Capitolo I L’italiano lingua straniera fuori dall’Italia · apprendere l’italiano e anche...
Transcript of Capitolo I L’italiano lingua straniera fuori dall’Italia · apprendere l’italiano e anche...
Capitolo I – L’italiano lingua straniera fuori dall’Italia
Definizioni: Genericamente, nell’ambito della didattica, distinguiamo:
-Lingua straniera o LS
-Lingua seconda o L2
-Lingua non materna
Intendendo con queste espressioni una lingua che è obbiettivo di apprendimento in una fase successiva a quella
della prima infanzia; ma, per alcuni, un ulteriore differenziazione andrebbe posta in relazione ad altri parametri
quali quello spaziale e quello socio-culturale:
-Italiano lingua straniera o LS: italiano appreso fuori dall’Italia;
-Italiano lingua seconda o L2: italiano appreso in Italia
-Italiano lingua d’origine: appresa da parte degli emigrati italiani all’estero
-Italiano lingua di contatto: appresa da parte degli immigrati stranieri in Italia
Quel che è certo è che parlare di italiano LS ci rimanda ad una situazione passata nella quale la lingua italiana
veniva appresa degli stranieri soprattutto fuori dall’Italia e perlopiù in contesti culturali. Questa realtà si è
trasformata.
La promozione della lingua e della cultura italiana all’estero: L’italiano all’estero è parte delle offerte formative di
istituzioni locali pubbliche e private come: scuole dell’obbligo, università, aziende. Una peculiare rete che offre la
possibilità di studio dell’italiano LS è quella delle Università Popolari per la formazione degli adulti (soprattutto in
Nord Europa) e quella delle scuole private di lingua, anche specializzate solo in italiano LS. Abbiamo anche offerte
formative finanziate dal governo italiano, Scuole italiane all’estero, Istituti italiani di cultura (IIC), lettori
universitari e il comitato della Società Dante Alighieri.
Cenni storici: Dal mito del grand tour sappiamo che per secoli gli stranieri sono approdati alla lingua italiana data
la sua importanza culturale. Ma, oltre a questi studiosi, sappiamo che nei secoli si sono approcciati alla lingua
anche religiosi, militari e commercianti; in un Italia dialettofona sono loro ad aver rilevato le prime differenze tra
norma e uso. Nell’800 le spinte migratorie dall’Italia verso i paesi del Nord Europa e oltreoceano, è cambiata la
fisionomia della circolazione dell’italiano all’estero. Dopo la metà del 900 i grandi cambiamenti sociali dell’Italia e
il suo sviluppo economico hanno rallentato la spinta migratoria e anzi favorito l’arrivo di molti cittadini dell’est
europeo, della Cina, dell’Africa rendendo l’Italia un paese multiculturale. Infine importanti cambiamenti sono stati
dati dall’avvento di Internet e dalle collaborazioni economiche con la Cina.
Profili degli apprendenti: L’italiano è ben presente nel “mercato delle lingue”, troviamo infatti:
-Bambini e adolescenti stranieri che seguono corsi di italiano curriculare nelle scuole dell’obbligo del proprio
paese;
-Bambini e adolescenti stranieri (non di origine italiana) che seguono insieme a bambini di origine italiana i corsi di
lingua e cultura italiana in istituti finanziati dal MAE (Ministero degli Affari Esteri) nei paesi meta
dell’emigrazione italiana all’estero;
-Bambini e adolescenti stranieri iscritti nelle Scuole Italiane all’estero:
-Studenti universitari fuori dall’Italia;
-Giovani adulti con progetto di emigrazione;
-Professionisti, pensionati, appassionati, compagni di un italiano/a;
-Funzionari plurilingui;
-Cibernauti.
Motivazioni e bisogni di apprendimento: Quali sono i fattori di attrattività dell’italiano LS? Le prime indagini
motivazionali vertevano sul prestigio della cultura italiana o alle origini delle famiglie emigrate all’estero. Nel 1999
con il progetto/indagine Italiano 2000 vediamo che ancora oggi per la maggior parte la motivazione è culturale ma
a questa si aggiunge anche la novità delle famiglie bilingui e, il dato più nuovo, l’emergere di due motivazioni
cosiddette strumentali: il lavoro e lo studio. In questi ultimi casi i bisogni saranno strettamente ancorati ad un
ambito (es. studenti di legge o funzionari turistici). L’italiano LS è quindi oggi caratterizzato da una certa
disomogeneità motivazionale da cui deriva anche una pluralità di bisogni formativi legati soprattutto al piacere di
apprendere l’italiano e anche alla sua spendibilità sociale. Tra le lingue preferite, l’italiano è spesso alla quarta
scelta negli apprendenti il che denota che chi si avvicina alla lingua ha di solito già un bagaglio di capacità
interlinguistica.
Caratteristiche dell’input: L’apprendimento dell’italiano LS si svolge, per definizione, in un contesto non italofono
ma questo non significa che vi sia totale assenza di comunicazione in lingua italiana e infatti gli input sono
ampiamente diffusi. Il tipo di italiano che circola è un neo standard di media formalità: prodotti made in Italy, nomi
delle insegne di negozi e dei prodotti, nelle aree di turismo italiano (Egitto, Croazia) o nelle aree di imprese italiane
o dove sono immigrati lavoratori italiani (Canada) e anche nei poli universitari, diplomatici o internazionali
(Ginevra, New York, Bruxelles). A queste si aggiungono le zone di frontiera (Savoia, Austria, Albania, Grecia).
L’italiano è lingua ufficiale a San marino, nel Vaticano e nel Canton Ticino (Svizzera); lingua coloniale nel Corno
d’Africa. È presente anche in due forme di comunicazione internazionale: come lingua franca in Svizzera e come
lingua “ponte” fra funzionari ed interpreti di nazionalità diverse. Tuttavia, è la classe il luogo in cui si realizza di
solito l’apprendimento guidato dell’italiano LS, in contesti formali e con docenti non nativi. Un ulteriore input è
allora il contatto con i propri pari, con i compagni di classe. Il rischio comunque è che questo tipo di input sia
povere a livello di lessico, variazione pragmatica e temi. Oltre all’apprendimento formale/guidato esiste anche un
tipo di apprendimento misto.
L’input è necessario ma non sufficiente per l’apprendimento. Per trasformarlo in intake (cioè acquisizione duratura)
è necessario che venga affiancato dalla pratica, cioè dall’output.
Caratteristiche dell’output e tipi di interazione: La possibilità di sviluppare una competenza linguistica e culturale
in italiano dipende spesso dalla professionalità del docente. In un apprendimento in contesto guidato e isolato è
possibile che gli apprendenti siano esposti ad input limitato così il lor output sarà ristretto e monitoriale.
Capitolo II – L’italiano lingua seconda in Italia
Definizioni: Nella glottodidattica l’italiano come “lingua seconda” o “seconda lingua” (L2) è inteso genericamente
come una lingua appresa dopo la madrelingua, cioè “italiano per stranieri” o “italiano lingua non materna”. In altri
casi si usa “italiano L2” per sottolineare la distanza temporale di apprendimento o la secondarietà della
competenza. Si parla di italiano L2 anche se quest’ultimo è appreso come terza o quarta lingua. Dal punto di vista
della linguistica acquisizionale si utilizza L2 per indicare la lingua non materna appresa spontaneamente o in
maniera guidata nel paese in cui è parlata. Qui useremo L2 per dire la lingua appresa nell’ambiente in cui si parla
cioè evidenziando il contesto diatopico. Se prima era maggiormente netta la differenza tra una situazione di
apprendimento guidato (LS) e una di apprendimento spontaneo (L2) ora i contorni sono sfumati e l’apprendimento
misto sembra essere il contesto ideale. Per “azione” si intende l’interazione verbale e con “competenza di azione” si
intende la capacità di interagire linguisticamente con altri individui in modo partecipativo. Una didattica orientata
all’azione è una didattica che:
-Accetta sorprese, imprevisti e sfide;
-È una didattica ecologica;
-Supera la dicotomia classe/extraclasse;
-Riconosce l’importanza del contesto non linguistico;
-Supera la dicotomia individuo/società;
-Propone forme di apprendimento euristico.
Caratteristiche degli apprendenti - Cenni storici: Nel corso dei secoli l’apprendimento dell’italiano da parte di
stranieri in Italia nei secoli passati era essenzialmente riferito ad alcune categorie di apprendenti nonostante la non
uniformità linguistica del territorio.
-Studenti universitari;
-Artisti, intellettuali, viaggiatori;
-Commercianti;
-Prelati cattolici, pellegrini e soldati.
Questi cercavano di mediare tra la lingua scritta e quella parlata. Solo nel 1917 a Siena nasceranno i primi “Corsi di
lingua e cultura italiana per stranieri” seguiti, nel 1921, da quelli di Perugia. Queste due città saranno i poli
principali; dopo il boom economico degli anni ’60, nascono a Firenze e Roma varie scuole private di italiano per
stranieri e nel 1981 viene istituito un “livello soglia” per l’italiano, un documento che offre ai docenti e agli autori
di materiali didattici un sillabo con i contenuti essenziali per lo sviluppo delle competenze. Nel 1992 vengono
istituite ufficialmente l’Università per Stranieri di Siena e l’Università per Stranieri di Perugia destinate ad una
formazione accademica. L’Italia propone dunque al mondo una propria politica di promozione dell’italiano per
stranieri privilegiando il settore universitario. Molti sono gli studenti americani che soggiornano nella tradizione
degli “Italian Study Abroad”. Dal 2000 si inseriscono a tutti questi anche i programmi Erasmus/Socrates e dal
2006-2007 le università accolgono un numero non indifferente di studenti cinesi (Programma Marco Polo). Un
altro campo da ricordare è quello delle Università Pontificie. A differenza dell’italiano all’estero, l’apprendente
tipico di italiano L2 (non immigrato) è un giovane adulto tra i 18 e i 30 anni nel pieno compimento di esperienze
formative/lavorative. In Italia abbiamo inoltre le comunità alloglotte; minoranze linguistiche storicamente presenti
in Italia, come quelle franco-provenzali della Valle d’Aosta e del Piemonte.
Caratteristiche degli apprendenti – Profili degli apprendenti:
-Bambini e adolescenti stranieri in vacanza studio in Italia;
-Bambini e adolescenti stranieri inseriti nelle scuole internazionali e bilingui;
-Adolescenti stranieri del Programma Intercultura, Studenti Erasmus, studenti Marco Polo;
-Seminaristi e sacerdoti cattolici stranieri;
-Adulti che decidono di trascorrere un periodo di studio dell’italiano in italia per motivi culturali o personali;
-Professionisti o impiegati che lavorano in Italia;
-Carcerati stranieri;
-Cittadini italiani di madrelingua diversa, limitatamente alle minoranze storiche presenti in Italia.
Motivazioni e bisogni di apprendimento:
-Periodo di permanenza in Italia: in questi casi la motivazione principale è di tipo affettivo, cioè si sceglie l’Italia
perché piace. Un altro tipo di motivazione è quella strumentale, cioè per raggiungere specifici obiettivi, molti con
una motivazione integrativa (immigrati).
-Motivazioni estrinseche, imposte.
Caratteristiche dell’input: L’ambiente per l’apprendimento è ideale in quanto si presta ad un apprendimento misto e
si può disporre di un insegnante madrelingua che gli espone un primo input orale; inoltre, si dispone di molteplici
materiali didattici in classe.
Caratteristiche dell’output:
-Un contesto privilegiato è quello del tempo libero (turismo, sport, cultura);
-Un altro è il contesto formale e settoriale, relativo al proprio ambito di interesse (universitario, religioso,
professionale);
-Infine, le maggiori occasioni di output in Italia sono offerte agli stranieri presenti sul territorio nei contesti
informali e spontanei di interazione. Immigrati, studenti, turisti; trovano tutti occasione di praticare la lingua.
Capitolo III – L’italiano lingua d’origine
Definizioni: Tra il pubblico che frequenta i corsi di lingua italiana all’estero troviamo anche oriundi italiani per i
quali l’apprendimento si realizza nella prospettiva di quello della lingua di origine. Per designare la lingua
impiegata ed appresa nell’ambito famigliare e nella comunità da oriundi è usata l’espressione lingua etnica o
community language. Alcuni non riconoscono uno status specifico per questa situazione e la assimilano alla L1 ma
visto che gli apprendenti si trovano in un contesto culturale e di contatto estraneo è bene analizzarli come
apprendenti di L2.
Caratteristiche degli apprendenti – Le condizioni di emigrazione italiana all’estero: L’emigrazione è un fenomeno
storico complesso che ha assunto notevole consistenza nel periodo che va dalla metà dell’800 alla metà degli anni
’70 del secolo scorso. 27 milioni di italiani hanno lasciato il territorio nazionale tra il 1876 e il 1976 principalmente
verso il continente americano. Una seconda ondata si è avuta nel 1947 fino al 1973 sta volta verso i paesi europei
più sviluppati (Francia, Belgio, Germania) o verso mete molto lontane come Canada o Australia. La differenza
principale sta nell’atteggiamento maggiormente aperto che i nostri connazionali hanno trovato negli USA e nel
tempo maggiore che vi hanno trascorso nonché l’importanza della distanza e dei minori contatti possibili sia con i
connazionali che con la lingua di origine. La lingua utilizzata nelle interazioni con i connazionali non è l’italiano
standard ma una varietà sub-standard definita italiano di emigrazione che è caratterizzato dalla presenza di
espressioni dialettali e da prestiti della lingua del paese ospitante.
Caratteristiche degli apprendenti – La differenza tra le fasce generazionali: L’italiano di emigrazione subisce
un’evoluzione con il passaggio da una generazione all’altra, caratterizzata da una lenta erosione che Saltarelli
divide in quattro stadi:
-Stadio 0 – Standard;
-Stadio 1 - Fading il contatto con la lingua del paese ospitante trasforma l’italiano di emigrazione in un sistema
in dissolvenza, contraddistinto da una riduzione del lessico e da una semplificazione generale;
-Stadio 2 – Pidgin è quello della seconda generazione, si riduce il lessico e la morfologia;
-Stadio 3 – Fragment è quello della terza generazione, la produzione è frammentaria e limitata lessicalmente;
-Stadio 4 – Loss.
Questo modello non è però adattabile a tutte le situazione, nella seconda fase infatti si aprono un ventaglio di
possibilità.
Caratteristiche degli apprendenti – Profili di apprendenti di origine italiana:
-Apprendenti non competenti, cioè esponenti della terza o quarta generazione di emigrati caratterizzati da un basso
grado di mantenimento dell’italiano che, pur non possedendo alcuna competenza linguistica nella lingua d’origine,
decidono di studiare la lingua italiana per recuperare la propria identità linguistica;
-Apprendenti parzialmente competenti, cioè coloro che desiderano approfondire le conoscenze già possedute;
-Adulti o giovani adulti con competenza variabile dell’italiano che vengono a studiare in Italia, sovvenzionati o non
dalle associazioni di italiani all’estero;
-Studenti universitari;
-Adolescenti e bambini che scelgono come lingua straniera l’italiano nel curriculum didattico del paese ospitante o
che frequentano scuole bilingue o italiane all’estero;
-Adolescenti e bambini che seguono corsi offerti dagli Istituti Italiani di Cultura, dalla Società “Dante Alighieri” o
di scuole private.
Motivazioni e bisogni di apprendimento:
-Motivazioni affettive, identitarie, maggiormente sentite dalla seconda generazione;
-Motivazione strumentale, data anche dal fatto di possedere già una base di competenze;
-Bisogni di apprendimento legati all’uso quotidiano.
Caratteristiche dell’input: L’apprendimento può essere (come nel caso delle terze o quarte generazioni) guidato
oppure misto. La mancanza di contatto diretto può essere attutita da mezzi tecnici come cd audio. Inoltre,
l’apprendente italiano può provenire da una realtà regionale o locale e quindi da un italiano popolare che
comprende forme non più attuali. In alcuni casi invece, specie nei paesi limitrofi, l’esposizione all’italiano non si
limita alle varietà standard ma si estende all’italiano neo standard e a quello colloquiale di tv e radio. Per quanto
riguarda i sussidi occorre specificare che i libri di testo sono pochi e poco aggiornati. Caratteristiche dell’output:
Quando la lingua viene appresa in ambito formale maggiori opportunità sono offerte dallo sviluppo dalla
produzione scritta. Un ausilio importante sono i mezzi tecnici per la produzione orale. Se l’apprendimento è invece
misto si possono creare positive opportunità fuori dall’ambiente linguistico; anche l’estensione del gruppo
famigliare in questo caso fa la differenza (es. anziani) si possono creare produzioni mistilingue attraverso la
commutazione dei codici che è però spesso guardata negativamente. Si è parlato spesso di semilinguismo o
bilinguismo fallito per i figli degli emigrati italiani. In ambito didattico la mescolanza non va evitata ma compresa.
Capitolo IV – L’italiano lingua di contatto
Definizioni: A partire dall’800 in Italia si è visto crescere il numero di cittadini stranieri che necessitano di
apprendere la lingua per soggiornare in Italia e sostenere il proprio progetto migratorio. La richiesta di formazione
linguistica si è quindi modificata ed ampliata. In Italiano la parola migrante (migrant in inglese si riferisce ad una
persona che si sposta per trovare lavoro, temporaneamente) si sta affermando per il prestigio tecnico mentre
immigrato ha un accezione non positiva. Le indagini dimostrano la crescente tendenza alla stabilità di residenza che
include tra i migranti molti bambini ed adolescenti che hanno bisogno di formazione linguistica. Molti di questi
bambini sono figli di situazione complicate che non si possono includere nella generica categoria di “italiano L2”
(es. figli matrimoni misti) e si è preferito riferirsi all’italiano insegnato ed appreso dai figli dei cittadini immigrati
in Italia con la denominazione italiano lingua di contatto con cui si evidenzia la natura composita della competenza
individuale di questi apprendenti che comprende l’italiano e la lingua d’origine, producendo attraverso il contatto
sollecitazioni relative alla definizione della propria identità linguistica e culturale. L’espressione lingua in contatto
è stata introdotta da Weinreich per riferirsi alle lingue parlate alternativamente da uno stesso individuo, che
costituisce così il luogo del contatto tra le lingue. In ambito glottodidattico l’espressione compare in Freddi, con un
significato diverso, visto come quello che si realizza in risposta a motivazioni culturali generiche. Tullio De Mauro
e Vedovelli rinviano alla nozione sociolinguistica degli immigrati stranieri ed in particolare dei loro figli. Questa
prospettiva permette di cogliere l’incidenza dei fattori psico-affettivi, identitari e socioculturali nel processo di
apprendimento dell’italiano, al fine di progettare un’azione didattica derivata dalla conciliazione della storia
linguistico-culturale pregressa dell’alunno e del bambino/adolescente migrante con l’incontro con la cultura e la
lingua italiana.
Caratteristiche degli apprendenti – L’immigrazione cambia la scuola: Migliaia di alunni con nazionalità non
italiana fanno il loro ingresso nella scuola e formano il variegato scenario di apprendenti che sono utenti di italiano
come lingua di contatto. La scuola italiana è ormai un ambiente multietnico, multiculturale e plurilinguistico in cui
la composizione della popolazione scolastica è profondamente cambiata. Per quanto riguarda la distribuzione
geografica, la concentrazione maggiore di bambini/adolescenti migranti si rileva nel nord-est e si è estesa anche ai
piccoli comuni. Per quanto concerne la distribuzione degli alunni nei diversi ordini di scuola, mentre nel primo
periodo si concentravano nelle scuole primarie ora l’apprendimento dell’italiano come lingua di contatto ha
coinvolto anche gli istituti secondari. Gli alunni stranieri presenti nella scuola italiana provengono da circa 180
paesi, prevalentemente europei. A questi si aggiungono gli alunni nomadi e di etnia rom.
Profili degli apprendenti dell’italiano come lingua di contatto:
-Bambini/adolescenti nati all’estero da genitori stranieri;
-Minori adottati con procedure internazionali dopo la prima infanzia;
-Bambini/adolescenti nati in Italia da genitori stranieri;
-Figli di matrimoni misti;
-Bambini/adolescenti di etnie nomadi, di recente immigrazione o di antico insediamento;
-Adolescenti immigrati non accompagnati e minori richiedenti asilo;
-Minori dimorati (es. figli diplomatici).
Motivazioni e bisogni degli apprendenti: Si dividono in due ordini; la competenza linguistico-comunicativa che gli
consentono di socializzare con i pari e i livelli di competenza più elevata per poter comprendere le lezioni e
svolgere le verifiche scritte ed orali. Cummins distingue tra un aspetto più superficiale della competenza
comunicativa definito Basic Interpersonal Communication Skills (BICS – sfera di azione personale, conseguito in
circa due anni a seconda della differenza con la L1) ed uno più complesso Cognitive Academic Language
Proficiency (CALP – acquisito in più tempo, serve per svolgere con profitto gli studi nella L2). L’attenzione delle
istituzioni si è rivolta fino ad oggi principalmente al primo aspetto e questo ha fatto sì che gli esiti scolastici dei
migranti siano peggiori di quelli dei compagni italiani. Su questo incidono vari fattori come il ritardo scolastico, la
carenza di adeguati strumenti ecc. Nell’insegnamento dell’italiano come lingua di contatto, l’attenzione ai bisogni
dei discenti deve estendersi alla fase successiva durante la quale l’alunna necessita di transitare da uno stadio di
sopravvivenza a quello di padronanza di modalità espressive più complesso. Cummins spiega il complesso legame
tra sviluppo della L1 e della L2 ricorrendo al principio di interdipendenza linguistica: una volta attivati, i processi
cognitivi sono disponibili per la decodificazione in entrambe le lingue, dato che il meccanismo comune presiede al
funzionamento dei due sistemi linguistici. La motivazione dell’alunno straniero non è però sempre forte,
intrecciandosi con problematiche affettive, connesse alla sua condizione di migrante.
Caratteristiche dell’input: Lo sviluppo dell’italiano come lingua di contatto si realizza in situazione di
apprendimento misto. La quantità e la qualità dell’input esterno alla scuola varia notevolmente in relazione
all’ambiente famigliare e sociale dove l’apprendente viene a contatto con diverse varietà della lingua italiana:
dall’italiano colloquiale a quello televisivo come pure a quello regionale o al foreigner talk. Si tratta però sempre di
un input contestualizzato e la sua comprensibilità varia anche dall’equilibrio tra informazione linguistica ed
extralinguistica. Inoltre, in ambiente spontaneo le difficoltà di comprensione possono essere risolte ricorrendo alla
negoziazione dei significati. Durante i laboratori di lingua italiana, l’input riguarda generalmente situazioni di
comunicazione quotidiana e l’esposizione viene sostenuta controllata e guidata. Nelle ore curricolari, l’alunno entra
invece in contatto con le modalità espressive dell’esposizione didattica, relativa alle discipline oggetto di
insegnamento.
Caratteristiche dell’output e tipo di interazione: Dopo l’accoglienza nell’ambiente scolastico, gli alunni stranieri
neoarrivati attraversano una fase di silenzio, dove si limitano ad ascoltare. Con l’esposizione alla lingua, il piccolo
bagaglio iniziale si arricchirà secondo questa scala:
-Fase prebasica: l’output dell’apprendente è basato su elementi lessicali e vocabolario minimo;
-Fase basica: il vocabolario si arricchisce, incomincia a delinearsi l’appartenenza delle parole a classi, compaiono
gli avverbi;
-Fase postbasica: si amplia la morfologia e si strutturano i bari paradigmi, consentendo la coniugazione dei verbi, si
presenta la subordinazione (prima con connettivi testuali);
-Fasi di sviluppo avanzate: compaiono composizioni scritte, costruzioni nominali.
Nel percorso evolutivo di acquisizione, la L1 rappresenta un insieme di conoscenze da cui l’apprendente attinge sia
per processare la L2, sia per esprimersi. Nelle produzioni degli alunni sono dunque rintracciabili transfert della L1.
L’interazione non è un compito semplice ma promuove l’acquisizione linguistica e in questa il discente presta
attenzione alle forme linguistiche usate e si esercita a costruire le strutture sintattiche, nello scambio comunicativo
infatti, si crea una struttura verticale cioè un insieme di articolati di frasi, somma dei diversi turni dei partecipanti.
La soluzione metodologica è quella di un modello cooperativo di apprendimento che consenta si inserire l’alunno
straniero nella partecipazione ad attività interazionali con cadute positive sullo sviluppo della lingua.
Capitolo V – Coordinate per l’apprendimento di una lingua non materna
Nella prospettiva attuale non è più l’insegnamento a determinare l’apprendimento ma sono le modalità di
acquisizione linguistica ad orientare le scelte metodologiche e le pratiche didattiche. Per progettare un percorso
formativo, occorre conoscere e tenere presenti le modalità attraverso cui l’apprendimento si realizza.
Dalla prospettiva comportamentista a quella cognitivista: Il comportamentismo è la prima teoria
dell’apprendimento alla quale la didattica delle lingue ha fatto esplicitamente riferimento ed è stata introdotta nella
didattica dal linguista Bloomfield che, intorno al 1945, basò un metodo per l’insegnamento sul modello di
descrizione teorica della lingua e dell’apprendimento: il metodo audio-orale, che si fonda sugli assunti della teoria
comportamentista. Nella prospettiva comportamentista l’apprendimento di una L1 o di una L2 consiste
nell’acquisizione di abitudini senso-motorie di carattere inconscio, derivate dall’associazione di una particolare
risposta ad un determinato stimolo dell’ambiente. L’acquisizione di un abitudine è favorita dall’imitazione, dalla
frequenza e dal rinforzo (cioè il comportamento che segue la risposta). Nella pratica didattica l’accento è posto
sulla discriminazione di suoni e sulle strutture, presentate attraverso i pattern drills, cioè esercizi in cui le forme
linguistiche sono manipolabili con tecniche di sostituzione e trasformazione; il lessico ha un ruolo di secondo
piano. Le abitudini che si acquisiscono con la lingua madre possono costituire una fonte di interferenza, tanto più
probabile, quanto più L1 E L2 divergono strutturalmente. Il transfert tra le due lingue può essere positivo o
negativo e per il docente è possibile prevedere e guidare lo studente al superamento degli effetti negativi del
transfert della L1 tramite un analisi contrastiva.
Chomsky afferma invece che non si può ridurre il tutto alla mera formazione di abitudini. Secondo questo autore
che a partire dagli anni ’70 sviluppa un modello alternativo fondato su principi cognitivisti, l’apprendimento è il
risultato di un processo mentale creativo dovuto alla predisposizione, specificatamente umana, di imparare una
lingua; un meccanismo innato che Chomsly definisce LAN (Language Acquisition Device) e che consente
all’individuo, tramite i dati linguistici a cui è esposto, di formulare ipotesi sul funzionamento del sistema linguistico
e verificarle operando un confronto con l’input ottenuto dall’ambiente. Il cognitivismo non costituisce una scuola
psicologica collocabile spazio-temporalmente ma una prospettiva di studio volta ad indagare il funzionamento della
mente umana che raccoglie diversi esponenti. Nel modello chomskiano gli influssi ambientali rivestono importanza
solo come insieme di opportunità offerte all’apprendimento che si verifica perché i dati linguistici vengono messi in
relazione agli universali, cioè ai principi comuni a tutte le lingue e ai parametri che costituiscono la G.U.
(Grammatica Universale). Con l’acquisizione di una L2 l’apprendente ha già in mente un esempio di realizzazione
dei principi universali e per questo l’apprendimento della L1 e della L2 differiscono, inoltre l’individuo che
apprende una L2 è in uno stato di sviluppo cognitivo più avanzato. Mettendo a confronto i due principi vediamo:
-Modello di acquisizione secondo il comportamentismo : l’Output non si discosta dai dati forniti
Input (frasi di stimolo) Capacità di apprendimento Output (frasi di risposta) – Input = Intake
-Modello di acquisizione linguistica secondo il modello della GU: prevede una elaborazione dei dati input
da parte del dispositivo mentale innato dando come Output la conoscenza implicita di un sistema di regole
linguistiche. Input e Intake (ciò che viene ritenuto dalla memoria a lungo termine come il risultato dei processi di
elaborazione attivati da LAD) differiscono.
Input (dati linguistici) LAD Output (regole linguistiche) – Input ≠ Intake
La GU ha contribuito a porre l’attenzione sugli errori e sulla lingua dell’apprendente permettendo di gettare luce
sul processo di apprendimento di una lingua seconda.
L’errore linguistico e lo sviluppo dell’interlingua: l’errore, nella prospettiva cognitivista, passa da forma deviante a
manifestazione di apprendimento, un segnale che certe ipotesi sulla natura della lingua sono state formulate ed
iniziano ad essere verificate. L’analisi degli errori, attraverso lo studio delle forme scorrette, tenta di risalire al tipo
di ipotesi formulate per individuare i processi di apprendimento e le caratteristiche della competenza parziale della
L2. In ogni stadio, l’apprendente possiede dunque una propria versione della grammatica della L2, cioè un sistema
linguistico a sé stante, definito interlingua (Selinker), che evolve a seguito dell’introduzione di nuove regole,
derivate dalle ipotesi verificate e accettate. Nell’evoluzione del continuum linguistico può verificarsi che ipotesi
scorrette continuano a governare l’esecuzione, indipendentemente dall’esposizione dell’apprendente ai dati
linguistici: parliamo di fossilizzazione ed è attribuito a diverse cause. Negli anni ’80 si sviluppa la linguistica
acquisizionale per la quale diventa oggetto privilegiato di indagine l’apprendimento in contesto spontaneo di una
L2 che ha evidenziato l’articolazione in fasi del percorso di acquisizione linguistico, attraversate da tutti gli
apprendenti, spingendo ad approfondire lo studio longitudinale dell’interlingua, conducendo all’individuazione di
sequenze di acquisizione che descrivono il percorso naturale seguito dall’apprendente per muoversi lungo il
continuum interlinguistico in evoluzione. Per l’acquisizione della morfologia verbale dell’italiano, ad esempio,
avremo:
Presente/Infinito > (aux) + Particio passato > Imperfetto > Condizionale > Congiuntivo
L’ordine in cui le forme emergono è implicazionale. Dopo le prime fasi in cui operano i principi cognitivi
universali, l’apprendente si sofferma sulle strutture salienti della L2. Vengono quindi appresi prima i lessemi più
utili e frequenti e solo successivamente quelle più marcate.
La processabilità dell’input: Pienemann propone la teoria della processabilità che prevede che in ogni stadio di
sviluppo l’apprendente possa disporre di procedure di elaborazione cognitiva che gli consentiranno di produrre e
comprendere solo le forme linguistiche che è in grado di processare in quello stadio. Queste procedure sono
acquisite gradualmente secondo una gerarchia di processabilità il cui ordine è implicazionale, cioè ogni procedura
costituisce un prerequisito per l’acquisizione di quella di livello successivo. Sebbene la gerarchia di processabilità
descriva un percorso obbligato, rimane comunque una certa libertà di azione. Passando da uno stadio all’altro,
l’interlingua mostra infatti la compresenza di forme proprie dello stadio precedente e di nuove forme che tentano di
emergere. Oltre a questa variabilità c’è pure una variabilità di tipo intrasoggettivo legata a fattori interni ed esterni
dell’apprendente. Per spiegare la variabilità dell’interlingua Pienemann ricorre alla nozione di spazio delle ipotesi
cioè la gamma limitata di soluzioni che si presentano all’apprendente per affrontare problemi di apprendimento.
Il socio interazionismo: Se cognitivismo e comportamentismo considerano l’apprendimento linguistico come un
fenomeno intraorganico la comunicazione linguistica è però un fatto interorganico e sociale. Al ruolo dell’ambiente
rivolge l’attenzione l’ipotesi socio-interazionista che considera l’acquisizione della lingua come il risultato degli
sforzi collaborativi tra l’apprendente e i suoi interlocutori e della relazione dinamiche che si stabilisce tra fattori
esterni e meccanismi interni all’individuo. Bruner, afferma che l’apprendimento linguistico ha inizio quando
l’adulto e il bambino entrano in interazione reciproca producendo un input che attiva la LAD; si viene a creare una
struttura d0interazione che Bruner definisce format. In altre parole la cooperazione tra adulto e bambino rende
possibile lo sviluppo della competenza linguistica e influisce sul grado e la rapidità di apprendimento. L’adulto, in
questo senso, fornisce un sistema di sviluppo definito da Bruner LASS (Language Acquisition Support System).
Analogo il processo per l’acquisizione della L2 in cui la cooperazione viene definita negoziazione dei significati ed
è all’origine dell’input in grado di promuovere l’apprendimento linguistico. L’ipotesi socio-interazionista ha
promosso lo sviluppo di studi linguistici su motherese e sul foreigner talk.
Second Language Acquisition Theory (SLAT): Evidenza la funzione svolta dall’input nell’apprendimento di una
lingua non materna ed è formulata da Stephen Krashen che, in seguito, ha elaborato con Tracy Terrell il Natural
Approach (si propone di seguire, nell’insegnamento della L2, i ritmi naturali e i principi che guidano l’acquisizione
spontanea). La SLAT, che accoglie i presupposti teorici del cognitivismo, si fonda sull’asserzione che una lingua
seconda viene acquisita solo se vengono compresi messaggi e viene fornito un input comprensibile cioè quando si
trova allo stadio i + 1 dell’ordine naturale di acquisizione. Krashen distingue infatti tra apprendimento, processo
consapevole e razionale che agisce sulla memoria a medio termine e acquisizione processo subconscio che agisce
sulla memoria a lungo termine. Solo ciò che viene acquisito diventa intake, cioè entra a far parte delle competenze.
L’insegnamento esplicito delle regole grammaticali ha quindi per Krashen il ruolo marginale di monitor, cioè di
controllo della produzione che però non ha il tempo di attivarsi nella comunicazione orale. Molti però criticano
questa netta divisione sostenendo che processi controllati basati sulla conoscenza delle forme linguistiche possono
diventare automatici con la pratica. Quando l’apprendente comunica ha a disposizione tre tipo di regole che si
collocano in un continuum di automatizzazione che dipende dalla frequenza dell’uso:
-Regole già automatizzate dall’acquisizione naturale;
-Regole non automatizzate che possono essere usate solo quando si verificano le condizioni favorevoli;
-Regole che si sono automatizzare con la pratica dell’uso.
La comunicazione fluente si ha quando le strutture sono automatizzate ed utilizzare nella comunicazione senza
riflettere. Sherewood-Smith ha elaborato un modello che spiega come la conoscenza appresa possa trasformarsi in
conoscenza acquisita con la pratica; in questo modello l’output può derivare dall’uso di una conoscenza esplicita,
implicita o da entrambe. Il flusso dell’informazione da una fonte di conoscenza all’altra è mediato dall’output
dell’apprendente che valuta la propria produzione sulla base dell’impatto cognitivo e affettivo e del feed-back dei
suoi interlocutori. Anche per Krashen il filtro affettivo è molto importante in quanto può impedire all’input di
diventare intake. Questo filtro rappresenta una rete che i dati linguistici devono attraversare per arrivare
all’organizzatore dell’apprendente (dispositivo simile alla LAD). Se il filtro è attivato, i dati vengono collocati nella
memoria a breve termine e non passano ai centri dell’acquisizione stabile. Le forze di carattere affettivo sono
connesse anche ad aspetti motivazionali. Il costruttivismo: Considera la conoscenza come il risultato di una
costruzione attiva del soggetto, socialmente negoziata e condivisa. Questo nuovo quadro teorico di riferimento
conferisce centralità al discente nel processo di insegnamento-apprendimento e si fonda sul presupposto che il
risultato dell’apprendimento sia la conoscenza costruita attivamente dall’apprendente che integra nuove conoscenze
con quelle già disponibili. Piaget aveva infatti dimostrato il ruolo attivo del bambino che nell’apprendere opera
rielaborazioni e manipolazioni. Riferendosi a Piaget, Jonassen considera la conoscenza come il risultato di una
“negoziazione sociale”, attraverso cui si condivide con altri individui l’esplorazione e l’attivazione di processi di
negoziazione interna. La conoscenza ha inoltre un carattere situato è cioè connessa alla situazione e si realizza in
relazione a fattori affettivi. Infine, la costruzione della conoscenza da parte dell’apprendente deriva dalla
comunicazione interpersonale e si attua attraverso particolari forme di collaborazione e negoziazione sociale tra
pari, favorita in un contesto didattico dalla figura del docente-mentore. Già Vygotskij aveva parlato di una matrice
neurobiologica per lo sviluppo cognitivo e di una matrice culturale. Dalla matrice sociale dipendono anche le “zone
di sviluppo prossimale” cioè la distanza tra il livello attuale di sviluppo e il livello di sviluppo potenziale.
Nell’ottica costruttivista l’apprendimento consiste nel prodursi di rappresentazioni multiple della conoscenza,
promosse dall’adozione di una metodologia fondata sulla collaborazione, sull’autonomia ecc. Ciò implica
l’impiego di srategie e tecniche che promuovano un apprendimento attivo e partecipativo, sviluppando abilità
metacognitive e focalizzando l’attenzione sul processo dell’apprendere piuttosto che sul prodotto. Sul
costruttivismo si basano una serie di presupposti:
-L’enfasi sulla costruzione della conoscenza;
-L’incremento della motivazione;
-La presentazione di compiti autentici, connessi al mondo reale;
-La partecipazione del discente alla selezione dei contenuti;
-L’importanza di attività basate sulla negoziazione interpersonale e sulla cooperazione;
-La valorizzazione delle differenze individuali;
-La realizzazione di itinerari didattici personalizzati.
Sono infatti sollecitate le costruzioni cooperative della conoscenza attraverso attività autentiche. È però nel campo
dell’insegnamento tramite nuove tecnologie educative che il costruttivismo offre il suo maggior contributo alla
didattica delle lingue: l’e-learning (ambiente virtuale di apprendimento su piattaforma) si forma proprio sulla
dimensione sociale e collaborativa.
Apprendimento linguistico e fasce d’età: il processo di acquisizione linguistica, nelle sue fasi, è indipendente dalla
fascia d’età. Negli adulti è, almeno per le prime fasi, più veloce rispetto ai bambini. Secondo Krashen
l’apprendimento linguistico in età adulta è caratterizzato dall’uso più esteso del monitor perché, l’adulto è indotto a
riflettere sul funzionamento della lingua.
Basi neurobiologiche dell’apprendimento linguistico e ipotesi del periodo critico: Per la neurobiologia, ai due
emisferi celebrali sono attribuite funzioni diverse. Le aree deputate al linguaggio sono localizzate nell’emisfero
sinistro, specializzato nei compiti analitici, sequenziali e logici. In quello destro troviamo invece la specializzazione
in compiti olistici, simultanei e analogici come quelli non verbali. L’informazione, viene prima percepita e
decodificata dall’emisfero destro, poi passata all’analisi degli elementi rilevanti dall’ emisfero sinistro e infine
sintetizzata sulla base dell’integrazione dei dati elaborati da entrambe le parti. La comprensione e produzione
linguistica è quindi neurobiologicamente complessa. Alla specializzazione funzionale degli emisferi celebrali è
stata attribuita la perdita di plasticità che impedirebbe di conseguire livelli di padronanza simili a quelli di un
parlante nativo in età adulta. Il processo di lateralizzazione (attribuzione delle diverse funzioni ai due emisferi) si
completa con la pubertà. Varie sono le ipotesi sul periodo critico in cui questa avviene, Penfield e Roberts
collocano intorno ai 9 anni mentre Lenneberg intorno ai 12. Studi successivi parlano invece di più periodi sensibili
in relazione a diverse aree delle lingue:
-Fonologia: età puberale soglia limite per la pronuncia;
-Morfologia e sintassi: adolescenza;
-Lessico e pragmatica: non conoscono aree sensibili.
Dal punto di vista neurologico il presentarsi di diversi periodi sensibili nell’apprendimento di una L2 è stato
correlato alla mielinizzazione dei neuroni che rallenta lo stabilirsi di nuove connessioni neuronali. Alcuni
affermano che gli emisferi cerebrali potrebbero però avere ruoli diversi nei differenti stadi di acquisizione: Danesi
dice che nelle prime fasi di apprendimento della L2 si attiva maggiormente l’emisfero destro, generale.
Ipotesi psicolinguistica: L’ipotesi di un periodo critico è stata messa anche in relazione all’accesso diretto alla GU.
In ambito innatista sono state sostenute tre posizioni sul ruolo della GU nell’apprendimento della L2:
-Possibilità di accesso diretto alla GU di cui vengono usati i principi, mentre i parametri sono fissati sulla base dei
dati della L2 – avviene in età giovane;
-Possibilità di accesso indiretto alla GU, realizzato attraverso i valori dei parametri fissati per la L1 per cui
l’apprendente trasferisce prima questi valori alla sua L1 e sono successivamente quelli relativi alla L2;
-Impossibilità di accesso alla GU. Per apprendere la L2 non si usa la LAD ma altre facoltà cognitive.
Altri fattori connessi all’età dell’apprendente: L’età in cui si realizza l’apprendimento di una L2 rinvia anche a
differenze motivazionali e psicoaffettive. Un basso livello motivazionale può caratterizzare l’apprendimento
infantile dell’italiano L2 come lingua straniera mentre alto può essere per un bambino che si trasferisce in Italia.
Nel caso dello scarso interesse l’approccio didattico si deve fondare sulle attività pratiche come nel Total Physical
Response, metodo degli anni ’70 di James Asher che vedeva il soggetto apprendere la L2 con il coinvolgimento sia
mentale che fisico. Nell’adolescente si realizza invece una trasformazione dei filtri affettivi e molto importante è
l’apprendimento collaborativo. In età adulta la motivazione è solitamente solida ma è anche più probabile uno stato
di ansia per la difficoltà.
Capitolo VI – Riflessione metalinguistica e apprendimento
Riflessione grammaticale, metalinguistica, metacomunicativa: Insegnare la grammatica e insegnare a riflettere sulla
lingua sono la stessa cosa? Vedovelli recentemente ha ribadito l’utilità dei momenti dedicati ad attività di
riflessione sulle strutture formali della lingua: “il testo da solo non può garantire che la competenza interlinguistica
si strutturi in modo equilibrato. Tutte le attività vanno accompagnate da una costante fase di monitoraggio, di
riflessione sulle strutture […] questa fase che potremmo chiamare di riflessione metalinguistica e
metacomunicativa rappresenta un momento ineludibile in ogni equilibrato processo di comunicazione didattica,
finalizzata cioè ad una competenza”. Va quindi ricordato che la riflessione metalinguistica riveste un valore
formativo perché consente di attivare abilità cognitive utili a migliorare le capacità di apprendimento generale.
Due tipi di conoscenza delle regole: Possiamo operare una distinzione tra:
-Conoscenza implicita delle regole si conquista in modo procedutale;
-Conoscenza esplicita delle regole si ottiene attraverso un percorso di istruzione scolastica (è di tipo
dichiarativo).
Bialystok osserva che non si può pensare a una netta dicotomia che oppone la non consapevolezza alla
consapevolezza bensì a un continuum in cui operano tre stadi:
-Conoscenza non analizzata elementi linguistici sono passivamente memorizzati;
-Conoscenza analizzata gli elementi linguistici sono analizzati nei loro componenti e il soggetto è in grado di
coglierne il valore e la funzione nel sistema ma è ancora implicita, cioè il soggetto non ne è consapevole (ha la
conoscenza procedurale ma non dichiarativa);
Piena conoscenza è data dalla capacità di riconoscere le regole negli elementi linguistici e di verbalizzarle.
È pur vero che la piena consapevolezza delle regole in una L2 non è condizione sufficiente per acquisire la capacità
di usare quelle strutture.
Le grammatiche: tipologie, scopi, destinatari: Il termine grammatica deriva dal greco grammatiké tékne ossia arte,
tecnica della scrittura dei caratteri alfabetici; sviluppò già nell’età classica il significato più esteso di ‘insieme di
regole che governano l’uso corretto della lingua’ (perlopiù intesa come scritta). Attualmente può indicare un
oggetto che contiene una descrizione delle regole, oppure può designare il sistema astratto di regole che è alla base
del funzionamento di una lingua. Se tutte le lingue possiedono una grammatica in quest’ultimo senso, non tutte
hanno messo per iscritto tali regole. Classificandole abbiamo:
Le grammatiche teoriche cercano di descrivere i fatti linguistici alla luce di una teoria di riferimento. Lo scopo è
quello di dimostrare la validità della teoria sottostante.
-Le grammatiche descrittive sono strumenti di consultazione per il linguista e per il lettore colto non specialista.
È richiesta l’esaustività e si possono appoggiare a una o più teorie linguistiche (la teoria è lo strumento e non il
fine) e si propone di descrivere anche quei settori che nessuna teoria è riuscita a spiegare. Esempi importanti sono
la Grande grammatica italiana di consultazione del Renzi e la Grammatica italiana. Italiano comune e lingua
letteraria di Serianni. Queste sono strumenti di consultazione indispensabili per un docente di italiano L2. I tre
volumi del Renzi si fondano sul modello teorico generativo, depurato dai tecnicismi e integrato dagli apporti della
linguistica del 900, dalla pragmatica alla sociolinguistica. La Grammatica del Renzi ha inoltre un andamento
discente, dal tutto alla parte. Quella di Serianni invece si propone come strumento di consultazione ampio ed
esaustivo, senza un ancoraggio di particolari teorie linguistiche, fa ricorso ad un ordinamento ascendente, dal
piccolo al grande e punta a descrivere l’italiano comune. A differenza del Renzi, per Serianni, il grammatico non
deve rinunciare alla blanda normatività, ad interpretare cioè il sentimento della lingua percepito dai parlanti. Non si
tratta di una normatività in senso stretto però perché i giudizi sono accompagnati da considerazioni sugli ambiti di
impiego: è sempre evidente l’attenzione per la variabilità sociale, contestuale e geografica della lingua e il tentativo
di evidenziare il fatto che l’italiano contemporaneo è ancora saldamente ancorato a strutture provenienti dalla
secolare tradizione di uso scritto e letterario della lingua.
-Le grammatiche didattiche o pedagogiche Sono quelle che hanno lo scopo di facilitare l’apprendimento della L1
o L2. Non sono esaustive, selezionano preliminarmente i fatti linguistici oggetto di analisi e sono eclettiche, cioè
l’autore è libero di attingere da più teorie. Possono considerarsi tali anche le sezioni grammaticali inserite in un
manuale di italiano. Possiamo distinguere tra testi scritti in lingue diverse dall’italiano e concepiti per un tipo
particolare di pubblico (es. anglofono, ispanico) o testi scritti in italiano destinati ad un pubblico generico. Le
grammatiche didattiche costituiscono strumenti di consultazione per l’apprendente e il loro particolare scopo di
praticità e operatività, rendono accettabili nelle grammatiche didattiche anche l’uso di spiegazioni non motivate
teoricamente.
Che ruolo occupano in questa classificazione le grammatiche di italiano per stranieri? Questo titolo è stato
utilizzato dal ‘500 per designare i manuali per l’apprendimento della lingua italiana. Si tratta di strumenti che
condividono alcune caratteristiche delle grammatiche descrittive (per es. l’esaustività) e alcune altre delle
grammatiche didattiche (per es. la funzione pratica, la chiarezza del linguaggio ecc.). Vediamo quali sono le
caratteristiche di una GIS (Grammatica di Italiano per Stranieri):
- Dovrebbe rinunciare il più possibile all’apparato di nozioni di grammatica generale per sfoltire i tecnicismi e
aumentare la leggibilità del testo;
- Non dovrebbe dare mai nulla per scontato, l’autore deve fornire spesso spiegazioni minuziose e superficiali per un
madrelingua;
- L’approccio di una GIS dovrebbe variare a seconda dei fenomeni trattati. Ad esempio nei settori più “rigidi” della
lingua deve riportare meno esempi rispetto ai settori meno regolari.
La riflessione metalinguistica nell’insegnamento/apprendimento: L’insegnamento può avvenire attraverso un
processo induttivo o deduttivo. L’insegnamento tradizionale della grammatica avviene secondo uno schema
deduttivo che va dal particolare al generale e che prevede grosso modo alcune fasi: presentazione della regola;
memorizzazione della regola ed infine verifica della regola e delle sue eccezioni attraverso lo svolgimento di
esercizi. A seguito dei dibattiti sul rinnovamento della pedagogia linguistica negli anni ’70 del 900 si è cominciato
a sperimentare un metodo induttivo, cioè dal particolare (le parole, le frasi, i testi) al generale (le regole e le
eccezioni). Questo metodo vede l’apprendente protagonista di un percorso alla scoperta della regola che stimola la
sua memoria e la sua attitudine all’osservazione ma soprattutto crea, per la didattica delle lingue, una condizione
simile a quella “naturale”. Questo processo non può essere però sempre attivato (es. bambini piccoli, adulti poco
“attivi”). Proviamo ora ad analizzare il ruolo della riflessione metalinguistica in relazione al metodo di
insegnamento:
- Un primo colpo alla centralità della grammatica fu inflitto sulla fine dell’800 dalla diffusione del metodo naturale
e dei metodi diretti, che si basavano sul primato della lingua parlata escludendo di fatto la riflessione sulle forme
linguistiche;
- Analogamente marginalizzata la riflessione metalinguistica nel metodo comportamentista audio-orale che aveva
come obiettivo la fissazione mnemonica di abitudini linguistiche, non di regole.
- Una riaffermazione del ruolo della grammatica di ebbe con i principi della linguistica contrastiva di Robert Lado
(concetto di transfer positivo/negativo tra L1 e L2);
- Lo sviluppo degli approcci comunicativi ha contribuito a fissare alcuni criteri che determinano il ruolo della
riflessione metalinguistica nel processo di insegnamento/apprendimento della lingua. Si basano sui seguenti
concetti cardine: ridefinizione del modello di competenza linguistica che include anche l’ambito sociolinguistico e
pragmatico, subordinazione delle forme a favore degli obiettivi funzionali e tener conto di esigenze
extralinguistiche;
- Nel Natural approach, la riflessione sulle forme grammaticali si manifesta sotto l’aspetto, comunque marginale,
del monitor.
- Le più recenti tendenze della linguistica educativa, integrano le acquisizioni del metodo nozional-funzionale,
riaffermando su nuove basi l’importanza della riflessione metalinguistica (maturate dopo la pubblicazione del QCE,
che sottolinea l’importanza di stimolare la riflessione metacomunicativa).
Il peso della riflessione metalinguistica è differenza a seconda di altre variabili, come il contesto di apprendimento
o l’età ed il grado di istruzione dell’apprendente come pure lo stile di apprendimento o la correlazione coi bisogni
dell’apprendente e il suo contesto di insegnamento. La riflessione grammaticale risulta più utile, ad esempio,
nell’insegnamento dell’italiano come lingua straniera.
Capitolo IX – Progettazione e programmazione didattica
La progettazione dell’azione didattica è una componente essenziale dell’insegnamento che deve essere attuata
secondo criteri metodologicamente fondati e deve estendersi all’intero percorso di insegnamento e non ad una sola
lezione. La ricerca in questo senso ha dato vita alla costruzione di metodi idonei, prima basati sulla selezione dei
contenuti e, in tempi più recenti, a modelli di progettazione didattica sistematici e organici che tengono conto di più
variabili (tempo, contesto, risorse ecc.). La definizione del sillabo, cioè la specificazione e la sequenziazione dei
contenuti di insegnamento, costituisce solo una parte dell’attività di progettazione didattica. In altre parole
progettare un percorso di apprendimento significa non solo stabilire cosa insegnare ma anche come farlo e a quale
scopo. Progettare e programmare sono per alcuni autori sinonimi mentre per altri si riferiscono a diversi aspetti
dell’azione progettuale. Distinguiamo quindi tra:
- Macroprogettazione (planning) primo livello;
- Programmazione la sola attività di definizione delle finalità formative e degli obiettivi di apprendimento (POF);
- Microprogettazione (design) si scende nel dettaglio, vengono precisati materiali, tecniche, procedure ecc.
(consigli di classe, incontri periodici).
Scopi e mete della progettazione didattica: L’elaborazione di un progetto didattico si realizza entro un quadro di
riferimento teorico-metodologico che fornisce criteri e strumenti per la strutturazione di itinerari congruenti con un
modello di lingua di apprendimento, rispondenti alle esigenze degli utenti ma anche entro un sistema di valori
sociali. Nell’insegnamento linguistico le finalità di un progetto didattico assumono una valenza educativa. Chi
apprende una lingua trasforma il proprio potenziale cognitivo, certi aspetti della propria personalità e atteggiamenti
nei confronti del mondo. Il QCE indica espressamente le mete da conseguire con l’insegnamento delle lingue, le
quali consistono nello sviluppo del plurilinguismo e del pluriculturalismo del cittadino europeo intesi come una
competenza complessa e composita che consenta di costruire una cittadinanza democratica a livello europeo (non
coincide quindi con il multilinguismo). Ciò implica una revisione degli scopi dell’azione formativa che consiste
nello sviluppo a lungo termine di diverse abilità linguistiche che corrispondono a percorsi opzionali da scegliere
nell’ambito dell’offerta formativa. In ambito scolastico, alle finalità indicate dal QCE si affiancano quelle previste
dai documenti ministeriali. Le ultime indicazioni per il curricolo del MPI considerano mete dell’apprendimento
linguistico la crescita psico-sociale dell’individuo, l’esercizio di una “cittadinanza attiva”; individuano cioè nella
valorizzazione della diversità e dell’identità linguisitca-culturale una delle finalità da perseguire. In questo senso la
presenza di alunni con cittadinanza non italiana è un’opportunità per tutto ed il rispetto dell’unicità del singolo uno
degli scopi.
Modelli di progettazione didattica: Nell’ambito della ricerca sui metodi per l’organizzazione di corsi e di sistemi
educativi, sono stati definiti una pluralità di modelli per la progettazione di percorsi didattici. Al docente è offerta
quindi una gamma di possibilità, ciascuna delle quali presenta vantaggi e svantaggi. Sebbene ogni modello si
caratterizzi in base al quadro teorico di riferimento, è possibile ricondurre le diverse metodologie a due matrici:
- Quella con andamento base lineare si fonda su una concezione dell’apprendimento come processo di
accumulazione progressiva di conoscenze e abilità da sviluppare attraverso il conseguimento di obiettivi
tassonomici. Nella progettazione per obiettivi, il percorso didattico ha una struttura sequenziale e segmentabile.
- Quella con struttura reticolare considera l’apprendimento come un processo di scoperta, costruzione personale
della conoscenza e negoziazione di significati che si realizza percorrendo itinerari costellati da nodi interconnessi,
raggiungibili da ciascun apprendente seguendo tragitti diversi.
La progettazione per obiettivi: Costituisce il modello di pianificazione dell’azione didattica maggiormente
utilizzato. Introdotto in Italia negli anni ’70 del secolo scorso è diventato sinonimo di progettazione didattica. Alla
matrice comportamentista è da attribuire la concezione lineare cumulativa del percorso di apprendimento che
procede dal semplice al complesso e l’insistenza sugli aspetti osservabili e misurabili degli obiettivi. L’azione
progettuale consiste nella definizione degli obiettivi da raggiungere seguendo un itinerario didattico e da formulare
in termini di comportamenti osservabili, in modo che il loro conseguimento possa essere verificato. Ogni obiettivo
deve essere quindi operazionalizzato cioè descritto come una prestazione realizzata ad un livello che l’alunno deve
essere in grado di esibire in certe condizioni e impiegando particolari contenuti:
- Cosa lo studente deve essere in grado di fare;
- Avendo a disposizione che cosa;
- A quale grado di accuratezza.
Quest’ultimo aspetto rinvia all’adozione di un criterio di misurazione che permetta di valutare se l’apprendimento
ha avuto esiti positivi. Gli obiettivi devono essere disaggregabili in sotto-obiettivi, cioè in capacità parziali che
consentono di acquisirne di più complesse. Sulla base di questa concezione gerarchica è possibile articolare il
percorso di insegnamento in obiettivi generali, intermedi e finali. I primi saranno conseguiti al termine di un corso
di studi e da questi deriveranno quelli specifici (di un anno scolastici, di un corso) che si articolano in obiettivi
finali del percorso, conseguibili attraverso una sequenza di obiettivi intermedi, che possono corrispondere anche a
quelli delle singole unità didattiche. Dalla definizione degli obiettivi dipendono le scelte dei contenuti, cioè gli
elementi linguistici da inserire nel sillabo e la loro sequenziazione. Il progetto di dattico si completa con
indicazioni sulle strategie, le tecniche, i materiali e i sussidi didattici da utilizzare per la realizzazione del corso e un
sistema di verifica che consenta di accertare il conseguimento degli obiettivi fissati. Tale sistema prevede criteri di
misurazione per correggere gli errori e ridefinire gli obiettivi procedere cioè alla revisione del progetto e
all’elaborazione di strategie di recupero. Il ruolo della verifica è quindi quello di monitorare la realizzazione del
progetto in modo da poter intervenire per ridurre la distanza tra ciò che è stato previsto e ciò che si è ottenuto. Il
feed back riguarda anche l’operato dell’insegnante. Si deve alla visione sistemica del progetto di insegnamento la
diffusione della progettazione per obiettivi che è sopravvissuta al superamento del quadro teorico iniziale ed è stata
accolta, seppur con qualche riserva, dall’approccio cognitivista. Le revisioni riguardano l’individuazione degli
obiettivi che ora sono meno rigide. Ad oggi gli obiettivi si definiscono competenze, cioè capacità di usare
consapevolmente ed efficacemente conoscenze, abilità, motivazioni e atteggiamenti per effettuare prestazioni al
conseguimento di uno scopo. La nozione, non si identifica con la sola performance, ma si estende alla padronanza
dei processi mentali che sono alla base dell’esecuzione e implica anche la dimensione affettiva. La formulazione
degli obiettivi di apprendimento in termini di competenza è ribadita dal QCE che offre una serie di descrittori della
competenza linguistica-comunicativa sulla base dei quali possono essere accertati e certificati i livelli di
competenza, nonché formulati gli obiettivi di apprendimento. Gli obiettivi possono essere formulati in termini di:
- Sviluppo di competenze generali dell’apprendente;
- Estensione e diversificazione della competenza linguistico-comunicativa con lo sviluppo di uno o più aspetti di
questa competenza;
- Attività linguistiche specifiche;
- Operazioni funzionali a un dominio, che consentono di interagire in una particolare sfera di azione;
- Compiti per la realizzazione dei quali è necessario sviluppare delle strategie di comunicazione.
La progettazione per sfondi integratori: Un modello diffusosi dagli anni ’80 è quello per “sfondi integratori”.
Impiegato nella scuola dell’infanzia, si fonda sul principio gestaltico secondo il quale le nostre percezioni non
costituiscono un aggregato frammentario di elementi, bensì un’unità strutturata, in cui il rapporto tra le diverse parti
è colto unitariamente in relazione ad un contesto. Le diverse esperienze di apprendimento possono assumere
significato diverso all’interno di un quadro di riferimento unitario, uno sfondo che le configuri come un complesso
strutturato di attività. Lo sfondo integratore fornisce dunque un contesto, che permette di vedere la realtà esterna in
una determinata prospettiva e di metterla in relazione con la realtà interna del soggetto apprendente, lo sfondo ha
una valenza motivazionale, stimolando il bambino alla scoperta. Si ricorre a tre tipi principali di sfondi:
- Metaforico introduce una nuova prospettiva con una metafora;
- Narrativo consiste in una storia entro la quale si collocano e acquisiscono significato diverso i compiti di
apprendimento;
- Simulazione di contesti consiste nella riproduzione in scala di un ambiente particolare attraverso cui creare
connessioni tra le diverse attività, riconducendolo ad un quadro di riferimento spaziale.
La selezione del tipo di sfondo è affiancata nell’attività di progettazione dalla definizione dello sfondo istituzionale,
cioè dalla specificazione dell’organizzazione degli spazi, delle modalità, dei tempi e dei compiti da impiegare.
Nella progettazione per sfondi integratori gli obiettivi sono individuati in relazione a diversi campi di esperienza
che coinvolgono attivamente il bambino, lasciandolo libero di seguire i propri ritmi. L’insieme di percorsi
intrecciati costituisce il nucleo progettuale. La forma di verifica prevista è quella dell’osservazione sistematica dei
bambini nel corso delle attività didattiche.
La progettazione per compiti (task-based): Un altro modello di tipo reticolare è la progettazione per compiti, basato
cioè su attività che implicano l’uso della lingua (es. usare cartina per raggiungere un luogo) e si fonda
sull’assunzione che l’apprendimento sia il risultato del ricorso a meccanismi naturali di acquisizione. Questo
modello considera il compito l’unità di base delle scelte da operare sul piano pedagogico nella pianificazione di
interventi didattici. Un ruolo centrale nella progettazione è rivestito dunque dalla selezione dei compiti che devono
presentare un grado di complessità adeguata al livello di apprendimento degli studenti. La complessità di un
compito deve prendere in considerazione le condizioni in cui il compito deve essere eseguito e il carico cognitivo
richiesto. Sono individuabili tre orientamenti:
1. Ritiene che i compiti debbano essere scelti a partire dalle forme linguistiche il cui impiego risulta necessario per
il completamento del compito;
2. Considera un criterio prioritario la naturalezza, la connessione con il mondo reale;
3. Sostiene l’importanza della naturalezza ma riconosce il ruolo svolto dal focus on form cioè dall’attenzione rivolta
alle forme linguistiche, nello sviluppo dell’interlingua.
Secondo quest’ultima interpretazione la progettazione procede dall’individuazione di una gamma di strutture
linguistiche alla selezione dei compiti che deve tener conto della loro naturalezza e utilità. Un certo spazio deve
essere infatti riservato al piano espressivo, alla riflessione linguistica e allo sviluppo della consapevolezza delle
forme. Progressi sistematici sono sostenuti però anche dalla mobilitazione delle risorse metacognitive dello
studente, il quale deve assumersi la responsabilità del proprio apprendimento. La selezione e implementazione di
singoli compiti non assicura lo sviluppo bilanciato di affluenza, accuratezza e complessità; occorre quindi
prevedere segmenti più ampi di progettazione costituiti da sequenze di compiti attraverso cui può essere promosso
il bilanciamento di queste tre componenti dell’esecuzione. Una volta che i compiti sono selezionati ed è stata ideata
una sequenza, è necessario volgere l’attenzione alle scelte operative relative all’articolazione del compito. La
progettazione dell’intervento didattico deve infatti dettagliare, oltre alle attività connesse all’esecuzione del task
anche quelle da svolgere nelle fasi che lo precedono (Pre-task) e che lo succedono (Post-task). Le pre-task hanno il
compito di rendere il tutto maggiormente produttivo: la fase di preparazione conduce gradualmente allo
svolgimento del compito (task-circle) su cui influiscono le condizioni di esecuzione, che si articola in tre stadi:
- Esecuzione del compito in coppie o gruppi;
- Pianificazione, durante la quale lo studente organizza il resoconto di ciò che ha fatto;
- Presentazione del resoconto alla classe.
Le attività della fase di post task hanno la funzione di guidare lo studente alla riflessione linguistica. Risulta
importante attuare cicli di monitoraggio che implicano l’autocontrollo e l’autovalutazione degli studenti e mirano
ad individuare gli apprendimenti effettivamente realizzati. Sulla base degli esiti dell’attività di verifica si apre una
nuova fase di progettazione.
Fasi della progettazione didattica: Qualunque sia il modello di progettazione didattica adottato, la pianificazione di
un percorso di studi si articola in fasi che non si susseguono rigidamente ma si intersecano, focalizzandosi sui
seguenti aspetti:
- La situazione in cui si realizza il corso;
- I bisogni degli apprendenti;
- La definizione del sillabo, sia esso inteso come l’insieme dei contenuti linguistici e culturali o come le esperienze
di apprendimento da realizzare, oppure come l’insieme dei task da presentare;
- Il sistema di verifica da adottare.
Una volta terminata la pianificazione del percorso, si può volgere l’attenzione all’attività di microprogettazione,
centrata sulla definizione delle modalità operative tramite cui conseguire gli obiettivi individuati. In altri termini, la
fase conclusiva della progettazione è costituita dalla costruzione delle unità didattiche, dei singoli task o dei
learning object, in cui vengono dettagliate le attività da svolgere, i tipi di interazione, le istruzioni da fornire, ecc.
L’analisi della situazione di apprendimento/insegnamento: Sul piano del contesto operativo nel quale si realizza il
corso di italiano, devono essere prese in esame variabili quali:
- Specificità dell’istituzione;
- Durata complessiva dell’intervento didattico;
- Disponibilità di mezzi tecnologici;
- Caratteristiche degli spazi.
Queste variabili sono modificabili mentre quelle legate all’utente sono pre-condizioni da cui la progettazione del
percorso didattico deve muovere come ad esempio l’ambiente socioculturale degli studenti, l’età o il livello di
competenza. A questo proposito il QCE raccomanda che le decisioni relative alla definizione dei percorsi di
apprendimento siano prese in relazione all’educazione linguistica nel suo complesso.
L’analisi dei bisogni: Una delle variabili che viene considerata prioritaria nella progettazione di un percorso
didattico è il bisogno che viene preso come punto di partenza per la specificazione degli obiettivi di apprendimento.
Il “Progetto lingue moderne” considera il bisogno come una nozione dinamica, che cambia nel tempo e nello
spazio. Si possono inoltre distinguere bisogni soggettivi (propri del singolo) e oggettivi (derivati dagli scopi e dalle
mete per cui la lingua viene appresa. Quest’ultima tipologia di bisogno è quella presa in considerazione nella
pianificazione di percorsi di apprendimento. L’identificazione può essere fatta tramite questionari o interviste
dirette. L’analisi dei bisogni può essere condotta a vari livelli di genericità:
- Livello globale situazioni in cui i discenti utilizzeranno la lingua;
- Livello retorico tipi di testi e tipi di discorsi occorrenti nelle situazioni globali;
- Livello grammaticale-retorico le forme impiegate nei testi dei livelli precedenti;
- Livello grammaticale frequenza in cui le forme linguistiche sono usate nei diversi generi dei testi.
I bisogni oggettivi dell’apprendente possono essere correlati alle mete e alle finalità dell’educazione linguistica. Per
bambini ed adolescenti occorrono competenze generali mentre per gli adulti capacità funzionali.
La definizione del sillabo: Per sviluppare le competenze che costituiscono gli obiettivi di apprendimento
individuati tramite l’analisi dei bisogni, l’apprendente dovrà acquisire un insieme di conoscenze e abilità che
consentiranno l’esecuzione di determinate prestazioni linguistiche. L’elenco di tali conoscenze e abilità costituisce
il sillabo del corso. La selezione delle forme linguistiche da far rientrare nel sillabo può essere operata sulla base
delle indicazioni fornite dall’analisi dei bisogni che consente anche di restringere il numero degli elementi da
includere. Dall’analisi dei bisogni possono essere tratte anche indicazioni per la sequenziazione dei contenuti, viene
introdotto prima ciò che risulta maggiormente funzionale ai fini comunicativi nei tipi di situazioni a cui gli studenti
intendono prendere parte. La trattazione degli argomenti non si esaurisce quindi nella loro prima presentazione ma
viene ripresa più volte ritornando su differenti aspetti connessi alle diverse attività e compiti, conferendo al sillabo
un andamento a spirale. Le modalità fin qui descritte sono proprie dei sillabi proposizionali. Nell’ambito di questa
categoria si collocano i sillabi formali (volti al raggiungimento dell’accuratezza nella produzione) e i sillabi
funzionali (che selezionano e sequenziano i contenuti in relazioni alle esigenze linguistiche degli apprendenti).
Oltre a questi troviamo i sillabi proceduali e i sillabi processuali. I primi sono costruiti secondo categorie
linguistiche e le decisioni riguardo i contenuti e l’organizzazione sono in mano all’insegnante mentre nei secondi
l’apprendente è coinvolto nel processo decisionale relativo al corso di lingua.
La verifica degli apprendimenti: Ogni progetto didattico, per essere completo, deve prevedere la definizione degli
strumenti di verifica. Questi possono consistere nella riprogettazione del percorso in cui sono rivisitati obiettivi,
sillabo, materiali, sussidi ecc., nella revisione dei percorsi che conducono ai diversi nuclei progettuali o nella
pianificazione di nuove sequenze di compiti. Le forme di verifica previste variano in relazione al quadro teorico al
quale ciascun modello fa riferimento. Nella progettazione per obiettivi i tipi di prove sono evoluti dal test
standardizzato a quello comunicativo; nella progettazione per sfondi integratori la forma di verifica adottata è
quella del test diffuso (osservazione) e nella progettazione per compiti si ricorre a cicli di monitoraggio attraverso
cui viene effettuata la valutazione di quali forme linguistiche tra quelle presentate, sono diventate intake. Assume
un ruolo sempre maggiore l’autovalutazione.
La progettazione di percorsi di apprendimento on line: L’insegnamento della lingua on line avviene in larga parte
con l’ausilio di strumenti di comunicazione asincrona dove il docente non gestisce in tempo reale l’interazione.
Tutto ciò che avviene in un ambiente di apprendimento virtuale deve quindi essere previsto e predisposto prima
dell’erogazione del corso. Il livello di macroprogettazione non si discosta per molti versi dal precedente; la
specificità della progettazione mediata dalla tecnologie telematiche riguarda:
- La scelta dell’infrastruttura tecnologica legata a possibilità economiche e a caratteristiche che l’ambiente di
apprendimento deve possedere (strumenti);
- Le caratteristiche dell’ambiente di apprendimento che si vuole allestire (interattività);
-L’individuazione delle figure che intervengono nei processi di progettazione, produzione ed erogazione del corso e
i compiti solo assegnati è un lavoro di équipe che coinvolge lo staff di webmaster, il progettista didattico, i
realizzatori dei materiali, l’information broker, il docente, il tutor, il personal trainer;
- Il ruolo della verifica il feed-back può essere usato solo in modo ridotto per la revisione del percorso didattico a
causa delle difficoltà di procedere a correzioni durante l’erogazione.
Capitolo X – Modelli operativi
L’interazione docente-allievo/i con fini di apprendimento/insegnamento delle diverse discipline fa parte della storia
stessa dell’umanità e ci rimanda ad epoche storiche anche lontane, con modelli di intervento a lungo utilizzati in
passato come il dialogo socratico. Molto più praticati sono altri modelli, come la lezione, l’unità didattica e l’unità
di apprendimento, derivati in tempi recenti come applicazione di discipline quali la linguistica, la neurologia ecc.,
altri per elaborati per rispondere ai cambiamenti della stessa realtà di apprendimento (si pensi al modulo). Si sente
la necessità di trovare un quadro di riferimento capace di includere i modelli precedentemente elaborati e si
propone di indicare questo nuovo modello come unità di lavoro, intendendo con questo sia un iperonimo capace di
comprendere ogni forma di apprendimento guidato (la conversazione, la lezione, l’unità didattica) sia un nuovo
concetto che metta a fuoco la condivisione degli sforzi da parte di entrambe le componenti dell’intervento.
Dalla lezione all’unità didattica – L’incontro lezione (I/L): Il termine lezione deriva dal latino lego “leggere” e
rimanda alla lettura (lectio) ex cathedra: lettura di testi “canonici” per una certa tradizione o lectio magistralis in
ambito accademico. Il docente onnisciente legge, interpreta e trasmette il suo sapere a un pubblico indifferenziato. I
manuali di lingua straniera più direttamente derivati dal concetto di “lezione” presentano di solito un percorso a
tappe di tipo deduttivo, che parte dalla regola grammaticale, ne mostra gli esempi, la verifica. Il formato della
lezione è entrato in crisi nel momento in cui si sono affermate nuove teorie sulla lingua e sull’apprendimento. In
realtà la lezione è ancora fortemente radicata in innumerevoli contesti di apprendimento guidato perché
particolarmente congeniale, nell’insegnamento in presenza quando: la classe è un gruppo numeroso, con
competenze omogenee e obiettivi comuni o il docente non è madrelingua oppure si propone di fornire spiegazioni
in maniera strutturata. Caratterizza pure contesti di apprendimento guidato a distanza, nelle videoregistrazioni
piuttosto che online. Il formato lezione presenta vari limiti, specie nella didattica delle lingue moderne realizzata
secondo un approccio comunicativo poiché non può fornire quell’input interattivo fondamentale per lo sviluppo
armonico delle competenze ricettive, produttive, interattive e di mediazione descritte nel QCE. Già a partire dagli
anni ’70, sono fiorite nuove riflessioni sui modelli operativi di progettazione didattica per le lingue moderne e nella
letteratura specialistica del settore è scomparso il termine lezione come incontro interattivo fra docente e allievi in
classe, nell’ambito di un progetto formativo. È possibile però recuperare in senso di unità di tempo la definizione
“incontro/lezione” (I/L).
L’unità didattica (UD): Stumpf elabora questa teoria a partire dal fenomeno della percezione. Secondo Stumpf la
mente umana interpreta la realtà secondo principi “olistici” determinati da leggi innate che permettono di percepire
l’ambiente come un insieme, le teorie gestaltiche affermano l’esistenza di processi mentali innati che organizzano
la percezione in unità coerenti che il soggetto individua in base alle loro caratteristiche comuni. Una dimostrazione
di come operi il nostro cervello di viene data dalle illusioni ottiche. Anche il contatto con i contenuti di una
disciplina di studio potranno essere proposti in maniera più efficace utilizzando appunto un percorso che dalla
globalità passi all’analisi e si concluda poi con la sintesi, ovvero con le fasi fondamentali del modello di “unità
didattica” (UD) elaborato da Freddi dalla metà degli anni ’70 in poi. Questa sequenza di frasi si articola in un
periodo di 4-6 ore e comprende incontri/lezioni in classe, oltre che lo studio individuale ed il coinvolgimento di
attività extrascolastiche. Nell’arco di queste 4-6 ore, il docente mette a fuoco uno o più obiettivi glottodidattici e
insieme agli studenti punta al loro raggiungimento; al termine del percorso dovrebbe essere visibile la
“trasformazione”. L’UD si articolerà dunque nelle tre fasi fondamentali di un approccio olistico e induttivo al testo
e ai materiali didattici proposti dal docente alla classe:
-La globalità comprensione generale;
-L’analisiesplorazione del testo e delle sue caratteristiche;
-La sintesi reimpiego delle strutture e dei contenuti del testo allo scopo di fissare e riutilizzare creativamente i
contenuti linguistiche analizzati;
Queste tre fasi sono precedute da una fase di iniziale motivazione e seguite dalle fasi finali di riflessione e
controllo:
- Motivazione si forniscono le parole-chiave, si prepara l’incontro con il testo;
- Riflessione si sistematizzano i fenomeni incontrati;
- Controllo la verifica; il docente passa in caso positivo all’UD successiva altrimenti si propongono delle attività
di rinforzo o di recupero generale.
Danesi giustifica questo percorso anche in base ai processi mentali legati alla comprensione e alla produzione del
linguaggio e riprende i presupposti neurolinguistici di quella che viene da lui definita “UD bimodale”. Secondo
Danesi l’emisfero destro percepisce il contesto del messaggio mentre il sinistro i singoli elementi. Quando il
soggetto entra in contatto con uno stimolo nuovo attiva inizialmente le modalità dell’emisfero destro, poi quelle del
sinistro e infine arriva una fase intermodale. Questa sequenza corrisponde al principio di “bidirezionalità
emisferica” che dovrebbe guidare anche le attività orientate all’apprendimento linguistico. Anche secondo Balboni
l’UD si basa su un armonico gioco di rimandi tra i due emisferi. La sequenza “globalità-analisi-sintesi” è
funzionale alle necessità dei docenti di cui rispecchia l’esigenza di un ordine logico per le attività da realizzare in
classe. Per questo l’UD si è rivelata subito un modello potente che ha però dei limiti poiché riflette soprattutto la
prospettiva del docente, ha una rigida applicazione e non è applicabile in caso di insegnamento con presenze
oscillate (per es. corsi lavorativi). Nonostante questi limiti mette a fuoco la necessità di tener conto dei processi
mentali implicati nell’acquisizione linguistica, rende conto del fatto che l’acquisizione della L2 non avviene solo
nell’incontro con il docente, ma ha bisogno anche di attività di lavoro autonomo e extrascolastico e contiene in se
l’idea cardine del “carico di lavoro documentabile” formalizzata poi nei CFU.
L’unità didattica centrata sul testo (UDt): Nel suo saggio sull’italiano L2 nella prospettiva del QCE Vedovelli parla
anche di modelli operativi, in particolare rivede l’UD dando particolare rilievo alla funzione e alla centralità del
testo che rappresenta il nodo centrale dell’UDt finalizzata allo sviluppo di competenze linguistiche in L2. Il testo (o
input testuale) offre modelli di lingua, esempi d’uso, variabili sociolinguistiche ecc. Ma l’UDt non si risolve
nell’incontro con il testo: secondo Vedovelli questo modello operativo di intervento didattico costituisce una
“sequenza organicamente coesa di operazioni e funzioni, strutturata in flussi di interazioni sociali e comunicative
fra studenti e docente”. Ogni messaggio che si produce in classe entra a far parte di una rete di interazioni orali e
scritte che rappresentano per gli allievi terreno di coltura per lo sviluppo della propria interlingua e per il docente
un continuo motivo di revisione del proprio agire didattico. Dalla contestualizzazione dell’input alla realizzazione
dell’output comunicativo: l’UDt ha questi due punti fermi ma lascia ampia libertà per la realizzazione di quella rete
logica di interazioni comunicative che dà vita alla pratica didattica. Si tratta di una prospettiva testuale e interattiva
che riflette la centralità del testo nel QCE, dà risalto all’input e all’interazione didattica, considerando la classe un
“microcosmo di socialità”.
L’unità di apprendimento (UdA): Nel 2002 Balboni ha rivisto la sua idea di “unità didattica” in una nuova
prospettiva che comprende al suo interno una rete di più “unità di apprendimento” (o unità matetiche). In tal modo
il punto di vista del docente cede spazio ai processi mentali degli allievi, che avvengono in maniera non
sequenziale ma secondo percorsi “a rete”. L’unità minima qui individuata non è tanto quella didattica nella 4-5/6-8
ore dell’UD quanto piuttosto quella “di apprendimento” che può durate da pochi minuti ad un ora. Sono rilevanti la
dimensione neurolinguistica e psicolinguistica. Gli studenti affrontano i nuovi testi e i nuovi compiti proposti dal
docente nell’UD con la propria personalità, le proprie esperienze. Attraverso le attività in classe, si attivano quelle
unità di apprendimento che costituiscono i fenomeni mentali del processo che ogni studente realizza a modo
proprio. Le attività di analisi-sintesi- riflessione guideranno queste UdA verso la trasformazione dell’input in intake
e quindi in nuova competenza. Il docente deve accettare il fatto che queste non sempre le unità si attivano secondo
la sequenza prevista, lui può stimolarle, collegarle tra loro ma la rigida sequenzialità del modello UD può essere
superata se lui tiene conto dei processi che possono realizzarsi nella mente dei propri studenti sotto forma di UdA.
Il modello deterministico dell’UD viene sostituito dal modello non deterministico dell’UdA, in cui una serie di
variabili è legata al docente ma sono determinanti anche i fattori individuali degli apprendenti. Si tratta di un
modello più flessibile.
Il Learning Object (LO): In linea con le teorie sull’apprendimento di stampo costruttivista, sono state esplorate le
possibilità offerte dall’era digitale anche in termini di progettazione didattica. Uno dei filoni di ricerca riguarda il
concetto di Reusable Learning Object. L’idea e la definizione di Learnig Object (LO) nasce nel campo della
programmazione informatica, basata su componenti (“object”) indipendenti l’una dall’altra che possono essere
riassemblate in modo diverso e riutilizzare in contesti nuovi, secondo nuove esigenze di apprendimento. Wiley
definisce il LO come ogni risorsa digitale per l’apprendimento composta da un certo numero di pagine web che
combinano testi, immagini e altri media audiovisivi al fine di erogare contenuti formativi. Si tratta di una risorsa
didattica:
- Modulare, cioè autonoma;
- Digitale, cioè erogabile a distanza;
- Condivisibile, cioè utilizzabile in più piattaforme;
- Reperibile in rete;
- Riutilizzabile.
In altre parole, indipendenti l’uno dall’altro, il LO possono essere utilizzati in contesti diversi per scopi diversi. Un
LO deve poter essere indipendente, modellato sulle esigenze di chi lo utilizza, fornire solo ciò che serve e garantire
un feed back in base alle risposte dell’utente. Dal punto di vista dei tempi di utilizzazione, un LO dovrebbe essere
progettato per impiegare il soggetto per un attività anche piuttosto breve. Il grande vantaggio è che più LO,
collegati tra loro secondo sequenze diverse, permettono percorsi di apprendimento personalizzati. Nel caso
dell’apprendimento della L2, l’idea di poter scomporre le abilità linguistico-comunicative in elementi discreti si
presta a facili critiche tuttavia rappresenta un utile sussidio adatto a trasformarsi in una UdA basata sulle risorse
offerte dalla rete telematica.
Il modulo: Dalla fine del Ventesimo secolo, in ambito scolastico emerge un nuovo principio teorico-operativo:
quello del “modulo” (da modus, misura) per il quale si intende un percorso tematicamente organico che può
riguardare un periodo o una corrente di pensiero accomunati da determinati eventi o caratteristiche (“La storia
medievale”); può riferirsi ad un argomento visto in maniera interdisciplinare (“La donna nel mondo greco”) in
ambito scientifico-professionale (“Il ritratto ad olio”). Secondo Balboni è più difficile definire il modulo di
discipline non segmentabili, basate sulla progressione. Nonostante questo, l’esigenza di individuare percorsi
relativamente brevi, compatti, raccordabili ad altri, si applica anche all’insegnamento/apprendimento della lingua
straniera (“l’inglese per il turismo” “l’italiano per badanti”). La didattica per moduli permette inoltre di richiamare
nuovi e vecchi pubblici di apprendenti. Rispetto alla lezione, all’UD e al curriculo, il modulo:
- È autonomo, una sezione autosufficiente di un insieme di contenuti;
- È flessibile;
- È raccordabile, la successione fra moduli può essere obbligata o opzionale;
- È complesso;
- È valutabile, nel suo complesso e nelle sue parti in modo da essere accreditato.
L’unità di lavoro (UdL): Roche parla di una suddivisione della lezione di lingua o unità didattica in cinque
momenti sequenziali:
1. Attivazione/organizzazione preventiva/introduzione;
2. Differenziazione dei temi si affronta un tema mediante testo;
3. Differenziazione delle strutture i risultati ottenuti dall’analisi del testo vengono recuperati e approfonditi in
maniera sistematica. Il docente porta esempi, guida l’apprendimento;
4. Ampliamento/espansione gli argomenti trattati vengono ripresi a partire da un testo più difficile o con compiti
più complessi, per esempio nel lavoro per progetto. Importante è l’interazione tra pari.
5. Integrazione/riflessione.
Viste le nuove realtà di apprendimento guidato formale ed informale è necessario individuare un termine che
permetta di indicare in maniera chiara il fatto che non è possibile scindere i fenomeni
dell’insegnamento/apprendimento linguistico e preferire l’idea di un unità di lavoro (UdL) che permette di indicare
una pluralità di casi concreti e corrisponde meglio ad una progettazione logica e finalizzata. L’espressione unità di
lavoro non è nuova, si usa in campo informatico per indicare una sequenza recuperabile di operazioni all’interno di
un processo applicativo. Sia questa accezione che l’idea di un lavoro condiviso che metta in evidenza come
un’operazione di questo tipo non può essere portata avanti se non da entrambi i principali soggetti interessati come
pure l’idea di lavoro inteso come sinonimo di sforzo e soddisfazione ci fa essere a favore di questa nuova
definizione.
A. UdL come iperonimo di UD, UD bimodale, UdA e UDt. Vedere UdL come “micropercorso di apprendimento
guidato;
B. UdL come lavoro condiviso implicita idea di negoziazione degli obiettivi e dei modi per raggiungerli;
C. UdL come percorso unitario e in sé concluso si tratta di un dispositivo funzionale alla realizzazione di un
esperienza formativa autoconsistente, documentabile e certificata.
D. UdL come realizzazione progettuale dovrebbe servire a rendere conto del modo in cui i principi teorici
sull’apprendimento/insegnamento della L2 si traducono in termini di progettazione e realizzazione delle attività. Il
docente dovrà selezionare le opzioni tra cui scegliere adeguandole al contesto. Di questa dimensione fanno aprte i
formati didattica, la gestione della classe, i testi, l’approccio, l’organizzazione, il controllo ecc.
E. UdL come valorizzazione dell’apprendimento guidato ha lo scopo di tradurre in pratica la differenza tra
apprendimento spontaneo e guidato nell’accelerare i processi di apprendimento della L2. Il docente e gli studenti
sanno che a fare la differenza sono: l’incontro con il testo, il percorso induttivo guidato dal docente, il valore dato
ai bisogni dei discenti e la progettazione dell’UdL come tappa del curricolo finalizzata al raggiungimento di
competenze valutabili, accreditabili e spendibili.
UdL in più formati: Per rispondere alla varietà di formati e contesti in cui può realizzarsi il micropercorso di
apprendimento/insegnamento che corrisponde al concetto di UdL (intesa come tappa del macropercorso curricolo)
è possibile prevedere la sua realizzazione almeno in tre formati basati sull’interazione fra docente e allievi:
I. Il formato INCONTRO/LEZIONE
II. Il formato dell’UD: 2-3 incontri/lezione raccordati da un progetto e da una serie logicamente organizzata di
attività;
III. Il formato MODULO: organizzato in più UD unite tematicamente.
Il formato in cui si realizza l’UdL minima è quello dell’I/L, per dare senso alla quale il docente deve porsi degli
obiettivi limitati ma raggiungibili tenendo presenti le diverse variabili che influiscono sui processi di
apprendimento: i partecipanti, il contesto, gli scopi. Dovrà inoltre realizzare un dettagliato piano lezione. Più IL
possono aggregarsi in una UD: si tratta di corrispondenza tra UD e UdL, come parti di un percorso strutturato in
UD o M. Più UD possono aggregarsi in M: in questo caso l’unità progettuale si riferisce al modulo, che verrà a
rappresentare l’UdL massima. UdL in tre fasi: Per garantire l’unità logica dell’UdL e la sua possibilità di
valutazione è utile l’organizzazione in tre momenti sequenziali (o fasi):
- Fase di INTRODUZIONE;
- Fase di SVOLGIMENTO;
- Fase di CONCLUSIONE.
L’inizio di ognuno di questi percorsi si realizza con tecniche per accentuare o creare motivazione mentre la fine alle
attività legate all’output con controllo formale o informale. Questo filo organizzativo non esclude però la
dimensione non sequenziale dell’apprendimento, che si realizza in quelle “molecole” o “unità minime di
apprendimento” arrivate nei processi mentali degli studenti durante una seduta, un’attività, un LO. Prendere atto di
questa reticolarità dell’acquisizione della L2 porta a considerare la fase intermedia dell’UdL con un’attenzione
maggiore: se l’inizio e la fine del percorso vedono in primo piano il docente, il resto dell’UdL è in mano agli
apprendenti. Il docente sviluppa la sua “agenda nascosta”. Nonostante i limiti, un LO può considerarsi l’UdL
minima per l’apprendimento con supporto tecnologico costruita in formato digitale per uno specifico obiettivo
matetico. I tempi e il fatto di poter costruire una tappa di un percorso individuale di apprendimento ci portano a
considerare il LO speculare rispetto all’UdA rendendolo pare di quella rete di attività individuali che rappresentano
l’impalcatura a cui si aggancia l’insegnamento/apprendimento interattivo e guidato.
Capitolo XI – Comunicazione didattica e gestione della classe
La densità comunicativa nella classe L2: Le interazioni che avvengono nel contesto della classe rappresentano un
microcosmo di socialità con funzioni e regole di comportamento precise. Una prima questione riguarda
l’organizzazione dei flussi di parlato: si può infatti considerare l’interazione in classe come un insieme di “relazioni
potenziali” che possono determinare una diversa “densità comunicativa” fra gli interlocutori. A livello qualitativo si
possono alternare nella classe momenti in interazione asimmetrica e momenti di interazione tra pari o con tipi di
asimmetria diversi. A livello quantitativo si possono verificare tempi diversi di gestione dei turni di parola: il
docente può monopolizzare il temo disponibile oppure diventare un attento “gestore”. Secondo Castellano la
lezione segue tre modelli:
- A stella lezione frontale, monologo con presa di parola degli studenti non libera;
- A reticolo interazione collettiva con presa di parola libera da parte di docente e studenti;
- A isolotti lavori di gruppo, docente risorsa solo su richiesta.
Come illustra Vedovelli, si possono calcolare le probabilità che gli interlocutori hanno di prendere la parola
applicando a questi modelli una formula matematica che tiene conto di tre componenti:
- n = numero dei soggetti coinvolti nell’interazione
- Na = numero dei nodi comunicativi (contatti) attuati realmente;
- N = numero dei nodi comunicativi (contatti) potenziali;
- D = densità comunicativa
𝑁 =𝑛 ∙ (𝑛−1)
2 𝐷 =
100 ∙ 𝑁𝑎
𝑁 %
La densità comunicativa dipende anche dal formato didattico scelto dal docente in base ai compiti comunicativi e
alle tecniche didattiche che intende proporre agli studenti.
L’interazione nella classe di L2 secondo i diversi approcci glottodidattici: Il tipo di interazione in classe di L2
cambia anche in base all’approccio metodologico adottato dal docente. Nel metodo grammaticale-traduttivo
l’oralità è legata soprattutto alla lettura del testo scritto e alla traduzione della L1 alla L2, rimandando l’uso della
L2 in classe al momento del completo possesso delle strutture della lingua. Al contrario, nel metodo diretto
l’esposizione alla lingua è preponderante e caratterizzata da un input non modificato: il docente si rivolge sempre in
L2. Il metodo audio-orale prevede una iperesposizione degli studenti alla L2 orale, ma manca l’interazione in L2. Il
parlato ha ruoli diversi e talvolta opposti nei vari approcci definiti “umanistico-affettivi”. Nel Silent Way il
docente tende a stare in disparte, la Suggestopedia, al contrario, punta molto sul potere suggestivo della voce del
docente. Il metodo Total Ohysical Response utilizza l’input sonoro del docente come filo di collegamento per
l’apprendimento: gli ordini verbali in L2 traducono infatti in azione fisiche degli studenti, codici verbali e non
verbali si legano. Nel Community Language Learning il docente assume le vesti del consulente e ricorre in
alternanza alla L1 o alla L2. Il Natural Approach si concentra sulla modifica dell’input in L2. La “modifica
dell’input” di Krashen mette in relazione l’evoluzione dell’interlingua dell’apprendente con il tipo di input a cui è
esposto. Nei metodi che si ispirano all’approccio comunicativo il parlato del docente assume invece le diverse
sfaccettature che corrispondono ai diversi ruoli che questi piò rivestire nel contatto con gli studenti. Se la L1 può
entrare in gioco quando si tratta di economizzare gli sforzi andrà invece evitata quando si tratta di stimolare l’uso
della L2 nei role play o nelle attività di progettazione. Si potrà inoltre distinguere fra “interazione sociale” e
“interazione pedagogica” Qualunque sia il metodo adottato, l’importanza dell’interazione fra le componenti del
processo glottodidattico è innegabile. Balboni esamina le variabili in gioco utilizzando il modello di analisi del
discorso di Dell Hymes, noto come Speaking Model:
-Setting and Scene la scena culturale
-Partecipants partecipanti e il loro ruoli
- Ends gli scopi e gli esiti di apprendimento che il docente dovrebbe condividere e negoziare con gli allievi,
soprattutto se adulti;
- Act Sequence gli atti comunicativi e il modo in cui danno forma all’interazione tenendo conto soprattutto degli
effetti sui destinatari;
- Key la chiave psicologica del discorso (il tono e il modo del docente);
- Instrumentalities gli strumenti didattici per la classe;
- Norms le norme di interazione sociale che determinano azioni e reazioni comunicative dei partecipanti;
- Genre il genere comunicativo che emerge nell’interazione in classe (monologo, domande, lavori di gruppo
ecc.).
Gli studi sull’interazione in classe: I primi studi sull’interazione in classe risalgono alla seconda metà degli anni ’40
del ventesimo secolo negli Stati Uniti: inizialmente l’interesse aveva lo scopo prescrittivo di individuare i metodi e
le tecniche di insegnamento più produttivi. La ricerca si sviluppa poi soprattutto negli anni ’70 privilegiando un
approccio oggettivo e quantitativo di analisi, basato su una serie di componimenti predefiniti del docente da
rilevare e registrare mediante schede di osservazione. Questi metodi mettevano a fuoco soprattutto il docente:
l’agire del docente veniva infatti suddiviso in una serie di “mosse”. Mediante le categorie individuate dagli studi
ispirati all’analisi del discorso si intendeva così misurare lo stile discorsivo del docente o l’orientamento della
comunicazione didattica. Si affermano negli anni ’80 delle ricerche meno aprioristiche e più descrittive, che
esaminano i diversi ti contesti di apprendimento attraverso accurate trascrizioni del parlato (analizzate a posteriori):
si apre la strada per la prospettiva dell’“analisi della conversazione” di tipo etnometodologico, che parte dal
presupposto che ogni interazione sia co-costruita dai partecipanti in base a norme interazionali implicite o esplicite,
parzialmente o totalmente condivise. L’approccio qualitativo privilegia piuttosto la capacità dell’osservatore di
mettere in relazione i diversi fattori che intervengono nel contesto. Secondo Nunan esistono divergenze tra l’analisi
del discorso e l’analisi della conversazione che si richiama agli studi sociologici dell’etnometodologia: un metodo
di ricerca intermedio che può conciliare i due punti di vista è quello che va sotto il nome di “analisi
dell’interazione”. In Italia gli studi sull’interazione in classe iniziano alla metà degli anni ’70 e proseguono negli
anni seguenti con le ricerche focalizzate sul parlato istituzionale, sull’interazione asimmetrica e sul rapporto tra
interazione in classe e processi di apprendimento degli allievi. Si tratta di studi che comprendono “diversi approcci
disciplinari, tutti caratterizzati dall’osservazione etnografica del contesto e sulla ricerca delle relazioni tra i vari
attori”. Si preferisce un’analisi a posteriori che permetta di ricostruire la prospettiva dei partecipanti, in relazione
alle variabili del contesto ma anche tenendo conto delle norme internazionali intrinseche del parlato e specifiche dei
copioni interazionali delle diverse culture. Questa impostazione sembra molto vicina anche alla prospettiva
semiotica e sociolinguistica del QCE.
Formati didattici e gestione della classe: I formati didattici in cui può realizzarsi l’interazione in classe non sempre
corrispondono alla situazione tradizionale della lezione. Basti pensare alla nuova realtà del tutor on line. Parlate di
interazione didattica dunque ci porta a considerare i formati in cui si realizzano le possibili attività di
apprendimento/insegnamento. Un’ipotesi che dà particolarmente risalto a queste componenti è il cosiddetto
approccio interazionista secondo il quale l’apprendimento è un processo sociale che avviene grazie
all’interazione con strumenti, artefatti e pratiche situate. La chiave dell’apprendimento sta nell’essere coinvolti
nella “costruzione di antefatti” che stimolino la riflessione ed il confronto. Le modalità in cui si realizza oggi la
didattica della L2 varia in base alle componenti quali il canale comunicativo, le tecniche didattiche usate, il numero
degli studenti, i ruoli degli interlocutori, il formato e gli obiettivi. Le diverse combinazioni fra queste componenti
danno origine a una pluralità di interazioni possibili. Gli studi sull’interazione didattica permettono di mettere a
fuoco meglio le problematiche relative alla gestione della classe, un tema centrale per la formazione dei docenti. In
particolare, nella gestione della classe L2 entrano in gioco varie dimensioni:
- Dimensione didattica spazio, tempo, interrogazioni, spiegazioni;
- Dimensione psicologica tecniche direttive/non, gestione dell’errore, filtri affettivi;
- Dimensione sociolinguistica e interazionale interazione tra pari o con il docente;
- Dimensione interlinguistica e interculturale interazioni linguistiche tra parlanti nativi e non, tra culture diverse.
L’importanza della gestione della classe emerge anche dall’EPOSTL (European Language Portfolio for Student
Teachers of Language) un recente documento europeo destinato allo sviluppo delle capacità di autovalutazione dei
docenti di lingue in formazione.
L’interazione istituzionale asimmetrica della classe di L2: Gli studi sulle diverse componenti e prospettive
dell’interazione didattica hanno individuato alcune caratteristiche generali di questa tipica interazione istituzionale
asimmetrica, riscontrabili nei vari formati in cui si realizza l’insegnamento linguistico:
1. Separazione e fissità dei ruoli;
2. Prevalenza del parlato referenziale;
3. Rigidità e strutturazione gerarchica della dislocazione spaziale;
4. Tendenza alla non bidirezionalità;
5. Sistematica violazione delle regole di cortesia;
6. Presenza di un’agenda nascosta nota solo al docente;
7. Dipendenza dalla lingua scritta anche nella lingua orale (lettura ad alta voce, ripetizioni);
8. Importanza della lingua in classe;
9. Uso di microlingue con lessico specifico;
10. Tendenza al registro formale;
11. Specifiche regole nella gestione dei turni da parte del docente;
12. Strutturazione prevedibile in fasi;
13. Correzioni esplicite introdotte dall’interlocutore;
14. Pause di silenzio prescritte o vietate agli studenti;
15. Intonazione marcata con tratti simili a quelli del baby talk;
16. Ricchezza di glosse e parafrasi metatestuali nel parlato del docente;
17. Struttura interazionale in tre mosse (“tripletta”);
18. Carattere di artificiosità dell’interazione.
In una classe L2 in cui il docente impieghi il modello dell’unità di lavoro secondo l’approccio comunicativo
orientato all’azione, saranno infatti meno rilevanti i primi sette punti della lista precedente e il docente cercherà di:
I. Variare i propri ruoli;
II. Utilizzare anche il parlato interazionale nelle attività dedicate alla conversazione spontanea, nei giochi, nei
dibattiti;
III. Favorire flussi di parlato bidirezionale;
IV. Variare la dislocazione spaziale della classe;
V. Gestire in modo equilibrato gli obiettivi didattici e le regole sociali di cortesia;
VI. Rendere la classe partecipe degli obiettivi e delle modalità per raggiungerli;
VII. Promuovere momenti di interazione spontanea.
Non bisogna inoltre dimenticare che alcuni tratti dell’interazione in classe sono culturalmente specifici. Gli studi di
pragmatica transculturale hanno dimostrato infatti che eventi comunicativi analoghi si svolgono in modi diversi
da cultura a cultura per esempio cambia il significato pragmatico attribuito a determinate scelte, cambiano le
strategie comunicative, il modo di formulare richieste e il ruolo del docente.
Atti, mosse e scambi interazionali: Ai britannici John Sinclair e Malcom Coulthard si deve l’individuazione della
struttura “a tripletta” che prevede:
1. Apertura dell’insegnate (initiation): mossa iniziale di elicitazione (mossa up) che mette in luce il tuolo
dominante del docente: può essere una domanda, un passaggio di turno;
2. Risposta dello studente (response): si definisce mossa down visto che lo studente ha un ruolo subalterno;
3. Prosecuzione dell’insegnate (follow-up/feed-back): può essere un rinforzo positive o negativo.
Si incontra soprattutto nei momenti dedicati alla valutazione e nei formati di lezione di tipo frontale. Per la classe di
lingua straniera, secondo Boulima, la lezione può essere scomposta e ricomposta, a scopo di analisi, in una serie di
atti, mosse tra studente e docente. Un atto (act) interazionale è l’unità discorsiva minima dell’interazione didattica.
Uno o più atti danno luogo a una “mossa” (move) interazionale, che rappresenta un’azione o una reazione realizzata
con uno scopo comunicativo preciso. Più mosse organizzate secondo un copione costituiscono uno “scambio”
(exchange) comunicativo. Una serie di scambi costituiscono una sequenza (sequence). Più sequenze costituiscono
una transazione (transaction) interazionale:
ATTO MOSSA SCAMBIO SEQUENZA TRANSAZIONE LEZIONE
Il parlato del docente nella classe di italiano L2: Il ruolo del docente, fulcro dell’apprendimento guidato, è
determinante. Un particolare controllo deve essere esercitato dall’insegnante sul proprio modi di parlare in classe,
cioè una delle forme di input comunicativo a cui l’allievo è esposto. Nonostante tutto non sembra però esistere un
rapporto deterministico fra qualità/quantità dell’input e successo dell’apprendimento: solo l’adozione di un modello
di interazione didattica basato sull’esposizione ad un input modificato e interattivo sembra offrire dei vantaggi,
soprattutto in termini di accelerazione del passaggio da una fase a quella successiva all’interno della sequenza
prevedibile di acquisizione della L2. Dalla negoziazione dell’input scaturirebbe dunque la specificità
dell’apprendimento in contesto guidato rispetto al contesto spontaneo. Ecco come vengono descritte nel “modello
integrato” di Susan Gass le fasi che caratterizzano la trasformazione dell’input in output nella classe di L2:
INPUT Percezione dell’input;
Comprensione dell’input;
Accettazione dell’input (intake);
Integrazione dell’intake OUTPUT
Il parlato del docente di L2 in classe è particolarmente rilevante, tanto da meritare un’attenta riflessione dal punto
di vista sociolinguistico, interazionale ed educativo.
Caratteristiche del parlato: Il parlato è caratterizzato da due tratti fondamentali: fonicità e spontaneità. A differenza
dello scritto, è volatile, non permanente e meno compatto e coeso. Gli studi di tipo sociolinguistico mettono in
relazione le sue caratteristiche formali con il parametro di variazione diamesico, ovvero con il canale comunicativo
orale (rispetto alla lingua trasmessa). In questa prospettiva il parlato è determinato da alcune modalità di
codificazione:
- Lo stretto legame con la situazione e il contesto extralinguistico: riferimenti a conoscenze condivise, codici non
verbali, uso di deittici, suoni non verbali ecc.
-La testualità meno coesa dello scritto, dovuta a frequente frammentarietà formale o tematica: false partenze,
pause, temi sospesi, ripetizioni, riprese, code-mixing ecc.
- Frequente ricordo a segnali discorsivi per organizzare il testo: allora, ecco, senti ecc.
Caratteristiche del parlato del docente di L2: Il parlato degli insegnanti, oltre a condividere molti tratti tipici
dell’oralità, rappresenta una varietà di lingua orale condizionata dalle variabili diafasiche della comunicazione,
legate al contesto comunicativo e ai reciproci ruoli degli interlocutori docente-apprendente, esperto-inesperto. Nel
quadro convenzionale della lezione ricorrono alcune strategie comunicative tipiche del contesto istituzionale
scolastico in cui docente ed allievi rivestono ruoli comunicativi asimmetrici. Il docente in particolare mostra il
suo potere quando occupa più tempo nel parlato, fa un numero maggiore di domande, apre e chiude l’interazione,
introduce i temi e utilizza le “domande di esibizione” e la “tripletta”. Nella classe L2 però i ruoli spesso cambiano e
si invertono.
Strategie di trasparenza del foreigner talk: il foregner talk (che indica la comunicazione tra nativo e non nativo,
cioè la lingua con cui i nativi interagiscono con gli stranieri) può considerarsi una varietà diafasica, determinata
dall’interlocutore e con caratteristiche comuni a ogni lingua d’uso. Questo input, più o meno consapevolmente
“modificato” presenta:
-Un eloquio enfatico;
- Un vocabolario di base;
- Frasi della struttura sintattica più trasparente (tema/rema);
- Tendenza a privilegiare concetti basilari rispetto a quelli complessi.
Esistono delle strategie comunicative che accumulano il foregner talk ed altre varietà “marginali” della lingua
quali l’italiano popolare, le interlingue di apprendimento degli stranieri, il baby talk:
- Omissione degli elementi grammaticali (articoli, copula, preposizioni);
- Espansione di elementi grammaticali (uso ridondante dei pronomi);
- Sostituzione/riorganizzazione delle forme linguistiche (es. in italiano l’uso dell’infinito);
Tali strategie, secondo Pallotti e Bettoni, sono riconducibili a fenomeni ora di semplificazione, ora di elaborazione.
Il docente di L2 come modello comunicativo: Nella classe di L2 si sommano due dimensioni: da una parte quella
del foregner talk e dall’altra quella del teacher talk (varietà di lingua semplificata impiegata dal docente verso gli
allievi al fine di rendere comprensibile il discorso e facilitare l’apprendimento). Il teacher talk accentua le due
tendente (semplificazione ed elaborazione) e si differenzia dal foregner talk soprattutto perché:
- Evita le forme substandard volontarie;
- Risulta meno grossolanamente calibrato sulle reali competenze degli ascoltatori;
- Utilizza strategie e strumenti pedagogici (immagini, grafici).
Fondamentalmente il teacher talk (come il foregner talk) rispecchiano la teoria dell’adattamento degli anni ’70 di
Giles, secondo cui l’adattamento è “un processo in atto in ogni tipo di interazione, consiste in una serie di
modifiche stilistiche nella produzione orale degli individui nelle varie situazioni sociali. Si può tendere alla
“convergenza” o alla “divergenza”. I motivi che spingono ad adattare il proprio comportamento all’interlocutore
possono essere di natura diversa. Il modo di esprimersi del docente rappresenta una variabile fortemente rilevante
essendo in molti casi l’unico input orale a cui è esposto lo studente, o comunque il più comprensibile. Il docente
esperto sviluppa la capacità di orientare il proprio discorso in base ai destinatari e al loro livello di comprensione
con l’uso di esempi, riassunti, definizioni, sinonimi, domante, rallentamenti ecc. Il parlato del docente rappresenta
in molti casi anche il modello di parlato più famigliare e affettivamente vicino all’apprendente, veicola significati
che riguardano conoscenze dichiarative (strutture lingua) capacità procedurali (istruzioni sull’uso) e competenze
esistenziali. Oltre al carisma, varrò quindi anche la capacità di trasmettere i contenuti, la chiarezza, l’empatia.
Nonostante l’asimmetria dei ruoli, è possibile per un docente esperto, sviluppare delle tecniche didattiche capaci di
favorire la partecipazione degli allievi. Mettendo in relazione la comprensibilità dell’input con le sue modifiche
orientate in base alla competenze della classe e al tipo di interazioni possibili è stata elaborata una scala con valori
crescenti di comprensibilità (Bettoni):
a. Input non-modificato e non-interattivo;
b. Input modificato e non-interattivo;
c. Input non-modificato e interattivo;
d. Input modificato ed interattivo.
Il tipo di input a cui sono esposti gli studenti nelle diverse realtà di insegnamento è caratterizzato da alcune
tecniche didattiche e discorsive ricorrenti. Indipendentemente dal genere di discorso emergono:
I. Uso di “indicatori fatici” tipici della lingua parlata, che danno sembianza di interattività (capito?)
II. Uso di “mitigatori” quando il parlante evita gli atti comunicativi più direttivi o offensivi: facciamo questo
esercizio;
III. Uso di codici non-verbali con finalità espressive e chiarificatrici: i gesti, il tono;
IV. Uso di strategie di trasparenza, riduzione o elaborazione del discorso: da una parte un numero limitato di forme
lessicali ad alta frequenza, dall’altra la sovrabbondanza di ripetizioni e parafrasi.
Il parlato del docente riflette dunque la realizzazione di un input comprensibile e orientato verso un avvicinamento
emotivo ai propri interlocutori. Il modo in cui gli apprendenti percepiscono tale input orale è verificabile in classe,
tramite un questionario di rilevazione.
Capitolo XII – Verifica, (auto)valutazione, certificazione
Definizioni:
Verifica dal latino verum: operazione di raccolta dati il più possibile affidabili e pertinenti sulle competenze e
sulle conoscenze raggiunte dal soggetto. Viene detta testing se è basata su test o prove di verifica formali. Esistono
vari tipi di verifica: iniziale, informale o formale;
Valutazione dal latino valere, operazione complessa che si realizza con una serie di sotto-operazioni quali:
reperimento delle informazioni sulla quantità e la qualità dell’acquisizione linguistico/glottodidattica del soggetto
(verifica, testing); interpretazione dei dati raccolti; formulazione di un giudizio in forma di numero, lettera ecc.
Esistono vari tipi di valutazione: “sommativa” (riferita ai contenuti di un sillabo); “formativa” (collegata ad
immediati feed-back che favoriscono lo sviluppo di competenze); “certificatoria”.
Certificazione dal composto latino certum+ facere “rendere certo”: operazione di verifica delle competenze
finalizzata all’emissione di un certificato rilasciato da un organismo nazionale o internazionale autorizzato e
accreditato.
La verifica e la valutazione delle competenze linguistico-comunicativa in L2: La verifica e la valutazione
all’apprendimento della L2 costituiscono un settore di studio e di ricerca ampiamente rappresentato sia nelle
Università sia nei centri che da tempo di occupano di certificazioni linguistiche. Per l’italiano ve ne sono
all’Università di Siena, di Perugia e di Roma Tre che si occupano della ricerca e della gestione delle certificazioni
di italiano L2 diffuse in Italia e nel mondo (CILS, CELI, IT). Anche il QCE attribuisce un ruolo chiave alla
valutazione; recenti riforme hanno dato un rilievo particolare alla verifica delle competenze, fase cruciale per
l’attribuzione dei CFU.
Vantaggi della verifica e della valutazione linguistica in L2: Lo scopo primario delle operazioni legate alla verifica
è quello di rendere conto i quali conoscenze o competenze in L2 possiede o ha acquisito un soggetto. Ecco dunque
già delinearsi due prime dicotomie che associano ad obiettivi diversi anche modalità diverse di valutazione a
seconda che il soggetto:
- Sa sulla L2 (conoscenze) e/o ciò che sa fare in L2 (competenze);
- Sa o sa fare in L2 in un momento particolare del sillabo;
- Ha appreso durante un percorso di apprendimento guidato;
Dal punto di vista dell’apprendente, le operazioni di verifica e valutazione permettono di acquisire una
consapevolezza su quanto questi ha appreso. Dal punto di vista del docente, il vantaggio consiste nella possibilità di
scoprire ciò che gli alunni hanno imparato.
Limiti della verifica e della valutazione linguistica in L2: Negli anni ’60 il testing di matrice strutturalista era
costituito essenzialmente con prove basate su frasi mirate ciascuna a verificare un aspetto particolare della lingua.
L’avvento di un nuovo genere di testing pragmatico, con prove basate su unità minime o integrate si evolverà dagli
anni ’80 ad oggi nelle forme di testing comunicativo. Le novità del QCE riguardano la sua “graduabilità” in livelli
che permette di mettere luce su ciò che il soggetto sa fare anche sotto forma di competenze parziali. Verificare,
valutare, giudicare sono operazioni che comportano di per sé una serie di tensioni date sia dall’indeterminatezza del
soggetto (la lingua) sia la necessità di utilizzare parametri di valutazione abbastanza precisi ed espliciti. L’obiettivo
è trovare il punto di equilibrio tra queste due cose.
Le diverse modalità di verifica e valutazione linguistica in L2: I test linguistici possono essere classificati in base a:
a.Scopo test di profitto, test di livello, test di competenza generale;
b. Utilizzazionetest diagnostici per individuare i punti di forza e di debolezza nelle conoscenze, test prognostici
che misurano le specifiche capacità di apprendimento;
c. Momento della somministrazione rispetto al corso test di ingresso, in itinere, finale;
d. Abilità e conoscenze da verificare prove fattoriali, prove integrate;
e. Formato di riconoscimento, di produzione, di interazione, di mediazione, dirette o indirette;
f. Interpretazione dei risultati prove basate sull’esecuzione (simulazione), prova basate sulla norma
g. Modalità di correzione e assegnazione del punteggio prove oggettive (a risposta chiusa), soggettive,
semistrutturate.
Il concetto di “qualità” delle prove di verifica: Una prova di verifica di qualità deve possedere dei requisiti
fondamentali quali:
- Validità ed adeguatezza: permette di ricavare dei dati significativi, appropriati e utili allo scopo;
- Rappresentatività e appropriatezza;
- Affidabilità o attendibilità;
- Fattibilità;
- Capacità di discriminazione.
In parte sovrapponibili ai criteri di qualità precedentemente esposti sono i quattro prerequisiti generali riassunti
nell’acronimo P.A.C.E:
- (P)ertinenza verificare tutti gli elementi che vuole verificare senza esterni:
- (A)ccettabilità percepito come utile da entrambe le parti;
- (C)ompatibilità offre dati che permettono di paragonare le prestazioni fornite dallo studente in momenti diversi
del suo apprendimenti o che possano essere confermati da più di un esaminatore;
- (E)conomicità offre un rapporto ottimale tra tempo di elaborazione, correzione e valutazione.
Le certificazioni linguistiche e glottodidattiche: sono sempre più importanti insieme a quelle informatiche e si sente
l’esigenza di avere dei certificati che identifichino in maniera sicura ciò che l’individuo sa e sa fare in L2. Alcuni
devono essere rinnovati. Possono essere inseriti nel PEL (Portfolio Europeo delle Lingue).
Le certificazioni linguistiche per l’italiano L2: L’esperienza nel campo della certificazione delle competenze
linguistiche in L2 risale all’inizio del 900 con i primi certificati di inglese rilasciati dall’Università di Cambridge.
Alla fine degli anni ’80 saranno le Università di Cambridge e Salamanca a dare inizio ad una associazione di enti
certificati (ALTE). Nel 1992 furono varate le prime certificazioni ufficiali di competenza in lingua italiana (CILS
di Siena e CELI di Perugia). Alla fine dello stesso anno anche l’Università di Roma Tre proponeva una
convenzione analoga. Oggi si affiancano a queste anche altre certificazioni come CLIP, CITA, UNIcert ecc. che
sono più mirate, vanno in base all’età dei candidati o ai loro bisogni.
Le certificazioni glottodidattiche per l’italiano L2: L’esperienza nel campo della certificazione delle competenze
glottodidattiche nascono in seno al Local Examination Syndicate dell’Università di Cambridge che introduce i
primi certificati seguiti da esperimenti per l’italiano, il tedesco, lo spagnolo ecc. L’idea nasce poi presso
l’Università di Siena sulla spinta dei numerosi docenti senza titolo disseminati nel mondo. Nel 1994 la
certificazione DITALS si afferma in Italia e nel 2003 anche l’Università Ca’ Foscari di Venezia crea un proprio
centro per la formazione dei docenti che elabora altre certificazioni glottodidattiche per l’italiano L2 quali CEFILS
e CEDILS.
L’autovalutazione: Solo chi sa riflettere sul proprio modo di apprendere o insegnare una lingua straniera può dirsi
emancipato al punto da progettare autonomamente i proprio percorsi formativi. Una delle forme in cui si realizza
l’autonomia è la capacità di “autovalutazione”, una capacità che sta particolarmente a cuore agli artefici della nuova
Europa linguistica.
L’autovalutazione delle competenze linguistico-comunicative: ELP/PEL, e-Portfolio e DIALANG: I descrittori
elaborati all’inizio degli anni ’90 dal progetto “Valutazione e autovalutazione delle competenze nelle lingue
straniere” saranno inseriti nel QCE e permetteranno di delineare i sei livelli europei utilizzati anche per altri
progetti orientati all’autovalutazione, come l’ELP/PEL promosso dalla divisione per la politica linguistica del
consiglio d’Europa. L’obiettivo del PEL è quello di favorire lo sviluppo del plurilinguismo e del pluriculturalismo.
Si tratta infatti di uno strumento paneuropeo con l’obiettivo di testimoniare i propri saperi certificati e le proprie
esperienze formative in ambito linguistico. Il fatto di registrare personalmente le competenze linguistiche ottenute
dovrebbe permettere di sviluppare la capacità personale di valutare le proprie competenze in L2. Per fare questo il
PEL si serve di tre documenti:
1. Il passaporto linguistico offre una panoramica aggiornabile delle competenze linguistiche raggiunte in una o
più L2, con riferimento ai certificati ottenuti ma anche mediante descrittori che permettono l’autovalutazione.
2. La biografia linguistica strumento per l’archiviazione dei traguardi raggiunti da un individuo in merito alle
competenze linguistiche in una o più lingue straniere;
3. Il dossier archivio in cui il soggetto inserisce i certificati e gli attestati ottenuti e tutti quei documenti che
dimostrano le competenze linguistiche e le esperienze interculturali accumulate nel tempo.
Una versione approvata dal comitato di validazione europeo è oggi disponibile in versione elettronica nelle
principali lingue europee, destinata ad apprendenti adolescenti ed adulti: questo nuovo formato, identificato dal
termine e-Portfolio, utilizza la rete come contenitore e in questo modo permette di inserire dati e documenti per
creare un archivio digitale aggiornabile on-line. Un altro strumento è il DIALANG realizzato con l’appoggio della
Commissione Europea allo scopo di sviluppare un sistema di valutazione di tipo diagnostico delle competenze
linguistiche e di fornire un supporto online a chi sta imparando una lingua. Il progetto prevede 14 lingue, tra cui
l’italiano, per le quali sono previsti test e strumenti di autovalutazione relativi alle abilità di lettura, scrittura,
comprensione orale ecc. Dopo un test di piazzamento iniziale sono previste tre modalità di autovalutazione:
I. Indicazione del livello della prestazione nelle varie abilità;
II. Autovalutazione mediante riferimento a descrittori e a modelli di prestazioni-tipo;
III. Feed-back attraverso la restituzione all’utente dei risultati delle prove, con informazioni sui suoi punti di forza e
debolezza e suggerimenti per l’apprendimento autonomo.
DIALANG ha l’obiettivo di sviluppare la capacità di riconoscere le proprie competenze linguistiche, anche parziali,
i propri punti di forza e di debolezza.
L’autovalutazione delle competenze glottodidattiche: dal Profile all’ESPOSTL/PEFIL: Nel 2004 la Commissione
Europea rende pubblico il lavoro di una equipé per delineare le competenze in un quadro di riferimento dedicato
alla formazione dei docenti, si tratta del Profile, un documento realizzato per la Commissione Europea che
sintetizza in 40 punti chiave un quadro di riferimento per la realizzazione di percorsi e materiali per la formazione
dei docenti di L2. Contemporaneamente al Profile viene elaborato l’EPOSTL, un documento per l’autovalutazione
delle competenze glottodidattiche da utilizzare nel momento della formazione iniziale dei futuri docenti di lingua
che tiene conto sia del QCE sia del Profile, ma utilizzando un formato che riprende alcune caratteristiche del
progetto DIALANG e del PEL. Il PEFIL permette al futuro docente di lingua di valutare le proprie competenze
glottodidattiche attraverso una batteria di quesiti a cui l’interessato stesso è invitato a rispondere; così il PEFIL
aiuta il futuro docente a riflettere, prendere nota e aggiornare le esperienze, i progressi e gli attestati ottenuti
durante la propria formazione iniziale. È suddiviso in tre sezioni:
1. Affermazioni personali si propongono le attività che dovrebbero aiutare il futuro docente a riflettere su aspetti
generali dell’insegnamento;
2. Autovalutazione si propongono delle batterie di quesiti per temi e si fornisce una griglia per la riflessione sul
proprio tirocinio;
3. Dossier si propone al futuro docente di raccogliere in maniera ordinata le documentazioni ricevute durante il
proprio percorso formativo e quelle attività svolte.
La griglia di descrittori EQUALS: Concludiamo con una griglia di descrittori sulle competenze dei docenti di
lingue. Ispirata al modello di descrizione delle competenze del QCE questa griglia si articola in tre macrolivelli
(basico, indipendente, esperto) ognuno dei quali e suddiviso ulteriormente in due livelli (come il QCE). I descrittori
delle competenze su ciascuno di questi sei livelli riguardano quattro settori che permettono di caratteristiche un
docente di lingue professionalmente “di qualità”:
- Area dedicata alla lingua comprende la “competenza linguistica” e la “consapevolezza linguistica” nella L2;
- Fra le competenze formali vengono considerate le “conoscenze e competenze metodologiche; la capacità di
“progettazione di lezioni e corsi”; la “capacità di gestione e monitoraggio delle interazioni”;
- Ulteriori abilità che riguardano lo “sviluppo della formazione didattica” ovvero la capacità di promuovere la
propria crescita professionale e quella dei colleghi meno esperti e le competenze informatiche.