. Perché il gesto del dono, che poi fa la differenza, mostra di essere in ultima analisi il contrario di sé: “io ti dono” sembrerebbe un atto di generosità, ma invece è un vincolo, è un atto di cattura, non è altro che la solita “differance” tra il significato e il significante. Come significato il dono è un atto di generosità, “ti do del mio”, “ti faccio un sacrificio per donare”; ma in quanto questo “dono donato” fa la tua materialità, rende te corpo di colui che hai ricevuto – come la parola è corpo del significato – ecco che in realtà ti vincola al mio dono, il mio dono ha costituito la necessità della tua restituzione, del tuo sentirti in debito, del tuo non poter mai colmare questo debito. E già, perché questa traccia originaria che ci ha divisi è incancellabile, è solo replicabile di nuovo con altre tracce che replicano l’archi-traccia. Che uno sta giù e l’altro sta giù, e che poi si capovolge: io ti ho dato dieci, tu mi rispondi cento, ed allora sei tu che adesso devi correre per colmare il novanta. Le parabole di Gesù sono evidentemente in gioco in questa visione, ma soprattutto è in gioco la non colmabilità della differenza una volta ch’è avvenuta; ma la “differenza” avviene di continuo, non è che possa non avvenire: la “differenza” è quella che fa gli enti in quanto sono enti. Qui si potrebbe ricordare la battuta nietzscheana, che piacerebbe molto a Derrida – nel senso in cui dice che bisognerebbe avere il coraggio di Nietzsche che si proietta oltre Heidegger idealmente –: “presentare l’altra guancia non è un granché!”, perché a presentare l’altra guancia a chi ha schiaffeggiato, vuol dire porsi ad una distanza incolmabile da lui, in una superiorità che non potrà mai essere colmata, lui allora è in un debito infinito, appunto il debito degli uomini nei confronti del dio cui diventano servi, schiavi. L’unico modo, dice Nietzsche, il modo veramente generoso sarebbe stato quello di restituirlo il ceffone, perché era l’unico modo di equilibrare la situazione o di tentare di equilibrarla (poi però nella vita non è mai così, c’è sempre ceffone e ceffone, anche se è vero che molti grandi amicizie cominciano da una grande litigata, da una rottura.

L’altra questione, quella dell’ “ospite”, questione estremamente attuale, è la questione della irresolubilità dell’estraneo e del proprio. Una volta fatta la “differance” tra estraneo e proprio non c’è niente da fare, è incolmabile, irresolubile, vale a dire non si può affrontare attraverso un pensiero razionale. Un pensiero razionale può contingentemente porvi rimedio, porre rimedio ad alcuni aspetti più empiricamente pericolosi, fastidiosi, dolorosi. Ma non c’è una soluzione razionale, non può esservi una soluzione nel concetto, appunto perché il concetto è già una differenza accaduta. E allora accade che se io ti ospito, devo dirti “fai come fossi a casa tua”, è la frase canonica di tutti quelli che generosamente ospitano. Ma il

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sottinteso è “guardatene bene!” [laugh], perché sennò diventa la sua casa e non più la tua. Allora in questa situazione è evidente che ospite ed ospitante si contendono le parti di una ingiustizia costitutiva, di una ingiustizia che non si può equilibrare, se non attraverso una etica della situazione, una consapevolezza della “differance” che allora diventa importante eticamente, non è solo gioco metafisico o logico che mostra le inconseguenze delle nostre teorie linguistiche o delle nostre teologie. No, diventa un’istigazione etica, un impulso etico; questo Derrida lo chiama democrazia. Quando dice democrazia non pensa sicuramente a quello che pensa il Presidente Bush quando vuole che tutti diventiamo democratici a modo suo, direi anzi proprio il contrario di questo. Ma ribadendo nel concetto di democrazia la validità di questa idea: la democrazia è la continua messa in opera dell’impossibile, C’è questo appello di Derrida alla consapevolezza della impossibilità della democrazie, perché la democrazie appunto sarebbe il tentativo di colmare l’ingiustizia inevitabile tra ospitante e ospitato, tra donante e donato, ecc. E tuttavia la reiterata impossibilità di questa realizzazione della democrazia è precisamente quell’impossibile che rende preferibile la democrazia. Cioè la democrazia che sia consapevole di questo suo paradosso, di questo suo lavorare de costruttivo dall’interno e non poter mai sporgersi in un esterno, è il migliore dei mondi possibili, è quella impossibilità che apre però a possibilità parziali, strategiche, certo insufficienti, sempre rimesse in questione. Sostanzialmente si tratta a me pare di un pensiero fortemente ebraico di questo uomo che, certamente è non religioso, però resta ebraico. Cioè l’uomo è nel deserto, l’uomo è in cammino verso la terra promessa – come diceva l’altro ebreo Husserl – e l’essenziale è che sappia che la terra promessa è un’origine che non ha fine, e che quindi caratterizza la sua natura di viandante, come direbbe <Edmond> Jabès, quella di uno scrittore di un libro che non si finirà mai di scrivere e che non appena ha scritto in una pagina mostra che quella pagina in realtà è bianca.