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Alberto Argenton (1996), Arte e cognizione. Introduzione alla psicologia dell’arte, Raffaello Cortina, Milano Dall'Introduzione Nonostante la psicologia dell’arte abbia ricevuto solo in tempi relativamente recenti segni significativi di riconoscimento — ed anche dal canto suo fatichi a trovare una propria identità — si può dire che la sua storia, seppure in nuce, cominci intorno alla metà del secolo scorso quando la psicologia stessa, affrancandosi dalla filosofia e assumendo metodi empiristici e sperimentali, si dà veste scientifica e si costituisce in disciplina autonoma. I principali protagonisti di questa mutazione, come Gustav Theodor Fechner, Hermann von Helmholtz, Wilhelm Wundt, dedicano tutti, chi più chi meno, una parte delle loro mastodontiche imprese di ricerca e di riflessione a problemi connessi con l’arte e l’estetica, tracciando un percorso che verrà seguito soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Europa, dalla generazione immediatamente successiva dei pionieri della psicologia, con l’intento non, certo, di fondare una psicologia dell’arte, bensì di affrontare tutti gli aspetti del comportamento dell’essere umano, compreso quello artistico ed estetico, e giungere a formulare un quadro completo, descrittivo e interpretativo, del funzionamento della sua mente. Queste imprese globali, data la complessità dell’oggetto di studio, devono ben presto ridimensionarsi, trasformarsi in progetti di minore ampiezza, e l’indagine inizia progressivamente ad articolarsi, rivolgendosi a più o meno circoscritti e specifici aspetti del comportamento mentale, ramificandosi in vari settori di ricerca e di applicazione, generando diverse scuole teoriche, stimolando confluenze con altri ambiti disciplinari, conferendo, in breve, alla psicologia quella fisionomia composita che tuttora manifesta. Durante tale processo di parcellizzazione anche lo studio del fenomeno artistico incomincia a configurarsi come settore a sé stante, vivendo però stentatamente fino al secondo dopoguerra, quando prende a dar segni di maggiore vitalità. Il rinnovato vigore di questa materia, nonostante la sua marginalità ed esiguità di fondo 1 , è testimoniato dalla collocazione più ampia e netta che negli anni Sessanta essa trova nella letteratura e nella cultura psicologica, soprattutto dei paesi di lingua anglosassone. Ad esempio, nell’Annual Review of Psychology del 1961 compare per la prima volta una rassegna, intitolata Aesthetics, stilata da C.C. Pratt; nella seconda edizione, del 1969, dell’Handbook of Social Psychology, curato da G. Lindzey ed E. Aronson viene inserito un capitolo, Esthetics, scritto da I.L. Child e dedicato a definire quest’ambito di indagine; sempre nel 1969, a cura di J. Hogg, esce nella collana Penguin Modern Psychology Readings una raccolta di saggi, i cui autori — fra gli altri, T. Munro, A. Ehrenzweig, D.E. Berlyne, E.H. Gombrich, I.L. Child, R. Arnheim, A. Anastasi — rappresentano i principali esponenti delle varie articolazioni che il campo di studio aveva assunto o stava assumendo anche nelle sue connessioni interdisciplinari. E sempre in quegli anni, la psicologia dell’arte diviene materia di insegnamento 1 Vedi, a questo proposito, l’analisi quantitativa compiuta da R. Luccio sugli Psychological Abstracts, a partire dall’anno della loro nascita, il 1927, degli articoli che trattano “problemi direttamente o indirettamente legati all’estetica” (R. Luccio, 1982, p. 17).

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Alberto Argenton (1996), Arte e cognizione. Introduzione alla psicologia dell’arte, Raffaello Cortina, Milano

Dall'Introduzione

Nonostante la psicologia dell’arte abbia ricevuto solo in tempi relativamente recenti segni significativi di riconoscimento — ed anche dal canto suo fatichi a trovare una propria identità — si può dire che la sua storia, seppure in nuce, cominci intorno alla metà del secolo scorso quando la psicologia stessa, affrancandosi dalla filosofia e assumendo metodi empiristici e sperimentali, si dà veste scientifica e si costituisce in disciplina autonoma.

I principali protagonisti di questa mutazione, come Gustav Theodor Fechner, Hermann von Helmholtz, Wilhelm Wundt, dedicano tutti, chi più chi meno, una parte delle loro mastodontiche imprese di ricerca e di riflessione a problemi connessi con l’arte e l’estetica, tracciando un percorso che verrà seguito soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Europa, dalla generazione immediatamente successiva dei pionieri della psicologia, con l’intento non, certo, di fondare una psicologia dell’arte, bensì di affrontare tutti gli aspetti del comportamento dell’essere umano, compreso quello artistico ed estetico, e giungere a formulare un quadro completo, descrittivo e interpretativo, del funzionamento della sua mente.

Queste imprese globali, data la complessità dell’oggetto di studio, devono ben presto ridimensionarsi, trasformarsi in progetti di minore ampiezza, e l’indagine inizia progressivamente ad articolarsi, rivolgendosi a più o meno circoscritti e specifici aspetti del comportamento mentale, ramificandosi in vari settori di ricerca e di applicazione, generando diverse scuole teoriche, stimolando confluenze con altri ambiti disciplinari, conferendo, in breve, alla psicologia quella fisionomia composita che tuttora manifesta.

Durante tale processo di parcellizzazione anche lo studio del fenomeno artistico incomincia a configurarsi come settore a sé stante, vivendo però stentatamente fino al secondo dopoguerra, quando prende a dar segni di maggiore vitalità.

Il rinnovato vigore di questa materia, nonostante la sua marginalità ed esiguità di fondo1, è testimoniato dalla collocazione più ampia e netta che negli anni Sessanta essatrova nella letteratura e nella cultura psicologica, soprattutto dei paesi di lingua anglosassone. Ad esempio, nell’Annual Review of Psychology del 1961 compare per la prima volta una rassegna, intitolata Aesthetics, stilata da C.C. Pratt; nella seconda edizione, del 1969, dell’Handbook of Social Psychology, curato da G. Lindzey ed E. Aronson viene inserito un capitolo, Esthetics, scritto da I.L. Child e dedicato a definire quest’ambito di indagine; sempre nel 1969, a cura di J. Hogg, esce nella collana Penguin Modern Psychology Readings una raccolta di saggi, i cui autori — fra gli altri, T. Munro, A. Ehrenzweig, D.E. Berlyne, E.H. Gombrich, I.L. Child, R. Arnheim, A. Anastasi — rappresentano i principali esponenti delle varie articolazioni che il campo di studio aveva assunto o stava assumendo anche nelle sue connessioni interdisciplinari. E sempre in quegli anni, la psicologia dell’arte diviene materia di insegnamento

1 Vedi, a questo proposito, l’analisi quantitativa compiuta da R. Luccio sugli Psychological Abstracts, a partiredall’anno della loro nascita, il 1927, degli articoli che trattano “problemi direttamente o indirettamente legati all’estetica” (R. Luccio, 1982, p. 17).

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universitario, in seno all’American Psychological Association è creata la Divisione di Psychology and Arts, così come viene fondata l’International Association of Empirical Aesthetics che ha anche per alcuni anni una sua rivista, Sciences de l’Art, poi, Scientific Aesthetics, e che inizia a organizzare, e tuttora organizza, periodici congressi internazionali.

In questo periodo, si consolidano i tre principali indirizzi teorici che guidano la ricerca in quest’ambito, corrispondenti alle tre principali scuole psicologiche sviluppatesi dai primi decenni del nostro secolo: la psicoanalisi, il neocomportamentismo e la psicologia della Gestalt e, sempre intorno agli anni Sessanta, la psicologia dell’arte riceve una nuova spinta innovativa dovuta all’influenza della psicologia cognitivista. Si profila così un quarto filone di indagine, che sembra oggi sovrastare quello neocomportamentista e il gestaltista dominando la scena assieme al sempre vegeto e prolifico indirizzo psicoanalitico.

[…]

L’oggetto di indagine

L’oggetto di indagine della psicologia dell’arte è uno dei pochi elementi su cui si rileva una netta e totale concordanza fra le diversificate — spesso contrapposte — ‘anime’ teoriche e metodologiche che la compongono, ravvisabili già nella varietà delle sue denominazioni: psicologia dell’arte, psicoanalisi dell’arte, estetica sperimentale, estetica psicologica, psicologia estetica oppure semplicemente aesthetics o, anche, negli Stati Uniti, esthetics2.

Una ricognizione della letteratura prodotta negli ultimi trent’anni, compiuta su rassegne e monografie, documenta e mostra tale concordanza.

T. Munro ritiene che

il compito generale [della psicologia dell’arte] sia di descrivere e spiegare i fenomeni dell’esperienza e del comportamento umano nelle loro relazioni con le opere d’arte. Questi fenomeni cadono all’interno di due gruppi principali, strettamente interrelati fra loro: quelli attinenti alla creazione [artistica] e quelli riguardanti l’apprezzamento [estetico] (T. Munro, 1969, pp. 29-30).

I. L. Child, nel capitolo intitolato Esthetics e contenuto nella seconda edizione dell’Handbook of Social Psychology curato da G. Lindzey e E. Aronson, così scrive:

Considerata come un settore delle scienze del comportamento, l’Estetica [psicologica] consiste nello studio della produzione e della fruizione da parte dell’uomo delle opere d’arte e degli effetti sull’uomo di tali attività (I.L. Child, 1969, p. 853).

D. E. Berlyne (1972a, p. 123) individua l’oggetto di interesse dell’“estetica sperimentale” nei “processi psicologici che intervengono nella creazione e nell’apprezzamento dell’arte”.

Secondo D. O’Hare “l’estetica psicologica” dovrebbe occuparsi

2 Termine la cui traduzione nell’italiano estetica sarebbe concettualmente fuorviante.

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di quelle reazioni e di quei comportamenti che caratterizzano le persone impegnate nel ruolo di creatori, di spettatori o di coloro che gustano e apprezzano le opere d’arte (D. O’Hare, 1981, p. 18).

Per E. Winner,

lo psicologo dell’arte è fondamentalmente interessato ai processi psicologici che rendono possibile la creazione artistica e la risposta all’arte. Vi sono due ampi interrogativi che hanno guidato lo studio psicologico dell’artista. Che cosa motiva l’artista a creare? E quali processi cognitivi sono implicati nella creazione artistica? Due interrogativi similari hanno guidato la ricerca sul fruitore. Quali fattori psicologici motivano una persona a contemplare opere d’arte? E quali abilità cognitive sono necessarie per comprendere un’opera d’arte? (E. Winner, 1982, pp. 8-9).

Gli elementi ricorrenti e comuni in queste definizioni, l’artista, il fruitore, l’opera e le relazioni che collegano quest’ultima con il primo o il secondo, corrispondono all’oggetto di indagine della psicologia dell’arte e sono anche quelli che costituiscono il fenomeno artistico nel suo complesso.

I due comportamenti che l’artista e il fruitore attuano — di creazione ed esecuzione dell’opera artistica, il primo, di ricezione e fruizione estetica della stessa, il secondo — sono contraddistinti dallo svolgimento di attività che si basano su processi e fattori psicologici: motivazionali, affettivi, intellettivi, percettivi, rappresentativi, mnemonici, ideativi, immaginativi, ecc., qualificabili, con un unico termine, come cognitivi.

Possiamo dire, allora, che l’ambito di indagine della psicologia dell’arte comprende lo studio dei processi cognitivi che intervengono nel comportamento artistico, di creazione e di esecuzione, e nel comportamento estetico, di ricezione e di fruizione, dell’opera artistica.

[…]

La psicologia della Gestalt e Rudolf Arnheim

L’importante e rilevante contributo dato dalla psicologia della Gestalt, o psicologia della Forma, allo studio sperimentale della percezione, di quella visiva in particolare, è un fatto noto3 e i principi e le leggi individuati all’interno di questo ambito svolgono,come suggerisce anche K. Koffka (1935), un ruolo indispensabile nella lettura e nella comprensione dell’opera d’arte. Note sono anche le leggi fondamentali della teoria gestaltista relative all’organizzazione percettiva, che possono essere ricondotte al principio più generale della prägnanz o della tendenza alla “buona forma”, la tendenza cioè a organizzare la struttura percepita sulla base di proprietà quali la “semplicità”, l’“equilibrio”, l’“ordine”, la “significatività”.

Oltre a quello della “buona forma”, vi sono almeno altri due principi generali, enunciati dai teorici di questa scuola, che sovraintendono al funzionamento della percezione e che qui è opportuno ricordare.

3 Non intendo dire che la scuola della Gestalt si è occupata solo di percezione; il suo modello interpretativo, fondatosu una teoria della percezione, copre infatti gran parte dei problemi della psicologia generale così come quelli di altri ambiti della psicologia. Vedi, a questo proposito, M. Sambin (1992, p. 123 e segg.).

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Il primo è quello espresso proprio dal termine Gestalt, il quale sta a indicare una “totalità”, un “intero”, una “struttura” avente una sua propria “forma” e la cui natura non è rilevabile dall’analisi delle parti elementari che lo compongono. Questo principio è sintetizzato dall’aforisma: il tutto è diverso dalla somma delle sue parti. È perciò sterile il tentativo di comprendere, nel nostro caso, il valore estetico di un’opera d’arte attraverso la quantificazione delle sue componenti elementari.

Il secondo principio, detto dell’isomorfismo di strutture, postula l’esistenza di una corrispondenza strutturale tra l’attività dei campi eccitatori della corteccia cerebrale e l’esperienza percettiva, cioè fra l’attività fisiologica del cervello e la percezione dello stimolo e non, si badi bene, fra l’attività del cervello e lo stimolo fisico. Il che aiuterebbe a spiegare in parte la relazione empatica che si instaura fra il fruitore e l’opera d’arte, attraverso la quale egli coglie le intenzioni espressive e rappresentative dell’artista che l’ha realizzata.

Questi che ho appena enunciato sono anche alcuni dei principi che permeano l’imponente opera compiuta da Arnheim nel campo della psicologia delle arti visive; opera la cui portata va ben al di là di una mera applicazione dei postulati teorici della Gestalt nei confronti del fenomeno artistico, come spesso si fa sbrigativamente intendere (ad esempio, D.E. Berlyne, 1972a; M.H. Bornstein, 1984). Quello che emerge dal lavoro di Arnheim è un quadro interpretativo con alcuni temi in maggior evidenza e più precisi e dettagliati, altri più sullo sfondo o sfumati, il cui contenuto complessivo costituisce un’ampia concezione psicologica dell’arte.

Questa concezione a cui Arnheim sta ancora lavorando, fondata su vaste conoscenze relative all’ambito dell’arte e dell’estetica, alle acquisizioni vecchie e nuove dei vari settori della ricerca psicologica e a quelle desunte dalle scienze umane e dalle scienze esatte, non è esposta organicamente e gli aspetti salienti che la costituiscono vanno rintracciati nelle monografie e nei numerosi articoli e saggi da lui pubblicati4.

Come scrive egli stesso, il suo interesse di fondo è di tipo epistemologico: “io studio cioè le interazioni cognitive della mente con il mondo reale” (R. Arnheim, 1986, p. 10).

Al problema del rapporto fra cognizione e realtà Arnheim dedica un denso lavoro, Il pensiero visivo, del 1969, in cui sostiene che questo rapporto è mediato e reso possibile dalla interconnessione fra la percezione, quella visiva in particolare, e il pensiero e dimostra, attraverso una nutrita serie di argomentazioni e di esemplificazioni, non solo la loro inscindibilità e similarità di funzionamento, ma anche la priorità dell’una sull’altro:

suggerirò che soltanto a causa del fatto che la percezione coglie i tipi delle cose, vale a dire i concetti, il materiale percettivo si rende utilizzabile al pensiero; e, per converso, che ove il materiale sensoriale non resti presente, la mente non ha nulla mediante cui pensare (Ibidem, p. 3).

L’interconnessione fra percezione e pensiero è funzionale alla conoscenza e alla comprensione della realtà, è presente in qualsiasi tipo di attività umana e ha un suo corrispettivo nel rapporto fra due procedure cognitive: una, propria della percezione, l’“intuizione”, la “percezione intuitiva”, e una, propria del pensiero, l’“intelletto”,

4 Gran parte degli scritti di Arnheim sono stati tradotti in italiano. Egli, lasciata non ancora trentenne la Germania, havissuto e lavorato in Italia per alcuni anni, prima di trasferirsi nel 1940 negli Stati Uniti, stabilendo e mantenendo numerosi contatti con il nostro paese. Nel 1986, a Milano, in onore della sua opera, è stato organizzato un Convegno, i cui Atti sono stati pubblicati a cura di A. Garau (1989).

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l’“analisi intellettuale” (R. Arnheim, 1986, pp. 27-46). L’interesse di Arnheim è prevalentemente rivolto alla meno studiata, perché più elusiva ma anche perché sottovalutata e perciò trascurata, delle due procedure cognitive, la percezione intuitiva, ed essendo il mondo delle arti il luogo dove si può “vedere direttamente l’intuizione al lavoro” (Ibidem, p. 32) è in questo territorio che egli compie le sue ricerche.

Arnheim dedica, così, la maggior parte della sua opera di indagine e di riflessione ai modi di organizzazione e di funzionamento della percezione estetica, al ‘ragionamento percettivo’ del fruitore e dell’artista, e compie, nell’ambito delle arti visive, una capillare individuazione delle caratteristiche fondamentali della “forma artistica” e una vasta analisi del loro porsi in quella relazione strutturale e dinamica che consente di cogliere il significato della forma artistica stessa. Configurazione, centro, simmetria, equilibrio, tensione, semplicità, ordine, spazio, luce, colore, movimento, espressione sono alcuni dei concetti esaminati e considerati come criteri percettivi sia di tipo compositivo, che guidano la creazione e l’esecuzione artistica, sia di tipo discriminatorio, che guidano la comprensione del significato dell’opera ed il suo apprezzamento estetico.

Se Arnheim rivolge le sue analisi soprattutto agli aspetti e ai problemi di struttura, percettivi e formali delle arti visive, la pittura, la scultura, l’architettura (R. Arnheim, 1962; 1974; 1977; 1982a), compiendo esplorazioni anche nel campo dell’espressione cinematografica (R. Arnheim, 1957) e della comunicazione radiofonica (R. Arnheim, 1979), non trascura però in tutte le sue opere, in praticolare nei saggi brevi e negli articoli, di esaminare e trattare, sia pure in modo più limitato, aspetti e problemi riguardanti altri generi di produzione artistica — la letteratura, la poesia, la fotografia, la musica, la danza —, altri processi psicologici coinvolti nella creazione artistica e nella ricezione estetica — l’ispirazione, l’emozione, il sentimento, la contemplazione —, ambiti applicativi della, o confinanti con, la psicologia dell’arte — la psicopatologia dell’espressione, l’arte-terapia —, sempre con una particolare attenzione alle implicazioni che la sua teoria può avere nel campo dell’educazione all’arte (R. Arnheim, 1966; 1986; 1989; 1992).

Il metodo usato da Arnheim nei suoi studi, fondati come ho già scritto su un sapere non solo specificamente psicologico, può essere definito, in senso lato, di tipo fenomenologico. La citazione che segue descrive sinteticamente la sua impostazione metodologica e, nello stesso tempo, mette in luce il suo atteggiamento fortemente critico nei confronti della “esigenza tirannica dell’esattezza quantitativa” (R. Arnheim, 1966, p. 30)5, caratterizzante quegli studi in cui la misurazione è l’unico criterio cheguida l’indagine sull’arte.

Lasciatemi dire innanzitutto che, quando si parla di psicologia delle arti come scienza, mi sembra sia più fruttuoso non riferirsi tanto alla sperimentazione in senso stretto, che mira a raggiungere una prova oggettiva attraverso la misurazione esatta. Più adatto al nostro scopo mi sembra quel tipo di psicologia che, pur essendo altrettanto scientifica, nel trattare con le complessità della mente umana si affida alla descrizione, alla

5 Così come la seguente citazione mette in luce il suo atteggiamento fortemente critico anche nei confronti dellapsicoanalisi. Scrivendo dei “numerosi artisti che guardano agli psicologi con sospetto”, egli così si esprime: “Tali artisti combinano in se stessi i residui del pregiudizio romantico che l’arte escluda il ragionamento analitico, con la nozione che la psicologia dell’arte si occupi esclusivamente della scoperta dei ‘complessi’ personali, vale a dire di una certa zona informativa che essi ritengono del tutto irrilevante, o capace persino di produrre inibizioni nocive. È necessario che gli artisti e gli educatori artistici siano convinti che nella psicologia dell’arte vi è qualcosa di più di quell’orgia nel deserto che gli psicanalisti hanno celebrato negli anni recenti” (R. Arnheim, 1966, p. 29).

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dimostrazione e all’interpretazione informale. Gli studi di estetica sperimentale si sono dovuti limitare a questioni di quantità, dimensione o intensità per poter usare la misurazione e la statistica; ma non appena vogliono procedere dalle configurazioni semplici e dalle mere combinazioni di colori all’analisi delle opere d’arte reali, si trovano di fronte ad una scelta precaria: o si accontentano di indagare dimensioni particolari, o abbandonano il rigore della verifica sperimentale.

Nel mio libro Art and Visual Perception ho fatto uso di esperimenti di percezione della forma, del colore, dello spazio e del movimento, ma quando si è trattato di applicare queste scoperte alle opere d’arte ho abbandonato senza rimorso i criteri della prova mediante misurazione e mi sono affidato a ciò che i miei lettori potessero vedere con i propri occhi (R. Arnheim, 1982b, pp. 13-14).

Le numerose indicazioni che provengono dagli studi di Arnheim costituiscono i fondamenti concettuali sui quali, a mio parere, è necessario basarsi per tentare una organica e complessiva comprensione del fenomeno artistico. Comprensione a cui forniscono ulteriore apporto, come vedremo subito, gli studi e le teorie sulla percezione e quelli di impronta cognitivista, ma che non può prescindere dall’analisi e dalla spiegazione, da Arnheim massicciamente compiuta, del rapporto fra arte e percezione visiva.

Psicologia della percezione e arte

Sebbene con intenti e metodi molto diversi, sia gran parte degli studi compiuti nell’ambito della vecchia e nuova estetica sperimentale che la maggioranza di quelli condotti da Arnheim mostrano un accentuato interesse, fornendo altresì un gran numero di dati e acquisizioni, nei confronti della percezione estetica.

Per quanto riguarda l’estetica sperimentale, l’interesse è rivolto a cogliere sperimentalmente il modo di relazionarsi delle componenti elementari dello stimolo estetico, le “proprietà collative”, che tramite l’atto della percezione fanno dello stimolo stesso una configurazione dotata di qualità eccitative e spinte motivazionali rendendolo oggetto di apprezzamento e di preferenza estetica.

Per quanto riguarda Arnheim, l’interesse è rivolto a cogliere fenomenologicamente il modo di relazionarsi delle componenti formali dello stimolo estetico, le “forze attivanti ed equilibratrici”, che tramite l’atto della percezione fanno dello stimolo stesso una configurazione dotata di qualità espressive e di significato rendendolo oggetto di apprezzamento e di comprensione estetica.

Questi orientamenti di ricerca trovano una ragion d’essere nel fatto che è il fenomeno artistico stesso, nelle sue componenti di creazione e di fruizione, a fondarsi su atti percettivi determinando, così, l’esigenza di esplorare prioritariamente gli aspetti di organizzazione e di funzionamento di tali atti. Ciò corrispondentemente con quanto avviene nell’ambito della psicologia generale che da sempre si è occupata della percezione e i cui studiosi hanno elaborato, nel tempo, un gran numero di teorie formulate all’interno delle varie scuole: associazionista, comportamentista, gestaltista, funzionalista, ecc.

Sulla base della percezione l’essere umano interagisce con l’ambiente che lo circonda, acquisisce informazioni e conoscenza su di esso e sulle sue interazioni con l’ambiente, attribuisce un significato alla realtà esterna e interna, interiore, che egli va esperendo e, infine, rappresenta le sue esperienze e conoscenze in forme simboliche, fra cui appunto anche quelle artistiche.

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Gli studi sulla percezione, quelli sulla percezione visiva e uditiva in particolare, costituiscono così un altro patrimonio teorico e strumentale che può concorrere all’indagine sul fenomeno artistico.

Dal canto loro, alcuni percettologi hanno applicato le proprie teorie all’arte (ad esempio, J.J. Gibson, 1982; J. Hochberg, 1978) o nel mondo dell’arte hanno compiuto ‘incursioni’ per verificare ipotesi o per esplorare alcuni aspetti di funzionamento della percezione stessa. Rispetto alla visione delle immagini, ad esempio, lo studio della registrazione dei movimenti e dei punti di fissazione oculari (ad esempio, N.H. Mackworth, J.S. Bruner, 1970; D. Noton, L. Stark, 1971; A.L. Yarbus, 1967) è stato utilizzato nell’ambito della nuova estetica sperimentale (ad esempio, F. Molnar, 1981); l’ipotesi della direzione dello sguardo secondo un andamento sinistra-destra, la “glance curve” di M. Gaffron (1950a; 1950b), ha portato a una serie di esperimenti svolti con riproduzioni d’arte e in riferimento alla preferenza estetica (per una rassegna, I. Gordon, 1981; C.G. Gross, M.H. Bornstein, 1978); gli studi sulle distorsioni percettive e sulle illusioni ottiche hanno suggerito analisi di questo fenomeno nel suo manifestarsi nel mondo dell’arte visiva (ad esempio, J.B. Deregowski, 1980; 1984; R.N. Shepard, 1990); il problema della rappresentazione prospettica e della percezione dello spazio ha stimolato attente monografie (ad esempio, M. Kubovy, 1986). A conclusione di questo rapido e incompleto elenco, che potrebbe articolarsi e allungarsi di molto, aggiungo le indicazioni di tre readings (H. Barlow, C. Blakemore, M. Weston-Smith, 1990; M.A. Hagen, 1980; C.F. Nodine, D.F. Fisher, 1979), i quali raccolgono vari e numerosi contributi finalizzati a descrivere e analizzare i diversi aspetti problematici che si presentano nello studio della percezione delle immagini, prendendo prevalentemente in considerazione quelle appartenenti alle arti visive. Anche in Italia, dove lo studio della percezione ha una consolidata tradizione, vi sono esempi di indagini che, partendo da questo territorio, si inoltrano in quello dell’arte (ad esempio, P. Bonaiuto, 1988; W. Gerbino, 1989; G. Kanizsa, 1988; G. Kanizsa, M. Massironi, 1989; M. Massironi, 1989; M. Massironi et al., 1989; M. Sambin, 1982; 1989a; 1989b).

Gli studi sulla percezione manifestano dunque interesse per lo stimolo estetico, il quale viene indagato prevalentemente rispetto alle sue caratteristiche di struttura e ai processi elaborativi che esso attiva. I risultati ottenuti in questa direzione, dovuti anche all’apporto innovativo della psicologia cognitivista, forniscono nuovi elementi per la comprensione della percezione estetica e del suo funzionamento, ma anche dei processi mentali implicati nella creazione artistica.

La prospettiva cognitivista

Il cognitivismo ha prodotto nella psicologia un rinnovamento di ampia portata e contraddistingue diffusamente l’attuale assetto della ricerca sul comportamento umano.

Uno degli aspetti essenziali e fondamentali di tale rinnovamento è l’aver mostrato praticabile e passibile di risultati utili lo studio di quei processi mentali definibili nel loro insieme cognitivi, che regolano e determinano il comportamento; processi che erano stati fra gli oggetti originari di indagine, poi abbandonati, della psicologia pionieristica, che la scuola comportamentista aveva ‘negato’ ed ‘eluso’ e che i

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neocomportamentisti avevano cercato di inquadrare, senza riuscirvi credibilmente, all’interno della propria teoria6.

A questa rifocalizzazione dell’interesse di studio per i processi interni o mentali si accompagnano una intensa “liberalizzazione metodologica” (R. Luccio, 1982, p. 23), con una ripresa, accanto alla rigorosa sperimentazione, di vecchi e l’introduzione di nuovi metodi di indagine di tipo qualitativo; un’ampia convergenza sui medesimi assunti teorici da parte dei vari settori della ricerca psicologica, che si occupano della memoria, dell’apprendimento, del linguaggio, del pensiero, della percezione, dello sviluppo, dell’intelligenza, della socializzazione, ecc.; un’ampia connessione interdisciplinare della psicologia cognitivista con altri campi del sapere come la linguistica, la neurologia, la cibernetica, l’antropologia, l’epistemologia, ecc.

Il diffondersi e il consolidarsi delle istanze teoriche e metodologiche del cognitivismo porta, dunque, a un rivitalizzarsi della ricerca in concomitanza anche con l’intenso sviluppo tecnologico, culturale e scientifico che caratterizza la seconda metà del nostro secolo.

Similmente, quella che è stata denominata la “rivoluzione cognitivista” ha avuto sulla psicologia dell’arte effetti e influenze che hanno giovato al suo progresso nella direzione sia di un incremento nella ricerca e di un ampliamento degli aspetti del fenomeno artistico considerati sia di una modificazione dei vecchi o di un’elaborazione di nuovi modelli interpretativi sia, infine, di una maggiore integrazione teorica.

Fra gli oggetti di studio su cui si verifica una convergenza di interessi emerge la percezione estetica. Come abbiamo già visto, l’indagine in questo campo si era rivolta ad individuare i meccanismi di funzionamento e i principi di organizzazione dell’atto percettivo attraverso l’analisi di immagini, brani musicali o letterari, versi poetici, ecc. Sulla base dell’assunto introdotto o, meglio, reintrodotto dal cognitivismo che la mente svolga, con l’ausilio della memoria dell’esperienza passata, una parte molto attiva nell’atto percettivo, il quale è a fondamento del rapporto fra cognizione e realtà, l’attenzione si sposta ora sui processi che ne regolano i meccanismi di funzionamento e i principi di organizzazione7.

La percezione estetica e la rappresentazione artistica sono considerate ed esaminate come la risultante delle capacità, delle abilità, delle conoscenze, delle procedure, delle strategie, delle aspettative e di quant’altro pertiene al sistema cognitivo del soggetto, sia egli fruitore o creatore.

Gli effetti prodotti da questo radicale mutamento di prospettiva sono notevoli e determinano un’apertura del campo di indagine sul fenomeno artistico pressoché totale, anche se alcune aree vengono privilegiate più di altre.

L’arte, concepita come un peculiare genere di rappresentazione delle esperienze e delle conoscenze o come una manifestazione qualitativamente elevata della cognizione umana, viene studiata con diversificate metodologie nei suoi aspetti comunicativi — semiologici, semantici, espressivi —, nei modi di realizzazione — ideativi, immaginativi, creativi, stilistici —, nei modi di apprezzamento e comprensione — percettivi, categoriali, interpretativi, estetici —, nel suo originarsi e evolversi

6 È proprio dall’esigenza di alcuni neocomportamentisti di far luce su questi processi che prende, in parte, avvio ilrinnovamento apportato dalla psicologia cognitivista. Vedi, in proposito, R. Luccio (1992). 7 In realtà, questa concezione “mentalista” e “costruttivista” della percezione, contrastata e rifiutata daicomportamentisti, risale addirittura a Hermann von Helmholtz, viene sostenuta dai teorici gestaltisti e, in un certo qual modo, è ripresa in considerazione da alcuni dei neocomportamentisti stessi. Vedi, in proposito, P. Legrenzi (1992).

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filogeneticamente e, infine, ontogeneticamente, nel suo manifestarsi e nel suo essere recepita.

Esemplare ed esemplificativo di tutto questo fermento di studi è il lavoro di un gruppo interdisciplinare di ricerca, denominato Project Zero8. Nella sua ormai quasitrentennale attività, rivolta a indagare — su soggetti in età evolutiva, adulti normali o con danni cerebrali, artisti professionisti — i rapporti fra cognizione, processi di simbolizzazione e varie forme d’arte, nonché le implicazioni di tali rapporti nel campo dell’educazione, questo gruppo ha prodotto numerosi articoli specifici9, mentre alcunidei suoi membri sono stati autori di opere teoriche riguardanti la rappresentazione e i linguaggi simbolici (N. Goodman, 1968; 1978), la creatività (H. Gardner, 1982; 1993; D.N. Perkins, 1981), lo sviluppo delle abilità artistiche (H. Gardner, 1973), il disegno infantile (H. Gardner, 1980), la psicologia dell’arte (E. Winner, 1982).

L’apporto che il cognitivismo ha dato e dà allo sviluppo, al riassetto, alla maggiore integrazione della psicologia dell’arte — che si rileva dai risultati delle ricerche appena citate, ma anche di molte altre che prendono in considerazione, ad esempio, l’intreccio fra neurofisiologia e cognizione nel comportamento artistico ed estetico (J. Changeux, 1994), i processi cognitivi implicati nella percezione dell’arte (W.R. Crozier, A.J. Chapman, 1984), la preferenza estetica nei confronti dell’ambiente fisico (S. Kaplan, 1987), la rilevanza del significato nell’apprezzamento estetico (C. Martindale, 1988), gli aspetti evolutivi dell’esperienza estetica (M.J. Parsons, 1987) — produce un netto ampliamento sia del campo sia delle prospettive di indagine, contribuendo, così, a fornire elementi per inquadrare in modo organico ed esauriente il fenomeno artistico nel suo complesso, cioè nei suoi aspetti strutturali e processuali insieme. Un tentativo di questo genere è testimoniato da un recente volume di R.L. Solso (1994), il quale utilizza i risultati della ricerca cognitivista, di cui egli stesso è un protagonista, per spiegare la percezione e la comprensione delle arti visive.

Le ramificazioni della psicologia dell’arte

Le arti visive, in realtà, costituiscono l’oggetto di indagine prevalente della psicologia dell’arte, fermo restando che, sin dagli inizi, l’interesse si è rivolto anche ad altri due rilevanti domini artistici: la musica e la letteratura10.

Si è determinata così una ripartizione del campo, formalizzata in tre settori a sé stanti: psicologia delle arti visive, in particolare dell’arte pittorica, psicologia della musica e psicologia della letteratura, ciascuno con la sua storia, che in parte si interseca e in parte si differenzia da quella degli altri, con il suo patrimonio di ricerche, con le sue riviste specializzate.

Non è possibile qui soffermarsi sul problema dell’unitarietà e diversità delle arti su cui, ad esempio, R. Arnheim (1986; 1992) ha scritto degli acuti saggi, dimostrando

8 Il Project Zero, fondato nel 1967 per iniziativa del filosofo Nelson Goodman, il quale ne è stato per alcuni annianche il direttore, ha la sua sede presso la Harvard Graduate School of Education di Cambridge, nel Massachusetts. L’obiettivo di fondo per cui il gruppo si costituisce è quello di contribuire a migliorare la qualità dell’istruzione artistica nei confronti della quale, all’epoca, le conoscenze certe e definitive erano del tutto insignificanti, cioè pari a “zero”. Al gruppo partecipano filosofi, psicologi cognitivisti, dello sviluppo, dell’educazione, neurologi, matematici, pedagogisti e esperti nelle varie discipline artistiche.9 Gli articoli prodotti nell’ambito del Progetto sono più di 500. Per un bilancio dei primi venti anni di indagine, vediD.N. Perkins, B. Leondar (1977) e H. Gardner, D.N. Perkins (1989). 10 Sporadiche e isolate ricerche esistono anche in altri domini, come abbiamo visto, ad esempio, descrivendo l’operadi R. Arnheim.

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come la diversità si annulli nella “sinossi spaziale”. È indubbio che ogni dominio artistico abbia la sua specificità, determinata dalla struttura del linguaggio che gli è proprio, dai suoi strumenti, materiali, tecniche, ma se si assumono come categorie classificatorie lo spazio e il tempo, le differenze tra le arti si assottigliano e si possono includere il dramma, la narrativa, la danza, la musica, il cinema tra i “media temporali”, dal momento che rappresentano successioni di eventi, e la pittura, la scultura, l’architettura, che rappresentano immagini statiche, tra i “media spaziali”. In realtà, la conclusione a cui giunge Arnheim è che anche questa differenza scompare quando ci si rende conto che la percezione sequenziale “caratterizza l’esperienza in tutti i registri estetici, quelli spaziali come quelli temporali” (R. Arnheim, 1986, p. 90), e che in entrambi i casi la percezione sequenziale porta alla formazione di “immagini sinottiche” (R. Arnheim, 1992, p. 53).

Dal momento che ho già menzionato diversi studi relativi alle arti visive e che io stesso farò riferimento, per analizzare il fenomeno artistico, principalmente ad esse e ad altre ricerche e teorizzazioni elaborate in questo campo, mi sembra opportuno, a conclusione della rassegna appena compiuta, fare almeno un cenno agli altri due settori di indagine sopra menzionati.

La storia della psicologia della musica si snoda, in parte, parallelamente a quella delle arti visive e se le sue origini possono farsi risalire all’approccio psicofisico e al trattato sulla Teoria delle sensazioni sonore di H. von Helmholtz del 1863, la sua nascita ufficiale viene concordemente fatta coincidere con la pubblicazione, tra il 1883 e il 1890, dei due volumi di C. Stumpf sulla Psicologia del suono, in cui, tra l’altro, si configura il costrutto di “totalità”, riferito alla percezione, successivamente sviluppato da E. Kurth, nella sua Psicologia della musica, pubblicata nel 1931. In quest’opera E. Kurth, prendendo le distanze dai metodi della psicofisica e adottando un approccio di tipo fenomenologico, afferma l’importanza di rivolgere l’attenzione a ciò che avviene nell’esperienza vissuta (erleben). È da ricordare che il costrutto di totalità compare pure in un saggio di C. von Ehrenfels, Sulle qualità gestaltiche, del 1890, da cui la psicologia della Gestalt trarrà il suo nome, nel quale egli si occupa anche della percezione della melodia come insieme unitario. Un ulteriore contributo rilevante per lo sviluppo di questo settore proviene dalle ricerche di un altro pioniere della psicologia sperimentale della musica, C.E. Seashore, il quale, oltre all’elaborazione di strumenti e criteri di misurazione dei fenomeni percettivi, interessato alla psicologia del talento musicale, da cui il titolo di una sua opera del 1919, La psicologia del talento musicale, mette a punto i primi test per valutare la disposizione alla musica nei bambini e pubblica anch’egli, nel 1938, un volume sulla Psicologia della musica.

L’approccio psicofisico, quello estetico-sperimentale, relativo in particolare alla percezione e alla preferenza estetica, e quello fenomenologico dominano il campo fino alla svolta cognitivista, producendo, ciascuno, una notevole quantità di ricerche11, ma

11 Vedi, a questo proposito e per una introduzione alla psicologia della musica, H. De La Motte-Haber (1972); M.Lostia (1989); R. Luccio (1993); G. Stefani, F. Ferrari (1986). In quest’ultimo testo si delinea anche il panorama della situazione italiana attraverso i contributi di quegli studiosi che rivolgono il loro interesse alla psicologia della musica sia da un punto di vista sperimentale, come G.B. Vicario e P. Bozzi — dalla cui collaborazione si può dire che abbia preso avvio, tra il 1958 e il 1961, lo studio di questa disciplina in Italia (P. Bozzi, G.B. Vicario, 1960) e che continuano a mantenere questo interesse (vedi, ad esempio, per una nuova versione del loro precedente lavoro, P. Bozzi, 1993; G.B. Vicario, 1980) — o come M. Olivetti Belardinelli, che indaga sul comportamento musicale quale problem solving, sia da un punto di vista prevalentemente applicativo, come ad esempio M. Cesa-Bianchi e L.M. Lorenzetti.

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anche tentativi di sistematizzazione teorica del settore come, ad esempio, la Psicologia della musica di G. Révész (1946) e la Percezione della musica di R. Francès (1958).

Nella seconda metà del secolo anche la psicologia della musica, pur mantenendosi gli altri approcci, adotta la prospettiva cognitivista e rivolge la sua attenzione, nel complesso, all’analisi dei processi cognitivi implicati nella produzione, nell’esecuzione e nella fruizione musicale.

Fra i numerosi studi prodotti in quest’ambito, a titolo d’esempio, si possono citare quelli sulla grammatica della musica (F. Lerdahl, R. Jackendoff, 1983); sulla rappresentazione delle strutture musicali (P. Howell, I. Cross, R. West, 1985; P. Howell, R. West, I. Cross, 1991); sull’espressività della musica e sulla preminenza delle rappresentazioni motorie o uditive (L.H. Shaffer, 1981; 1995) e sul ruolo da esse svolto nell’esecuzione musicale (J.A. Sloboda, 1982); sulle differenti abilità che caratterizzano la lettura musicale di esperti e non esperti (J.A. Sloboda, 1974; 1985); sugli aspetti emozionali della musica (J.A. Sloboda, 1994); sull’applicabilità di modelli connessionisti alla musica (P.M. Todd, D. Gareth Loy, 1991). Oltre a ciò, si possono menzionare lavori multidisciplinari sui rapporti tra musica e scienze cognitive (S. McAdams, I. Deliège, 1989) e antologie generali sull’intera materia, quale quella curata da D. Deutsch (1982), comprendente una serie di contributi autorevoli che spaziano dalla psicofisica alla percezione, alla preferenza, alla cognizione della musica. Anche all’interno dell’approccio cognitivista non mancano tentativi di sistematizzazione della materia, tra i quali, quello di M.L. Serafine (1988), che affronta, tra l’altro, gli aspetti evolutivi nella comprensione della musica, e particolarmente interessante per la sua completezza quello di J.A. Sloboda (1985), autore di un lavoro sul funzionamento della mente musicale. Sloboda analizza il fenomeno musicale nel suo complesso, prendendo in considerazione la struttura della musica e la natura delle rappresentazioni cognitive musicali, le abilità specifiche impiegate nell’esecuzione, nella composizione, nell’improvvisazione e nella fruizione della musica, il loro apprendimento, tentando anche di fornire un’interpretazione biologica e culturale del fenomeno musicale stesso.

La psicologia della letteratura ha invece una storia in un certo senso a sé stante, in quanto fino agli anni Settanta è stata dominio quasi esclusivo dell’indagine psicoanalitica, a cui si possono ascrivere circa l’80% degli studi sull’argomento12, iquali, per lo più, assumono come punto di riferimento la teoria della personalità di Freud e i suoi scritti sulla letteratura sia con l’intento di approfondire la sua dottrina sia di modificarla o di confutarla per alcuni aspetti o del tutto. I rimanenti studi, in parte, consistono nell’analisi di biografie e opere compiute adoperando metodi statistici, ancora una volta per verificare nelle opere stesse la ricorrenza di costrutti psicoanalitici (H.G. McCurdy, 1947) e, al contempo, anche di quelli della nuova estetica sperimentale (C. Martindale, 1973), o per seguire lo sviluppo della personalità di un artista (R.R. Sears, 1976; R.R. Sears, D. Lapidus, 1973), oppure per rilevare la produttività degli artisti in rapporto ai generi letterari (H.C. Lehman, 1953), ma anche a fattori politici, economici e sociali, come è testimoniato dalla notevole produzione di D.K. Simonton (ad esempio, 1975); in parte, seppure in numero limitato, data la discrepanza tra metodo e materiali utilizzabili, consistono in ricerche di estetica sperimentale (H.J. Eysenck, 1940a; R. Kamman, 1966; C. Moynihan, A. Mehrabian, 1981).

12 La fonte di questo dato è M.S. Lindauer (1984), il quale compie una rassegna degli studi sulla materia e proponedelle possibili linee di un suo sviluppo.

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Con l’affermarsi del cognitivismo anche l’assetto della psicologia della letteratura si modifica e, in un certo senso, si può dire che le distanze con le ‘altre’ psicologie dell’arte si assottiglino. Se l’interesse del cognitivismo nei confronti della letteratura può essere ricondotto, almeno nella sua fase iniziale, all’esigenza di utilizzare materiali di ricerca complessi e ecologicamente validi, allo studio della memoria semantica e della comprensione e produzione del testo, e se nel tempo l’interesse stesso ha trovato manifestazione in oggetti specifici — la grammatica delle storie, sulla scia di D.E. Rumelhart (1975); la metafora (A. Ortony, 1979; E. Winner, 1982), considerata anche da un punto di vista evolutivo (H. Gardner, et al., 1975); la sensibilità agli stili letterari, sempre da un punto di vista evolutivo (H. Gardner, W. Lothman, 1975; C. Massey, et al., 1983); la metonimia (D. Lodge, 1991); la narrazione, divenuta oggetto di interesse multidisciplinare (W.J.T. Mitchell, 1981)13— negli studi recenti di uno dei padri delcognitivismo, J.S. Bruner, si profila una nuova prospettiva d’analisi di tale dominio artistico. Questi studi (J.S. Bruner, 1986; 1990; 1991) sono particolarmente interessanti e sviluppano la tesi che il pensiero narrativo costituisca uno dei due modi di pensare — l’altro è il pensiero paradigmatico o logico-scientifico — attraverso cui attribuiamo significato all’esperienza e che questo modo di pensiero si articoli in forme di discorso14, corrispondenti ai generi letterari narrativi, i quali sarebbero dei modellimentali che trovano esemplificazione nelle opere letterarie e che consentono l’interpretazione delle opere stesse: il genere è “un modo di cui ci si può servire per elaborare le proprie concezioni narrative e per rielaborare ciò che si legge o si ascolta” (J.S. Bruner, 1986, p. 9). L’indagine sui generi letterari, intesi come modelli mentali dell’artista che trovano manifestazione nell’opera e come modelli mentali interpretativi del fruitore, e quindi sui modi attraverso i quali si svolge il processo di “attribuzione di significato” e sui modi in cui prendono forma i significati narrativi, si profila come progetto organico per studiare l’essenza psicologica della letteratura, e sembra, tra l’altro, offrire alla psicologia una categoria, quella di “genere”, con un enorme potenziale euristico, che comincia a produrre i suoi frutti15.

Qualche considerazione conclusiva

In conclusione, qualche considerazione riguardo al quadro disciplinare della psicologia dell’arte che la rapida rassegna fin qui compiuta spero abbia consentito di intravedere con sufficiente chiarezza.

La configurazione di tale quadro mostra i tre principali approcci di ricerca — quello psicoanalitico, quello della nuova estetica sperimentale e quello di Arnheim — molto distanti fra loro da un punto di vista teorico e metodologico e ciascuno polarizzato ad indagare alcuni aspetti del fenomeno artistico piuttosto che il fenomeno nel suo complesso, e ciò, nonostante l’intento, più o meno apertamente dichiarato, di volerlo

13 Alcuni di questi argomenti e le ricerche ad essi relativi hanno trovato sistematizzazione o vengono illustrati inlavori di studiosi italiani, tra cui si possono segnalare P. Boscolo (1986) e M.C. Levorato (1988), sopratutto per quanto riguarda la comprensione e la produzione di testi; M. Ammaniti, D.N. Stern (1991) e A. Smorti (1994), per la narrazione e il pensiero narrativo; C. Cacciari (1991), per le teorie sulla metafora.14 Come precisa J.S. Bruner, e come aveva già affermato anche L.S. Vygotskij (1932), è difficile distinguere tra “ilmodo narrativo del pensiero e le forme narrative del discorso. Come avviene per tutti gli strumenti protesici, ciascuno rende possibile e dà forma all’altro; così la struttura del linguaggio e la struttura del pensiero finiscono per non potersi distinguere l’una dall’altra” (J.S. Bruner, 1991, p. 21).15 Per un resoconto di indagini sperimentali basate sull’ipotesi che i generi letterari siano modelli mentali, vedi C.Fleisher Feldman (1991).

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assumere in toto quale oggetto di studio. Diversamente, la prospettiva cognitivista sembra essere indirizzata ad esplorare il territorio dell’arte in tutte le regioni che lo compongono e nei molteplici aspetti che lo caratterizzano.

Se la concezione psicoanalitica dell’arte, pur nelle sue variazioni, appare prigioniera delle maglie della costruzione dottrinale di riferimento e spesso limitata al terreno circoscritto della psicopatologia e se l’indirizzo sperimentale, costretto invece “dall’esigenza tirannica dell’esattezza quantitativa”, non sembra riuscire a rendere conto della reale e quotidiana esperienza dell’evento artistico, il filone che fa capo ad Arnheim è senz’altro il più proficuo e ricco di dati e di indicazioni, idealmente e concretamente precursore dell’indagine ad ampio raggio che l’approccio cognitivista sembra poter consentire.

Al di là di schematici e sommari giudizi, comunque, l’intero patrimonio che vecchi e nuovi indirizzi, singoli studiosi, affini o convergenti settori di ricerca, episodiche indagini hanno prodotto nei confronti di una conoscenza psicologica del mondo dell’arte deve essere, a mio parere, ancora attentamente analizzato, sistematizzato e vagliato per individuare che cosa e quanto di questo patrimonio vada conservato e utilizzato al fine di rinforzare, arricchire, rinnovare o, se del caso, ridefinire la struttura disciplinare della psicologia dell’arte16.

È innegabile, infatti, che tale struttura si presenti con un assetto non equilibrato e per molti aspetti carente, ma è altrettanto innegabile che una psicologia dell’arte debba esistere e svilupparsi, dato l’indispensabile contributo che può fornire per una sempre maggiore e più completa comprensione del funzionamento della mente umana17.

Il piano del libro

Il mio tentativo in questo libro è proprio quello di introdurre allo studio psicologico del fenomeno artistico alla luce dell’assunto che l’arte sia un prodotto e una manifestazione dell’attività della mente, intesa quest’ultima come l’attività che fa capo ad un sistema o apparato unitario, la cognizione, attraverso cui l’uomo, diversificando il suo comportamento da quello degli altri organismi a lui simili, è divenuto un essere sociale e culturale, Homo sapiens sapiens, in grado di costruirsi ripari abitativi, di fabbricare utensili, di inventare ed usare vari linguaggi, di produrre oggetti.

Analizzare l’arte in questa chiave, comporta che si prendano in considerazione preliminarmente i due processi primari, percezione e rappresentazione, descritti sinteticamente nel primo capitolo, che danno luogo alla formazione e all’organizzazione delle rappresentazioni mentali, la cui manipolazione è alla base dell’attività cognitiva ed esecutiva dell’uomo, del suo rapportarsi con la realtà e anche di quel comportamento che chiamiamo artistico, il quale trova manifestazione in rappresentazioni concrete, percepibili, le opere artistiche appunto, formate da segni — suoni, parole, colori, gesti e quant’altro compone i linguaggi dell’arte — il cui valore simbolico è stato scoperto dall’uomo a un certo punto della sua evoluzione.

16 A questo riguardo e per quanto attiene alla situazione italiana, vanno segnalati dei contributi e degli interventi,alcuni fortemente scettici, che hanno posto la questione sia della configurazione disciplinare di questo settore di studio che della sua pregnanza e validità epistemica (ad esempio, A. Argenton, 1990; R. Luccio, 1982; 1989; M. Massironi, 1982a; 1990; L. Pizzo Russo, 1982b; 1991).17 Sulla rilevanza che la psicologia dell’arte ha per la psicologia, per la psicologia che cerca di rispondere alle“grandi questioni” (J.S. Bruner, 1990, p. 14), L. Pizzo Russo (1991) ha scritto delle appassionate e dense pagine, il cui contenuto è da me ampiamente condiviso.

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I due originari e fondamentali risultati a cui l’esercizio dell’attività cognitiva ed esecutiva dell’uomo ha portato sono l’invenzione e la fabbricazione dello strumento e la scoperta del segno, oggetto del secondo capitolo, in gran parte responsabili del consolidarsi della nostra specie, della nascita della cultura umana e, contemporaneamente, delle prime espressioni artistiche, le quali si appalesano, per quel che l’archeologia preistorica documenta, come il prodotto dell’uso, funzionale a diversi scopi, del segno e del linguaggio grafico e plastico, tenendo presente che molti reperti indicano con sicurezza anche l’uso di un linguaggio musicale.

Il terzo capitolo è dedicato alla descrizione delle caratteristiche di configurazione, tematiche e stilistiche dell’arte preistorica, che è stata prodotta dai nostri progenitori, i cacciatori arcaici del Paleolitico superiore, e nella quale sono inclusi vari tipi di rappresentazioni figurative e non figurative, realizzate attraverso l’uso sapiente del linguaggio grafico e plastico: segnali, simboli, ideogrammi, varie configurazioni di segni, dipinti o incisi sulle pareti delle grotte, oggetti d’uso e frammenti in pietra e d’osso non lavorati, tutti recanti prevalentemente incisioni, e ancora statuine e alto o basso rilievi. La scelta di prendere in considerazione l’arte preistorica non è avvenuta solo per il suo evidente interesse in quanto primigenia espressione del comportamento artistico ed estetico, ma anche in quanto esempio complesso e in sé compiuto di movimento artistico — con tutte le caratteristiche essenziali della produzione artistica di ogni epoca e cultura, con un suo patrimonio di opere, con le sue tendenze, con i suoi tratti stilistici ed estetici, con le sue periodizzazioni, con un suo preciso contesto economico e sociale di riferimento — attraverso cui individuare gli aspetti strutturali, processuali e funzionali di uno dei linguaggi dell’arte, il linguaggio grafico.

Tali aspetti, descritti nel quarto capitolo, si presentano come invarianti e universali e possono essere riferiti, fatte le debite distinzioni, a tutti i linguaggi dell’arte. L’attività grafica si basa sulla combinazione degli elementi segnici costitutivi del linguaggio che la rende possibile — il punto e la linea tracciati su una superficie —, presuppone l’acquisizione e la padronanza di strutture e processi cognitivi ed è rivolta a soddisfare determinati e fondamentali scopi rappresentativi: mnemonico, informativo, emblematico, decorativo, artistico.

Nel quinto capitolo, sempre tenendo come riferimento l’arte dei popoli preistorici, vengono analizzati tre elementi costanti e distintivi dell’arte in generale: il suo svolgere una funzione che ho chiamato metarappresentativa, cioè una funzione che va oltre lo scopo utilitario, immediato e contingente, per cui essa viene realizzata; il suo caratterizzarsi stilisticamente, cioè tramite determinate e particolari forme, le quali si modificano nel tempo e sono peculiari dell’epoca e della cultura in cui sono state prodotte; il suo possedere una dimensione estetica, considerata sia come un criterio cognitivo che guida i processi di creazione e di fruizione sia come un aspetto qualitativo del risultato del comportamento artistico, vale a dire dell’opera artistica.

Evidenziati e affrontati quelli che, a mio parere, sono dei punti nodali imprescindibili per comprenderne la natura psicologica, nei capitoli successivi viene esaminato il fenomeno artistico, inteso quale risultante dell’interazione fra le componenti — l’artista, l’opera, il fruitore — che lo costituiscono e che ne consentono l’accadimento.

Il capitolo sesto è dedicato ad inquadrare nelle sue linee generali il fenomeno artistico, prendendone in considerazione l’universalità, l’ampiezza e la complessità, per poi illustrarne la configurazione attraverso un esempio realmente avvenuto e a noi tramandato: il rapporto intenso che Sigmund Freud ebbe con il Mosè di Michelangelo e che in parte è testimoniato da Freud stesso in un, per molti versi, interessante saggio da

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lui pubblicato nel 1913. L’analisi di questo esempio consente anche di far emergere, ‘in vitro’, numerosi elementi caratterizzanti il comportamento dell’artista e del fruitore nelle loro relazioni con l’opera artistica.

L’opera, il prodotto del comportamento artistico, il fulcro su cui poggia e ruota il fenomeno, argomento del capitolo settimo, è esaminata come risultato dell’influenza reciproca fra le variabili che la costituiscono — la sua forma, il significato da essa veicolato e la funzione o le funzioni che può svolgere — nel tentativo di mettere in evidenza e di definire i tratti psicologici che caratterizzano queste variabili e le loro interazioni.

La figura dell’artista viene esaminata, nel capitolo ottavo, rintracciando i fattori universali e particolari che la contraddistinguono e in rapporto a ciò che l’opera artistica può manifestare e rivelare di tale figura. L’artista, tramite i linguaggi dell’arte, compie un atto rappresentativo, frutto della sua attività cognitiva, delle sue specifiche ed elevate abilità, eventualmente della sua creatività, e sulla base di determinate motivazioni, lasciando impressa nell’opera il suo ‘tocco’, il segno del suo stile personale, della sua personalità artistica.

Anche la figura del fruitore viene esaminata, nel capitolo nono, in relazione all’opera artistica e alle caratteristiche dell’esperienza estetica, e cioè prendendo in considerazione i processi cognitivi implicati nella ricezione e nella comprensione della forma, del significato e della funzione dell’opera, gli effetti che il comportamento estetico può sortire e produrre e l’influenza che sul comportamento estetico stesso può avere l’atteggiamento del fruitore nei confronti dell’arte.

L’ultimo capitolo, traendo spunto dalla componente emotiva del comportamento estetico, riconduce i risultati dell’esplorazione sul rapporto tra arte e cognizione, svolta nei capitoli precedenti, alla questione più generale della interdipendenza fra intelletto ed emozione, mostrando inoltre come l’arte non solo sia il prodotto e la manifestazione della cognizione umana ma, soprattutto dal punto di vista della sua fruizione, abbia anche il potenziale effetto di esercitare, addestrare e potenziare l’attività cognitiva stessa, e si conclude con un richiamo a quella che è una delle tesi di fondo che ha permeato questo mio lavoro, e cioè che

l’arte, come qualsiasi altra attività della mente, sia soggetta alla psicologia, accessibile alla comprensione, e ineliminabile per qualsiasi descrizione completa del funzionamento della mente (R. Arnheim, 1966, p. 10).

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INDICE

Prefazione di Lucia Pizzo Russo

Introduzione 1. Cognizione e arte 1.1. Percezione 1.2. Rappresentazione 1.2.1. Manipolazione1.3. Arte come rappresentazione della rappresentazione 2. Alle origini della cognizione 2.1. Dall’utilizzazione alla fabbricazione dellostrumento 2.1.1. L’utensile ‘inutile’: le punte a “foglia di lauro” 2.2. Dal segno naturale al segno ‘fabbricato’: il segno grafico 3. Alle origini dell’arte 3.1. L’arte preistorica 3.1.1. La tendenza figurativa 3.1.1.1.La tendenza figurativa nell’arte rupestre 3.1.1.2. La tendenza figurativa nell’arte mobiliare 3.1.2. La tendenza non figurativa nell’arte mobiliare e rupestre 4. Aspetti strutturali, processuali e funzionali del linguaggio grafico 4.1. Elementistrutturali del linguaggio grafico 4.2. Aspetti processuali dell’attività grafica 4.2.1. Gli elementi base e lo sviluppo del disegno infantile 4.3. Aspetti funzionali dell’attività grafica 4.3.1. L’uso notazionale del linguaggio grafico 4.3.2. L’uso decorativo del linguaggio grafico 4.3.3. L’uso artistico del linguaggio grafico 5. Costanti dell’arte 5.1. La funzione metarappresentativa 5.1.1. Immagine e realtà5.2. Lo stile 5.3. La dimensione estetica 6. Il fenomeno artistico 6.1. Michelangelo, il Mosè e Freud7. L’opera 7.1. Forma 7.2. Significato 7.3. Funzione 7.4. Due esempi8. L’artista e l’opera 8.1. L’atto rappresentativo 8.1.1. Abilità 8.1.2. Creatività8.1.3. Motivazione 8.2. Il ‘tocco’ dell’artista e la personalità artistica 9. Il fruitore e l’opera 9.1. Cogliere la forma e comprendere il significato 9.2. Effettidel comportamento estetico 9.3. L’atteggiamento del fruitore 10. Arte e cognizione

Bibliografia Indice dei nomi