Breve Storia Dei Partiti Politici Francesi

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Università degli Studi di Palermo Facoltà di Scienze Politiche  _______ _ Corso di laurea specialistica in Studi Europei Corso di Storia Contemporanea Prof.Giuseppe Carlo Marino Una breve storia dei partiti politici francesi Di Nicola Palilla  A.A.2005 /2006

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Università degli Studi di PalermoFacoltà di Scienze Politiche

 ____________________________________ 

Corso di laurea specialistica in Studi Europei

Corso di Storia Contemporanea

Prof.Giuseppe Carlo Marino

Una breve storia dei partiti politici francesi 

Di Nicola Palilla

 A.A.2005/2006

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Introduzione

Penso che sia il caso di introdurre questo elaborato fornendo le mie referenze bibliografiche. I

testi su cui mi sono affaticato (tranquilli, stavo scherzando!) sono Storia dei partiti politici

europei di Giorgio Galli e  La Francia dal 1870 ai giorni nostri di Sergio Romano, Arnaldo

Mondadori Editore, 1981. Ho consultato, inoltre, una serie di documenti facilmente rinvenibili

in rete nei siti internet: www.wikipedia.it; www.cronologia.it ;  www.historia.it; e nei siti

ufficiali del  Parti  Socialiste, del  Parti Comuniste Français e del Front National . Proprio

ispirandomi al lavoro di Giorgio Galli ho organizzato il mio lavoro presentando le varie

tradizioni partitiche francesi secondo le loro famiglie di appartenenza e ne ho seguito, grosso

modo, anche l’ordine di presentazione. Grosso modo, perché ho ritenuto necessario scrivere

un paragrafo a parte per il gollismo e non trattare quest’ultimo all’interno del filone liberale,

 perché ci sembra che l’eredità politica del Generale abbia dei tratti di originalità che non possono non essere trattati a parte. Tutto sommato, penso di non aver fatto un buon lavoro di

analisi storica e che avrei dovuto pensarci prima a fare come scopo di questa tesina

l’esposizione di cui alle Conclusioni. Mi auguro, allora, che chi leggerà si porrà in tale ottica

(ma per fare ciò dovrebbe prima leggere le Conclusioni, quindi, partire dalla fine…va be’, fate

un po’ come vi pare!).

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La fondazione della Terza Repubblica

La terza repubblica francese fu proclamata nel febbraio del 1871 da un’assemblea che, pur 

essendo costituita in prevalenza da monarchici – 400 su un totale di 625 deputati – 

 paradossalmente fondò la prima e stabile esperienza repubblicana di Francia, affondando

definitivamente i sogni di chiunque ancora aspirasse a restaurare un re sul trono di Parigi. In

realtà, il paradosso è presto svelato: i monarchici si distinguevano fra chi sosteneva la causa

dei Borboni e chi, invece, quella degli Orléans, il ramo cadetto della dinastia borbonica salito

sul trono con la rivoluzione del ‘30. Se in Francia non vi fu restaurazione monarchica fu

soprattutto a causa dell’atteggiamento del conte di Chambord, l’ultimo erede del ramo

legittimo, il quale, con incredibile e sconsiderata miopia politica, dichiarò di non volere

accettare né il tricolore né il processo rivoluzionario nel suo complesso. In verità, la posta in

gioco non fu solo il trono, questione sulla quale ci si poteva mettere facilmente d’accordo

visto che il conte non aveva eredi, ma l’intera concezione della Francia: mentre i sostenitori

dei Borboni vedevano la restaurazione monarchica come un ritorno alla situazione pre-1789 – 

il loro programma consisteva in una riorganizzazione feudale del potere incentrata su di un

sistema di autonomie provinciali e sull’abolizione di tutti i simboli rivoluzionari e nel ritorno

ad una Francia agricola e clericale – i sostenitori degli Orléans sostenevano una “giudiziosa”

restaurazione che stabilisse un “ordine morale” atto a garantire le libertà fondamentali e la

storia francese recente e, ancora, i codici borghesi e il capitalismo liberale – specie l’alta

finanza. Quindi, anche se le due fazioni avessero trovato un accordo, come pensare che i

francesi avrebbero potuto sopportare il regno bigotto di Enrico di Chambord? L’elezione del

generale Mac-Mahon, notoriamente monarchico, alla testa della repubblica – e a danno di

Adolphe Thiers che, oggettivamente, si riteneva fosse il candidato più credibile per la

 presidenza – avrebbe dovuto permettere ai monarchici di prendersi tutto il tempo necessario

 per agevolare il ritorno di un re. Tuttavia, proprio Mac-Mahon affossò definitivamente il

disegno per il quale era stato posto al vertice del nuovo regime: sciolta d’autorità la Camera

nel 1877 in forza di un’interpretazione assai discutibile delle leggi costituzionali che gli

attribuivano tale potere, il presidente si ritrovò con un nuovo parlamento in cui, sempre su 625

membri, ben 323 si dissero repubblicani e solo una cinquantina legittimisti (gli orleanisti si

ridussero praticamente al nulla, mentre ebbero un buon successo i bonapartisti). La dimissione

consequenziale di Mac-Mahon e l’elezione di Jules Grévy alla presidenza diedero finalmente

una direzione precisa alla Francia dopo sei anni di incertezze: la repubblica parlamentare.

La tradizione liberale: i partiti moderati ed il partito radicale

1.

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La tradizione liberale ha avuto in Francia, come nel resto d’Europa, il suo periodo d’oro tra la

seconda metà dell’Ottocento e la fine della prima guerra mondiale: padrona del parlamento e

delle istituzioni repubblicane fin dalla loro fondazione, la tradizione liberale entrò in crisi con

l’avvento dei partiti di massa e svanì, come formazione partitica, con l’avvento del gollismo.

La tradizione liberale non riuscì mai ad organizzarsi in un solido partito e, diviso tra i diversi

interessi territoriali ed economici che rappresentava e sosteneva, fu più propriamente un vasto

ed eterogeneo schieramento parlamentare di notabili borghesi. All’interno di questo, però,

esistevano due linee di comportamento: quello moderato e quello radicale. Il primo può essere

ricondotto al moderatismo di Adolphe Thiers, il secondo a Léon Gambetta. Seppur frequente,

l’identificazione della corrente moderata e di quella radicale con, rispettivamente, le

esperienze girondina e giacobina non è corretta: non è possibile, infatti, stabilire alcun legame

diretto tra gironda e Thiers da un lato e tra giacobini e Gambetta dall’altro. Perché?

Essenzialmente perché le due esperienze si incrociarono e combinarono in misura tale che, nel

1871, sarebbe stato impossibile individuare dei legami certi di filiazione tra i clubs girondini e

giacobini con i principali partiti della terza repubblica. A Thiers si attribuisce il motto: la

 Repubblica sarà conservatrice o non sarà, con il quale, volendo assicurarsi il sostegno delle

classi “forti” che avevano riposato sulla stabilità del Secondo Impero, intese seppellire il mito

della repubblica rivoluzionaria e piantare su basi “razionali” il nuovo stato. Definire la

repubblica “conservatrice” voleva dire, allora, dare vita ad un regime che conservasse le

conquiste della Rivoluzione e sbarrasse la strada a chiunque pretendesse il trono o fosse

animato dall’intenzione di stabilire un governo autoritario. Fu solo con l’inizio del XX°

secolo e con la necessità di fronteggiare il pericolo del socialismo che i liberali presero ad

organizzarsi formalmente. Nel 1901 furono fondati  Alléance Démocratique, per iniziativa di

Adolphe Carnet, e Union Républicaine Démocratique, per iniziativa di Louis Marin, entrambi

espressione del liberalismo moderato: mentre il primo, però, era più forte nelle periferie e

godeva del sostegno dei ceti medi, il secondo era più forte in città e promuoveva gli interessi

della borghesia imprenditoriale e degli industriali. I due partiti ebbero una notevole

importanza nella storia politica francese compresa tra l’inizio del secolo e la seconda guerra

mondiale ed entrambi contribuirono a dare al paese importanti leader, tra i quali Raymond

Poincaré e Paul Reynaud. Poincaré, che fu anche presidente della repubblica dal 1913 al 1920,

fu uno dei più incisivi animatori del nazionalismo francese antitedesco: da capo del governo,

tra il gennaio 1922 e d il marzo 1924, decise l’occupazione della Rhur per forzare la

Germania al pagamento delle riparazioni di guerra. Reynaud, invece, sebbene sia stato moltoapprezzato come ministro delle finanze in vari governi di centrodestra, è tristemente ricordato

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come l’ultimo capo di governo della III° repubblica prima di Pétain e della tragica disfatta

militare francese dell’estate 1940. Tuttavia, il più importante tra i partiti della terza repubblica

fu il partito radicale. Erede del liberalismo progressista di Gambetta, si poneva come scopo il

radicamento definitivo della repubblica e delle pratiche parlamentari e, infine, la sconfitta dei

nemici storici della Rivoluzione: la Chiesa e le tendenze autoritarie di monarchici e militari.

Contro la Chiesa i governi radicali condussero delle vere e proprie crociate per 

l’emancipazione delle istituzioni e dell’istruzione dalla religione e dalla gerarchia

ecclesiastica. L’infinita battaglia contro la Chiesa fu motivata dal fatto che essa, più che

simpatizzare per, sosteneva apertamente la reazione e la restaurazione della monarchia, così

come aveva fedelmente sostenuto il II° Impero fino a poco prima. La politica accesamente

anticlericale del partito radicale sembra essere stata ispirata dalla Massoneria, la quale

avrebbe formato molti dei suoi quadri e dei suoi leaders e fornitogli un deciso orientamento

 politico attraverso il condizionamento di congressi e direzioni. Giorgio Galli scrive come così

facendo la Massoneria “ gli abbia conferito con questi metodi una efficacia ed una potenza

che esso non ha mai più ritrovato in seguito”. Il partito fu per tutta la sua storia scarsamente

strutturato e decentrato, imperniato sui suoi gruppi parlamentari e diviso a sua volta in

 sinistra radicale e  sinistra radicalsocialista, etichette che trovarono l’unità solo nel 1911

sotto la denominazione di  gruppo del partito repubblicano radicale e radicalsocialista. Con

l’ascesa dei socialisti e la comparsa dei loro progressivamente sempre più nutriti gruppi

 parlamentari, i radicali decisero di stringere con essi alleanze elettorali e di governo – senza

che ai socialisti vi fosse permesso farne parte – per fronteggiare la maggiore organizzazione

dei partiti del liberalismo moderato che, soprattutto dopo la guerra, con la formazione del

 Bloc National , assunsero, oltre che il governo, posizioni decisamente nazionaliste. Proprio la

vittoria elettorale del Blocco nel 1919 indusse i radicali a prendere una decisione: aderire al

centrodestra di Poincaré, cercando di spostare verso il centro l’asse dei suoi governi; ovvero,

stare al centro nel tentativo di continuare a fare da partito  pivot ed evitare di finire schiacciati

a sinistra dalla SFIO, il partito socialista? Tornato al governo con l’alleanza della sinistra

denominata Front Populaire, il partito radicale vide fortemente diminuita la sua importanza a

causa del partito socialista che, ottenuto nelle elezioni del ’36 la maggioranza relativa alla

Camera, fu legittimato a prendere il governo e a relegare al semplice appoggio esterno i

radicali (in precedenza i radicali furono al governo sostenuti anche dai voti socialisti). Dopo il

fallimento del governo del Fronte, i radicali tornarono a giocare il loro ruolo preferito, quello

di pivot , entrando ed uscendo da svariate formazioni ministeriali, ma trovandosi sempre più indecadenza e senza spazi in parlamento, stretto a sinistra dalla SFIO e dai comunisti e al centro

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dalla maggiore credibilità dello schieramento moderato. Dopo la seconda guerra mondiale il

 partito radicale si ritrovò profondamente ridimensionato dai tre grandi partiti di massa che

avevano animato la Resistenza: partito di notabili a base quasi esclusivamente parlamentare,

sostenuto solo da giornalisti, scrittori, intellettuali e da una ramificata rete clientelare, il

  partito radicale divenne, con l’avvento della quarta repubblica e del sistema elettorale

 proporzionale, una forza marginale senza una sua certa collocazione. A nulla gli valse

nemmeno l’estremo tentativo del suo giovane leader, Pierre Mendés-France – che fu anche a

capo del governo per pochi mesi nel 1954 – di rianimarlo con un’importante riforma statutaria

mirante a renderlo un moderno partito di massa.

2.

Durante il suo periodo migliore il partito radicale fece leva su quelle che Gambetta chiamava

“nouvelles couches sociales”, cioè, quelle fasce della popolazione che raggruppava gli

occupati nei settori commerciale e impiegatizio e i contadini proprietari. Queste, secondo

Gambetta, erano le vere classi dirigenti: “coloro che pensano, lavorano, accumulano

ricchezza e sanno farne un uso giudizioso, liberale e utile al paese” (Sergio Romano).

Volendo difendere queste “nouvelles couches”, il partito radicale agì per la difesa delle

conquiste della Rivoluzione e per l’emancipazione della Repubblica dalla Chiesa,

difendevano la   Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, la proprietà

 privata, l’uguaglianza di fronte alla legge, il principio di legalità, la codificazione del diritto,

la separazione del potere, il parlamento. La prima grande opera dei governi radicali fu

senz’altro la legge sulla gratuità dell’insegnamento elementare, il cui grande ispiratore fu

Jules Férry. La legge prevedeva l’insegnamento elementare obbligatorio, laico e gratuito per 

fare dei francesi dei buoni cittadini e dei valorosi soldati e togliere alla Chiesa il monopolio

dell’istruzione, dal quale scaturivano solo sudditi papisti e demotivati soldati: il partito

radicale non fu costituito da atei e agnostici, va detto, ed il suo spirito anticlericale fu più

dettato da necessità politiche che da convincimenti religiosi. La Chiesa, infatti, si confondeva

con la reazione, con le classi dominanti ed il parassitismo. Lo scandalo noto come “ affaire

 Dreyfus” fu sicuramente la manifestazione più limpida di come gli ambienti clericali, insieme

a quelli militari e quelli di una certa parte della cultura, complottassero contro la repubblica e

contro la politica radicale. Poiché lo scandalo è noto, sottolineerò solo che l’importanza della

questione è dovuta al fatto che lo scontro tra “dreyfusardi” e “antidreyfusardi” in realtà celava

lo scontro tra i sostenitori della legalità repubblicana e quelli dell’autoritarismo. La vicenda,

che si concluse con il reintegro dell’ufficiale Dreyfus nell’esercito e sancì la conclusiva cesuratra la Francia e i nemici della Repubblica, vide distinguersi tra i politici radicali George

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Clemenceau che, come direttore del giornale “ L’Aurore”, pubblicò la celebre lettera aperta di

Émile Zola intitolata J’accuse e condusse una grande battaglia giornalistica per denunciare le

macchinazioni dell’esercito contro le istituzioni. Proprio l’atteggiamento della Chiesa,

sebbene il Papa avesse chiesto ai fedeli di avvicinarsi alla repubblica per scongiurare il ben

 più grave nemico costituito dal socialismo, portarono alle leggi del 1901 e del 1904 sulle

associazioni religiose e sulla separazione tra Stato e Chiesa. Con la prima di fatto lo Stato

estese il suo controllo sulla società per creare un rapporto organico fra il paese reale e la

repubblica, attraverso la soppressione delle congregazioni che sostenevano la colpevolezza di

Dreyfus e la sottoposizione di tutte le altre alla legge dello Stato. Il capo del governo in carica

nel 1903 e impegnato nell’implementazione di detta legge (fatta, però approvare dal governo

Waldéck-Rousseau) Émile Combes dichiarò (citazione da Sergio Romano) : “ In ciascuna di

queste associazioni dietro l’apparente varietà degli statuti circolano le stesse idee, si agita la

 stessa volontà, fermentano le stesse speranze contro quelle rivoluzionarie. Moralmente esse

  sono tutte calcate sullo stesso modello. Hanno tutte la stessa ragion d’essere, le stesse

aspirazioni, lo stesso destino”, volendo con ciò affermare che la Reazione non si era ancora

arresa del tutto e che viveva all’interno della Chiesa: tra il 18 marzo ed il 26 giugno più di 130

congregazioni furono così soppresse. Con la legge del 1904, invece, fu denunciato il

Concordato, quello firmato nel 1801 da Napoleone!, con la Santa Sede e sancita la

separazione dell’ordinamento dello Stato da quello della Chiesa.

3.

In queste pagine si è brevemente mostrato in quali partiti e in che modo la tradizione liberale

francese si è organizzata e ha vissuto durante la III° repubblica e si è, altresì, accennato al

tentativo di riforma del partito radicale di Mendés-France. Una domanda nasce spontanea: che

fine ha fatto il partito radicale? Che fine hanno fatto i partiti del liberalismo moderato? In

generale, che fine ha fatto la tradizione politica liberale in Francia? Il sistema di governo della

V°repubblica, nonché la legge elettorale uninominale a doppio turno voluta da De Gaulle,

hanno escluso la possibilità di una loro ricostituzione. I membri dei secondi, affluiti dopo la

guerra in gran parte nel MRP – il partito cattolico costituito durante la Resistenza – hanno

dovuto infine collocarsi nel vasto schieramento gollista; tra il 1978 ed il 2002, l’ala più

avanzata del movimento neogollista è stata rappresentata da Valéry Giscard D’Éstaing e dal

suo partito UDF, Union pour la démocratie française. Il primo, invece, ha aderito al

 programma unitario delle sinistre proposto da François Mittérand negli anni Settanta. Pur non

esistendo oggi un partito denominato “radicale” ovvero “liberale”, la tradizione liberalecontinua, quindi, ad esistere e a vivere, fatta eccezione per quelle formazioni davvero minime

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e legate a qualche particolare personalità politica, all’interno del Parti Socialiste, a sinistra, e

delle formazioni che si rifanno all’esperienza politica del generale De Gaulle, a destra.

Il socialismo: da Jules Guesdes alla “caduta” di Jospin

1.

La Francia può vantare una lunga e ricca tradizione socialista e tuttavia il socialismo non vi ha

trionfato. Sicuramente a remare contro la rivoluzione socialista in Francia è stato, all’interno

di un più vasto sistema di cause, la mancanza di unità all’interno del movimento, la diversa

estrazione sociale dei suoi animatori, la non convergenza di obiettivi e di strategie. Insomma,

la grande varietà di utopie socialiste e le diverse idee su come pervenire a quelle

rappresentazioni, alla fine, hanno provocato solo rivalità. Anche se la storia dei partiti politici

francesi non è direttamente riconducibile alla Rivoluzione – che è patrimonio di tutti e che ha

 partorito valori e principi condivisi – è facilmente desumibile il motivo per cui i socialisti si

siano visti e continuino a vedersi quali continuatori di quell’evento, specie nella sua fase

giacobina, e perché finiscano per ritenere, addirittura, la rivoluzione d’Ottobre come

l’obbligato epilogo della vicenda iniziata nel 1789. Karl Marx è giunto a Parigi relativamente

tardi: quando alla caduta del Secondo Impero si tentò l’esperimento della Comune, i

sostenitori del marxismo furono in netta minoranza, soverchiati dai seguaci di Babeuf,

Proudhon e Blanqui. Il socialismo francese si sente fortemente legato alla Rivoluzione e

denota, in tal modo, connotati decisamente nazionali e patriottici: la Comune parigina, per 

esempio, non fu realizzata secondo la strategia della Prima Internazionale, bensì nel segno

della continuità con il giacobinismo e la rivoluzione del 1848 (che sotto l’ispirazione di Louis

Blanc aveva partorito il sistema degli atéliers nationaux). La lentezza ed il ritardo con cui in

Francia si costituì un forte partito socialista, nonostante la precoce affermazione della

democrazia, si spiega attraverso la difficoltà di mettere assieme tanti miti, tante suggestioni,

tante strategie, tanti pensatori e, infine, la rivoluzione giacobina con la repubblica

conservatrice. I seguaci di Babeuf, per esempio, sognavano un comunismo integrale basato

sull’egualitarismo, sulla uguale retribuzione del lavoro e sulla comunanza della terra; erano

fortemente radicati nelle periferie, si rifacevano ad una realtà fondamentalmente agricola e

  puntavano a realizzare tale programma con azioni violente. I sostenitori delle idee di

Proudhon avevano un carattere libertario e anarchico: pensavano all’autogestione operaia per 

conciliare capitale e lavoro e a concetti come libertà individuale e “armonia sociale”; inoltre,

 puntavano all’abbattimento dello Stato. Louis-Auguste Blanqui fu uno dei maggiori ispiratori

della Comune: pur non avendovi partecipato (fu arrestato qualche mese prima), la influenzòmoltissimo grazie alle sue idee sulla presa violenta del potere ad opera del proletariato con

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l’insurrezione ed il colpo di stato di ristretti gruppi clandestinamente organizzati. Jean Jaurés,

infine, grande ispiratore della SFIO, proponeva la collaborazione con i governi borghesi, la

 pacificazione con la Germania e l’unità di tutti i progressisti. La sconfitta della Comune,

avendo assestato un durissimo colpo al prestigio dei rivoluzionari e delle loro idee, finì col

raffreddare gli animi dei proletari, convertì la maggioranza di essi alla repubblica e al metodo

 parlamentare e costrinse il socialismo francese ad una lunga e difficile fase di riflessione e di

riorganizzazione. La gestazione del partito socialista si ebbe tra il 1879 ed il 1905: ai

congressi di Marsiglia (1879) e di Saint-Étienne (1881), a cui presero parte delegazioni di

sindacati e di cooperative e rappresentanti di gruppi di studio, emersero tutte le varie posizioni

da cui scaturirono le prime organizzazioni partitiche francesi di area socialista. Sotto impulso

di Jules Guesde si fondò nel 1880 il “ Parti ouvrier français”, che introdusse il marxismo in

Francia e che, forte della capacità unificatrice del socialismo scientifico e del sostegno della

II° Internazionale, già nel 1890 rappresentò il 40% della forza socialista; nel 1898 il

  blanquista Édouard Vaillant fondò il “  Parti socialiste révolutionnaire”, mentre il

 proudhonista Brousse creò la “ Fédération des travailleurs” e Jean Allemand il “ Parti ouvrier 

  socialiste révolutionnaire”. Il primo, ispirato a Blanqui, si richiamava alla tradizione

rivoluzionaria nazionale; il secondo ad una sorta di riformismo nazionale; il terzo, invece, fu

qualcosa di molto confuso e vedeva riuniti Marx, Proudhon, Bakunin e la Comune. Un primo

tentativo di unire tutte queste anime socialiste si compì parzialmente agli albori del XX°

secolo, quando i partiti di Guesde e di Vaillant si fusero a costituire il “ Parti socialiste de

 France”, mentre coloro che si erano fin lì detti “indipendenti”, prevalentemente borghesi e

intellettuali simpatizzanti più per la repubblica e per un vago senso di giustizia sociale che per 

il socialismo, fondarono il “  Parti socialiste français”. I fondatori di quest’ultimo partito,

Millerand, Viviani e Jaurés, non disdegnavano l’idea di collaborare con i governi borghesi; il

 primo, invece, rifiutava tale prospettiva e considerava la distruzione del capitalismo il suo

scopo primo ed ultimo. Citiamo Sergio Romano: “ La grande Rivoluzione ed il giacobinismo

hanno creato fra le classi medie e la classe operaia collegamenti ideologici e rapporti di

 solidarietà nazionale(…)le hanno unite attorno ad un ideale politico in cui i concetti di patria

e di giustizia sociale si confondono fino a divenire aspetti di una stessa realtà ”, e ancora, “Un

altro ostacolo all’unità è rappresentato dalla lunga vicenda nazionale del socialismo

 francese, dalla sua pluralità di esperienza e di eroi. Fra i seguaci di Proudhon e quelli di

Marx corre una differenza che affonda le sue radici se non nel temperamento nazionale(…)

nei diversi atteggiamenti culturali del paese. Ritroviamo così nel socialismo francese la

classica distinzione tra le due France che si dividono la storia nazionale: quella d’ispirazione

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 giacobina, autoritaria, centralizzata, protezionista, gerarchica e quella liberale, decentrata,

liberista, individualista”. Questa distinzione forse è troppo semplice, ma ci aiuta a capire

 perché il socialismo francese sia sempre stato molto frammentato. Prima dell’unità raggiunta

nel 1905 al Congresso di Rouen, due furono le questioni che misero a dura prova i propositi

unitari del movimento operaio: l’ingresso di Millerand nel governo di Waldéck-Rousseau e

l’affaire Dreyfus. La prima scoppiò quando, a supporto del suo programma riformatore, il

capo del governo Waldéck-Rousseau chiese nel 1899 a un esponente socialista, Millerand, di

entrare nel governo radicale: Jaurés reagì con entusiasmo alla richiesta del presidente del

consiglio, vedendo la cosa come un deciso passo avanti nella marcia del proletariato verso il

 potere; tuttavia, il nucleo socialista stretto attorno a Guesde giudicò assai negativamente la

cosa. La seconda questione, invece, riguardò la divergenza sul giudizio relativo a Dreyfus,

giacché Jaurés fin dal primo momento fu dreyfusardo e decisamente schierato dalla parte di

Clèmenceau e della sua battaglia, mentre Guesde si dichiarò originariamente indignato per la

mancata condanna a morte dell’imputato e solo in seguito, opportunisticamente, “ni l’un, ni

l’autre” quando lo scandalo cominciò a definirsi a favore dell’ufficiale di origine ebrea.

Come detto, però, nel 1905 i socialisti trovarono l’unità auspicata dalla Seconda

Internazionale con la fondazione del “ Parti socialiste-Section française de l’International 

ouvrière”, meglio noto con l’acronimo SFIO. Il partito fu inizialmente allineato sulle

 posizioni di Jules Guesde e dell’ortodossia marxista; interessato al mantenimento dell’unità

così faticosamente raggiunta, Jaurés accettò il modello organizzativo leninista fatto di

strutture rigide, di gerarchia e di un programma di lotta. Nel 1910, però, il partito ha già virato

sulle posizioni socialdemocratiche di Jaurés e avversa il sindacalismo rivoluzionario di

Georges Sorel, il quale, anteponendo l’organizzazione sindacale a quella del partito e l’azione

diretta del proletariato all’iniziativa parlamentare, andava vagheggiando il mito dello sciopero

generale: “ All’estrema sinistra dello schieramento socialista si fa strada la convinzione che

la salute debba venire non dalle campagne elettorali e dai partiti a cui spetta gestirle, ma

dalle lotte sindacali e dall’arma risolutiva dello sciopero generale” (Sergio Romano). La

tendenza del sindacato a considerarsi bastevole al proletariato comportò gravi tensioni tra il

 partito e la potente CGT (Confédération Général du Travaille) tanto che, onde evitare che

ciascuna organizzazione se ne andasse per la sua strada, la Seconda internazionale impose a

SFIO e CGT un accordo che vincolasse il sindacato alle decisioni politiche del partito e il

 partito alle decisioni in materia di lavoro del sindacato. La conclusione della prima guerra

mondiale ed il trionfo della rivoluzione sovietica comportarono un grande stravolgimento intutto il movimento operaio europeo. In Francia, dove nelle elezioni del 1919 aveva trionfato il

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Blocco Nazionale di Poincaré, il Congresso di Tours aveva visto la maggioranza dei membri

della SFIO votare per la trasformazione della stessa in  Partito comunista francese. La

minoranza, invece, guidata da Léon Blum e Jean Longuet, rifiutando il centralismo

democratico del modello sovietico e rivendicando l’originalità del socialismo francese,

ricostituì il partito socialista e lo indirizzò verso un’alleanza con i radicalsocialisti. Ora,

mentre per i comunisti la rivoluzione d’ottobre fu il punto d’arrivo del processo rivoluzionario

iniziato a Parigi nel 1789 – cosa che faceva rivendicare la paternità dei fatti di Russia ai

comunisti francesi – per Léon Blum bisognava fare una distinzione tra “conquista del potere”

e “esercizio del potere”. Prospettandosi la possibilità di raggiungere la maggioranza alla

Camera nonostante la scissione di Tours, l’opinione di Blum era che vincere la maggioranza

 parlamentare non significasse aver conquistato il potere – cosa che può farsi solo con la

rivoluzione proletaria – bensì implicasse l’assunzione dell’esercizio del potere nel quadro

sociale e politico esistente; la rivoluzione non può farsi per decreto, non dipende, cioè, dal

governo il quale, però, può rendere la massa operaia responsabile, emancipata, educata e in

grado di fare da sé la rivoluzione. Insomma, l’esercizio del potere è la fase transitoria che

conduce al socialismo. In forza di queste posizioni socialdemocratiche e del sostegno della

CGT di Jouhaux, privata della corrente comunista e anarchica dopo Tours, il partito socialista

cresce alle elezioni del 1924 e, alleato con i radicali nel “Cartél des Gauches”, conquista 104

seggi contro i 162 dei radicali e i 26 del PCF. Nonostante la condivisione di un ampio

 programma democratico (applicazione rigorosa delle leggi sulla separazione tra Stato e Chiesa

e sulle congregazioni; previdenza sociale; giornata lavorativa di otto ore; democratizzazione

dell’insegnamento e gratuità di quello superiore; garanzie sindacali) l’alleanza fallirà nel

volgere di due anni a causa del voltafaccia dei radicali. Il fallimento del Cartello non

danneggiò i socialisti che, anzi, nel 1932 contarono 137.000 iscritti contro i 60.000 dei primi

anni ’20, e 129 deputati grazie alla fiducia ispirata dal riformismo di Blum e dal sindacalismo

responsabile della CGT di Jouhaux.

2.

I rapporti tra il partito socialista ed il partito comunista non furono mai pacifici, perché il

PCF, fedele al Comintern – l’Internazionale Comunista – giudicava la disponibilità della

SFIO a governare con i borghesi, all’interno delle regole borghesi, la conferma della teoria del

“socialfascismo” tanto cara a Stalin. La situazione politica degli anni Trenta, però, assai

contraria alla democrazia, portò il Comintern ad optare infine per la strategia del “Fronte

Popolare”, il fronte unito dei comunisti e dei socialisti in funzione antinazista e antifascista. Il“Fronte popolare” francese nasce nell’ottobre del 1934 – i colloqui si erano aperti a luglio – 

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ed è integrato dai radicali, convinti di poter egemonizzare il Fronte e magari ripetere la mossa

del 1924-1926. Le elezioni, tuttavia, volsero al peggio per i questi ultimi: la SFIO, infatti,

ottenne la maggioranza relativa con 147 seggi ed assunse la responsabilità del governo: Léon

Blum formò il governo, ma né i radicali né i comunisti, per motivi diversi, entrarono a farne

 parte. La vittoria del Fronte fu accolta dalla classe operaia con grande entusiasmo e nel solo

mese di giugno si verificarono 12.000 scioperi, organizzati in tutta la Francia con la fiducia

che il nuovo governo avrebbe rafforzato il potere contrattuale degli operai. In effetti, la

situazione giocò a favore del governo socialista che, da una posizione di forza, riuscì a far 

incontrare le richieste del sindacato unificato (nel 1935 la CGT e la CGTU si fusero) con

quelle degli industriali grazie agli accordi di Matignon. Decisamente favorevoli alla classe

operaia, tali accordi prevedevano il libero esercizio dei diritti sindacali, il riconoscimento da

 parte degli industriali di delegati eletti tra gli operai, la settimana di quaranta ore, quindici

giorni di ferie pagate. L’azione del governo non si esaurì con gli accordi di Matignon: fu

creato l’Office National Interprofessionel du blé, per sostenere i prezzi agricoli; fu riformata

la Banca di Francia; furono nazionalizzate alcune imprese strategiche e fondata la S.N.C.F.

( société national des chemins de fer ). Il governo del Fronte Popolare, nonostante fosse stato in

grado di far recuperare agli operai potere d’acquisto e fiducia, non riuscì a durare a lungo:

stretto tra la questione “morale” sollevata dalla guerra di Spagna e dalla fuga dei capitali verso

l’estero, Blum rassegnò le dimissioni dopo appena un anno dalla sua investitura.

3.

Dopo la seconda guerra mondiale la SFIO, ricostituita e attiva durante la Resistenza, incontrò

e si scontrò con una realtà politica nuova: la forza del partito comunista, il primo partito

comunista d’Europa. Persa l’alleanza con la CGT, oramai riconquistata dai comunisti, e messa

in minoranza la leadership di Blum, il partito socialista fu affidato a Guy Mollet. Tutto

sommato, la IV° repubblica fu un periodo di decadenza per la SFIO sia per la forza conseguita

a sinistra dai comunisti sia per la scomparsa sostanziale dell’alleato radicale. Le ambiguità del

 partito in occasione della guerra d’Algeria ed il sostegno fornito al governo del generale De

Gaulle (che vedeva Mollet come vicepresidente) portarono il partito al suo minimo storico, il

15,7% del 1958. L’introduzione del sistema di governo della V° repubblica e di un sistema

elettorale particolarmente penalizzante per chi non è in grado di stringere accordi (come

furono i socialisti e i comunisti prima di Épinay) introdussero il movimento socialista in una

crisi senza precedenti. Il clima di totale sfiducia, alimentato dalla convinzione che la quinta

repubblica fosse una sorta di dittatura populista, portò a successive scissioni da cuiscaturirono il “ Parti socialiste autonome” e poi la “Union de la gauche socialiste” e, infine, il

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“ Parti socialiste unifié ”. Il 1965, però, è da considerarsi un anno di svolta: in occasione delle

elezioni presidenziali un candidato minore di sinistra, François Mittérand, superò il primo

turno ed ebbe l’onore di costringere la rielezione di De Gaulle dentro il 55% dei voti popolari.

Proprio Mittérand, la cui piccola formazione politica era denominata “Convention des

institutions républicaines”, comprese che combattere il regime della V° repubblica

dall’esterno fosse una strategia sbagliata e che, invece, questo andava conquistato

dall’interno: nel 1971, perciò, la sinistra socialista uscì dal suo lungo inverno con l’apertura al

congresso di Épinay ai comunisti e a tutti i partiti minori della sinistra; il partito si svecchiò

 prendendo il nome di Parti Socialiste ed elesse come suo capo proprio Mittérand. Da subito il

PS, grazie all’intesa con comunisti e radicali, centra un grande risultato, il 45% alle legislative

del ’73 ed il 49% alle presidenziali dell’anno successivo. La svolta di Épinay ha permesso al

PS di ottenere due grandi risultati: l’accordo con i comunisti ne ha promosso il partito ad

elemento “utile” per la funzione di governo, in primo luogo; in secondo, attraverso

l’accettazione delle regole della V° repubblica, la sinistra francese si prepara a conquistare

finanche la presidenza. Finisce così la contestazione della costituzione sostanziale della

repubblica gollista e si portano all’interno delle istituzioni gli umori del ’68 e i gruppi

“goscisti”, le organizzazioni libertarie e i movimenti separatisti, le associazioni ecologiche ed

il sindacalismo “autogestito”. Dopo una breve crisi, comunque grave da provocare la sconfitta

alle legislative del 1979, il patto d’unità d’azione tra socialisti e comunisti si riattiva e porta

Mittérand alla presidenza della Repubblica nel 1981 e alla maggioranza assoluta dei seggi

all’Assemblea Nazionale: con il 37,5% dei consenso il PS raggiunge il suo massimo storico.

Mittérand tenne la più alta carica dello Stato per due mandati, fino al 1995, nel corso dei quali

i suoi governi cercarono di fronteggiare le difficoltà economiche attraverso importanti

nazionalizzazioni e l’aumento del potere d’acquisto dei salari. Furono varate importanti

riforme istituzionali (l’ordinamento regionale), giudiziarie (abolizione della pena di morte e

riorganizzazione delle carceri), sociali (cinque settimane di ferie pagate, pensionamenti a

sessanta anni, settimana di 39 ore, diritti sindacali nell’impresa), ma mentre il primo

settennato fu turbato solo dalla coabitazione del biennio 1986-1988, il secondo settennato fu

segnato da una grave instabilità che portò a Matignon tre diversi primi ministri nel volgere di

soli cinque anni (Rocard, Cresson, Bérégovoy). Questa instabilità fu dovuta alla rottura nel

1984 con i comunisti che, accusando il timido piano sociale e di nazionalizzazioni del

governo per la sconfitta alle elezioni europee del 1984 e a quelle nazionali nel 1986, uscirono

dal governo e fornirono a partire dal ‘88 solo l’appoggio esterno ai ministeri socialisti. Dinuovo al governo con Lionél Jospin dal 1997 al 2002, il partito socialista è sconfitto

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incredibilmente dal candidato del Fronte Nazionale Jean-Marie Le Pen e non accede al turno

di ballottaggio contro il neogollista Chirac. Malgrado una recente ripresa, che ha consentito

alla sinistra di travolgere la maggioranza di centrodestra nelle ultime elezioni regionali, è

 probabile che il PS stia ancora pagando l’incapacità di far digerire ai suoi iscritti e ai suoi

elettori l’accettazione dell’economia di mercato ed il coinvolgimento nella globalizzazione,

sebbene proprio la Francia di Mittérand sia stata la principale protagonista, assieme alla

Germania di Khol, del forte sviluppo dell’idea unitaria europea.

Tra la rivoluzione francese e la rivoluzione russa: il partito comunista

Come abbiamo già avuto modo di scrivere parlando del partito socialista, il partito comunista

francese (PCF) fu fondato a Tours nel 1920 in seguito alla decisione della maggioranza del

congresso SFIO di trasformare la stessa in Partito Comunista, assecondando le tesi di Lenin e,

soprattutto, della Terza Internazionale, per la quale il capitalismo ed il suo sistema politico

erano giunti senz’altro alla fine della loro epopea e l’ora della presa rivoluzionaria del potere

e della dittatura del proletariato era oramai scoccata. Come tutti i partiti comunisti d’Europa,

anche quello francese è vissuto a lungo in una situazione di sostanziale dipendenza strategica

dall’URSS, dagli umori dei suoi leaders e dalle condizioni e dagli equilibri che si vennero a

costituire quando il mondo fu diviso in due blocchi contrapposti alla fine della seconda guerra

mondiale. Come tutti i partiti comunisti d’Europa anche quello francese, seppure ossequioso

nei confronti del PCUS, ha cercato di definire una sua identità ed originalità nazionali. Il mito

della Rivoluzione del 1789, ovviamente, dava al PCF una ragione in più per reclamare

legittimamente una maggiore autonomia. Nonostante le sincere convinzioni rivoluzionarie dei

suoi promotori, tuttavia esistevano all’interno del neonato partito sostanziali distinzioni:

accanto ai più fedeli all’ortodossia marxista-leninista e al Comintern esisteva un forte gruppo

di persone che riteneva di non dover prendere lezioni da nessuno in materia di rivoluzione

(erano comunisti ma prima ancora erano francesi, avevano fatto la Rivoluzione giacobina e

conoscevano bene Blanqui e Babeuf, insomma!). Il partito comunista, quindi, fin dalla sua

fondazione, sballottato tra una corrente di autonomisti ed una di ortodossi, fu caratterizzato da

una notevole instabilità che di frequente si risolveva con l’espulsione di qualche suo dirigente

accusato di “troztkismo”: fu così che nel 1924 furono espulsi (dal segretario Traint) Rosmer,

Moatte e Souvarine – tre tra i fondatori del partito – e fu sempre così che Traint medesimo fu

allontanato dal partito quattro anni più tardi. L’accusa di trozkismo, in verità, veniva

formulata dal Comintern per eliminare dai partiti comunisti nazionali tutti quei personaggi che

si opponevano di volta in volta all’interferenza di Stalin. E Stalin dava il ben servito senzaguardare in faccia nessuno. A partire dal 1928 il partito fu, quindi, guidato da un gruppo

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favorito dal Comintern costituito da Barbé, Célor, Billoux e Goyot, talmente invisi alla

membership del partito e agli elettori che, dopo il peggiore risultato di sempre conseguito nel

’28, lo stesso Comintern decise di sostituire con un leader giovane proveniente dal sindacato:

Maurice Thorez. La fatica della classe operaia a capire le lotte interne al partito indussero i

 più a tornare verso il riformismo della SFIO: sostenuto da un grande entusiasmo al momento

della sua fondazione, il partito declinò e sfiorì rapidamente perdendo quel fascino e

quell’appeal  che solo pochi anni prima aveva suscitato tra i lavoratori. La mancanza di

autonomia in un periodo di forte nazionalismo non gli giovò: la classe operaia, infatti, si sentì

 più al sicuro nel mito della vittoria del ’18, sapendo la Germania sconfitta e debitrice della

Francia. In una tale contesto, la prospettiva rivoluzionaria sembrò perdere tutto il suo fascino

iniziale. Il PCF, quindi, si sviluppò come partito massimalista e anarcogiacobino disposto solo

alla rivoluzione e a lottare anche sul terreno del lavoro, visto che dopo Tours aveva promosso

la costituzione di sindacato autonomo, la CGTU. In questa fase la sua critica al sistema

 borghese non colpisce solo la recessione economica, la disoccupazione, la caduta dei salari ed

il disagio della popolazione degli anni ’30, ma investe con ferocia particolare anche la SFIO,

accusata, assecondando le teorie della Terza Internazionale, di “socialfascismo”, cioè di

sostenere contro gli interessi del proletariato lo stato borghese e le sue strutture di

oppressione. L’ascesa drammatica del nazismo in Germania e l’espansione della destra

radicale e dei regimi fascisti in Europa comportarono, però, un deciso cambio di strategia

nella Comintern a partire dal 1934: per rispondere ad una manifestazione dell’estrema destra,

i comunisti decisero di marciare assieme ai socialisti, alla CGT e alla CGTU in una

contromanifestazione, ponendo, così, la prima pietra per la costruzione di un Fronte Popolare

francese. Il fatto clamoroso di quell’occasione fu che si sventolarono i tricolori e si cantò la

Marseilleise: dopo anni di lealtà incondizionata all’URSS, il PCF poté tornare ad esibire i suoi

tratti nazionalisti ereditati dalla tradizione giacobina e da quella blanquista. A margine della

storica manifestazione unitaria il segretario Thorez affermò: “Siamo orgogliosi del grande

 passato del nostro paese, dall’era di Luigi XIV e degli uomini che hanno fatto la nostra

rivoluzione del 1791 (…). Cantando l’Internazionale abbiamo raccolto il motivo della

Marseilleise. Inalberando la bandiera rossa abbiamo innalzato nuovamente il tricolore dei

nostri padri”(Sergio Romano). Nonostante le molte divergenze tra i due partiti e una mai

sopita tendenza del partito comunista a criticare i compagni socialisti – i comunisti

chiedevano l’unità nella convinzione che il loro apparato avrebbe prevalso sulla SFIO; i

socialisti, invece, proponevano un programma comune, una sorta di New Deal alla francese,una via socialdemocratica – il 27 luglio 1934 PCF e SFIO stipularono un patto d’unità

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d’azione contro il fascismo, la guerra e per la difesa delle libertà democratiche; l’iniziativa

unitaria riguardò anche i sindacati che, seppur dopo difficili e lunghe trattative, giunsero alla

loro completa fusione e ad un unico esecutivo. La strategia del Fronte Popolare fu vincente: in

occasione delle legislative del ’36 la coalizione vinse la maggioranza assoluta dei seggi e il

PCF passò da 10 a 72 seggi, ottenendo circa un milione e mezzo di voti. Malgrado il successo,

il PCF non entrò nel governo: “non ci può essere partecipazione di sorta ad un governo

all’interno dei confini del capitalismo”, dichiarò Thorez, aggiungendo di temere che

l’ingresso dei comunisti nel governo avrebbe alimentato presso la destra radicale propositi

golpisti. Anche se responsabile in una certa parte della caduta del governo Blum, al PCF va

riconosciuto il merito di essere stato forse l’unico partito francese a vedere con chiarezza la

tragica situazione dell’Europa degli anni ’30 e a prevedere i drammatici eventi futuri.

Risolutamente contrario alla neutralità nella guerra di Spagna – definita da Blum “borghese” e

quindi motivo d’interesse solo per i governi borghesi, non certo per la Francia del Fronte – 

sostenne il riarmo per fronteggiare i vari fascismi e una forte politica di repressione nei

confronti della destra sovversiva, la quale, sempre più frequentemente, manifestava al grido di

“Meglio Hitler del Fronte Popolare”. Questa determinazione e la progressiva acquisizione del

sindacato unificato valsero al partito una grande crescita in termini di iscritti e la reputazione

di difensore della democrazia. Le risorse su cui il partito stava costruendo la sua futura

egemonia a sinistra fu l’attivismo volontario: “ Il partito socialista francese è un partito nel 

quale è molto importante l’influenza di intellettuali di origine borghese, come era lo stesso

  Léon Blum, una persona culturalmente molto raffinata. Questa influenza borghese è

rilevante: anche nelle riunioni di sezioni o di sindacato è in genere l’intellettuale di sinistra

di origine borghese che ha un ruolo preminente. Invece, il PCF alla metà degli anni Trenta,

come in Italia alla metà degli anni Quaranta, sviluppa molto l’attivismo politico dei militanti

di formazione operaia…è questa una ragione di forza per il partito comunista che si

manifesterà anche dopo la fine della guerra” (Sergio Romano). In un contesto siffatto, il patto

di non aggressione Ribbentrop-Molotov tra Germania nazista e URSS stalinista fu un fulmine

a ciel sereno, lasciò sgomenti gli iscritti e creò un forte disagio tra gli attivisti: 21 dei 72

deputati rimisero il mandato e 18 membri dell’esecutivo della CGT votarono per la condanna

del patto (solo otto membri votarono a favore e due si astennero). Ancora una volta la

dipendenza dall’URSS fa apparire contraddittorio il partito, estraneo al paese e inaffidabile: il

PCF giustificò quella scelta sostenendo che la guerra che Hitler conduceva non riguardava la

democrazia, bensì l’imperialismo e che, proprio per questo motivo, non poteva essered’interesse per il proletariato. Addirittura, alcuni importanti militanti come Marty arrivarono a

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vedere l’invasione sovietica della Polonia orientale come un fatto di civiltà e di progresso: “la

classe operaia francese ha visto col più grande entusiasmo la marcia dell’Armata Rossa per 

  portare la pace, l’ordine e il socialismo al popolo della Polonia Orientale” . Messo

fuorilegge dal governo Daladier, il partito si ricostituì in gruppo parlamentare come “ gruppo

operaio e contadino” e chiese immediatamente la pace. Fortunatamente, la confusione e lo

smarrimento provocati dal patto di non-aggressione si dissolse – e con esso l’incubo dei

militanti obbligati ad una fedeltà incomprensibile – quando, lanciata l’operazione Barbarossa,

Hitler mosse guerra all’URSS: il partito, da anni in clandestinità, organizzò il più importante

fronte della lotta di Resistenza francese e, giudicando la guerra non più un fatto difensivo

dello stato borghese bensì una guerra per la liberazione del popolo, riuscì non solo a

recuperare quell’immagine che tra il ’39 ed il ’41 era stata offuscata dal rigoroso allineamento

sulle posizioni dell’Unione Sovietica, ma addirittura a rivelarsi alla prima buona occasione, le

elezioni del ’45, il partito di maggioranza relativa con il 28% dei voti. Nonostante la forza

elettorale conseguita e la supremazia raggiunta anche nel mondo del lavoro, giacché la

ricostituita CGT è ormai a direzione esclusivamente comunista, il PCF si trova ai margini del

gioco parlamentare e involontaria causa dell’instabilità ministeriale della IV° repubblica.

Volendo spiegare perché i comunisti non potessero andare al potere, Léon Blum ebbe a dire

che i comunisti non erano né di destra né di sinistra, bensì all’Est. In realtà, il PCF accettò di

comportarsi secondo le regole della quarta repubblica, che aveva concorso a stabilire, e

secondo le regole di Yalta: così, anche se il 1947 fu un anno di violente manifestazioni, il

 partito sviluppò un’attività legale parlamentare coordinata con quella sindacale. Oggi il PCF è

un piccolo partito che si attesta tra il 9% e l’11% dei suffragi: come si è ridotto a tali

dimensioni il comunismo francese? La V° repubblica è stata la scure che, scivolando sul collo

della IV°, dei suoi protagonisti e dei suoi mali, ha completamente cambiato il sistema dei

 partiti francese, reso bipolare e selettivo; i partiti che difficilmente riescono ad aggregarsi

sono fuori dal parlamento. Così, seppur forte del 20% dei consensi popolari nel 1968, il

  partito comunista non riesce nemmeno a formare un gruppo parlamentare, perde

 progressivamente visibilità a favore dei socialisti, si logora e finisce per essere del tutto

estraneo alle istituzioni. Accolta la proposta di Mittérand di costituire un patto d’unità

d’azione, il PCF vince assieme al PS numerose elezioni locali e nel 1981 entra nel governo

Mauroy con quattro ministri. Uscitone nel ’84, deluso per lo scarso successo delle

nazionalizzazioni e per la sconfitta alle europee dello stesso anno, il partito comunista torna al

governo solo nel 1997 all’interno del governo socialista di Lionél Jospin. Alle ultime elezioni presidenziali la sinistra massimalista si è presentata frantumata tra numerosi candidati. In

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definitiva, possiamo affermare che pur essendo un importante partito fin dalla sua fondazione

nel 1920, quello comunista non è mai stato forte abbastanza e indipendente per imporre una

sua strategia; è sempre stato dentro un ghetto e costretto a sporadiche alleanze elettorali con i

socialisti per uscirne temporaneamente (Front Populaire, 1936; apertura a Guy Mollet, 1956;

 patto con Mittérand, 1972). La sua tradizione, la sua cultura, la sua filosofia della storia, però,

gli hanno imposto di rifiutare qualunque duratura alleanza con partiti dai discutibili propositi

rivoluzionari; la sua fedeltà all’ortodossia sovietica, inoltre, lo ha reso incompatibile con la

doverosa politica atlantica del suo paese : “ La fedeltà all’Unione Sovietica è, però, più un

risultato dell’epopea giacobina francese che a Marx: il partito infatti, si sente erede e

custode ed interprete di una parabola rivoluzionaria le cui tappe sono state la Bastiglia, il 

Comitato di Salute Pubblica, le “giornate” del 1948, la Comune, la Rivoluzione sovietica. Il 

 PCF, quindi, è sostanzialmente un partito francese” (Sergio Romano).

Mouvement républicain populaire: chi è costui?

Malgrado la sua ricca tradizione cattolica e il fatto che sia stato il primo paese in Europa ad

estendere il diritto di voto (nel 1848 con la costituzione della II° repubblica) a tutti i cittadini

maschi adulti, la Francia non ha mai conosciuto formazioni politiche d’ispirazione cristiano-

democratica fino al 1942, anno in cui fu fondato il Mouvement   Républicain  Populaire. Il

motivo di questa lunga assenza, che poi si è ripetuta per motivi diversi a partire dal ’58,

risiede nel generale rifiuto della Chiesa ottocentesca della democrazia e nel suo particolare

atteggiamento di ostilità nei confronti della repubblica francese. Quest’ultimo punto è stato

segnato dal modo in cui il paese è passato alla modernità, cioè al cruento modo che ha

condotto all’emancipazione dello Stato dalla Chiesa: la Rivoluzione, infatti, favorendo

l’identificazione della Chiesa con l’Ancient   Régime, aveva costretto tanto la Chiesa stessa che

la popolazione a prendere posizione a favore o contro l’ordine borghese, in tal modo

spingendo i cattolici praticanti e la gerarchia ecclesiastica a schierarsi contro la Rivoluzione e

contro tutti gli assetti istituzionali che ne ricordavano l’avveramento. I cattolici, insomma,

anche in virtù del pontificio non  expedit , preferirono, piuttosto che collaborare con la

repubblica, esserle indifferente, quando non addirittura ostili fino alla sovversione (affaire

Dreyfus): tutto ciò nonostante che in Francia sia vissuto uno dei maggiori pensatori politici

cattolici di ogni tempo: Robert De Lammenais. I cattolici, avendo sempre sviluppato un

comportamento politico conservatore e tendente a riconoscere alle istituzioni repubblicane del

1871 solo un minimo sufficiente di riconoscimento, finirono per preferire l’appoggio ai partiti

conservatori e reazionari piuttosto che dirigere le proprie energie per l’edificazione diorganizzazioni di massa come quelle che a partire dal primo dopo guerra si formarono in Italia

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e in Germania. Nel 1848 i cattolici si erano identificati con il “partito dell’ordine” a sostegno

di Luigi Bonaparte e, una volta proclamato l’impero, si schierarono decisamente in suo

favore. Il cattolicesimo francese, forte nelle campagne, conservatore e reazionario, fu uno dei

maggiori sostegni di quel regime e quando la terza repubblica, che inizialmente si disse

conservatrice, si dimostrò tenacemente laica e disposta a difendersi anche con una politica

anticlericale senza precedenti, allora i cattolici finirono per alimentare il dissenso e, insieme

all’esercito, a favorire tentazioni autoritarie: nell’assemblea i cattolici furono rappresentati

nell’assemblea del 1871 da nobili eletti nelle campagne e legittimisti monarchici, favorevoli

alla restaurazione borbonica e al suo programma politico. Svanito il sogno monarchico, i

cattolici continuarono a schierarsi risolutamente contro la repubblica, la peggiore, tra l’altro,

tra quelle che potevano essere loro proposte, vistane la debolezza dell’esecutivo e la centralità

del legislativo; nello scandalo Dreyfus furono dalle parte dei anti-dreyfusardi. Il sostegno

offerto implicitamente all’ Action  française di Charles Maurras – che finirà scomunicato dal

Papa nel 1926 – ed il carattere restauratore del regime di Pétain, però, cambiarono il

comportamento dei cattolici anti-nazisti e amanti della libertà i quali, obbligati a scegliere tra

lo stare dalla parte dell’umanità o da quella della barbarie, aderirono decisamente alla prima

causa partecipando alla Resistenza e collaborando con De Gaulle. La necessità di dotarsi di

una propria personalità politica democratica in opposizione alla “rivoluzione nazionale” di

Vichy e di superare il suo passato reazionario, furono la vera motivazione che spinse i

cattolici a dotarsi di una solida organizzazione partitica moderna in grado di affrontare la lotta

 politica senza confondere l’elettorato cattolico con quello della destra autoritaria. Il partito

Mouvement   Républicain  Populaire giocò un ruolo molto importante durante la Resistenza e

fece parte del Comitato di Liberazione Nazionale. Dopo l’uccisione ad opera dei nazisti di

Jean Moulin, che ne fu il fondatore, il partito fu diretto da Georges Bidault, una personalità di

  primo piano nella vita politica francese fino agli anni Cinquanta quando, subita una

involuzione autoritaria, finirà per collaborare negli anni Sessanta con l’OAS. La vicenda

 personale di Bidault, però, non fu la storia del mondo cattolico francese. Per tutti i dodici anni

della IV° repubblica il MRP si è mantenuto ad ogni elezione intorno al 20 % dei suffragi, ha

conquistato molte amministrazioni comunali ed è stato al vertice di tutte le combinazioni

governative del periodo 1946-1955. Durante la prima legislatura (1946-1951) i governi

espressi dalla coalizione SFIO-MRP, ebbero di solito un presidente del consiglio socialista e

un ministro degli esteri cattolico (in modo alternato Schuman e Bidault). Tra il ’51 ed il ’55,

invece, grazie al sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza, il MRP andò algoverno alla testa di una coalizione frammentata ed eterogenea (c’erano anche i radicali). In

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questo periodo il MRP fornisce alla Francia alcuni dei suoi migliori politici i quali, come

Robert Schuman, si spesero per progetti ambiziosi e di lungo respiro come l’unificazione

europea ed il riavvicinamento del paese con la Germania e l’Italia. Il fatto che tutti e tre questi

 paesi fossero retti da governi a guida cattolica può spiegare facilmente il successo del progetto

delle Comunità europee e il motivo per cui molti parlarono di un’Europa cristiana e

carolingia. A partire dalla metà degli anni Cinquanta, però, il MRP, benché giovane, entrò in

crisi costretto all’opposizione dal ritorno al successo elettorale della SFIO e schiacciato a

destra dalla crescita del  Ressemblement   du  peuple  français di De Gaulle e della destra

contestatrice e trasformista di Pierre Poujade. Così, nonostante abbia giocato un ruolo molto

importante durante la Resistenza, si sia adoperato con successo per la riconciliazione franco-

tedesca, abbia dato un forte contributo all’unità europea, abbia espresso ministri e capi di

governo, dato uno spazio politico ai cattolici, con il ritorno del generale De Gaulle e le nuove

istituzioni il partito dei cattolici svanisce nell’impossibilità di ricostruire il centro politico nel

sistema bipolare della nuova repubblica: i cattolici, quindi, tornano nell’ombra, sostenendo lo

schieramento moderato senza esporsi con una formazione propria; si riconoscono nella Union

 pour   la  Nouvélle  République, malgrado la strenuo tentativo del Centro democratico di Jean

Lecanuet, ma poi finiscono in massima parte per aderire alla UDF di V.G. D’éstaing.

La Francia e le sue particolarità: il gollismo

La parola “gollismo” richiama immediatamente alla memoria la figura del generale De Gaulle

 – da cui appunto “gollismo” – e le istituzioni della V°repubblica. Il movimento gollista si è

espresso a partire dal 1946, anno in cui De Gaulle fondò il Ressemblement du peuple français

(RPF), in svariate formazioni a secondo delle esigenze strategiche di ciascuna scadenza

elettorale: RPF, appunto, fino al 1958; UNR dal 1958 al ’66; UdR fino al ’76; RPR fino al

2002; UMP (dapprima Union pour la majorité presidentiélle, poi Union pour un mouvement 

 populaire) a partire dal 2002. Tutte queste formazioni, in realtà, non sono mai stati partiti

 politici strutturati secondo il modello del partito di massa, bensì dei grandi schieramenti di

 persone individualmente convinti della bontà dell’azione politica del Generale. De Gaulle,

infatti, disprezzava i partiti politici e le loro degenerazioni, le quali altro non facevano che

dividere e lacerare la comunità nazionale e causare mal governo e inefficienza di fronte ai

 pericoli esterni; De Gaulle, quindi, quando decise di lasciare le armi per servire meglio la sua

nazione come uomo politico, si rifiutò di dar vita ad un nuovo partito “pigliatutto” e volle

fondare uno schieramento trasversale di uomini e donne desiderose di fare il bene della

Francia prima di tutto. De Gaulle, insomma, non si rifece mai ad alcuna ideologia e non basòla sua forza politica su di una struttura che fabbricasse il consenso; volle, invece, dare un

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indirizzo “nazionale” alla sua condotta politica a secondo delle necessità e delle opportunità

del momento e, infine, rapportarsi direttamente con i francesi onesti e coraggiosi saltando la

mediazione dei corpi intermedi. Inizialmente, questo indirizzo “nazionale” che De Gaulle

aveva individuato per la Francia fu costituito da una nuova costituzione che prevedesse, nel

rispetto delle prerogative del parlamento, un forte esecutivo guidato dal presidente della

repubblica. L’idea della repubblica presidenziale era in mente al Generale durante la guerra,

 poiché egli percepiva l’assenza di un capo nazionale come la vera causa della disfatta

dell’estate del ’40. Proprio con lo scopo di colmare tale vuoto, De Gaulle non ha esitazione a

radunare attorno a sé, lui che allo scoppio della guerra era un ufficiale come tanti altri, dalle

antenne di Radio Londra tutte le forze armate contrarie a Vichy e tutti i francesi liberi nel

mondo per combattere contro la Germania nazista e i suoi alleati e complici. Giunto a Londra

De Gaulle non ha ancora un programma politico chiaro, ma ha alcune certezze, uno stile e un

alto concetto di sé. Il suo programma prenderà corpo lentamente e pragmaticamente grazie al

contatto con le realtà francese e internazionale: la fede nella Francia “étérnélle”, l’amore per 

l’ordine e una certa aspirazione egualitaria saranno le grandi linee della sua politica. Due

aspetti, però, emergono con chiarezza dall’esilio londinese: il sentimento d’indipendenza e il

desiderio di restaurare l’autorità dello Stato e di riscattare la Francia dai suoi recenti errori (il

regime di Pétain). In questi due moti dell’anima del Generale è facile scorgere la denuncia

dell’occupazione nazista, da un lato, e del partito comunista, dall’altro, oltre che una visione

idealizzata della Francia intesa come dispensatrice universale di civiltà. Giunto al potere alla

testa del Comitato di Liberazione Nazionale, De Gaulle non proporrà, quindi, una semplice

restaurazione della repubblica, ma un regime completamente diverso dalla terza repubblica e

la sua deriva partitocratrica: solo nel 1946, però, in un discorso pronunciato a Bayeux dopo le

dimissioni da capo del governo, ufficializzerà i suoi progetti costituzionali e chiamerà a

raccolta i francesi interessati al bene della Francia. Questo disegno incontra consensi e

opposizioni: la destra collaborazionista ne accetterebbe i tratti autoritari, ma diffida della vena

 populista e sociale che De Gaulle non dimentica mai di manifestare; la destra liberale e

liberista teme che De Gaulle voglia imporre limiti intollerabili alle idee e alle leggi di

mercato; i radicali restano fedeli ai meccanismi assembleari della terza repubblica e al

notabilato provinciale; i cattolici del MRP temono il centralismo autoritario; i socialisti e i

comunisti non ne sottoscrivono il nazionalismo e la concezione personale del potere e temono

un’involuzione autoritaria. Fallito il primo tentativo ma non domato, il Generale attraversa per 

dieci anni tutta la Francia attaccando il sistema dei partiti e la quarta repubblica, mentre ideputati a lui legati si danno un gran da fare in aula per “sabotarla”. De Gaulle riesce a

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raccogliere tutte le tradizioni politiche francesi dalla plurisecolare monarchia alla rivoluzione

  borghese, dal giacobinismo (ebbe un vero e proprio culto per Rousseau), agli imperi

 bonapartisti; tutte le pulsioni, le aspirazioni, le paure e le volontà dei francesi e della loro

storia convergono nel suo pensiero. Forte della sua posizione, conduce una campagna

soprattutto istituzionale e i suoi bersagli preferiti sono i partiti politici, giudicati incapaci di

sottrarsi alle spinte corporative e settoriali del paese e alle sirene straniere; i suoi proclami

antiparlamentari gli giovano a destra a partire dalla metà degli anni Cinquanta, dopo che la

crisi d’Algeria ha risvegliato nostalgie autoritarie; gli nuocciono a sinistra dove evocano il

fantasma della restaurazione; il ruolo svolto durante la seconda guerra mondiale e le critiche

mosse al governo per l’eccessiva docilità e disponibilità nei confronti degli USA gli

assicurano consensi e simpatie in larghi strati della popolazione. Tornato al potere nel ’58, il

Generale non si identifica con alcuna corrente politica, anzi, scioglie il suo ressemblement  e

costituisce a sostegno della nuova repubblica la Union pour la nouvélle république, una

formazione aperta a chiunque volesse sostenere il suo progetto costituzionale. Il gollismo,

comunque, non può essere ridotto alla sola questione istituzionale: altro grande tassello è

senz’altro la politica estera di autonomia rispetto ai blocchi (la force de frappe) che mira a far 

ricavare alla Francia un suo spazio d’egemonia mondiale fondato sulla sua “eternità”.

Contrariamente a quanto fatto dalla terza repubblica all’indomani della prima guerra mondiale

e del disimpegno americano, la quarta repubblica aveva rinunciato ad esercitare la sua

meritata egemonia culturale, accettato l’integrazione europea e tollerato la soggezione agli

Stati uniti d’America: il gollismo, invece, è molto scettico circa l’integrazione europea,

convinto che essa avrebbe consentito agli USA di condizionare meglio gli alleati, e considera

l’Alleanza Atlantica più come un male necessario che un bene auspicabile. Nell’estate del ’58

il governo francese propone ad Eisenhower e a MacMillan un direttorio tripartito in seno alla

 NATO: posto di fronte alla risposta negativa dei due governi coinvolti dalla proposta, De

Gaulle deciderà nel ’59 il rifiuto del deposito delle armi atomiche americane sul territorio

francese; nel ’66 l’uscita dall’organizzazione militare della NATO, l’allontanamento dei

comandi atlantici e la chiusura delle basi straniere. Ancora: nel 1964 riconosce la Cina

Popolare; nel ’65 propone che il saldo delle bilance dei pagamenti avvenga in oro anziché in

dollari; propone una via francese alla questione dell’Indocina; si oppone a qualsiasi forma di

sopranazionalità in Europa e impedisce l’ingresso della Gran Bretagna nel mercato comune.

Sergio Romano: “  De Gaulle sa che queste azioni di disturbo contro l’egemonia delle

 superpotenze e in particolare contro la leadership americana gli sono consentite soltanto nei

momenti di distensione internazionale. In quelle di crisi – Berlino, Cuba – egli ritrova il suo

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 posto di fedele alleato dell’America all’interno della coalizione occidentale (…) ma negli

anni sessanta, mentre i rapporti est-ovest accennarono a divenire meno rigidi e il terzo

mondo acquista maggiore coscienza della propria personalità, la Francia occupa uno spazio

 politico originale e contribuisce ad amplificare la voce delle pluralità nazionali e delle

  specificità etniche. E De Gaulle restituisce in tal modo ai francesi in un contesto

radicalmente diverso dal ventennio fra le due guerre, il sentimento d’una presenza e d’una

 funzione nel mondo”. Tutti i nodi della controversa politica del Generale vengono a galla nel

cosiddetto “maggio del ‘68”, quando parve che l’ennesima rivoluzione si stesse consumando

 per le strade di Parigi. In quell’occasione, alla contestazione studentesca si unì sì quella degli

operai, ma anche quella delle formazioni politiche di sinistra che, penalizzate del sistema di

governo della V°repubblica, non riuscivano a trovare spazio nelle nuove istituzioni: la

gerarchia istituzionale della V° repubblica, infatti, aveva fortemente indebolito i “corpi

intermedi” come i partiti politici, i sindacati e il parlamento stesso, cosicché il dissenso da

tempo latente non poté fare altro che puntare all’abbattimento di quel regime che non pochi

consideravano una dittatura elettiva. L’esperienza politica personale di De Gaulle si concluse

di lì a poco, quando le sue proposte di riforma dell’università, dell’ordinamento regionale e

del Senato furono rigettate alla voce del referendum; il gollismo, però, non si è concluso lì.

Innanzitutto, esso ha continuato ad esistere grazie alla continuità e alla stabilità delle

istituzioni della V°repubblica; inoltre, lo schieramento attuale di centrodestra continua a

rifarsi, nelle forme possibili, alla politica del Generale, sia per quanto attiene alla politica

estera che per quanto riguarda la politica sociale. Infatti, i neo-gollisti continuano a perseguire

quella politica di  grandeur  e di autonomia dagli Stati Uniti che fu già del Generale e

seguitano a rendere impervio il cammino dell’unificazione europea anteponendo

costantemente gli interessi superiori della nazione più illuminata del continente; continuano a

intrattenere rapporti privilegiati di neo colonialismo nei confronti delle terre del fu impero

coloniale, ama con l’arguzia di mascherare il tutto dietro alla spirito altruistico della Francia;

seguitano, sul terreno economico, a mantenere la mani dello Stato sulle maggiori attività

 produttive in modo da favorire una grande schiera di tecnocrati cresciuti all’ENA e a garantire

il grande capitale con politiche più o meno chiaramente protezioniste. Secondo Giorgio Galli

il gollismo raccoglie l’eredità della tradizione liberale moderata fusa in qualche modo con

taluni aspetti della destra tradizionale, sarà. Di certo è che a partire dalla fine degli anni

Settanta e per circa un ventennio l’area più liberale dello schieramento gollista è stata espressa

da Valéry Giscard d’Éstaing e dal suo partito UDF (Union pour la démocratie française)fondato in occasione delle legislative del ’78, per separare dall’eredità gollista proprio le

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correnti più liberali che male si identificavano nei toni compassati e nel tecnicismo di Georges

Pompidou, il successore di De Gaulle. D’Éstaing, infatti, durante il suo settennato ha cercato

di realizzare il più possibile un programma di liberalizzazioni economiche e una legislazione

 più liberale sull’aborto, sul divorzio e sulla gioventù; mentre in politica estera, seppur 

continuandosi con la ricerca di vie originali e alternative a quelle nord americane, la strada

seguita è molto più conciliante con la prospettiva europea.

La bestia nera e l’orco: la destra radicale e Jean-Marie Le Pen

Anche la destra in Francia ha una lunga storia, che, tuttavia, per essere appieno compresa,

deve essere scomposta nelle sue due tendenze: quella reazionaria e quella simpatizzante per i

fascismi. La storia della destra francese è dunque segnata da quello spartiacque che è

l’avvento del fascismo in Europa. La destra tradizionale, quella precedente il fascismo, è stata

rappresentata dai fautori della restaurazione monarchica, soprattutto di quella borbonica e si

ricollega alla tradizione religiosa e politica del paese, proponendo un ritorno integrale alla

Francia precedente il 1789; un altro filone, però, sostiene semplicemente l’autoritarismo,

seppur con qualche spruzzo di populismo. Un primo tentativo, seppur confuso, di organizzare

il consenso delle fasce popolari conservatrici fu l’avventura del generale Georges Boulanger,

che tra il 1886 ed il 1889, acquistò una notevole popolarità e, precorrendo in qualche modo il

fascismo, costituì un movimento politico basato su elementi di elitarismo, autoritarismo e

rivendicazioni territoriali. Messosi in luce in Tunisia nel 1881 e grazie a discutibili amicizie e

ad una fama di convinto repubblicano, Boulanger fu nel 1886 ministro della guerra, carica che

tenne con un certo senso della responsabilità e facendosi notare per l’espulsione dall’esercito

del duca D’Aumale e dei principi di sangue reale. Preoccupati dalla sua crescente fama, il

 presidente Grévy e la maggioranza moderata cercano di isolarlo, ma, evidentemente ben

consigliato dietro le quinte, Boulanger si lancia in proclami che presto diventano un

  programma politico incardinato su propositi antiparlamentari, autoritari, populisti e

nazionalisti; un gruppo eversivo di destra, “ La ligue des patriotes”, gli si raccoglie intorno. Il

movimento boulangista passa vincente attraverso una serie di elezioni suppletive e lo stesso

Boulanger vince nel suo collegio di Parigi il 27 gennaio del 1889 con quasi il doppio dei voti

sul suo più diretto avversario. Incitato dai suoi a marciare sull’Eliseo, oppone il suo rifiuto. A

questo punto, resasi conto della personalità del generale, la repubblica ha la forza di reagire:

scioglie la lingue e incrimina Boulanger di “attentato alla sicurezza dello stato”. Boulanger 

fugge a Bruxelles dove muore suicida nel ’91. La vicenda Boulanger, anche se priva di

effetti, è importante perché mostra la sopravvivenza di una coalizione occulta di oppositoridella repubblica, che sempre sono lì ad attendere il momento migliore per provare il colpo di

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forza. È il momento arrivò poco dopo con lo scandalo Dreyfus, occasione in cui la Francia

venne a conoscenza di quanto avversione per il sistema parlamentare ancora ci fosse in essa e

a che livello la collusione tra i reazionari e taluni settori dello stato stesso, come lo stato

maggiore dell’esercito, fosse giunta. Durante il periodo dell’affaire una formazione

tradizionalista che vagheggiava il ritorno della monarchia e la ricomposizione dell’unità

nazionale in uno stato corporativo prese ad esistere.  L’Action   française rifiutava la

democrazia e l’idea di individuo contrapposta a quella di popolo o di unità nazionale; la

considerava il regime dell’oligarchia finanziaria, dei banchieri ebrei, dei massoni, dei

 proprietari. Secondo Charles Maurras solo la barbarie può avere fiducia nel numero e nelle

maggioranze, mentre la civiltà deve fondarsi su Dio, sulla monarchia e sulla Chiesa. Maurras

faceva riferimento anche a istituti pre-rivoluzionari per la fruizione collettiva di beni vitali e

ad un socialismo non egualitario. La seconda tendenza del radicalismo di destra ha inizio con

l’avvento del fascismo in Italia e del nazismo in Germania: è appunto tra gli anni ’20 e gli

anni ’30 che proliferano organizzazioni di destra radicale. Nel 1924 è fondata la lega dei

 Jeunes Patriotes; nel 1926 il  Redréssement français e la “lega dei contribuenti”; nel 1933 la

 solidarité française; nel 1927 nascono le potenti “croix de feu” che, nel 1933, tenteranno di

 prendere il potere guidate dal tenente colonnello François la Nocque, in seguito allo scandalo

Stavisky, dal nome di un finanziere spregiudicato morto in circostanze misteriose. L’estrema

destra sosteneva che nello scandalo fosse coinvolto un ministro e che in realtà Stavisky fosse

stato incastrato da qualche potente politico. Il 6 febbraio 1930, dunque, mentre Daladier 

 presentava alla Camera il suo nuovo governo, le leghe manifestavano di fronte al parlamento

contro il ministero e ci furono scontri che provocarono 14 morti e 659 feriti tra i manifestanti,

1 morto e 780 feriti tra le forze di polizia. Il colonnello La Nocque, che a quel punto poteva

invadere la Camera, non fece però il passo finale: ancora oggi ci si chiede se ci fosse stato

davvero un progetto eversivo, certo è che le Croix de feu, molto forti e ben addestrate,

avrebbero potuto facilmente guadagnare l’ingresso posteriore della Camera. Probabilmente, se

ciò fosse realmente accaduto, molti deputati sarebbero passati dalla parte degli eversivi. Pur 

nella loro diversità, tutti questi gruppi hanno tratti in comune: sono fortemente

antiparlamentari, denunciano la corruzione governativa e chiedono una riforma costituzionale

che rafforzi i poteri dell’esecutivo. Al pericolo bolscevico contrappongono un regime

autoritario ma popolare, al capitalismo il corporativismo, al mal costume della repubblica i

valori etici della guerra e la bellezza della violenza. Il collaborazionismo di Vichy svelò alla

Francia e al mondo l’esistenza di una solida e testarda Francia tradizionalista dura a morire,ostile a tutte le manifestazioni politiche, dalla democrazia liberale al socialismo, che avevano

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accompagnato lo sviluppo della società francese da agricola a mercantile e industriale. Pétain

e i suoi sostenitori, che in verità non erano né pochi né isolati, erano convinti che la causa

della sconfitta fosse da cercare nella democrazia e in quel rilassamento morale che ne era

conseguenza: la sconfitta appariva la giusta punizione per una nazione che aveva commesso

troppi peccati e un’occasione imperdibile per restituire alla Francia le sue tradizionali

gerarchie e la sua vocazione contadina. L’espressione “ Révolution Nazionale” suonò secondo

questa destra come una restaurazione incentrata sulla triade: travaille, famille, patrie contro

l’odiata devise: liberté, égalité, fratenité. Tutti i partiti, i gruppi e le leghe di destra radicale si

unirono al regime di Vichy, salutato come una “divina sorpresa”. L’état français di Pétain fu

rurale, anticapitalista, corporativa e antisemita, senza rifarsi al fascismo o al nazismo, ma solo

ai modelli francesi pre-rivoluzionari: non promosse mai la mobilitazione delle masse e

l’organizzazione del consenso, né si fondò su un partito–stato. Una destra simpatizzante e

ispirata dal totalitarismo nazista, in effetti, prese all’epoca forma, ma agiva a Parigi, in un

territorio estraneo all’amministrazione di Pétain e direttamente controllato dal Reich. Robert

Brasillach, redattore di “  je suis partout ”, Marcel Dèat, direttore di “ L’oeuvre” furono solo

alcuni intellettuali che celebravano i miti del capo, della razza e dell’Europa Imperiale.

Tuttavia, questo fascismo francese non fu sorretto da un progetto coerente, ma fu solo un

coacervo di motivazioni disparate, tra cui la certezza della vittoria di Hitler. Finita la guerra e

riaffermata la democrazia, la destra radicale appare sconfitta e marginalizzata per circa un

decennio. Solo nel 1956 quando la IV° repubblica fu in piena crisi si affermò un movimento

dalle caratteristiche “antifiscali”: formatosi attorno ad un piccolo droghiere, Pierre Poujade, il

movimento prese il nome di  poujadisme. Il movimento poujadista raggruppava piccoli

negozianti e piccoli imprenditori con i propri rispettivi interessi e chiedeva inizialmente un

fisco più leggero e più equo. In seguito evolse verso posizioni di corporativismo,

nazionalismo, xenofobia e di denuncia nei confronti dei politici e dei mass-media. La UDCA,

il partito fondato da Poujade, presentatosi alle elezioni del 1956 ottenne uno strepitoso

successo guadagnando 52 seggi all’Assemblea nazionale. Il tema principale del poujadisme

fu senz’altro quello delle tasse: inizialmente il movimento non ebbe alcuna caratteristica

eccessivamente polemica, limitandosi a provare a persuadere i membri dell’Assemblea

 Nazionale ad ascoltare le rimostranze dei commercianti: cento parlamentari, cogliendo la

 palla al balzo, accolsero le loro pressioni e si impegnarono a tutelarne gli interessi; tuttavia, la

mancata realizzazione di quel progetto indusse i commercianti e i piccoli uomini d’affari a

manifestazioni plateali. Quando il movimento si radicalizzò, assunse posizioni politichesempre più conservatrici e propose l’abolizione del parlamento e la sua sostituzione con una

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nuova assemblea degli stati generali in cui sedessero i rappresentanti naturali delle varie

categorie sociali: operai, piccoli uomini d’affari e commercianti, grandi affaristi, agricoltori,

 professionisti. Il superamento del poujadisme si ebbe con l’avvento della V°repubblica, ma

l’estrema destra continuò a covare. Se in passato la Francia ha tremato per la bestia nera della

restaurazione, oggi teme l’orco Jean-Marie Le Pen e il suo partito del  Front National . Il Front 

 National fu fondato da Le Pen nel 1972 e sebbene tutti lo considerino un partito di estrema

destra, Le Pen sostiene che il suo è semplicemente un partito francese. Il Fronte Nazionale

riprende la contestazione del poujadisme, di cui Le Pen è politicamente figlio, nei confronti

della politica e fa dell’antipolitica la sua bandiera. Uno dei suoi temi principali è la critica

all’attuale sistema dei partiti francesi e al sistema elettorale: per quanto riguarda il primo Le

Pen ha lungamente parlato della “banda dei quattro” per intendere l’establishment  costituito

da RPR, UDF, PS, PCF che monopolizza la vita politica e la società francese in tutti i suoi

livelli; per quanto riguarda il secondo, si contesta che la soglia d’esclusione sia stata

 progressivamente alzata dal 5% al 12,5% proprio per impedire a candidati del FN di accedere

al secondo turno. Le Pen contesta tutti i partiti presenti in parlamento, li considera corrotti e

incapaci di rappresentare la comunità francese. I successi elettorali del FN, partito che

conquista mediamente il 12% dei voti e che puntualmente non ottiene seggi in parlamento,

sono dovuti ad una reale disaffezione degli elettori per i partiti che si alternano

 periodicamente al governo, e sono maggiori laddove, come nel meridione, c’è un forte disagio

economico e si registrano crescenti tensioni razziali. Altro tema importante è quello della

sicurezza e dell’ordine pubblico, in relazione al quale Le Pen ha più volte chiesto la

reintroduzione della pena di morte. Il punto davvero critico del FN è, tuttavia, costituito dai

suoi collegamenti con talune personalità coinvolte in modo più o meno palese con il nazismo,

il regime di Vichy e la terribile OAS: non è difficile sentire membri del partito e lo stesso suo

leader esprimere pubblicamente opinioni razziste, xenofobe, antisemite e ostili nei confronti

degli stranieri, delle minoranze etniche e dell’unità europea. Alcuni esempi sono forniti da

una serie di dichiarazioni di Le Pen: 13/09/87, in riferimento alle camere a gas:  sono state

 solo un dettaglio della seconda guerra mondiale; marzo ’87, si chiede l’isolamento dei malti

di AIDS e la costituzione di comunità isolate dalla società denominate “sidatorium” (in

francese AIDS si dice SIDA); febbraio 1997: Le Pen accusa Chirac di essere sul libro paga di

organizzazioni ebree; 2005: Le Pen dichiara che l’occupazione nazista non fu poi “così

disumana”. Nonostante la sua forte carica contestatrice e la sua discutibile ispirazione morale,

il partito non sembra essere mai stato implicato in fatti d’eversione e né volerne alimentare. Il  partito, quindi, è più semplicemente una valvola di sfogo che indica ai maggiori partiti

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francesi l’esistenza di un malessere fortemente sentito nelle periferie delle maggiori città e

nella provincia e, dunque, la necessità di una seria e profonda riflessione sullo stato reale delle

istituzioni e della società francesi.

Conclusioni (finalmente!)

Da tempo inestimabile, ormai, in Italia facciamo un gran parlare di riforme e puntualmente i

temi su cui ci si accapiglia sono il sistema elettorale ed il sistema di governo: il governo di

centrodestra, dimissionario mentre scrivo, ha prodotto dopo anni di infiniti dibattiti una nuova

legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza e una radicale modifica della

seconda parte della Costituzione con cui si è inteso potenziare i poteri del capo dell’esecutivo.

Ciascuno di noi ha la propria opinione al riguardo e l’intenzione mia non è di discuterle.

Quello che voglio dire è che l’instabilità governativa, il male a cui si vuole porre rimedio

definitivo con queste riforme, non è solo un problema di formula elettorale e/o di sistema di

governo. L’esperienza delle più riuscite democrazie maggioritarie dimostra come il vero

segreto per la governabilità sia la compattezza del sistema dei partiti: un quadro politico

frammentato, “atomizzato” per dirla alla Sartori, e tendente al trasformismo e all’accordo

strategico tra le parti, in mancanza di un programma politico coerente e condiviso, è la vera

causa delle derive assembleari; un quadro in cui alcuni partiti, seppur consistenti, sono

inutilizzabili per la funzione di governo, secondo una conventio ad exludendum, provoca la

mancanza dell’alternanza e un sistema di governo bloccato su di una classe dirigente di fatto

 politicamente irresponsabile. Lo scenario ideale, quindi, è il modello Wenstminster, cioè, il

  bipartitismo britannico, ovvero il sostanziale bipartitismo, anche se non formale, della

Germania e della Spagna. Il sistema dei partiti, purtroppo, non è riformabile poiché le

organizzazioni politiche sono libere associazioni, il più delle volte non riconosciute, a finalità

 politiche e, dunque, non se ne possono stabilire per legge il numero e gli indirizzi. Il sistema

dei partiti, insomma, affiora direttamente dalla società civile e ne esprime la compattezza, se

questa è compatta, oppure le divisioni, se divisa. In Italia, a mio avviso, si parla troppo della

formula elettorale e si tende a presentarlo all’opinione pubblica come una sorta di “formula

magica” che d’un sol colpo dovrebbe annullare la partitocrazia, la mancanza di alternanza, il

malgoverno, l’instabilità ministeriale. Tutti coloro che si onorano di definirsi studiosi, però,

dovrebbero avere l’onestà intellettuale di dichiarare pubblicamente, al di là delle loro

appartenenze politiche e partitiche, che un sistema elettorale non può trasfigurare i voti

espressi dagli elettori, affinché si abbiano chiare maggioranze parlamentari: collegandomi in particolare all’esito della recente consultazione italiana, mi sembra che sia doveroso far notare

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che se tra due schieramenti rivali si registrano, alla fine, solo 25.000 voti di differenza, non

c’è alcun sistema elettorale che, a meno di artifizi qual è un premio di maggioranza, possa

conferire a qualcuno una chiara maggioranza parlamentare. L’uninominale non trasforma i

voti dati ai partiti che esprimono le candidature in seggi così, per qualche strano ritrovato

alchemico: l’uninominale premia pesantemente le aggregazioni più votate e sfavorisce quei

gruppi che non sanno o non possono legarsi ad altri. Non crea maggioranze e minoranze. Se

gli elettori frammentano il loro voto per ragioni clientelari o perché non sanno per chi votare o

 perché sono disaffezionati ai partiti maggiori; se gli elettori, per il verificarsi di un caso

statisticamente quasi impossibile ma politicamente piuttosto diffuso recentemente (oltre

all’Italia anche USA, Germania, Ungheria), votano nella stessa misura per l’una e per l’altra

  proposta politica, allora non c’è sistema elettorale democratico che possa tenere. E non

facciamo ironia su quest’ultima opinione, perché della legge Acerbo riproposta hanno goduto

 proprio quelli che pensavano di vincere allo stesso modo con cui si ruba una caramella ad un

 bambino. Se è vero che il sistema elettorale non è poi così decisivo, è altrettanto vero, però,

che esso condiziona il sistema dei partiti. Quindi, quando si parla di riforme, sempre a mio

avviso, è impossibile scindere i tre elementi: sistema elettorale, sistema di governo e sistema

 partitico. I tre elementi si condizionano reciprocamente, infatti, e solo per fare un breve

esempio, quello dei partiti è influenzato tanto dal primo che dal secondo sistema. Perché tutta

questa spiegazione politologica in una tesina di storia dei partiti politici francesi? Perché mi

sembra che l’aspetto interessante che affiora da uno studio, seppur superficiale, della storia

dei partiti politici in Francia sia il modo radicale in cui il formato partitico del paese è mutato

con l’introduzione dei meccanismi presidenziali della repubblica gollista. De Gaulle non

amava i partiti, visti come fastidiosi corpi intermedi, e concepì una repubblica in cui il popolo

si potesse identificare con un capo, piuttosto che disperdersi tra tanti “capetti” che tirano

l’acqua solo al proprio mulino: per questo pensò al governo presidenziale e al sistema

uninominale. Quest’ultimo, in particolare, fondandosi sulle singole candidature, che si

definivano fin dall’inizio pro ovvero contro il capo, eliminava i partiti che, come il socialista

ed il comunista, difficilmente riuscivano a farsi degli alleati e ad aggiudicarsi così i singoli

collegi. Ciò che il Generale aveva in mente era una repubblica senza partiti e con una sola

testa; oggi, tuttavia, la Francia ha ricostruito il sistema dei partiti e lo ha fatto in modo

completamente diverso da come questo fu strutturato prima del ’58. Il merito non è del

sistema elettorale, ma del sistema elettorale e del sistema di governo considerati nel loro

insieme. Fin dalla proclamazione della terza repubblica la Francia aveva conosciuto sologoverni instabili e partiti “pazzoidi” che facevano e disfacevano accordi elettorali e

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5/10/2018 Breve Storia Dei Partiti Politici Francesi - slidepdf.com

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  parlamentari a scapito della governabilità. Non che la durata dei governi sia poi così

importante, perché sia la Francia che l’Italia sono divenute potenze mondiali e paesi avanzati

culturalmente e giuridicamente nonostante l’instabilità dei loro governi e l’irresponsabilità

 politica dei loro fautori; tuttavia, nel mondo complesso e interdipendente di oggi è bene che

ciascun paese si presenti al mondo con degli interlocutori – capo del governo, ministro degli

esteri, ministri economici e finanziari – credibili. E la credibilità si acquista con la continuità

dei rapporti. Il modo in cui il sistema dei partiti si è razionalizzato in Francia può essere un

valido esempio anche per noi in Italia, non nel senso di dover adottare la forma di governo

 presidenziale – scusatemi, ma non condivido l’idea che esista un forma di governo chiamata

“ semipresidenzialismo” – bensì nel senso che dobbiamo comprendere che il sistema

elettorale non è risolutivo di per sé, ma necessita di essere inquadrato all’interno di una più

vasta opera di ripensamento costituzionale, la quale cosa non costituisce reato. D’altra parte,

se oggi prendiamo l’abitudine di mandare al Quirinale una forte personalità politica, per via

dell’attuale strutturazione dei partiti, strutturazione non esistente e nemmeno prevista

all’epoca in cui la Costituzione fu scritta, rischiamo di modificare nei fatti gli equilibri

istituzionali fin qui affermatisi a favore di soluzioni presidenzialiste non disciplinate dal testo

costituzionale ancora in vigore. Non voglio nemmeno pensare a cosa accadrebbe se a ciò si

unisse l’approvazione della riforma costituzionale del centrodestra nel referendum di giugno!

Concludendo, voglio ribadire brevemente il mio pensiero, cioè, che affinché vi sia stabilità di

governo – e questo ce lo dimostra meravigliosamente la recente storia francese – è necessario

un adeguato sistema dei partiti; nessun sistema elettorale, da solo, è in grado di assicurare ciò

che solamente la combinazione tra questo ed un più forte sistema di governo può fare. I tre

elementi si condizionano reciprocamente e non possono essere discussi separatamente e in

modo definitivo, perché modificandosene uno, può essere necessario modificare anche gli

altri. I partiti sono delle libere associazioni a scopi politici e la loro proliferazione è dovuta

tanto al modo in cui si vota che al modo in cui è possibile giungere al governo che, infine, a

dati strutturali, come la cultura e le differenze tra regioni e tra province. Questo, se vogliamo,

è ciò che possiamo trarre dalla lunga storia dei partiti politici francesi.