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LITURGIE FUNEBRI E SACRIFICIO PATRIOTTICO: I riti di suffragio per i caduti nella guerra di Libia (1911-12) 1. La complessa eredità del Risorgimento I funerali per i caduti in guerra rappresentano una delle manifestazioni più significative di quella pedagogia nazionale che, dalla rivoluzione francese ai nostri giorni, ha orientato l’opinione pubblica verso la legittimazione della violenza bellica, educando le masse all’etica del sacrificio e alla devozione verso gli eroi della patria 1 . Tali celebrazioni spiccano tra le invenzioni rituali della contemporaneità: praticate in forma collettiva e absentis cadaveris, forgiarono l’identità comunitaria dei vivi nel ricordo dei morti, facendo da officina della religione politica della nazione 2 . Il cattolicesimo partecipò alla promozione di queste liturgie, ospitandole – come tuttora avviene – nella cornice tradizionale della messa di suffragio, nonostante fossero espressione di un credo autonomo ed in parte alternativo a quello 1 Oliver Janz - Lutz Klinkhammer (eds.), La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, Donzelli, Roma 2008; Fulvio Conti, L’urne dei forti. Religioni politiche e liturgie funebri nei secoli XIX e XX, in Maurizio Ridolfi (ed.), Rituali civili. Storie nazionali e memorie pubbliche nell’Europa contemporanea, Gangemi editore, Roma 2006, pp. 115-134. 2 Alberto Mario Banti, La memoria degli eroi , in Alberto Mario Banti - Paul Ginsborg (eds.), Storia d’Italia. Annali 22. Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007, pp. 645-664. Pur rinviando all’analisi di Emilio Gentile (Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi , Laterza, Roma-Bari 2001), non mi attengo alla sua problematica ripartizione tra “religione politica” (intollerante) e “religione civile” (democratica), preferendo utilizzare la categoria omnicomprensiva di “religione politica” come suscettibile di differenti determinazioni. 1

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LITURGIE FUNEBRI E SACRIFICIO PATRIOTTICO:I riti di suffragio per i caduti nella guerra di Libia (1911-12)

1. La complessa eredità del Risorgimento

I funerali per i caduti in guerra rappresentano una delle manifestazioni più significative di quella pedagogia nazionale che, dalla rivoluzione francese ai nostri giorni, ha orientato l’opinione pubblica verso la legittimazione della violenza bellica, educando le masse all’etica del sacrificio e alla devozione verso gli eroi della patria1. Tali celebrazioni spiccano tra le invenzioni rituali della contemporaneità: praticate in forma collettiva e absentis cadaveris, forgiarono l’identità comunitaria dei vivi nel ricordo dei morti, facendo da officina della religione politica della nazione2.

Il cattolicesimo partecipò alla promozione di queste liturgie, ospitandole – come tuttora avviene – nella cornice tradizionale della messa di suffragio, nonostante fossero espressione di un credo autonomo ed in parte alternativo a quello cristiano. Il caso italiano, data la frattura tra lo Stato unitario e la Santa Sede, si presta a mettere in luce il rapporto ambivalente, di conflitto e di contaminazione, che diede origine a «un sincretismo tra funerali civili e religiosi, tra pratiche civili e militari, tra culto civico e confessionale»3.

La politicizzazione delle esequie per i soldati contraddistinse la stagione risorgimentale, assumendo connotati diversi a seconda delle fasi e degli agenti commemorativi coinvolti. Nel 1848-49 il mito neoguelfo spinse molti esponenti del clero a “canonizzare” i combattenti la «Santa Guerra dell’Indipendenza», attraverso orazioni ed epigrafi funebri che celebravano la sinergia tra militanza cattolica e «redenzione» dell’Italia dai «barbari». Il can. Ranieri Sbragia – rettore della Scuola Normale granducale – dedicò ai «prodi» di Mantova e di Curtatone e Montanara, nella cattedrale di Pisa, le seguenti parole: «non muore chi cade combattendo per la Patria, la morte incontrata per Lei non è altro che gloria e trionfo di cui si rallegrano in Paradiso le anime dei valorosi» e, ancora, «il sangue dei Martiri è seme di 1 Oliver Janz - Lutz Klinkhammer (eds.), La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, Donzelli, Roma 2008; Fulvio Conti, L’urne dei forti. Religioni politiche e liturgie funebri nei secoli XIX e XX, in Maurizio Ridolfi (ed.), Rituali civili. Storie nazionali e memorie pubbliche nell’Europa contemporanea, Gangemi editore, Roma 2006, pp. 115-134.2 Alberto Mario Banti, La memoria degli eroi, in Alberto Mario Banti - Paul Ginsborg (eds.), Storia d’Italia. Annali 22. Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007, pp. 645-664. Pur rinviando all’analisi di Emilio Gentile (Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari 2001), non mi attengo alla sua problematica ripartizione tra “religione politica” (intollerante) e “religione civile” (democratica), preferendo utilizzare la categoria omnicomprensiva di “religione politica” come suscettibile di differenti determinazioni.3 Luc Capdevila - Danièle Voldman, Nos morts. Les societés occidentales face aux tués de la guerre (XIXe-XXe siècles), Payot, Paris 2002, p. 197 (traduzione dell’autore).

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libertà, e pegno sicuro di trionfo»4. Il linguaggio del sacerdote ricalcava figurazioni culturali diffuse5. Il numero di funerali patriottici organizzati in quegli anni e, successivamente, in coincidenza degli episodi fondamentali dell’unificazione (la spedizione garibaldina, la seconda e terza guerra d’indipendenza)6 confermano l’idea che, nonostante la rottura tra la Chiesa e lo Stato sabaudo, i riti cattolici fossero rimasti centrali nel conferire senso e credibilità alla morte per la nazione italiana.

Tale esito, tuttavia, non fu scontato. Nel luglio 1860 il gesuita Raffaele Ballerini prese spunto dalla pubblicazione di una delle tante orazioni funebri per i caduti nelle guerre del 1848 e del 1859 – quella pronunciata un mese prima dal can. Brunone Bianchi nella chiesa di S. Croce a Firenze7 – per denunciare la «grave licenza che, derogando alle tradizioni ed ai prescritti dei riti ecclesiastici, convertiva le cristiane gramaglie in pompe da scena, e le pie tristezze delle esequie in una profanità di apoteosi gentilesca». La condanna dei funerali “nazionali”, allestiti con bandiere tricolori, catafalchi, trofei d’armi ed iscrizioni riproducenti i defunti come «martiri», era inequivocabile. Quei rituali apparivano plasmati da uno «spirito eccessivamente mondano, per non dire pagano», che innalzava la patria a «bene supremo» ed esaltava «l’immolare alla cieca per lei interessi e cuore e vita»8. Mettevano in atto, insomma, una nuova religione, che trasferiva l’«augusto linguaggio del Vangelo e della morale» sulle gesta dei patrioti, qualificandoli con gli aggettivi «di pii, di sacri, di santi» e celebrandoli come «martiri della libertà», alla stregua dei martiri cristiani9.

Simili ed autorevoli prese di posizione, che riflettevano gli indirizzi vaticani, non implicarono un rifiuto incondizionato di sacralizzare il sacrificio marziale. Lo dimostrano i riti in memoria dei militari pontifici uccisi a Castelfidardo (18 settembre 1860). Nell’allocuzione Novos et ante 4 Ranieri Sbragia, Parole dette dal Professore Canonico Ranieri Sbragia nella Primaziale di Pisa il giorno 6. giugno 1848 per le solenni esequie degli estinti sotto Mantova nella gloriosa Giornata del 29. maggio, Tip. Prosperi, Pisa 1848, pp. 4-6.5 Lucy Riall, Martyr Cults in Nineteenth-Century Italy, in «Journal of modern history» LXXXII, 2(2010), pp. 255-287.6 Alcuni esempi in Roberto Balzani, Alla ricerca della morte «utile». Il sacrificio patriottico nel Risorgimento, in O. Janz - L. Klinkhammer (eds.), op. cit., p. 20 e Lucy Riall, «I martiri nostri son tutti risorti!». Garibaldi, i garibaldini e il culto della morte eroica nel Risorgimento, ibi, pp. 34-36.7 Orazione letta in Santa Croce di Firenze il IV Giugno MDCCCLX, nell’anniversario solenne dei morti per la patria a Curtatone e Montanara il XXIX maggio MDCCCXLVIII, dal cav. can. Brunone Bianchi accademico della Crusca e iscrizioni di Zanobi Bicchierai , Tip. Reale, Firenze 1860.8 [Raffaele Ballerini], Rivista della stampa italiana, in «La civiltà cattolica», («Cc»), XI, s. IV, 7(1860), pp. 194-206. La paternità degli articoli è ricavata dall’Indice generale della Civiltà Cattolica (aprile 1850 – decembre 1903) compilato da Giuseppe Del Chiaro segretario della direzione, Ufficio della Civiltà Cattolica, Roma 1904.9 [Raffaele Ballerini], Rivista della stampa italiana, in «Cc», XI, s. IV, 8(1860), pp. 72-75, che recensiva il libro dell’ex-sacerdote Atto Vannucci, I Martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848, Le Monnier, Firenze 18603.

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Pio IX esortò a pregare per coloro che «gloriosam pro Ecclesiae causa mortem obierunt», alludendo alla loro beatitudine eterna10. Spettò allo stesso Ballerini esplicitare il pensiero del papa: la morte di quei soldati, testimoni dei «diritti della Chiesa, ancorché temporali», aveva «causa supremamente divina» ed era pertanto «coronata di martirio»11. I loro suffragi, celebrati in diverse chiese di Roma e reiterati solennemente nel primo anniversario della sconfitta, mobilitarono il popolo sullo stesso terreno delle esequie patriottiche, ma sulla base di rivendicazioni speculari. Epigrafi «Militibus – Romanae Ecclesiae iura – strenue tuentibus» ed eloquenti simbologie – il tumulo circondato da armi e ornato della «Croce di S. Pietro inghirlandata di alloro, con la leggenda: Pro Petri Sede»12 – orientarono le cerimonie verso la fedeltà al papato e la protesta contro lo Stato sabaudo: l’effusione di sangue per la restaurazione ierocratica, perseguita mediante il ricorso alle armi, assumeva valore salvifico. Proprio questa linea, peraltro, apriva la strada ad una rivalutazione del martirio patriottico, nella misura in cui risultasse subordinato agli interessi del cattolicesimo. Nel 1867 il gesuita Francesco Berardinelli, commentando alcuni discorsi funebri per i caduti nel conflitto austro-prussiano, argomentò che difendere la patria da «ingiusti nemici» era un dovere e che, qualora si fosse trattato di «tutelare la vera religione» – ma le guerre d’indipendenza non corrispondevano a questa fattispecie – chi fosse morto in battaglia avrebbe meritato il «titolo di martire», assegnato in modo sacrilego agli «eroi» del Risorgimento13.

Agli occhi di molti la “prima guerra d’Africa” sembrò soddisfare questa possibilità. La conciliazione di fatto tra istituzioni ecclesiastiche ed élites liberali si concretizzò nelle esequie dei soldati, che, dopo il disastro di Dogali (1887), coniugarono il cordoglio cristiano all’ardore imperialistico. Per la prima volta gli uomini di Chiesa presero parte in modo massiccio ad una manifestazione ufficiale del Regno14. Le messe per i “martiri” della civiltà cristiana e della patria utilizzarono la sfera della gestione della morte per disciplinare i comportamenti collettivi entro i confini del “patriottismo cattolico”15. La ricca produzione di orazioni funebri ad opera del clero e, 10 SS. D. N. Pii Divina Providentia Papae IX Allocutio habita in Consistorio secreto die XXVIII septembris MDCCCLX, in «Cc», XI, s. IV, 8(1860), pp. 10-11.11 [Raffaele Ballerini], I morti per la Chiesa a Dragonara il 1053 e nel Piceno il 1860. Riscontro storico, ibi, p. 188 e p. 195.12 Cronaca contemporanea, ibi, XII, s. IV, 11(1861), pp. 105-106; Cronaca contemporanea, ibi, XI, s. IV, 8(1860), p. 118 e p. 635.13 [Francesco Berardinelli], Rivista della stampa italiana, in «Cc», XVIII, s. VI, 11(1867), p. 701.14 Manlio Graziano, Identité catholique et identité italienne. L’Italie laboratoire de l’Église, L’Harmattan, Paris 2007, p. 132; Roberto Battaglia, La prima guerra d’Africa, Einaudi, Torino 1958, pp. 254-258; Giuseppe Maria Finaldi, Italian National Identity in the Scramble for Africa. Italy’s African wars in the Era of Nation-building, 1870-1900, Peter Lang, Bern 2009, pp. 213-225 e pp. 263-293.15 Daniele Menozzi, I gesuiti, Pio IX e la nazione italiana, in A.M. Banti - P. Ginsborg (eds.), op. cit., pp. 470-478. In seguito il magistero pontificio riconobbe l’amore per la

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stavolta, anche di ordinari diocesani16, dimostra il coinvolgimento attivo di larga porzione della Chiesa nella costruzione del consenso coloniale. La convergenza tra l’intransigentismo e le istanze nazionaliste fu, comunque, tutt’altro che univoca. Nel panorama cattolico, di per sé favorevole ad una guerra che intrecciasse spinta missionaria ed espansione territoriale, emersero riserve verso il colonialismo italiano, viziato dalla “neutralità” dello Stato liberale. Vari predicatori sottolinearono il carattere riparatore delle “gloriose disfatte” di Dogali e di Adua (1896), che, riavvicinando il popolo alla preghiera, costituivano un flagello salutare17.

La tensione tra finalità ierocratiche e patriottiche è ben evidenziata dagli interventi vaticani, tesi a depotenziare il registro nazionalcattolico dei riti di suffragio. La Santa Sede intraprese una serie di provvedimenti che fornirono un precedente al momento dello scoppio della guerra italo-turca. Dopo Dogali la Segreteria di Stato autorizzò i funerali, facendo però trapelare in via privata la propria preferenza per i vescovi che se ne fossero disinteressati18. Nel corso del 1887, inoltre, la Congregazione del Sant’Uffizio e la Congregazione dei Riti impedirono l’introduzione in chiesa di vessilli non benedetti secondo le norme liturgiche. Il 4 aprile del medesimo anno la Sacra Penitenzieria apostolica specificò che le bandiere tricolori («vexillis ita dictis nationalibus», cioè ufficiali dello Stato, non appartenenti a soggetti privati) potevano essere tollerate nei cortei funebri, ma non all’interno degli edifici di culto, se non per prevenire disordini («nisi secus turbae aut pericula timeantur»)19. Il 13 marzo 1888 lo stesso tribunale ecclesiastico, in risposta ai quesiti di vari presuli, dichiarò lecite le funzioni per i caduti, ammettendo però come loro unico scopo il suffragio delle anime e vietando qualunque tipo di discorso, affinché le cerimonie non

patria, comprendente la morte per essa, tra i sommi doveri cristiani, benché sottoposto all’amore per la Chiesa. Cfr. Leone XIII, Sapientiae christianae [10 gennaio 1890], in Erminio Lora - Rita Simionati (eds.), Enchiridion delle encicliche, Edb, Bologna 1997, III, p. 543 e p. 537.16 Grande risonanza ebbe il discorso del vescovo di Cremona Bonomelli (febbraio 1887), pubblicato nel suo libro Una schietta parola agli amanti del vero, Tip. Queriniana, Brescia 1888, pp. 351-357.17 Questa lettura traspare ad esempio dal discorso di un parroco del contado pisano: I morti di Dogali. Discorso del sacerdote Augusto Donati parroco di Navacchio recitato nei solenni funerali celebrati nella ven. Chiesa parrocchiale di S. Prospero il Giorno 3 Marzo 1887, P. Orsolini-Prosperi, Pisa 1887.18 Stefano Trinchese, Il vescovo Scalabrini e l’episcopato emiliano-romagnolo fra transigentismo e intransigentismo durante il pontificato di Leone XIII (1878-1903) , in Gianfausto Rosoli (ed.), Scalabrini tra vecchio e nuovo mondo, Centro Studi Emigrazione, Roma 1989, p. 75.19 Il decreto del Sant’Uffizio del 31 agosto 1887 recepiva quello della Congregazione dei Riti del 14 luglio 1887 (confermato il 24 novembre 1897). Oltre ai vessilli delle associazioni cattoliche erano accettate le bandiere dell’esercito, ma non quelle delle società dei reduci. Cfr. [Salvatore Brandi], Le bandiere in Chiesa, in «Cc», XXXVIII, s. XVII, 1(1897), pp. 264-265.

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degenerassero in fatto politico. Prescrisse inoltre agli ordinari diocesani di non parteciparvi20.

La questione del tricolore, delle orazioni funebri e dei funerali per i morti delle guerre italiane toccava il nodo scoperto della collaborazione dei cattolici allo Stato italiano “usurpatore”. Il problema era destinato a ripresentarsi, in forma non molto diversa, nel 1911.

2. «Fra gli entusiasmi patriottici»

Fino all’inizio del Novecento la Chiesa cattolica intrattenne un rapporto sofferto con la “religione degli eroi” dello Stato unitario, contribuendo ad indebolirne l’efficacia. Fu con la guerra libica che il clero entrò a pieno titolo tra gli autori e propagatori del culto dei caduti per una “più grande Italia”. Grazie al suo coinvolgimento, favorito dal legame capillare con la popolazione, l’ideologia della morte patriottica acquisì per la prima volta un radicamento di massa. Il discorso sui morti in Libia rappresenta pertanto un ambito di forte interesse per indagare sia l’intermediazione ecclesiastica tra la dirigenza liberale e le classi popolari, sia lo sviluppo della mentalità nazionalcattolica che impregnò la cultura di guerra del primo conflitto mondiale e del totalitarismo fascista21. L’analisi di un campione di orazioni, epigrafi ed avvisi sacri redatti per le esequie dei soldati permette di cogliere la ricezione dei significati patriottico-marziali in una dimensione chiave del vissuto religioso: la pratica liturgica22.

20 Responsum S. Poenitentiariae quoad cantum hymni ambrosiani, in «Acta Sanctae Sedis» XXI, 1888, p. 64: «permitti posse ut sacrosanctum sacrificium aliaeque funebres caeremoniae celebrentur solo fine, qui notus pariter fiat, piacularem opem ferendi animabus defunctorum, quin habeantur nec a viris ecclesiasticis funereae orationes. Cavendum omnino, ne haec omnia in politicos sensus detorqueantur. Ordinarii vero ab huiusmodi functionibus sese abstineant».21 Daniele Menozzi, Cattolicesimo, patria e nazione tra le due guerre mondiali, in Tommaso Caliò - Roberto Rusconi (eds.), San Francesco d’Italia. Santità e identità nazionale, Viella, Roma 2011, pp. 19-43; «Humanitas» LXIII, 6(2008), numero monografico La Chiesa e la guerra. I cattolici italiani nel primo conflitto mondiale; Stéphane Audoin-Rouzeau - Annette Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento, Einaudi, Torino 2002, pp. 78-157. Per un’analisi su scala diocesana rinvio a Matteo Caponi, Una Chiesa in guerra. La diocesi di Firenze (1911-1926), tesi di perfezionamento, direttori Daniele Menozzi ed Annette Becker, Scuola Normale Superiore di Pisa - Université Paris Ouest (Nanterre-La Défense), a.a. 2009-2010. Un’indagine sul ruolo del clero francese nelle cerimonie commemorative delle guerre otto-novecentesche è svolta da Stéphane Tison, La violence et la foi. Discours de prêtres sur la guerre dans la Marne et la Sarthe: 1871-1939, in «Annales de Bretagne et des Pays de l’Ouest» CVIII, 3(2001), pp. 87-116.22 Ho considerato da un lato il livello del governo universale della Chiesa (archivi vaticani e L’osservatore romano), dall’altro i discorsi editi in opuscolo, con alcune incursioni nella stampa cattolica. Sulla risemantizzazione patriottica della liturgia in un periodo contiguo a quello esaminato cfr. Maria Paiano, La preghiera e la guerra in Italia durante il primo

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Com’è noto, vasti settori dell’episcopato, del clero e del laicato offrirono un apporto determinante alla narrazione imperialista, attingendo al plurisecolare repertorio anti-islamico e declinando in termini coloniali la concezione intransigente di riconquista cristiana. Furono in parecchi a percepire il conflitto come una “crociata” che saldava amor di patria, proselitismo e civilizzazione, in una lotta congiunta contro la barbarie turca, la fede musulmana e la modernità laico-liberale23. Le funzioni religiose per il successo delle armi italiane non esitarono a sacralizzare la guerra nel ricordo di Lepanto e ad identificare la croce di Savoia con la croce di Cristo. Tali orientamenti si innestavano su un retroterra consolidato; dalla seconda metà dell’Ottocento, infatti, il mito del 1571 aveva compattato i cattolici contro i «moderni “Turchi”», artefici della secolarizzazione che scardinava i diritti della Chiesa24. Meno ovvia, tuttavia, fu l’applicazione di questa matrice discorsiva alla guerra “reale” voluta dal governo italiano. Le componenti integriste deprecarono i «raffronti impossibili, mostruosi» tra le vicende della Tripolitania e «la gloriosa giornata di Lepanto»: come parlare «di diffusione della civiltà cristiana» per opera di chi andava «risollevando i costumi, la corruzione, gli idoli del paganesimo»?25.

A fronte dei «discorsi da generali in sul campo di battaglia, pronunziati da dei Vescovi nelle Chiese»26, è nota la cauta posizione d’imparzialità della Santa Sede. Il 21 ottobre 1911 un comunicato de L’osservatore romano, ispirato dalla Segreteria di Stato, sconfessò i cattolici che si esprimevano «in modo da far credere quasi ad una guerra santa, intrapresa a nome e coll’appoggio della Religione e della Chiesa»27. La curia vaticana non negò la legittimità della campagna militare; fu mossa dall’intento di arginare le

conflitto mondiale, «Humanitas», cit., pp. 925-942 e, sui rituali funebri, Matteo Caponi, Il culto dei caduti nella Chiesa cattolica fiorentina, in «Rivista di storia del cristianesimo» («RSCr»), VIII, 1(2011), pp. 63-90.23 Giovanni Cavagnini, Soffrire, ubbidire, combattere. Prime note sull’episcopato italiano e la guerra libica (1911-1912), ibi, VIII, 1(2011), pp. 27-44; Luigi Ganapini, Il nazionalismo cattolico. I cattolici e la politica estera in Italia dal 1871 al 1914, Laterza, Bari 1970, pp. 171-225; Francesco Malgeri, La guerra libica (1911-1912), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1970, pp. 236-254. Il recente libro di Giovanni Sale, Libia 1911. I cattolici, la Santa Sede e l’impresa coloniale, Jaca Book, Milano 2011 utilizza e riporta in appendice, con alcuni errori di trascrizione, la quasi totalità dei documenti conservati nel fascicolo dell’Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato, 1913, rubr. 164 (d’ora in poi ASV, Segr. Stato). La tesi apologetica di fondo – escludere qualsiasi corresponsabilità della S. Sede nella legittimazione della guerra coloniale – ne distorce tuttavia spesso i contenuti. Sui significati assunti in età contemporanea dal mito della crociata si rimanda ad Alphonse Dupront, Le mythe de croisade, Gallimard, Paris 1997, III, pp. 1519-1693.24 Roberto Rusconi, Santo Padre. La santità del papa da san Pietro a Giovanni Paolo II, Viella, Roma 2010, pp. 358-361.25 Mentre si svolge l’impresa tripolina, in «L’unità cattolica», 15 ottobre 1911, p. 1.26 Tale la denuncia di un prete livornese: G. Sale, op. cit., pp. 116-117.27 «L’osservatore romano» («Or»), 21 ottobre, p. 1, riprodotto in «Acta apostolicae sedis» («Aas») III, 15(1911), p. 584.

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«tendenze ed espansioni in senso favorevole a tale avvenimento»28, che valicavano i confini del bellum iustum ed attribuivano allo scontro armato l’accezione di bellum sacrum29.

In questo contesto, la celebrazione delle messe di requiem per i caduti aprì un capitolo spinoso. Nel mese di novembre la memoria dei morti in guerra si collegò ai riti del calendario liturgico. La proliferazione dei funerali fu alimentata, inoltre, dall’ondata emotiva che seguì alla rovinosa disfatta di Henni e Sciara-Sciat, presso Tripoli, avvenuta tra il 23 ed il 26 ottobre 1911; in quei giorni le forze libico-turche uccisero centinaia di fanti e bersaglieri. Gli aspetti consolatori si annodarono così inestricabilmente alle valenze nazionalpatriottiche del lutto, all’insegna del trinomio religione, patria e famiglia30. Durante una cerimonia nella chiesa romana del S. Cuore al Castro Pretorio, il parroco «rievocò l’eroico sacrifizio», «eccitando i cuori ad implorare da Dio riposo eterno ai caduti, conforto alla desolate famiglie, vittoria e pace alla patria nostra»31. Nella pieve di Rosignano Marittimo (Livorno) un’epigrafe esortò i parenti degli «eroi» a sublimare il dolore in amore per l’intera nazione: «Non ci piangete o genitori – bello è il morir per la patria – più bello redimerci al fronte»32.

Un impulso cruciale alle liturgie del cordoglio fu dato dalla stampa. La civiltà cattolica ebbe toni benevoli a proposito dei riti celebrati in Libia, in quanto rafforzavano l’osservanza religiosa e restituivano centralità all’istituzione ecclesiastica33. Ernesto Calligari, direttore del quotidiano clericomoderato di Genova Il cittadino, invitò i lettori a trasformare la commemorazione del 2 novembre in un omaggio ai soldati «che soccombono combattendo per una patria amata, e che son avviati ad una patria sempiterna». Il suffragio espiatorio veniva correlato all’augurio che il sacrificio dei caduti, motivato dalla causa «bella e giusta» della lotta contro «la più obbrobriosa barbarie», risultasse «fecondo di concordia all’Italia e di onore alla nostra civiltà, nata e cresciuta dalla materna azione della Chiesa»34. La locale direzione diocesana annunciò una funzione a favore dei «fratelli di nazione e di religione», vittime della «crudeltà sanguinaria dei fanatici seguaci di Maometto». Nell’avviso sacro il conflitto fu accostato ai «gloriosi trionfi ottenuti colla protezione della Vergine del Rosario»

28 ASV, Segr. Stato, minuta di risposta ad Alessandro Bavona (nunzio apostolico a Vienna) del 19 novembre 1911, f. 69rv.29 Daniele Menozzi, Ideologia di cristianità e pratica della «guerra giusta», in Mimmo Franzinelli - Riccardo Bottoni (eds.), Chiesa e guerra. Dalla benedizione delle armi alla «Pacem in terris», Il Mulino, Bologna 2005, p. 91-127 ed in particolare p. 113.30 Sui caratteri del discorso nazionale italiano cfr. Alberto Mario Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza, Roma-Bari 2011.31 Roma per le famiglie dei caduti nella guerra, in «Corriere d’Italia», 6 dicembre 1911, p. 2.32 Nostre corrispondenze, in «Fides» («F»), 11 novembre 1911, p. 2.33 Cronaca contemporanea, in «Cc» XLII, 4(1911), p. 496.34 Mikròs [Ernesto Calligari], I nostri morti, in «Il cittadino», 2 novembre 1911, p. 1.

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(riferimento a Lepanto) e all’esempio del concittadino Guglielmo Embriaco, che aveva partecipato alla presa di Gerusalemme durante la prima crociata35.

Non erano, questi, accenti isolati. Nel trigesimo di Sciara-Sciat, per iniziativa della gioventù cattolica napoletana, nella basilica di S. Francesco di Paola venne innalzato un tumulo alle vittime dell’«epica battaglia», circondato «di palme e piante esotiche, in mezzo a migliaia di ceri ardenti», con al centro una bara «coronata dalle insegne militari». La funzione, mediante una scenografia evocativa (nell’iconografia cristiana la palma designava il martirio), doveva inculcare l’«idealità» e la «realtà della patria», introiettando nelle coscienze la certezza che il premio della resurrezione sarebbe spettato a chi avesse anteposto alla propria vita i «sentimenti dell’onestà e del dovere» verso il proprio paese36.

Il sottofondo della guerra religiosa permeò anche voci pienamente conformi alla visione intransigente. Il vescovo di Mileto (Calabria) Giuseppe Morabito indisse pubbliche preghiere per i caduti posponendo il «pensiero della gloria terrena» a quello della «vita eterna» e rammentando che ogni guerra rimaneva «un gran flagello». Tuttavia l’interpretazione avanzata – i conflitti, prodotto della moderna apostasia, sarebbero perdurati fino al ritorno dei popoli «all’ombra della Croce» – portava l’ordinario a salutare nell’impresa italiana una positiva tappa di avvicinamento verso la pacificazione universale. Morabito, inoltre, non esitava a ventilare l’ipotesi di una «guerra santa» in risposta ai proclami di jihad, additando a modello «uno dei più forti eroi di Lepanto», il calabrese Gaspare Toraldo37.

La convinzione del legame naturale tra identità cattolica, imperativo patriottico e disponibilità al sacrificio si cristallizzò nelle preghiere appositamente composte per l’occasione38. Un esempio interessante è quella con cui il can. Emanuele Magri, il vicario di Orsanmichele a Firenze accusato di modernismo, chiuse la predicazione del duodenario dei defunti. Del testo, stampato e distribuito nelle chiese, è pervenuto un frammento molto significativo. In esso si domandava a Gesù di proteggere «la patria nostra e i suoi soldati, che combattono sulle rive dell’Africa le battaglie della civiltà ed aprono alla tua Croce nuove vie tra i popoli infedeli» e di rendere il sangue dei caduti «pioggia di benedizione sull’Italia». Il «sacrificio perfetto» eucaristico veniva avvicinato al sacrificio dei militari

35 L’appello della Direzione Diocesana, ibi, 5 novembre 1911, p. 3; sul successo della cerimonia cfr. Genova prega per le anime dei fratelli caduti sulle coste italiane dell’Africa, ibi, 13 novembre 1911, p. 2.36 V.P., Preghiera di pace e grido di guerra, in «La croce», 3 dicembre 1911, p. 3.37 La voce dei Vescovi, in «Il cittadino», 10 novembre 1911, p. 2. Cfr. G. Cavagnini, Soffrire, ubbidire, combattere, cit., p. 35.38 Maria Paiano, Religione e patria negli opuscoli cattolici per l’esercito italiano. Il cristianesimo come scuola di sacrificio per i soldati (1861-1914), in «RSCr» VIII, 1(2011), pp. 23-24; Mimmo Franzinelli (ed.), Il volto religioso della guerra. Santini e immaginette per i soldati, Edit Faenza, Faenza 2003, pp. 10-14.

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italiani39. Apparentemente diverso era il caso della «Preghiera a Maria SS. per la cessazione della guerra», scritta e fatta leggere, dal novembre 1911 e per tutta la durata del conflitto, da un parroco della diocesi livornese. La supplica, infatti, era rivolta principalmente ad assicurare la fine delle ostilità, l’incolumità ai compaesani arruolati, l’«eterno riposo» ai caduti e la «cristiana rassegnazione» ai familiari; tuttavia, auspicando una «completa e sollecita vittoria», glorificava l’olocausto di «tanti nostri fratelli valorosamente combattenti per il trionfo della giustizia, per la propagazione della civiltà, per l’onor della Patria»40.

Espressioni liturgico-devozionali di questo tipo – indirizzate sì ad implorare la misericordia divina sulle anime dei caduti, ma anche a consacrarne le gesta belliche – suscitarono le riserve vaticane e i dubbi di vari ordinari diocesani, pressati dal laicato: il Consiglio Superiore della Gioventù cattolica, in particolare, aveva emanato una circolare che incitava i soci a «far celebrare una o più messe» di esequie41. Le spinte “dal basso” condizionarono pesantemente la pastorale dell’episcopato. Nel novembre 1911 il vescovo di Sovana e Pitigliano Michele Cardella informò Merry del Val che, «fra gli entusiasmi patriottici per la guerra Italo-Turca», anche il clero rischiava di oltrepassare i «limiti fissati dallo stato presente delle cose». Domandava pertanto un chiarimento sulle seguenti questioni: se gli ecclesiastici potessero prendere l’iniziativa per i funerali; se fosse lecito invitare le autorità civili e militari; se, infine, il vescovo facesse bene a parteciparvi e ad autorizzare orazioni funebri42. La Segreteria di Stato ritenne «preferibile» che il rito venisse promosso da un comitato di laici, incaricato di curare i rapporti con le autorità; vietò «discorsi d’occasione ed anche Iscrizioni più o meno compromettenti», rimettendo alla valutazione del vescovo l’intervento alla cerimonia; puntualizzò inoltre che le «presenti istruzioni» dovevano rimanere riservate43. Tale orientamento pragmatico cercò di contemperare due esigenze confliggenti: disimpegnare il clero dalla legittimazione nazionalistica del conflitto ed impedire atteggiamenti che dessero adito a sospetti di scarso lealismo verso lo Stato italiano. Il

39 Archivio Arcivescovile di Firenze (AAF), Cancelleria, A.M. Mistrangelo, b. 12, fasc. 14, nn. 1-2, bozze a stampa Preghiera recitata nella solenne chiusura della predicazione sulla Passione di Gesù durante il duodenario dei Defunti del 1911 nella Chiesa d’Or San Michele, [novembre 1911]. La curia fiorentina concesse la «permissione ecclesiastica» alla pubblicazione il 17 novembre.40 Archivio Diocesano di Livorno, Parrocchia di S. Ranieri a Guasticce, serie 6, b. 1, fasc. 1911, preghiera manoscritta di don Francesco Olivari (parroco di Guasticce), s.d. [ante 15 novembre 1911]. Il vescovo Giani non ne autorizzò la pubblicazione, nel rispetto del «comunicato ufficiale della S. Sede»: ibi, biglietto di Sabatino Giani a Francesco Olivari del 15 novembre 1911.41 La Gioventù Cattolica e la guerra, «F», 18 novembre 1911, p. 2.42 ASV, Segr. Stato, lettera di Michele Cardella a Rafael Merry del Val del 16 novembre 1911, f. 75rv. (G. Sale, op. cit., pp. 120-121).43 ASV, Segr. Stato, minuta di risposta a Michele Cardella del 18 novembre 1911, f. 77rv.

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Messaggero di Roma, ad esempio, aveva accusato il vescovo di Nepi e Sutri Giuseppe Bernardo Doebbing di essere «austriacante» per non aver fatto celebrare a un parroco della sua diocesi una messa con orazione patriottica44.

Anche l’arcivescovo di Arezzo Giovanni Volpi, di note tendenze integriste, scrisse alla Segreteria di Stato per avere consigli sul da farsi. Scettico sulla possibilità di scongiurare discorsi e, in tal caso, di potervisi sottrarre, Volpi progettò come extrema ratio di allontanarsi dalla città nel giorno della funzione45. Ricevute disposizioni analoghe a quelle di Cardella, il presule ottenne in un primo momento che la messa di requiem si svolgesse nella chiesa di S. Francesco, di proprietà del Comune, anziché in cattedrale; fece inoltre affiggere manifesti sacri che, nel descrivere i soldati come «chiamati dalla voce del dovere a recare la civiltà cristiana alle terre barbare ed abbrutite dall’Islam», omettevano qualsiasi riferimento alla nazione italiana. L’inflessibilità di Volpi nel vietare le bandiere tricolori determinò una clamorosa rottura con l’amministrazione municipale, che, a causa dell’«affronto», ritirò il permesso accordato. Alla fine, la cerimonia ebbe luogo nella più defilata chiesa della Badia. Il funerale – ironicamente definito dalla stampa anticlericale «a scartamento ridotto» – venne boicottato dalle autorità civili e dalle associazioni patriottiche46. Nel quadro complessivo, che vide la Chiesa disposta a sostenere sul piano rituale lo sforzo bellico, situazioni di scontro come quella aretina rimasero eccezionali. La Segreteria di Stato inviò le sue indicazioni anche all’arcivescovo di Trani Francesco Paolo Carrano47. Nella diocesi di quest’ultimo – e non solo – esse furono ampiamente trasgredite.

3. Atrocità turche, ideologia di crociata e culto dei “martiri”

Un salto di qualità ed un incremento quantitativo dei funerali si verificò a seguito del dibattito sulle cosiddette “atrocità turche”. A fine 1911 il paese fu invaso dai macabri racconti riguardanti le brutalità commesse a Henni sui soldati italiani, alcuni dei quali sarebbero stati mutilati, decapitati e addirittura crocifissi48. Se L’osservatore romano si limitò a diffondere il comunicato della Stefani sugli «atti di crudeltà» e a riferire in modo asciutto

44 Dalla Provincia Romana, in «Corriere d’Italia», 16 novembre 1911, p. 3.45 ASV, Segr. Stato, lettera di Giovanni Volpi a Raffaele Scapinelli di Leguigno (segretario della S. Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari) del 16 novembre 1911, 78r-79r. Cfr. anche G. Sale, op. cit., p. 111-112, che riporta erroneamente la data del documento. Su Volpi cfr. Silvano Pieri, Mons. Giovanni Volpi, vescovo di Arezzo tra modernismo e nazionalismo, in Luca Berti (ed.), Protagonisti del novecento aretino, Olschki, Firenze 2004, pp. 103-141.46 Una insidiosa messa di requiem, in «L’Appennino», 2 dicembre 1911, p. 1.47 ASV, Segr. Stato, lettera di Francesco Paolo Carrano a Rafael Merry del Val del 2 novembre 1911, f. 64r e minuta di risposta del 4 novembre 1911, f. 66r.48 F. Malgeri, op. cit., pp. 192-201.

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i resoconti più dettagliati comparsi nel mese di dicembre49, la reazione della stampa cattolica nazionale fu veemente. Il Corriere d’Italia, quotidiano di Roma appartenente al trust grosoliano, definì le popolazioni indigene bestie «fuori dall’umanità»50. Sulle pagine del settimanale livornese Fides la denigrazione degli avversari si spinse fino alla richiesta di una loro eliminazione fisica: qualora fosse stata comprovata la veridicità dei fatti, «quelle orde di selvaggi» avrebbero dovuto essere «sterminate dalla faccia dell’universo»51. Le demonizzazione dei libico-turchi, funzionale ad occultare la sanguinosa rappresaglia condotta dall’esercito sabaudo, avvalorò lo schema cristologico con il quale si guardava ai caduti: questi ultimi, come Gesù, erano stati traditi dal popolo che desideravano liberare e costretti a subire lo stesso tragico destino.

L’uccisione dei soldati italiani in odio al cristianesimo diventò un topos ricorrente. La difesa di Venezia equiparò le presenti «atrocità mussulmane» a quelle inferte a Marcantonio Bragadin, il governatore di Famagosta scuoiato vivo nel 1571 «con la preghiera a Dio e col nome di San Marco sulle labbra»52. Sul settimanale diocesano di Napoli mons. Luigi Angelillo dipinse le torture inflitte ai bersaglieri come una novella «Via Crucis» e l’orribile «carnaio» di Henni come un «Calvario» purificatore. Le atrocità subite, identiche a quelle del «Gran Martire crocifisso», erano per il soldato cattolico pegno della ricompensa ultraterrena. L’accettazione cristiana del dolore faceva «del caduto un eroe, dell’eroe un martire, del martire un redento»53.

Le liturgie ed i sermoni funebri, ispirati ad un «amor patrio sentitamente cristiano»54, convertirono il lutto in acquiescenza alla politica bellica e, attraverso la santificazione dei morti, contribuirono a radicalizzare l’enfasi nazionalistica. A Napoli, nella chiesa del Gesù Nuovo, una comunione generale per i caduti fu preceduta dalla predica del gesuita Giuseppe Prevete, che acclamò «l’ora segnata dalla Provvidenza» per il ritorno dell’Italia alla sua «grandezza antica». Pur negando che il conflitto potesse definirsi una «guerra santa», il religioso ritenne certo che i «barbari nemici» avessero massacrato i bersaglieri a causa dei «segni della fede» (le

49 Atti di crudeltà sui caduti italiani, in «Or», 10 novembre 1911, p. 1; La barbarie della guerra italo-turca, ibi, 1° dicembre 1911, p. 2. Il quotidiano diede spazio anche alle denunce riguardanti le atrocità italiane.50 Fuori della legge e dell’umanità, in «Corriere d’Italia», 2 dicembre 1911, p. 1; La nefanda barbarie degli arabi e dei turchi contro i feriti e i morti nella battaglia di Sciara-Sciat. Quel che ha veduto il nostro inviato Ernesto Vassallo, ibi, 1° dicembre 1911, p. 1.51 X., Notizie e Commenti. Se fosse vero!..., in «F», 20 dicembre 1911, p. 2.52 Venetus, Atrocità mussulmane e memorie Veneziane, in «La difesa» («D»), 10-11 novembre 1911, p. 1.53 L.[uigi] Angelillo, Il Calvario di Henni, in «La croce», 24 dicembre 1911, p. 2.54 Cfr. il resoconto di due funzioni svoltesi a Venezia: Per i caduti in Africa, in «D», 18-19 dicembre 1911, p. 2; In suffragio dei caduti d’Africa, ibi, 14-15 dicembre 1911, p. 2.

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medagliette devozionali) portati addosso. Gli italiani, concludeva, «caddero da eroi e non da eroi soltanto»: «caddero dunque anche come martiri»55.

Al giudizio di altri oratori, il conflitto ristabiliva i valori spirituali offuscati dal materialismo e ripristinava i vincoli comunitari spezzati dell’individualismo borghese. In questa logica, la ricattolicizzazione della vita pubblica avrebbe garantito allo Stato sabaudo quella potenza militare preclusa dall’agnosticismo liberale. Il francescano Giuseppe Balestrieri, in occasione delle esequie organizzate a San Giuseppe Jato (Palermo), spiegò che nel calice eucaristico «il sangue dei martiri della nazione» si mescolava al «purissimo sangue del Martire Divino». Egli intravide tra i benefici più importanti della guerra proprio il risveglio spirituale; del resto, soltanto la «visione di una vita avvenire» era in grado di istillare l’eroismo. Il frate, attaccando gli sforzi socialisti per «atrofizzare» la coscienza collettiva, manifestò la propria adesione al «possente nazionalismo» che animava la spedizione: gli italiani, nelle cui vene scorreva il «sangue dei Crociati», avevano «risuscitato lo splendore tante volte secolare della nostra stirpe», provando al mondo che i discendenti di Roma erano ancora in grado di «reggere le sorti dei popoli»56.

I funerali che si svolsero nella chiesa di Squinzano (arcidiocesi di Lecce) offrirono un esempio emblematico di uso politico della tradizione. Alla porta d’ingresso un tricolore inneggiò «Ai morti in Cristo / sulle terre africane» e sul catafalco quattro iscrizioni magnificarono i «prodi» che, «abbattuta la mezzaluna», «Ribattezzati nel proprio sangue / bevvero al torrente / delle divine misericordie»57. Il predicatore don Cosimo De Carlo pose gli «atti di crudeltà» nel solco delle violenze perpetrate in Puglia fin dal Quattrocento, ad opera di «un’accozzaglia di zingari cenciosi», «di pirati e di predoni, eterni giurati nemici del nome di Cristo». I «massacrati a tradimento di Char-Chiat» furono assurti ad eredi della «schiatta di Eroi che seppero darci le vittorie dei Crociati in terra Santa» e degli ottocento martiri di Otranto, trucidati nel 1480 dai turchi. Il sacerdote non esitò a parlare di «guerra santa» per affermare la regalità di Cristo e l’espansione dell’Italia: «Cristo vince, Cristo trionfa, Cristo regna, la sua Croce è rutilante sempre fra le pieghe del Tricolore […] Avanti, Dio è con noi»58.

Altri elogi funebri ibridarono con disinvoltura la religiosità politica con i contenuti cristiani. Nel gennaio 1912 don Filippo Ferrari commemorò, nella

55 G. De Simone, La Comunione generale al Gesù Nuovo per i caduti a Tripoli nostra, in «La croce», 10 dicembre 1911, p. 3.56 Giuseppe Balestrieri, Ai caduti di Tripoli e Cirenaica il saluto della religione, della patria e della Pietà. Discorso letto nella Madre Chiesa di S. Giuseppe Iato l’11 Dicembre 1911 nei solenni funerali celebrati a cura del Municipio, Tip. G. Tringali, Palermo 1912, p. 5 e pp. 7-10. 57 Cosimo De Carlo, In memoria degli eroi caduti sui campi della Tripolitania e della Cirenaica. Elogio funebre letto nella Chiesa di Squinzano il 12 dicembre 1911, R. Tip. editrice salentina, Lecce 1911, pp. 30-31.58 Ibi, pp. 9-11, pp. 15-19 e p. 23.

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chiesa di S. Maria Maggiore a Guardiagrele (Chieti), un compaesano morto a Sciara-Sciat, immaginando la sua «tomba disadorna, scavata nel nudo terreno, forse all’ombra di una palma, simbolo del martirio»: le sue ossa, quasi moderne reliquie, propiziavano la «marcia trionfale dell’Italia» contro l’«oscurantismo maomettano». Per il sacerdote “martiri” erano essenzialmente i morti «nel compimento di un sacro dovere», «col nome santo della Patria sulle labbra»59. Durante una funzione nella chiesa del Carmine a Massa Lombarda (provincia di Ravenna), il can. Pietro Battaglia, commentando la dicitura «Ai martiri della civiltà» che compariva ai piedi del feretro, articolò invece il concetto in una prospettiva cattolico-democratica, debitrice del provvidenzialismo giobertiano. I «diritti della civiltà», di cui i defunti si erano resi «apostoli», coincidevano con l’«uguaglianza, fratellanza e libertà», cioè con quei diritti umani abitualmente contrapposti ai “diritti di Dio”. All’Italia, sede del papato, era stata affidata la missione di propugnare quei principi: «per la romanità del Cattolicesimo, tu salvi, o Italia, e civilizzi il mondo!»60.

Le messe funebri attirarono solitamente un gran numero di persone, diventando luoghi simbolici di ricomposizione patriottica e di riconfessionalizzazione della nazione in armi61. A Torino, nella chiesa reale di S. Carlo, per la troppa ressa diversi fedeli ebbero malori ed una «folla immensa» rimase «fuori sulla piazza», dove «fu persino interrotto il traffico dei veicoli»62. A Roma la cerimonia svoltasi nell’oratorio del Sodalizio di S. Michele arcangelo ai Corridori di Borgo fu particolarmente suggestiva, non soltanto perché vi assistettero molti parroci romani e la chiesa «era letteralmente gremita di popolo», ma anche perché l’assoluzione del tumulo fu impartita da mons. Luigi Lazzareschi, ex-cappellano del disciolto esercito pontificio: il suo gesto stringeva in un unico destino i soldati morti per il papa e quelli morti in Africa63. Nei centri più piccoli il «pietoso ufficio» associò quasi «tutta la cittadinanza», come a Roccasicura in Molise, dove il funerale, a spese del parroco, suscitò «la più viva commozione fra gli astanti»64.

59 Filippo Ferrari, Per I nostri prodi caduti nel campo della Gloria in Tripolitania. Discorso commemorativo tenuto nella Chiesa di S. Maria Maggiore il 22 gennaio 1912, Tip. A.G. Palmerio, Guardiagrele 1912, pp. 12-13.60 Pietro Battaglia, Ai nostri caduti, Tip. Lanzoni e Foschini, Massa Lombarda 1912, pp. 11-16.61 Cfr. Marco Mondini, Caserma e chiesa in età liberale: il caso veneto, in «Venetica» XVII, 10(2004), pp. 83-84.62 Una solenne cerimonia funebre nella chiesa di S. Carlo, in «La stampa», 18 dicembre 1911, p. 5; In suffragio dei caduti, in «Or», 18 dicembre 1911, p. 3.63 ASV, Segr. Stato, lettera non firmata s.d., f. 88rv; Per i morti d’Africa, in «Or», 20 dicembre 1911, p. 2. Lazzareschi era solito officiare le commemorazioni dei soldati pontifici: cfr. Per i militari pontifici, ibi, 6 novembre 1912.64 Pei caduti di Tripoli, ibi, 22 dicembre 1911, p. 3.

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Non mancarono reazioni allarmate per il successo dei riti e per la frequenza delle orazioni. Il francescano Stefano Ignudi avvertì Merry del Val che, nonostante i veti vaticani, si sarebbe tenuto un discorso «per le cose di Tripoli» addirittura nella capitale, al cimitero di Campo Verano; lo annunciava un manifesto firmato dal segretario del vicariato mons. Francesco Faberi, vicino ai cattolici del trust. Il religioso si domandava: «dopo questo [discorso], in Roma e fuori, quanti e quali altri se ne faranno?»65. In effetti, i sermoni continuavano ad essere pronunciati a dispetto dei divieti. Il caso già menzionato della diocesi di Trani è indicativo. A Bisceglie il canonico della cattedrale Mauro Terlizzi, pregando per l’«armata cristiana», lodò il patriottismo del clero, antidoto all’«opera dissolvitrice d’una setta tenebrosa» e all’«azione deleteria de’ partiti estremi». Nemici della religione e nemici della patria – che minavano la coesione nazionale e mettevano a repentaglio la «vittoria finale / che solo arride ai popoli uniti e virtuosi» – venivano a coincidere nei bersagli classici della polemica intransigente: i socialisti anticlericali ed antimilitaristi, i giudeo-massoni66, ma anche «qualche italianissimo» che diffamava il papa come contrario alla guerra67. Nella chiesa del Purgatorio di Andria il canonico Nicolò Sterlicchio definì «Divino» chi si offriva in «olocausto doloroso e cruento» per la bandiera tricolore, sulla quale, come un nuovo labaro costantiniano, era impressa la croce. Il sacerdote specificò che la guerra era un «terribile flagello», ma che costituiva una «dura necessità» per «far trionfare la giustizia»: non di guerra «santa», dunque, si doveva parlare, bensì «di legittima riconquista». Varie erano le motivazioni dello ius ad bellum: la difesa economica del paese, la tutela della dignità nazionale, la protezione degli emigrati italiani, l’affrancamento dei libici dalla schiavitù. Il conflitto gli appariva un fattore di progresso sociale, favorendo la propagazione del «gentile sangue latino» e l’ampliamento demografico del «popolo del lavoro»68.

I cattolici furono insomma istruiti alle cause della campagna tripolina con argomentazioni molteplici, collocabili entro tre coordinate: evocazione della crociata, rifiuto del culto “pagano” della violenza e ricorso alle categorie esplicative del bellum iustum. Il sacerdote reatino Luigi Flavoni, ad esempio, illustrando l’«opera redentrice dell’italico esercito», osservò che

65 ASV, Segr. Stato, lettera di Stefano Ignudi a Rafael Merry del Val del 13 dicembre 1911, ff. 86r-87r (cfr. G. Sale, op. cit., pp. 122-123, dove il cognome del mittente è confuso con «Ignandi»); Arciconfraternita di Carità nella Cappella Centrale al Campo Verano, in «Or», 17 dicembre 1911, p. 2.66 Mauro Terlizzi, Pe’ funerali fatti nella chiesa di S. Domenico in Bisceglie il 2 dicembre 1911 a’ nostri soldati morti gloriosamente combattendo in Libia , Tip. Paganelli, Trani 1911, p. 9, p. 15 e pp. 21-22.67 Nicolò Sterlicchio, Novi fulgori d’Itale virtù belliche. Nei solenni funeri nella chiesa del Purgatorio di Andria il 16 Novembre 1911 per i caduti nella guerra italo-turca, Tip. Francesco Rossignoli, Andria 1912, p. 29. 68 Ibi, p. 19, pp. 21-25, p. 29.

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ogni scontro armato era un male, ma che diventava lecito se imposto dalla «giustizia offesa». «Combattere il maomettismo» ed annientare l’impero ottomano era senza dubbio un «notevolissimo bene»69. A Guardistallo (provincia di Pisa) il can. Vincenzo Paoli affermò di non essere affatto un «guerrafondaio», ma di apprezzare la «fusione di menti, di cuori e di energie» provocata dal conflitto; i crocifissi dagli «Arabi traditori», «martiri della civiltà e della Patria», erano da lui accomunati a «coloro che combatterono nelle acque gloriose di Lepanto»70. A Pontedera il livornese Dante Dicomani, già autore di una commemorazione per i morti d’Eritrea71, dichiarò che la guerra era «gravissimo tra i mali gravi» e che non poteva «volerla Iddio»; ciononostante, resa inevitabile dalle circostanze, i cittadini erano tenuti a non «perdersi in discussioni inutili», a far «tacere ogni risentimento personale» e ad immedesimarsi «coll’anima della Nazione». Agli «spiriti magni cui la scimitarra ottomana aprì la via della vita immortale» venivano contrapposti i «matricidi» dell’Italia, che attizzavano «l’odio di classe»72.

La benedizione delle armi, la ratifica della violenza, il disprezzo per i nemici esterni ed interni della patria, la volontà antisovversiva connotarono profondamente le pratiche del lutto. La sanzione liturgica di questa cultura di guerra ebbe come protagonisti anche membri della gerarchia episcopale. Il vescovo di Livorno Sabatino Giani evidenziò «la somiglianza tra le vittime del dovere e dell’eroismo e la Vittima Divina del Calvario», per additare i «martiri caduti in guerra» come modello «d’ordine e di disciplina» per l’apostolato cristiano73. Commemorando i «baldi fratelli», l’ordinario di Foggia Salvatore Bella affermò di sentire una «vampa d’entusiasmo» salirgli dal cuore: «quel loro sangue ci voleva», per lavare il disonore di Adua e riconciliare «la Patria e la Religione», due «sorelle» che vivevano da «nemiche». Benché la guerra non corrispondesse ad una «nuova crociata», la croce di Cristo, resa dai turchi «strumento d’ignominia e di martirio», avrebbe vendicato le vittime italiane74. Ad inizio 1912, nella cattedrale di Udine, l’arcivescovo Anastasio Rossi osannò «il sangue dei forti: sangue che grida contro la barbarie atroce degli inumani uccisori» e sostenne che la 69 Luigi Flavoni, Sui caduti nella Guerra d’Africa. Conferenza ad un Circolo cattolico, Tip. Trinchi, Rieti 1912, pp. 7-8. Il discorso (26 novembre 1911) si configurava come un’appendice del funerale celebrato nel duomo di Rieti una settimana prima.70 Vincenzo Paoli, Discorso recitato il dì 2 febbraio a Guardistallo, nei suffragi solenni per i nostri soldati caduti in Tripolitania, Tip. Confortini, Volterra 1912, pp. 6-10 e pp. 13-15.71 Dante Dicomani, I caduti di Amba Alagi. Discorso letto nella Chiesa Parrocchiale di Cascina nei solenni funerali celebrati per essi il 19 Decembre 1895 , Tip. L. Bertini, Cascina 1895.72 Id., Onore e gloria agli eroi italiani caduti in Tripolitania nella guerra italo-turca. Commemorazione del Can. Dott. Dante Dicomani letta il dì 13 dicembre 1911 nella Chiesa Maggiore di Pontedera, Tip. Collini e Cencetti, Firenze 1912, pp. 13-16 e pp. 20-21.73 I morti in guerra e l’Unione Donne Cattoliche, in «F», 29 novembre 1911, pp. 2-3.74 [Salvatore Bella], Pei caduti di Tripoli. Parole di Mons. Salvatore Bella vescovo di Foggia, Premiata tip. operaia, Foggia 1912, pp. 4-6, p. 9 e p. 11.

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conquista della Libia, da parte di una nazione «giovane» quanto «forte e potente», era «giustificata dal diritto delle genti, reclamata dalla civiltà»75.

L’arcivescovo di Parma e fondatore dei Saveriani Angelo Maria Conforti, recentemente proclamato santo, prese l’iniziativa di celebrare un funerale nella chiesa di S. Maria della Steccata, sede dell’Ordine Costantiniano di S. Giorgio. La decisione, imposta alla recalcitrante amministrazione civile dell’istituzione cavalleresca, era carica di significati: il tempio ospitava il sepolcro dell’eroe di Lepanto Alessandro Farnese e «mette[va] capo in certo qual modo, a Sua Maestà, nel cui nome tanti prodi nostri soldati hanno combattuto e sono morti valorosamente»76. Il 4 gennaio 1912, dinanzi alle autorità politiche e militari, il presule esaltò «l’eroismo di cento e cento apostoli caduti per la fede», nella convinzione che la conquista della Libia fosse l’inizio di un nuovo slancio missionario ed il prodromo dell’atteso ralliement tra Chiesa e Stato italiano.

Religione e Patria si danno in quest’istante amica la mano e sì l’una che l’altra guardano con trepidazione e compiacenza all’odierna lotta, ai successi sempre crescenti delle nostre armi, perché la Tripolitania fu nostra un tempo per le conquiste della Spada romana, e nostra poscia, in un senso ancor più elevato e legittimo, per le pacifiche conquiste della fede di Cristo. Per questo la Patria nostra ha ritrovato in quest’ora solenne l’unione, la forza, il valore che laggiù in quelle terre lontane, hanno segnato di vittoria ogni passo dei nostri prodi soldati, che per l’onore e la grandezza d'Italia e per la sacra missione della cristiana civiltà, hanno sfidato intrepida la morte77.

4. Vietare, concedere, tollerare: la circolare della S. Congregazione dei Riti

Come abbiamo visto, i predicatori furono di solito attenti a non equiparare esplicitamente la spedizione coloniale ad una crociata. Tuttavia i loro schemi narrativi andarono in una direzione opposta. La situazione fu complicata dalla crescente domanda di funzioni di suffragio, che spinse il clero ad inviare richieste per ottenere la facoltà vaticana di officiare messe di requiem la domenica e nei giorni festivi, in deroga alle norme liturgiche. Questa eventualità agevolava l’affluenza dei fedeli ed amplificava quindi il potere d’incidenza sociale dei funerali. Come lamentò Michele Reppucci, sacerdote della diocesi di Avellino, difficilmente la popolazione rurale

75 Udine. Un solenne ufficio funebre per i caduti in Africa, in «D», 31 gennaio-1° febbraio 1912, p. 2.76 Lettera di Guido Maria Conforti a Paolo Boselli (primo segretario dell’Ordine Mauriziano) del 16 dicembre 1911, in Franco Teodori (ed.), Azione pastorale, insegnamenti, fortezza del beato Guido Maria Conforti, arcivescovo-vescovo di Parma negli anni 1910-1911, Lev, Città del Vaticano 1997, p. 666.77 Il discorso è in Beato Guido Maria Conforti. Visita pastorale, congressi giovanile e eucaristico, rapine al Consorzio di Parma. 1912, Lev, Città del Vaticano 1997, pp. 53-56.

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sarebbe potuta intervenire nei giorni feriali78. La Congregazione dei Riti andò incontro alle petizioni di alcune curie diocesane, pur ricordando la contrarietà ad «elogi o discorsi funebri di qualsiasi specie»79.

Tale disponibilità si accompagnò al timore che il culto mondano della morte eroica soppiantasse i caratteri specifici della pietà cattolica. C’era bisogno, insomma, di giustificare l’apertura conferendole senso, limiti ed organicità. Con la lettera circolare agli ordinari diocesani d’Italia De suffragiis pro defunctis in bello Tripolitano (3 febbraio 1912) il dicastero vaticano passò dall’accordare singole dispense ad intraprendere un provvedimento di natura pubblica, indirizzato all’intero episcopato. Il testo autorizzò un unico funerale la domenica e nelle feste di precetto, ad esclusione di quelle più solenni di prima e seconda classe. A fianco di questa concessione, confermò il divieto tassativo di «sermoni ed orazioni funebri»80. Fu lo stesso Pio X a sollecitare la Congregazione dei Riti, inviando di proprio pugno la bozza della circolare, da lui ritenuta indispensabile per «impedire […] discorsi nelle esequie pei poveri morti nella Tripolitania»81. Ancora una volta, non si trattava della condanna del conflitto coloniale o del patriottismo dei cattolici; il papato, piuttosto, avocava a sé la prerogativa d’interpretare le condizioni che ammettevano il ricorso alla categoria di guerra santa. Il Fides spiegò che non era lecito «portare la politica in Chiesa, e tanto meno lo spirito delle Crociate», estraneo all’odierno conflitto82. Neppure le chiese palatine, sottoposte alla giurisdizione regia, furono esentate dall’«assoluta proibizione». Adolfo Verrienti, ordinario della prelatura territoriale di Altamura e Acquaviva in

78 ASV, Segr. Stato, lettera di Michele Reppucci a Rafael Merry del Val del 10 gennaio 1912, f. 100r (G. Sale, op. cit., p. 125).79 Archivio della Congregazione delle Cause dei Santi (ACCS), Positiones, Decreta et Rescripta Liturgica, scatola 1911, fasc. 1911 EF, s.fasc. 1911 F, lettera di Andrea Cassulo (vicario generale di Firenze) a Pio X del 27 novembre 1911 e ibi, scatola 1911, fasc. 1911 B, Lettera di Francesco Duvina (provicario generale di Torino) a Pio X del 2 dicembre 1911.80 La circolare fu inviata ai vescovi e pubblicata in «Aas» IV, 3(1912), p. 107: «una Missa de Requie cum cantu et subsequenti Absolutione ad tumulum, in Ecclesiis su Oratoriis publicis iuxta prudens respectivi Ordinarii iudicium, celebrari valeat […]. Mandat vero et praecipit Sanctitas Sua, ut eiusmodi funeribus, etsi fiant diebus a ritu permissis, nemo, cuiuscumque sit dignitatis, sermones aut funebres orationes […] habere presumat». Il testo fu inserito in alcune lettere pastorali, come quella del vescovo di Crema Bernardo Pizzorno, Pastorale per la Quaresima del 1912. Istruzione religiosa. Avvisi, Tip. G. Cazzamalli, Crema 1912, pp. 25-26. Inesatta l’affermazione di Sale, che parla di circolare «ufficiosa», «da non rendere di pubblico dominio» (G. Sale, op. cit., pp. 97-98).81 ACCS, Positiones, Decreta et Rescripta Liturgica, scatola 1912, s.fasc. 1912 D, n. 3, lettera di Pio X a Pietro La Fontaine (segretario della Sacra Congregazione dei Riti) del 3 febbraio 1912. La versione definitiva ricalcava la bozza di Sarto, salvo alcune correzioni formali e l’aggiunta della frase relativa alla responsabilità dell’ordinario locale nel valutare l’opportunità o meno della cerimonia.82 n.d.r., In Vaticano. Una Circolare della Congregazione dei Riti. I funebri per i caduti , in «F», 14 febbraio 1912, p. 1.

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Puglia, fece notare che un funerale privo di discorso sarebbe potuto sembrare «una provocazione o un insulto, invece di un onore e preghiera». Il suo proposito di «dire poche serie parole in lode del soldato che forte della sua Religione ha compiuto il suo dovere» fu bocciato dalla Segreteria di Stato83.

Le interdizioni di principio celavano in realtà un compromesso pratico. A differenza delle precedenti norme della Segreteria di Stato, l’affissione di epigrafi non era espressamente menzionata tra gli atti da evitare. Inoltre la prescrizione pontificia poté essere aggirata in vari modi e, talvolta, apertamente ignorata, senza che seguissero sanzioni. Una soluzione fu quella di separare la messa dall’orazione commemorativa. Il domenicano Pio Ciuti, noto per il suo filonazionalismo, il 13 febbraio 1912 pronunciò un discorso alla Società di Storia Patria di Palermo, annessa alla chiesa di S. Domenico (pantheon dei siciliani illustri), che la mattina aveva ospitato un ufficio funebre. Il religioso affermò che i caduti italiani erano stati scelti «dalla Provvidenza per i santi suoi fini»: la sconfitta della Turchia, «flagello del Cristianesimo» e «l’ingrandimento della Patria» affinché potesse «con maggiore energia esplicare la sua civile missione nel mondo»84.

Gli epitaffi alle porte e sui tumuli, inoltre, sopperirono al divieto dei discorsi, riempiendo le cerimonie di messaggi immediatamente fruibili. Prendendo in esame un caso specifico, quello della diocesi fiorentina, si evince che le epigrafi continuarono a sacralizzare la guerra libica e le sue vittime, spesso con il via libera della gerarchia ecclesiastica. Due iscrizioni, destinate l’una all’Arciconfraternita della Misericordia e l’altra alla parrocchia di S. Stefano in Pane di Rifredi, costituiscono un esempio illuminante. Nel primo caso – il funerale si svolse il 10 marzo 1912 – il cancelliere arcivescovile concedeva l’approvazione ecclesiastica alle «preci espiatorie» in «suffragio / di quelle anime forti /che sui lidi affricani / in guerra gloriosa / eroicamente / alla morte si votarono, / per i santi diritti / della civiltà e della Italia»85. Nel secondo caso egli stesso proponeva pressoché la medesima formula, per poi sostituirla con «che sulle libiche spiagge / a Dio ed alla patria / sacrarono morendo / sul campo di battaglia / gli ideali santi / e la vita». Con un ulteriore aggiustamento, corresse l’espressione in «i più alti nobili ideali»86. Tali modifiche erano la spia della consapevolezza circa le difficoltà suscitate dal vocabolario della crociata. Il parziale ripensamento a favore di una terminologia più neutra, ravvisabile nello slittamento dell’aggettivo «santi» in «nobili», manteneva una certa 83 ASV, Segr. Stato, lettera di Adolfo Verrienti a Rafael Merry del Val del 12 febbraio 1912, f. 103r (G. Sale, op. cit., p 126) e minuta di risposta del 14 febbraio 1912, f. 104r.84 Pio Ciuti, Per I soldati d’Italia caduti nella Guerra Italo-turca. Discorso recitato nella Sala della storia patria in Palermo, 13 febbraio 1912, Tip. Pontificia, Palermo 1912, pp. 12-14.85 AAF, Segreteria degli Arcivescovi, Alfonso Maria Mistrangelo, b. 106, fasc. 10, n. 1, appunto di Michele Cioni (cancelliere della curia) s.d.86 Ibi, b. 111, fasc. 1, n. 47, appunto di Michele Cioni s.d.

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ambivalenza: non eliminava, infatti, la considerazione secondo cui la morte bellica chiamava in causa la fede religiosa. La curia, peraltro, approvò scritti di questo genere: «Ai nostri valorosi fratelli / Che emuli delle Romane legioni / Sulle terre di Libia / Consacrate dal sangue / Di tanti martiri della fede / Versarono il loro sangue / martiri / per la civiltà e per la patria / Esequie solenni»87.

In alcune circostanze la circolare venne apertamente disattesa. Durante la funzione «in memoria dei caduti, e per il pieno finale trionfo della patria», svoltasi nell’ospedale militare di Livorno nel marzo 1912, il cappellano tenne un discorso sul «patriottismo cristiano»88; la cerimonia si chiuse con la preghiera al «Dio degli eserciti» scritta dall’arcivescovo di Siena Prospero Scaccia, che implorava la vittoria dei «combattenti per causa così giusta» (non “santa”)89. Analogamente, il parroco della Bicocca approfittò della ricorrenza della battaglia di Novara (23 marzo 1849) per commemorare nell’ossario cittadino, accanto ai caduti «sul suolo della Patria», quelli «sulle nuove terre italiane»90. Per di più, diverse orazioni funebri, anteriori alla circolare, furono stampate e messe così a disposizione dei fedeli91.

Salvezza dell’anima e morte patriottica furono unite da una guerra palingenetica, che generalmente non fu denominata “crociata”, ma che come tale fu cristallizzata dai funerali, anche dopo la pace di Ouchy dell’ottobre 1912. A Pisa, durante la messa celebrata dal card. Pietro Maffi il 6 novembre, un epitaffio ricordò i caduti «per la civiltà – contro la barbarie mussulmana» quali «Martiri ed eroi»92. Quattro giorni dopo, la funzione che l’arcivescovo di Firenze Alfonso Maria Mistrangelo officiò in duomo fu introdotta da queste righe: «Quanti / nella memorabile impresa libica / soldati nostri / sacrificando la vita / ci conquistarono l’avvenire / tutti / nella perpetua luce risorgano / come nella gratitudine / e nella storia nostra immortali»93. In un funerale a Bibbiena (Arezzo) un’epigrafe, citando La

87 Ibi, b. 106, fasc. 10, n. 9.88 G. Tozzetti, Religione e patriottismo all’Ospedale Militare, in «F», 10 marzo 1912, pp. 2-3.89 Il testo in Provvedimenti e notificazioni, in «Bollettino ufficiale mensile dell’archidiocesi di Siena» II, 11(1911), pp. 13-14. Cfr. G. Cavagnini, Soffrire, ubbidire, combattere, cit., pp. 34-35.90 I caduti in guerra commemorati a Novara, in «Corriere d’Italia», 26 marzo, p. 2.91 Oltre a quelle citate cfr. Giacinto De Maria, Ancora una parola sui caduti di Libia (Nel Duomo di Cefalù il 30 Gennaio 1912), Tip. S. Gussio, Cefalù 1912 e Antonio Sangiovanni, Discorso recitato nella cattedrale di Lanciano nel dì 8 febbraio 1912, per la solenne commemorazione dei soldati caduti nella Guerra d’Africa, Tip. Tommasini, Lanciano 1912.92 Giovanni Cavagnini, Piccole prove di Grande guerra. I cattolici italiani e il conflitto libico (1911-12), tesi di licenza, Scuola Normale Superiore di Pisa, a.a. 2009-2010, p. 25.93 Sotto il Cupolone, in «Il popolo», 16 novembre 1912, pp. 2-3. Altri ordinari evitarono espressioni encomiastiche; a Palermo fu scelta l’epigrafe «Ai prodi caduti in Libia pregate pace». Cfr. Il solenne funerale per i caduti in Libia alla Cattedrale, in «Corriere di Sicilia», 3-4 novembre 1912, p. 4.

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Canzone all’Italia di Leopardi, consacrò i «martiri di Henni e Sciara Sciat»: «la vostra tomba è un’ara / a cui le madri verranno / mostrando a’ pargoli / le belle orme del sangue vostro»94. Nel clima di eccitazione, le cautele legate alle direttive vaticane furono accantonate e le parole di commiato risuonarono nuovamente negli edifici di culto. Nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo di Brescia, il sacerdote Enrico Gatta mise in relazione il centenario costantiniano con i trionfi libici: tra la vittoria di Ponte Milvio e quella dell’esercito italiano vi era una «perfetta rassomiglianza», perché entrambe erano state «accompagnate dalla Croce»95. Nella chiesa di Corsanico (Massa-Carrara) una composizione poetica celebrò i «novelli Crociati», modelli per le generazioni future, «vissuti essendo e morti per l’Italia / Vostra gran patria, e per la Religione / Vostra gran madre»96. Così l’Italia, «gran martire delle nazioni», con il suo «battesimo di sangue» era finalmente diventata «sana, agile, vigorosa, possente d’armi» e «degna di sedere al banchetto delle maggiori potenze d’Europa»97.

5. Da un conflitto all’altro: verso una “religione di guerra”

Tramite le messe di suffragio, l’immaginario della guerra “santa” contro i nemici di Cristo e della patria entrò stabilmente nell’orizzonte ecclesiastico, sedimentando stereotipi e strutture discorsive che sarebbero stati riattivati dinanzi al conflitto mondiale. Le memorie funebri, stampate per volere dei familiari delle vittime, furono uno dei sintomi più eloquenti del potere performativo delle liturgie. L’immaginetta del soldato fiorentino Antonio Graziani, morto in un ospedale da campo libico, rammentò il suo «olocausto» per la «prosperità della patria»98. In un pieghevole commemorativo, distribuito in occasione di una messa di requiem nel novembre 1912, i pratesi Virgilio Calistri e Brunetto Cecchi furono descritti

94 Bibbiena, XXII decembre XCMXII. Ai prodi caduti in Libia nell’anniversario della morte gloriosa di Giovan Piero Marcucci. Tributo di preghiere e lacrime, Coop. tipografica, Arezzo 1912, p. 9.95 Costantino il grande. La guerra e la pace italo-turca. Ai soldati voltensi reduci dalla Libia. Commemorazione letta nella arcipretale dei SS. Pietro e Paolo (Brescia) dal sac. D. Enrico dott. Gatta Arciprete. X novembre MCMXII, Tip. P. Istituto Pavoni, Brescia 1912, p. 24.96 In memoria dei Funerali Solenni che hanno avuto luogo il 22 Decembre 1912 per i caduti in Libia nella Chiesa parrocchiale di Corsanico, Coop. Tipografica Versiliese, Viareggio s.d., pp. 2-3.97 Ai morti per la patria. Commemorazione funebre di suffragio pei soldati gloriosamente caduti in terra Libica. Discorso recitato dal Cappellano Can. d. Quinto Carbonazzi nel regio penitenziario di Alessandria presenti le autorità civili e militari 12 novembre 1912 , Stab. Tip. G. Jacquemod Figli, Alessandria 1912, p. 9 e pp. 16-17.98 Archivio Storico del Comune di Firenze, Varie, Ufficio di notizie alle famiglie dei militari di terra e di mare. Sezione di Firenze, memoria di Antonio Graziani s.d. [maggio 1912].

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come «pionieri della civiltà», caduti «colla fede dei martiri / col grido degli eroi»99. In altri casi, invece, la dolente dimensione suffragatoria prevalse su quella nazionalista. L’umile sarto di Bitonto (Bari) Michele Speranza, che ebbe la «sventura» di perdere il figlio, inviò una supplica a Pio X affinché pregasse per «l’anima di lui che fu sempre timorato di Dio e dette la sua vita per la Religione e per la Patria». Al centro della lettera erano gli affetti della famiglia «derelitta ed annichilita», non la nazione italiana. Tuttavia le parole citate, così come la foto del soldato allegata con la didascalia «Morto combattendo da eroe», mostrano la ricezione della retorica militar-patriottica, peraltro convalidata dalla suprema autorità ecclesiastica: il pontefice accordò la benedizione «quale pegno dei celesti conforti», avallando la visione della morte in battaglia come cristianamente virtuosa100.

In conclusione, le cerimonie funebri diedero un apporto fondamentale all’introiezione di quella “religione di guerra”, basata sulla commistione tra tradizione cristiana e religione politica della nazione, che nel 1914-18 avrebbe veicolato la sacralità della morte marziale, la brutalizzazione del nemico, la trasfigurazione della violenza e l’eticità dello scontro armato101. Proprio nell’ambito bellico-funerario si realizzò una solida convergenza tra semantica nazionalpatriottica e semantica cattolico-intransigente, accomunate dalla “figura profonda” del sacrificio di sé102. Il caso limite dell’arcivescovo Volpi mostra come persino gli ambienti integristi non avessero problemi a celebrare le vittime di una guerra di conquista contro l’Islam. Anche dopo la fine della guerra la mistica del martirio e della crociata continuò a produrre tensioni con l’autorità gerarchica e disagi interni al campo cattolico. Il 2 novembre 1912 L’osservatore romano chiese ai cattolici di pregare per le anime dei fratelli morti nell’adempimento del loro dovere, ma di lasciare «ad altri la cura di decretare ad essi palme ed allori»103. In una prospettiva simile, un corrispondente del Fides, commentando un funerale a Capannoli (Pisa), deplorò che l’epigrafe alla porta denominasse «martiri» i caduti: «non so comprendere come essi si possano chiamare martiri, quando martire è colui “che perde la vita tra i tormenti, piuttosto che rinnegare la fede”»104. I sospetti verso le messe di suffragio proseguirono ben oltre la conclusione del conflitto, con il rientro delle salme dei soldati. Il 10 maggio 1913 il vescovo di Pavia ed amministratore apostolico di Lodi Francesco Ciceri pronunciò «due parole

99 Biblioteca del Seminario Diocesano di Prato, Misc. A.43.10.2, Ricordo dei solenni funerali celebrati nella cattedrale di Prato il 17 novembre 1912, s.d.100 ASV, Segr. Stato, lettera di Nicola Speranza a Pio X del 27 maggio 1912, f. 124r e minuta di risposta del 7 giugno 1912, f. 127r.101 Annette Becker, La guerre et la foi. De la mort à la mémoire, 1914-1930, Colin, Paris 1994.102 Alberto Mario Banti, Deep Images in Nineteenth-century Nationalist Narrative, in «His-torein» VIII, 2008, pp. 54-62.103 Pei nostri morti, in «Or», 2 novembre 1912, p. 3.104 Nostre corrispondenze, in «F», 18 dicembre 1912, p. 2.

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al funebre trasporto» di alcuni lodigiani, ritenendo che, finita la guerra, la proibizione della Congregazione dei Riti fosse venuta meno. La Segreteria di Stato, in verità, lo aveva informato del contrario: la disposizione restava in vigore e non poteva essere derogata. La comunicazione, però, era giunta in ritardo105.

Al di là delle sottigliezze dottrinali, difficilmente percepibili dalla maggioranza dei fedeli, le simbologie, gli scritti e le orazioni delle liturgie di requiem imbastirono una trama che intrecciava la mitografia nazional-imperialista al tessuto della credenza cristiana. Come abbiamo visto, il fenomeno aveva radici di lungo periodo. La sacralizzazione della morte bellica, di stampo sia patriottico che ierocratico, aveva permeato le funzioni per i caduti fin dal Risorgimento. Rispetto ai precedenti ottocenteschi, però, la guerra di Libia dimostrò come il processo di nazionalizzazione dei cattolici avesse compiuto decisi passi avanti e come la cultura patriottica avesse ridefinito i contorni della stessa esperienza religiosa. Le cerimonie funebri furono un banco di prova dell’integrazione ecclesiastica all’interno dei rituali pubblici della “terza Italia”. Il culto dei “martiri” – non più associato alla libertà della nazione oppressa ma alla sua revanche imperialista – permise ai cattolici di immergersi nella vita dello Stato nazionale senza accettarne i valori liberali; si prestò anzi a promuoverne la revisione in chiave autoritaria, confessionale ed antisocialista, attraverso l’istanza di una politica estera aggressiva e di una politica interna che emarginasse i “Turchi d’Italia”. La compenetrazione tra religione rivelata e religione della patria avvenne significativamente in una dimensione che, facendo appello ad emozioni primarie, esercitò sulle masse un’irresistibile fascinazione. Le liturgie del lutto, inoltre, apparvero imperdibili strumenti di mobilitazione, capaci di riaffermare la presenza della Chiesa nella società. Le considerazioni diplomatiche ed ecclesiocentriche spinsero così la Santa Sede verso un atteggiamento molto più possibilista rispetto al passato, che consentì ai cattolici di propagandare la “santità” della guerra coloniale. Ciò assunse una valenza originale in terra libica: i cappellani militari volontari, autorizzati dal Ministero della guerra, diffusero le retoriche sacrificali nazional-cattoliche tra i combattenti. Un’indagine sulla ricezione al fronte della predicazione patriottica resta da compiere; tuttavia le lettere dei soldati pubblicate sui giornali dell’epoca ne offrono alcune dimostrazioni106.

105 ASV, Segr. Stato, lettera di Francesco Ciceri a Rafael Merry del Val del 5 maggio 1913, f. 149rv e minuta di risposta del 9 maggio 1913, f. 153r; ibi, lettera di Francesco Ciceri a Rafael Merry del Val del 18 maggio 1913, f. 151r. Dopo lo scoppio della grande guerra, la Santa Sede precisò che il decreto della S. Penitenzieria del 1888 e la circolare del 1912 conservavano il loro valore: «Aas», VII, 13(1915), p. 390.106 Cfr. ad esempio le antologie di Salvatore Bono, Morire per questi deserti. Lettere di soldati italiani dal fronte libico (1911-1912), Abramo, Catanzaro 1992 e Ido Da Ros (a cura di), Lettere di soldati veneti nella Guerra di Libia. 1911-1912, Godega di S. Urbano (TV), Grafiche De Bastiani 2001.

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Il Vaticano dovette fare i conti con la febbre bellicista degli uomini di Chiesa e scelse di temperarne alcune manifestazioni, anticipando il copione del primo conflitto mondiale. I centri periferici si sottrassero con più facilità alle direttive romane, che invece – almeno a giudicare dalla distribuzione geografica degli opuscoli citati – riuscirono ad imporsi maggiormente nelle grandi città. Il ricorso sistematico a formule che sacralizzavano la patria non sembrò più qualcosa d’intrinsecamente incompatibile con l’appartenenza ecclesiale. L’assimilazione degli stilemi nazionalisti nella ritualità cattolica si protrasse ben al di là del 1912 e, oltrepassando il piano discorsivo, prese forma negli arredi sacri. Lo evidenziano due esempi, differenti per natura ed ubicazione. Nel dicembre 1911 fu diramato un appello per intitolare, nell’erigenda chiesa del S. Cuore a Bologna, una cappella a S. Pio V – «immortale vincitore dell’Islamismo» – ad intercessione della vittoria e a suffragio perpetuo dei caduti. L’opera, inaugurata l’ottobre seguente, venne finanziata da una colletta che doveva sostenere «Duecento messe di requie» nel 1911-12 ed un «legato perpetuo di messe pei morti nell’attuale guerra e possibilmente una messa quotidiana o più» per gli anni successivi107.

Sempre nel dicembre 1911, dopo un funerale ad Antignano (Livorno), il can. Domenico Quinto Mariani lanciò una sottoscrizione per apporre nella cappella del cimitero una lapide per i «figli degli Eroi delle Crociate e di Lepanto», «massacrati dalla barbarie nemica e morti pugnando per un santo ideale», «esempio di eroismo e di fede»108. Il suo appassionato discorso fu venduto a beneficio del ricordo marmoreo, tuttora esistente. L’epigrafe scolpì nella pietra la “religione di guerra” di tanti comuni cittadini, quello stesso sentimento che di lì a poco avrebbe animato l’union sacrée del 1915-18, per poi sfociare nel connubio clerico-fascista: «ANTIGNANO CRISTIANA E PATRIOTTICA / RESTAURANDO QUESTA CAPPELLA ESPIATORIA / VOLLE TRAMANDARE AI POSTERI / IL RICORDO GLORIOSO DEI PRODI FRATELLI / CHE NEL 1911-12 COMBATTENDO CONTRO ORDE BARBARICHE / FURON MASSACRATI DAL PIOMBO NEMICO / MA IRRADIARONO LE TERRE AFRICANE / DEL SOLE DELLA CIVILTÀ / E LA PATRIA BANDIERA DI GLORIA IMMORTALE / MCMXII»109.

107 Una cappella a S. Pio V per intercedere la vittoria e la pace ed a suffragio dei caduti, in «D», 7-8 dicembre 1911, p. 1; sulla vicenda cfr. Marcello Malpensa, Religione, nazione e guerra nella diocesi di Bologna (1914-1918). Arcivescovo, laicato, sacerdoti e chierici, «RSCr» III, 2(2006), pp. 385-387. Si trattava della «terza cappella, a sinistra di chi guarda l’altar maggiore, nel presbiterio»: cfr. L’inaugurazione del Tempio al Sacro Cuore di Gesù e le onoranze al card. Svampa. Bologna 15, 16, 17 Ottobre 1912, Tip. arcivescovile, Bologna, 1912, p. 31. A causa dei rimaneggiamenti subiti dalla chiesa, la cappella non esiste più nel suo assetto originario.108 Cronaca della Città. I cattolici livornesi e la guerra italo-turca, in «F», 13 dicembre 1911, p. 2.109 Domenico Quinto Mariani, I prodi di Tripoli e la Cappella Espiatoria d’Antignano, Tip. G. Fabbreschi, Livorno 1911, pp. 5-6 e p. 8. Ringrazio Giovanni Cavagnini per la segnalazione.

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