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POLITICA ECONOMICA E FINANZIARIA Università dell’Insubria – Sede di Como Prof. Gioacchino Garofoli PROGRAMMA d’ESAME (2008-2009) Acocella N., Politica economica e strategie aziendali, Carocci, Roma, 2008 (IV Edizione) (cap 2: paragrafi 2.1, 2.2, 2.3, 2.4, 2.5, 2.11, 2.12, 2.14; leggere 2.6, 2.9, 2.10, 2.13; cap. 3: paragrafi 3.1, 3.2, 3.3, 3.4.1, 3.4.2, 3.5, 3.7; cap. 4: paragrafi 4.1, 4.2, 4.3, 4.4, 4.5; cap. 5: paragrafi 5.1, 5.2, 5.6, 5.7, 5.8; leggere 5.5; cap. 6: paragrafi 6.2, 6.7, 6.8, 6.9, 6.10; cap. 7: paragrafi 7.2, 7.4, leggere 7.3; cap. 8: paragrafi 8.1, 8.2, 8.3, 8.5, 8.6; leggere 8.4; cap. 9: paragrafi 9.1, 9.2; leggere 9.4, 9.5, 9.7, 9.8; cap. 11: paragrafi 11.1, 11.2, 11.4; cap. 12: paragrafi 12.1, 12.2, 12.3, 12.4, 12.5,12.6; cap. 13: paragrafi 13.1, 13.2, 13.3, 13.6; leggere 13.9; cap. 14: paragrafi 14.1, 14.2, 14.7, 14.8; cap. 15: paragrafi 15. 1, 15.6; leggere 15.2, 15.7; cap. 16: paragrafi 16.1, 16.2, 16.3, 16.4, 16.5, 16.6; cap. 17 (per intero); cap. 18: paragrafi 18.1, 18.2, 18.3, 18.4.1, 18.4.2, 18.6, 18.7, 18.8; cap. 19; paragrafi 19.1, 19.2, 19.3, 19.4; cap. 20: leggere paragrafi 20.1, 20.2, 20.3, 20.4) Garofoli G., Lo sviluppo squilibrato italiano (1945-1975): le interpretazioni, sito web della Facoltà Garofoli G., Le politiche economiche nella fase della ristrutturazione delle imprese (1983- 1991), sito web della Facoltà Garofoli G., La ristrutturazione del bilancio pubblico e l’integrazione monetaria europea (1992- 2002), sito web della Facoltà

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POLITICA ECONOMICA E FINANZIARIA

Università dell’Insubria – Sede di Como

Prof. Gioacchino Garofoli

PROGRAMMA d’ESAME (2008-2009)

Acocella N., Politica economica e strategie aziendali, Carocci, Roma, 2008 (IV Edizione)

(cap 2: paragrafi 2.1, 2.2, 2.3, 2.4, 2.5, 2.11, 2.12, 2.14; leggere 2.6, 2.9, 2.10, 2.13; cap. 3: paragrafi 3.1, 3.2, 3.3, 3.4.1, 3.4.2, 3.5, 3.7; cap. 4: paragrafi 4.1, 4.2, 4.3, 4.4, 4.5; cap. 5: paragrafi 5.1, 5.2, 5.6, 5.7, 5.8; leggere 5.5; cap. 6: paragrafi 6.2, 6.7, 6.8, 6.9, 6.10; cap. 7: paragrafi 7.2, 7.4, leggere 7.3; cap. 8: paragrafi 8.1, 8.2, 8.3, 8.5, 8.6; leggere 8.4; cap. 9: paragrafi 9.1, 9.2; leggere 9.4, 9.5, 9.7, 9.8; cap. 11: paragrafi 11.1, 11.2, 11.4; cap. 12: paragrafi 12.1, 12.2, 12.3, 12.4, 12.5,12.6; cap. 13: paragrafi 13.1, 13.2, 13.3, 13.6; leggere 13.9; cap. 14: paragrafi 14.1, 14.2, 14.7, 14.8; cap. 15: paragrafi 15. 1, 15.6; leggere 15.2, 15.7; cap. 16: paragrafi 16.1, 16.2, 16.3, 16.4, 16.5, 16.6; cap. 17 (per intero); cap. 18: paragrafi 18.1, 18.2, 18.3, 18.4.1, 18.4.2, 18.6, 18.7, 18.8; cap. 19; paragrafi 19.1, 19.2, 19.3, 19.4; cap. 20: leggere paragrafi 20.1, 20.2, 20.3, 20.4)

Garofoli G., Lo sviluppo squilibrato italiano (1945-1975): le interpretazioni, sito web della Facoltà

Garofoli G., Le politiche economiche nella fase della ristrutturazione delle imprese (1983-1991), sito web della Facoltà

Garofoli G., La ristrutturazione del bilancio pubblico e l’integrazione monetaria europea (1992-2002), sito web della Facoltà

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2. I CRITERI DI SCELTA DELLE ISTITUIZIONI: EFFICIENZA ED EQUITÀ.

2.1 IL RUOLO DEL MERCATO E DELLO STATOLe due principali istituzioni sono il mercato e lo Stato. In realtà esistono anche altre istituzioni economiche come ad esempio le imprese non profit diverse dalle famiglie e dallo Stato.

2.2 I CRITERI DI SCELTA DELLE ISTITUZIONI: EFFICIENZE ED EQUITÀConsideriamo le due istituzioni: STATO e MERCATO. La loro preferibilità può essere giudicata sulla base dell’efficienza e dell’equità. Adam Smith fu convinto assertore della istituzione mercato (concorrenziale) con il concetto di “mano invisibile”.Efficienza: i concetti di efficienza sono numerosi, possiamo distinguere i concetti di EFFICIENZA STATICA (allocativa/paretiana) e quello di EFFICIENZA DINAMICA (adattiva).Efficienza Statica/Criterio Paretiano: una situazione è ottimo paretiano se, comunque ci si sposti da essa, non è possibile migliorare la soddisfazione di un individuo senza peggiorare quella di un altro membro della collettività.L’ottimo paretiano richiede:

• un’efficiente allocazione nel consumo di beni che si realizza quando il saggio marginale di sostituzione SMS di ogni coppia di beni per i vari consumatori è uguale;

• un’efficiente allocazione degli input produttivi che richiede SMST (sms tecnica) di ogni coppia di input tra le varie produzioni uguale;

• un’efficienza generale che si ottiene quando il SMS di ogni coppia di beni per tutti i soggetti è uguale al SMT (saggio marginale di trasformazione)

Efficienza “X”: consiste nella capacità di scegliere i programmi di produzione tecnicamente efficienti: dopo aver compiuto la scelta delle etcniche produttive efficienti si tratta di organizzare la produzione in modo da rendere la max quantità di output. Ciò richiede la specificazione degli obiettiva ai lavoratori per evitare scelte discrezionali di questi ultimi.Efficienza dinamica/adattiva: consiste nella capacità di apprendimento graduale dei problemi e delle risposte “corrette” ai problemi stessi.Un altro modo per intendere l’efficienza dinamica è quello di capacità innovativa, che consiste nella capacità di introdurre innovazioni di processo o di prodotto.Equità: anche i concetti di equità sono numerosi. In linea generale una distribuzione del reddito o della ricchezza viene giudicata equa se assicura uguaglianza tra le opportunità o delle posizioni finali per i membri di una collettività.

2.3 EFFICIENZA PARETIANA – EQ. IN CONCORRENZA PERFETTA. IL PRIMO TEOREMA DELL’ECONOMIA DEL BENESSERE“In un sistema economica di concorrenza perfetta nel quale vi sia un insieme completo di mercati, un equilibrio concorrenziale, se esiste, è un ottimo paretiano”.

Concorrenza perfetta: • omogeneità dei beni • alta numerosità degli operatori

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• assenza di intese o accordi tra operatori• libertà di entrata/uscita dal mercato• perfetta informazione

L’omogeneità dei mercati, assieme con l’alta numerosità degli operatori, all’assenza di accordi e alla libertà di entrata/uscita, assicura che gli operatori siano Price taking.La perfetta informazione è requisito di trasparenza necessario per l’omogeneità del prodotto.La completezza dei mercati implica l’assenza di esternalità o effetti esterni.L’ottimo paretiano è assicurato dall’uguaglianza prezzo=costo marginale.L’equilibrio Walsariano di concorrenza: è quella situazione nella quale non esiste un vettore di prezzi tale che su tutti i mercati l’eccesso di domanda è nullo. L’esistenza di tale equilibrio è assicurata se le FUNZIONI DI UTILITÀ hanno le normali caratteristiche di continuità, non saziabilità delle preferenze ecc … e non sussistono rendimenti di scala crescenti (che provocherebbero una diminuzione del costo medio totale di lungo periodo).Potrebbero esistere numerose posizioni di equilibrio di concorrenza perfetta, ciò è utile per la politica economica, per scegliere la posizione tra posizioni ugualmente efficienti facendosi guidare da latri criteri ad esempio l’equità o la fattibilità politica.

2.4 EFFICIENZA ED EQUITA': IL SECONDO TEOREMA DELL’ECONOMIA DEL BENESSEREUna certa posizione di ottimo paretiano non significa che essa sia “buona” o auspicabile, ma semplicemente che assicura efficienza rispetto ad una data distribuzione di risorse.“Se sono rispettata alcune condizioni relative alle funzioni di utilità e a quelle di produzione, in presenza di mercati completi ogni posizione di ottimo paretiano può essere realizzata come equilibrio concorrenziale, previa un’appropriata redistribuzione delle risorse tra gli individui”.Tutto ciò suggerisce una divisione dei compiti tra Stato e mercato. Al primo è assegnato un ruolo redistributivo, mentre al secondo un ruolo allocativo.

2.5 I FALLIMENTI DEL MERCATO ALLA LUCE DEL PRIMO TEOREMA DEL BENESSERELe condizioni così stringenti del teorema e la natura dell’ottimo fanno sì che esso sia conseguibile solo in quelle condizioni particolari per cui nella realtà il mercato non riesce ad assicurare una posizione sociale “buona” nel senso di efficiente ed equa.Le critiche riguardano innanzitutto il mercato: l’ipotesi alla base del teorema prevede mercato completo concorrenziale mentre nella realtà esistono anche regimi non concorrenziali (monopolio, oligopolio, ecc), sono presenti esternalità, beni pubblici, costi di transazione ed asimmetrie informative. Per quanto riguarda l’ottimo paretiano nella realtà non si ha un’equa redistribuzione dei redditi ed esistono i beni cosiddetti meritori (Bisogni meritori: sono quei bisogni che si vogliono tutelare. Beni meritori: sono quei beni di cui si vuole tutelare il consumo ad esempio il sistema sanitario, l’istruzione, la difesa ecc…).

2.6 LA CONCORRENZA PERFETTA E LA REALTÀ DEI REGIMI DI MERCATO

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La concorrenza presenta caratteri irrealistici poiché nella realtà vi sono molte situazioni di situazioni di concorrenza imperfetta, di monopolio ed oligopolio. In queste situazioni è violata la condizione prezzo=costo marginale che assicura l’ottimo paretiano.In molti casi la numerosità degli operatori non è soddisfatta, soprattutto dal lato dell’offerta: si pensi ad esempio al settore delle public utilities.Ad esempio se esiste un monopolio legato alla natura dei rendimenti di scala il costo marginale è costante ma il costo unitario diminuisce per la presenza di costi fissi (che vanno a “spalmarsi” su volumi sempre maggiori). L’impresa, se adottasse secondo la teoria paretiana P=MC dovrebbe applicare in aggiunta un costo per coprire i costi fissi di produzione. A quanto ammontano questi CF se non conosciamo il numero effettivo di consumatori? Dovrebbe applicare un costo aggiuntivo più alto ai primi e più basso, o nullo, agli ultimi. Ma in questo modo nessuno acquisterà il bene per primo per comportarsi da free rider, opportunista, cercando di essere tra quei consumatori che pagano un costo aggiuntivo minore.Il prezzo dovrà allora essere uguale non più al costo marginale ma al ricavo marginale.Tutto ciò ci dimostra come l’esistenza di costi decrescenti porti a fallimenti del mercato.In una situazione di oligopolio vi saranno un numero limitato di industrie con forti economie di scale. Ogni impresa fisserà il prezzo o la quantità prodotta tenendo conto delle reazioni delle altre imprese. Nessun equilibrio sarà dunque di ottimo paretiano.Vi è la necessità di un intervento dello Stato (sia nella situazione di oligopolio che di monopolio) attraverso la regolamentazione o con imprese pubbliche.Se vi fosse libertà di entrata/uscita dal mercato le nuove imprese, attratte dai profitti facili entreranno sul mercato, senza costi, facendo competizione sui prezzi ed acquisendo così quote di mercato e, quando i prezzi saranno così bassi da costringerle ad uscire, esse lo faranno senza costi aggiuntivi. Ciò non è reale: tali costi esistono e sono rilevanti (es: i cosiddetti sunk costs).Anche se i mercati fossero contendibili, in regime di costi decrescenti P MC ma P=costo medio. Nei mercati contendibili l’efficienza è diversa da quella paretiana. L’ente pubblico deve cercare di ridurre, per quanto possibile, di costi e gli ostacoli di entrata ed uscita dal mercato, specialmente quelli legali e burocratici. In molti casi queste barriere dipendono dalla natura dell’impresa.La presenza di accordi e/o intese tra imprese deve essere evitata dallo Stato attraverso la legislazione antimonopolistica.L’omogeneità di prodotto non è una condizione reale perché le imprese stesso potrebbero voler offrire un prodotto, attraverso la differenziazione.La perfetta informazione dei prezzi, che è presupposto della concorrenza perfetta, non è sempre realizzata per l’esistenza di segmenti di mercato indipendenti e l’esistenza di asimmetrie informative.

2.7 INCOMPLETEZZA DEI MERCATI ED ESTERNALITÀIl primo teorema dell’economia del benessere presuppone mercati completi. Nella realtà i mercati sono incompleti per la presenza di:

• esternalità• beni pubblici• presenza di mercati a pronti e mercati a termine

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Le esternalità possono essere dovute a:• inesistenza di diritti di proprietà• esistenza di attività di produzione o consumo congiunto• le esternallità possono essere positive o negative, e provocano che i SMS siano

diversi tra i vari individui e che SMST siano diversi tra le varie industrie.

In presenza di esternalità il COSTO PRIVATO diverso COSTO SOCIALE così come sono diversi i prodotti marginali.In presenza di economie CMpriv > CMsoc.In presenza di diseconomia CMpriv<CMsoc.L’intervento pubblico è necessario per rimuovere la divergenza tra costo privato e sociale, rendendolo interno. Ciò può essere effettuato attraverso “imposte pigouviane” (a carico dei creatori di diseconomie), o attraverso la regolamentazione per evitare le diseconomie.

2.8 ESTERNALITÀ E TEOREMA DI COASEL’esistenza di esternalità dipende da come sono assegnati i diritti di proprietà: il problema da risolvere è dunque quello della SCELTA delle ISTITUZIONI nell’ ASSEGNAZIONE DEI DIRITTI DI PROPRIETA’.In situazioni in cui vi sia assenza di costi di transazione si creano automaticamente degli accordi senza l’intervento pubblico e, se la posizione che massimizza la ricchezza è unica, si tenderà a raggiungere quella posizione. (Teorema di coase).In questo caso c’è bisogno di un’autorità che garantisca l’esecuzione dei contratti.In presenza di costi di transazione il raggiungimento della posizione efficiente può dipendere dall’assegnazione dei diritti di proprietà: anche in questo caso l’intervento pubblico è necessario.

LA CRITICA DI COOTER AL TEOREMA DI COASECooter ritiene che l’esistenza di atteggiamenti cooperativi non dipenda solo dalla possibilità di avere ritorni economici, ma può dipendere anche dalla distribuzione complessiva dei guadagni (redditi) di una società.L’azione pubblica, che deve considerare sia efficienza che equità e non solo uno dei due aspetti, ha dunque rilievo anche per la distribuzione dei redditi.

2.9 I BENI PUBBLICISono quei beni per cui non vi è rivalità nel consumo ed il godimento di un individuo addizionale non comporta alcun aumento di costo. Il bene pubblico, inoltre è un bene per cui i costi di produzione sono tutti costi fissi. Dal loro utilizzo non è possibile escludere alcun individuo e ciò accentua i problemi di parassitismo rendendo poco conveniente per i privati la produzione di questi beni. È per questi motivi che lo Stato si incarica della produzione o dello stimolo alla produzione da parte di altri.

2.10 COSTI DI TRANSAZIONE ED ASIMMETRIE INFORMATIVETali costi sono pervasivi ed interessano sia i mercati a pronti che i mercati a termine ma è in questi ultimi che assumono maggiore rilevanza.Tali costi sono più elevati in presenza di asimmetrie informative. Si pensi al problema “principal-agent”, ai problemi di delega, cosiddetti problemi di agenzia.

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L’informazione asimmetrica può dar luogo a due diverse situazioni:• Selezione avversa (adverse selection) che si ha quando una delle parti non può

osservare le importanti caratteristiche del delegato o del bene oggetto della transazione o delle situazioni in cui potrà trovarsi il delegato,

• Rischio di comportamenti sleali (moral hazard) ossia i cosiddetti problemi di incentivo per cui il delegato è incentivano a non eseguire la prestazione nei termini e alle condizioni previste da contratto.

2.11 IL TEOREMA DEL SECONDO OTTIMOSe una delle condizioni dell’ottimo paretiano non è rispettata o soddisfatta si ha un risultato inferiore all’ottimo di primo ordine: il secondo ottimo.Se si ha un’ineliminabile allontanamento della concorrenza perfetta in un settore l’azione pubblica potrebbe eliminare questo allontanamento: se anche esso fosse dovuto a cause ineliminabili ad esempio un monopolio, essa potrebbe attraverso la regolamentazione o la nazionalizzazione garantire una condotta non monopolistica.La domanda che ci si pone è se essendoci due agenzie governative esse possano operare separatamente. Alla luce del second best la risposta è chiaramente negativa in linea generale. Sono state studiate le condizioni di “separabilità” affinché le distorsioni in un settore economico siano tali da non influenzare gli altri settori, ed esse sono particolarmente negative.

2.12 DISTRIBUZIONE DEL REDDITO ED EQUITA'La teoria liberale insiste sull'equità attraverso il criterio delle capacità (che insiste su uguaglianza delle opportunità o dei punti di partenza), mentre la teoria socialista e quella solidarista insistono sul criterio del bisogno (che prevede il livellamento della soddisfazione degli individui).Per quanto riguarda gli aspetti economici un indicatore di equità è il reddito. Le situazioni efficienti in senso paretiano non è detto che siano eque dal punto di vista della distribuzione del reddito. Nella realtà non è accettabile una separazione tra efficienza ed equità, esiste un trade off tra efficienza ed equità. Spesso un miglioramento dell'equità migliora l'efficienza: ad esempio l'eliminazione della malnutrizione porta ad un miglioramento fisico e psicologico che porta ad una maggior produttività e crescita. Inoltre una sperequazione del reddito è causa di indignazione morale; per ragioni materiali o psicologiche l'equità è dunque condizione necessaria per la stessa “vitalità” di un sistema economico.

2.14 EFFICIENZA DINAMICA E FORME DI MERCATOSchumpeter ritiene che la presenza di un monopolio potrebbe essere positiva se il criterio di valutazione fosse la capacità innovativa; infatti è in questo tipo di regimi che lo stimolo all'innovazione è alto poiché offerto dalla prospettiva di nuovi frutti. Questa posizione è stata criticata da numerosi studiosi, tuttavia essa è dimostrazione che criteri di ottimalità diversi possono portare a conclusioni diverse circa l'auspicabilità dei regimi di mercato. I regimi non concorrenziali sono paretamente inefficienti ma possono essere efficienti per latri motivi, ad esempio la minimizzazione del costo medio di produzione in presenza di rendimenti di scala crescenti.

3. I FALLIMENTI DEL MERCATO: ASPETTI MACROECONOMICI DELLA REALTÀ

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3.1. L’INSTABILITÀ DI UN’ECONOMIA CAPITALISTICA DI MERCATO: I FALLIMENTI MACROECONOMICII principali fallimenti economici del mercato concernono principalmente numerose situazioni di crisi, ossia di dinamiche caratterizzate da disoccupazione, inflazione, disequilibri nella bilancia dei pagamenti, sottosviluppo. Queste sono manifestazioni della instabilità delle economie di mercato capitalistiche, dove con il termine instabilità non si vuole semplicemente indicare la mancata convergenza del sistema economico verso un determinato equilibrio, ma anche la possibilità che l’economia evolva lungo sentieri non ottimali dal punto di vista dell’efficienza.Le teorie microeconomiche sono teorie dei prezzi relativi, non del livello assoluto dei prezzi; inoltre, esse non considerano mai un’economia propriamente monetaria: per queste ragioni non possono dar conto dell’inflazione.L’assenza di moneta impedisce di considerare la bilancia dei pagamenti e i problemi di squilibrio ad essa associati.I sostenitori delle virtù della “mano invisibile” hanno tentato di spiegare alcuni di tali aspetti della realtà introducendo ipotesi che spiegano il cattivo funzionamento dei prezzi (rigidità); fra queste ipotesi un ruolo privilegiato ha avuto quella secondo cui l’intervento pubblico contribuirebbe a determinare tale rigidità, e quindi gli indicati fenomeni di crisi.Altri hanno sostenuto che la causa dell’instabilità risiede in aspetti strutturali dei mercati che impediscono a questi ultimi di funzionare nel modo e con i risultati previsti dalla teoria dell’equilibrio economico generale. Secondo molti di questi autori, l’instabilità del capitalismo di mercato può essere dimostrata con l’impiego di una teoria che abbandoni l’ottica microeconomica dei singoli mercati e consideri le relazioni tra grandezze aggregate. Disoccupazione, inflazione, squilibri della bilancia dei pagamenti, sottosviluppo possono essere considerati fallimenti macroeconomici del mercato.

3.2 LA DISOCCUPAZIONECon questo termine ci riferiamo essenzialmente alla disoccupazione involontaria connessa con il livello di domanda; questa sorge quando vi sono lavoratori (potenziali) disposti a occuparsi al saggio de salario (reale) vigente o anche a uno leggermente inferiore ma la domanda è insufficiente per occuparli; l’offerta di lavoro risulta allora razionata. L’esistenza di disoccupazione involontaria configura una perdita di efficienza statica e dinamica per il sistema economico. Dal punto di vista statico essa implica la possibilità di migliorare la posizione di alcuni individui (i disoccupati stessi), senza peggiorare quella di altri. Inoltre il mancato utilizzo delle risorse umane che si prolunghi per un certo periodo di tempo ne implica il deperimento: è questa una delle ragioni per le quali le probabilità del disoccupato di ritrovare un’occupazione si riduce all’aumentare della durata della disoccupazione.Oltre a causare una perdita di efficienza, la disoccupazione accresce l’ineguaglianza nella distribuzione del reddito. Le conseguenze economiche e sociali della disoccupazione possono essere temperate sul piano personale da interventi pubblici di redistribuzione del reddito che consentano il pagamento di indennità di disoccupazione o l’integrazione dei guadagni, o che garantiscano, comunque, il pagamento di un salario minimo.

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In nessun paese è stato introdotto finora un sistema di reddito minimo o dividendo sociale. In Italia esiste l’istituto della Cassa integrazione guadagni per integrare il salario dei lavoratori che vengono occupati a orario ridotto.L’esistenza di una indennità di disoccupazione o integrazione dei guadagni, ove esse siano di misura consistente, facilita i licenziamenti o le sospensioni dal lavoro con la conseguente riduzione dei costi per le imprese stesse. Le misure indicate costituiscono al tempo stesso strumenti di integrazione dei redditi personali e di flessibilità del sistema produttivo e delle relazioni industriali, termine quest’ultimo che indica i rapporti che intercorrono fra datori di lavoro e lavoratori.Indennità di disoccupazione e integrazione dei guadagni costituiscono pur sempre un costo economico perla società nel suo complesso. Questo costo si aggiunge ai costi non economici della disoccupazione, che possono essere ricondotti alla frustrazione, all’emarginazione, nonché alla possibilità di rivolgimenti sociali e all’aumento di criminalità. L’aumento di questi costi può spiegare l’impegno a perseguire la piena occupazione.

3.3 L’INFLAZIONETermine che indica di norma un aumento sostenuto del livello generale dei prezzi e pertanto la perdita di valore della moneta (ossia assenza della stabilità monetaria interna). Tipologie di inflazione:Dal punto di vista della cause immediate, inflazione da domanda, da offerta, da costi, da profitti, finanziaria, creditizia, importata;Dal punto di vista del ritmo di aumento dei prezzi, inflazione strisciante, moderata, galoppante, iperinflazione.Inflazione da domanda: deriva dalla pressione della domanda che tende a espandersi al di là dell’offerta disponibile in prossimità della piena occupazione delle risorse fisiche e umane.Inflazione finanziaria e creditizia: sono forme di inflazione da domanda, innescate, rispettivamente, da crescita della spesa pubblica finanziata in deficit in condizioni di prossimità al pieno impiego o da eccessiva creazione di credito da parte del sistema bancario.Inflazione da offerta: si verifica per effetto di shocks che portano a ridurre l’offerta.Inflazione da costi: consiste nel trasferimento sui prezzi dell’aumento dei costi dell’impresa.Inflazione da profitti: è connessa con l’aumento del margine di profitto reso possibile dall’esistenza di forme di mercato diverse dalla concorrenza perfetta.Un buon modo per analizzare gli effetti sui prezzi di variazione dei costi e dei margini di profitto è offerto dal principio del costo pieno.Inflazione importata: ha radici diverse essendo connessa con un prolungato aumento delle esportazioni del paese considerato, stimolate da un eccesso di domanda del paese estero.I vari tipi di inflazione possono combinarsi tra di loro.Quanto alla misura con la quale si manifesta la crescita dei prezzi si parla di:Inflazione strisciante quando tale fenomeno risulta contenuto.Inflazione moderata se la crescita dei prezzi è minore del 10% annuoInflazione galoppante quando i prezzi aumentano a tassi annui di due o perfino di tre cifreIperinflazione se il tasso è almeno dell’ordine di grandezza del 300% annuo.

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La misurazione dell’inflazione può avvenire utilizzando i vari indici di prezzo disponibili.Una pressione inflazionistica sorge ogni volta che i percettori dei vari redditi monetari ( salari, profitti, rendite) cerchino, ciascuno di accrescere la propria quota nella distribuzione del reddito reale prodotto, a scapito degli altri (ovvero dei consumatori). Dalle resistenze degli altri e/o dalla costanza della produzione reale totale scaturisce l’aumento dei prezzi. (Caffè)Al fine di essere tutelati nei confronti di imprevisti aumenti del livello generale dei prezzi, alcuni operatori riescono a introdurre meccanismi di indicizzazione, che legano il loro compenso alle variazioni del livello generale dei prezzi. Il caso più noto in Italia era quello della scala mobile, in vigore nel dopoguerra fino al dicembre del 1991: con essa periodicamente il salario monetario veniva parzialmente adeguato alle variazioni dei prezzi di un predeterminato paniere di beni di consumo.A parte i meccanismi di indicizzazione, l’inflazione prevista, assistita da sufficiente capacità negoziale, tende a mantenere invariata la distribuzione del reddito e della ricchezza.I costi provocati dalla distribuzione del reddito e della ricchezza per alcuni individui, si cancellano per la società nel suo complesso perché a essi fanno riscontro guadagni per altri. La riduzione dell’inflazione può diventare un obiettivo di politica economica per due motivi:Affievolimento dei conflitti sociali ad essa legati;Timore che possa innescarsi un fenomeno incontrollabile di iperinflazione.

3.4 DISOCCUPAZIONE E INFLAZIONE NELLA TEORIA ECONOMICA: L’INSUFFICIENTE CAPACITÀ RIEQUILIBRATRICE DEL MERCATO

3.4.1 LA TEORIA KEYNESIANAVisione della macroeconomia “classica”: in un sistema capitalistico operano forze, mosse essenzialmente dall’interesse individuale, capaci di assicurare da sole un equilibrio avente carattere di ottimalità. Secondo questa visione il sistema economico ha un ordine naturale che gli conferisce carattere di “stabilità”, in particolare nel senso di assicurare la piena occupazione delle risorse.In un’economia del baratto vale certamente la legge di Say, secondo la quale l’offerta crea la propria domanda. In un’economia monetaria la legge di Say non è più vera.L’oggetto dell’analisi keynesiana è costituito dai movimenti dell’occupazione prodotti da variazioni della domanda globale.Con riferimento alle variazioni dei prezzi relativi, rispetto alla pretesa dei “classici”, secondo i quali tali variazioni sarebbero sempre in grado di garantire un livello di domanda globale corrispondente al pieno impiego, il punto di vista keynesiano è che i movimenti dei prezzi sono lenti rispetto alle variazioni delle quantità. La vischiosità dei prezzi scaturisce dal contrasto in materia distributiva fra i vari percettori di reddito: ognuno di essi tenderà almeno a non far diminuire il prezzo del bene che offre, temendo che i prezzi dei beni che egli acquista rimangano invariati o aumentino.Secondo i “classici” la flessibilità del salario reale ottenuta attraverso una riduzione del salario monetario e una riduzione dei prezzi, consentirebbe il raggiungimento di un reddito di piena occupazione.

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Secondo Keynes, invece, una riduzione del salario monetario e reale può far crescere l’occupazione soltanto a condizione che non ne resti negativamente influenzata la domanda globale.La molteplicità degli effetti prodotti dalle variazioni del salario reale induce a dubitare della capacità che esse possano assicurare l’equilibrio del mercato del lavoro. All’inadeguatezza del salario reale come prezzo capace di riequilibrare questo mercato si accompagna l’inesistenza di un prezzo che possa rendere coerenti le scelte di risparmio con quelle di investimento. In un’economia monetaria, la separazione dell’acquisizione del reddito dalle decisioni di spesa introduce un elemento di incertezza circa il probabile rendimento del nuovo capitale (investimento). Tale rendimento è legato alle aspettative su molteplici aspetti del futuro. Se gli imprenditori non hanno aspettative ottimistiche di rendimento futuro dell’investimento, essi non investiranno i profitti realizzati e la domanda globale tenderà a cadere.In un’economia monetaria esiste anche un’intrinseca instabilità del valore patrimoniale della ricchezza finanziaria. Essa introduce una ulteriore fonte di incertezza che può indurre gli individui a rifuggire dall’impiegare la ricchezza in forme che non garantiscono la conservazione del valore stesso, ossia a mantenersi liquidi. In questo ambito, sottolinea Keynes, il tasso di interesse è la ricompensa all’abbandono della liquidità per un certo periodo di tempo ed è quindi il prezzo che equilibra domanda e offerta di moneta.L’instabilità del valore patrimoniale della ricchezza finanziaria va ricondotta alle aspettative di possibili oscillazioni del tasso di interesse. Il tasso di interesse è il compenso che spetta a colui che rinuncia a detenere la sua ricchezza in forma liquida; esso sarà tanto più alto quanti più individui ci sono i quali pensano che in futuro il tasso di interesse sarà alto.Per tutte queste ragioni, in un sistema capitalistico la domanda globale e l’occupazione sono instabili e possono assestarsi su livelli lontani dal pieno impiego. Nel pensiero di Keynes l’intervento pubblico sottoforma di politica monetaria e soprattutto di politica fiscale è l’unica forza capace di riportare queste variabili ai livelli corrispondenti alla piena occupazione.

3.4.2 LA DISOCCUPAZIONE NATURALE E LE LIMITAZIONI DELL’INTERVENTO PUBBLICO SECONDO FRIEDMANA differenza di Keynes e dei keynesiani , Friedman e i monetaristi concepiscono il sistema economico di mercato come intrinsecamente stabile. Essi non negano l’instabilità che si presenta in molteplici casi reali, ma l’attribuiscono all’azione pubblica piuttosto che al comportamento del settore privato.Friedman sostiene che le variazioni dell’offerta di moneta sono le principali determinanti sistematiche della crescita del reddito nominale. Friedman sostiene anche che gli effetti della politica monetaria sul reddito sono di norma temporanei e associati all’inflazione. Più precisamente, Friedman afferma che al politica monetaria non può controllare durevolmente né il tasso di interesse del mercato né il tasso di disoccupazione corrente (o di mercato), mantenendoli al di sotto dei valori, rispettivamente del tasso di interesse naturale e del saggio di disoccupazione naturale, ameno di non causare crescente inflazione.Tasso di interesse naturale è sostanzialmente il prezzo di equilibrio fra domanda di capitale (investimento) e offerta di capitale (risparmio). Il tasso naturale di disoccupazione è quello in corrispondenza del quale il numero di posti di lavoro

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disponibili è in una certa relazione di equilibrio con il numero dei lavoratori disoccupati; essendovi sostanziale equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, il salario tende a rimanere costante.In conclusione:La politica monetaria secondo i neo-quantitativisti è efficace soltanto nel breve periodo; essa riesce a mantenere il tasso di disoccupazione di mercato ad un livello minore di quello naturale soltanto per breve tempo; la possibilità di farlo per un tempo più lungo implica che venga aumentata ulteriormente la quantità di moneta il che genera ulteriore inflazione inizialmente inattesa dai lavoratori e, quindi, la possibilità di un tasso di disoccupazione minore di quello naturale; pertanto soltanto una crescente inflazione può garantire un tasso di disoccupazione minore di quello naturale.Nel lungo periodo la curva di Phillips, sempre secondo i monetaristi, è verticale; ossia per qualunque tasso di inflazione la disoccupazione resta al tasso naturale; non v’è pertanto un trade-off tra disoccupazione e inflazione, se non nel breve periodo.Ruolo dell’azione monetaria per Friedman: secondo Friedman la moneta deve svolgere il ruolo di lubrificante dell’economia: la variazione della quantità di moneta deve essere pari alla variazione media della sua domanda, che, se non cambia la velocità di circolazione, corrisponde alla variazione del reddito reale, in un ambito di stabilità dei prezzi (c.d. regola semplice).Nei confronti della politica fiscale Friedman manifesta altrettanto scetticismo. Anzitutto, la variazione della spesa pubblica può rivelarsi inefficace già nel breve periodo, se essa viene percepita come transitoria. Infatti, in tal caso essa non intacca il reddito permanente e non influisce sul consumo. Comunque anche se fosse efficace nel breve periodo, essa non lo sarebbe nel lungo, in quanto un aumento della spesa pubblica finanziato in deficit senza emissione di moneta provocherebbe uno spiazzamento finanziario della spesa privata sensibile al tasso di interesse, ossia dell’investimento.La duplice idea di fondo dei monetaristi è dunque che:Il sistema economico privato è sostanzialmente stabile, obbedendo a forze capaci di riportarlo su un sentiero di piena occupazione, anche se turbato da shocks esogeni; in ciò svolgono un ruolo importante sia il carattere esogeno della moneta sia le decisioni di spesa per consumi fondate, su un concetto di lungo periodo come quello di reddito permanente, sia , ancora, la natura adattiva delle aspettative.L’azione pubblica è, al contrario, inefficace, se non nel breve periodo, e non incide sulle caratteristiche strutturali del sistema economico.

3.4.3 L’INEFFICACIA DELL’INTERVENTO PUBBLICO NELLA NUOVA MACROECONOMIA CLASSICALa NMC condivide, e, anzi, rafforza il punto di vista dei monetaristi sulle capacità riequilibratrici intrinseche al sistema economico privato e, al contrario, giungendo a conclusioni ancor più negative sull’efficacia dell’intervento pubblico. Due sono le ipotesi essenziali:Gli operatori formano le proprie aspettative in modo razionale;I mercati sono continuamente riportati in equilibrio dal movimento dei prezzi, che sono perfettamente flessibili.Prima ipotesi. Gli operatori hanno aspettative razionali nel senso che essi sfruttano tutte le informazioni disponibili, che non necessariamente sono complete. Questo tipo di aspettative è proiettato in avanti anziché indietro. L’introduzione di aspettative

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razionali (AR) equivale all’ipotesi secondo la quale gli operatori si comportano come se conoscessero la teoria sottostante il modello. Tuttavia non è chiaro il processo attraverso il quale gli operatori arrivano a formare AR, ossia come essi apprendono il funzionamento del sistema economico e, pertanto, del modello che lo rappresenta.La NMC postula l’esistenza di mercati che tendono rapidamente all’equilibrio o che sono continuamente in equilibrio. In particolare, il mercato del lavoro è sempre in equilibrio di piena occupazione. La disoccupazione è sempre volontaria. Essa può ridursi, se vi è un aumento imprevisto del livello generale dei prezzi avvertito dalle sole imprese e non dai lavoratori.Un aumento dell’offerta di moneta inatteso, ma transitorio, fa crescere l’occupazione e i prezzi, ma soltanto in via temporanea. Gli effetti positivi in termini reali di un aumento inatteso, ma permanente, dello stock di moneta saranno di breve durata, esaurendosi nel lungo periodo.Al contrario, un aumento previsto della domanda globale non può avere alcun effetto sulla quantità prodotta perché contemporaneamente esso genera aspettative di aumento dei prezzi degli altri prodotti e induce, quindi, ogni operatore (imprese e lavoratori) a proteggere il proprio reddito con l’accrescere il prezzo del proprio prodotto. Se ognuno accresce i prezzi, il livello generale di questi risulta aumentato e ciò convaliderà le aspettative in tal senso.Quest’ultimo risultato è di particolare interesse per la politica economica, in particolare al fine di individuare i possibili effetti di variazioni della domanda indotte dalla politica fiscale. Se la manovra fiscale è prevista – ad esempio, in quanto annunciata dai policy makers o semplicemente dedotta dalle informazioni disponibili - essa lascia inalterato l’equilibrio generale del sistema, scaricandosi immediatamente ed esclusivamente sui prezzi. La curva di Phillips è verticale anche nel breve periodo, e non soltanto nel lungo periodo. La politica fiscale è, dunque, del tutto inutile e, anzi, produce addirittura risultati negativi, per l’inflazione che ne scaturisce.Gli effetti della politica monetaria possono essere esaminati in termini simili, considerando che l’aumento dell’offerta di moneta provoca un incremento della domanda aggregata. Pertanto, ogni aumento previsto dell’offerta di moneta avrà l’unico effetto di far aumentare i prezzi. Le conseguenze della NMC sono particolarmente drastiche e negative: è esclusa ogni possibilità sistematica che le misure di politica economica modifichino il livello della produzione e dell’occupazione. Si tratta della conclusione nota come neutralità o invarianza della politica economica.

3.4.4 ALCUNE RECENTI TEORIE DELLA DISOCCUPAZIONE INVOLONTARIAUno dei principali problemi a livello macroeconomico è costituito dalla presenza di disoccupazione involontaria. Gli economisti, i lavoratori e i cittadini sono interessati a comprendere perché qualcuno sia licenziato o non trovi lavoro contro la sua volontà, pur essendo disposto a lavorare al saggio corrente di salario.I principali temi indagati sono i seguenti:Il funzionamento di un’economia con prezzi sostanzialmente fissi.La spiegazione della fissità dei prezzi e dei salari.La spiegazione della elevatezza del salario reale, come possibile causa di disoccupazione involontaria.L’individuazione delle complementarità strategiche delle scelte individuali capaci di portare a un equilibrio di lungo periodo caratterizzato da disoccupazione (involontaria).

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I modelli a prezzi fissi o di disequilibrio sono stati resi più raffinati negli anni più recenti. Se i prezzi rimangono fissi, vi è la possibilità che alcuni operatori si trovino “razionati”, ossia non possano esprimere effettivamente la domanda o l’offerta che massimizza la loro posizione.Con riguardo alla fissità dei prezzi si è notato che in ambito di concorrenza imperfetta possono emergere notevoli resistenze alla loro variazione. La teoria dei contratti impliciti è capace di spiegare la rigidità dei salari, ma con più difficoltà l’esistenza di disoccupazione. Questa teoria ipotizza una diversità nell’avversione al rischio e nell’informazione da parte dei lavoratori e delle imprese, nonché una difficoltà nell’accesso dei lavoratori ai mercati assicurativi. In tali condizioni è conveniente ad ambedue le categorie di operatori di stipulare un contratto di lavoro che preveda una sorta di assicurazione da parte dell’impresa al pagamento di un salario pressoché costante, indipendente perciò dalla situazione economica. Per sua natura questo tipo di considerazioni non può spiegare la disoccupazione in un mercato concorrenziale, perché, qui, il solo modo con cui un lavoratore avverso al rischio può assicurarsi contro la perdita di utilità dovuta al licenziamento o alla disoccupazione in questo problema è lavorando in circostanze in cui è socialmente inefficiente farlo.A seconda delle situazioni l’elevatezza del salario reale può o non produrre disoccupazione. È importante comprendere le possibili cause da cui scaturiscono salari reali elevati. Due sono essenzialmente le cause: quella dei salari di efficienza e quella che fa riferimento alla divisione dei lavoratori in insider e outsider.L’ipotesi dei salari di efficienza è fondata sull’idea che il livello del salario influenzi la produttività del lavoratore; ciò non tanto nel senso ovvio per cui un maggior salario migliora le capacità fisiche e psichiche del lavoratore, consentendogli un più elevato tenore di vita, quanto nel senso che lo induce a evitare comportamenti elusivi del lavoro. L’impresa trova quindi conveniente aumentare il salario, il che costituisce un incentivo per indurre il lavoratore a compiere un elevato sforzo nel corso della sua prestazione. Peraltro, se un simile comportamento tende a essere comune a molte imprese e se lo stesso risulta molto esteso, l’elevato salario può portare ad una situazione di disoccupazione.I modelli insider-outsider tendono ad attribuire l’alta disoccupazione all’elevato saggio di salario richiesto dai lavoratori occupati (insider). Questi lavoratori possono imporre alle imprese saggi di salario più elevati di quelli richiesti dai lavoratori non occupati (outsider) per due ragioni sostanziali: anzitutto vi sono costi di assunzione e di addestramento da un canto, e di licenziamento dall’altro che segmentano il mercato del lavoro; inoltre gli insider possono compiere attività di mutua cooperazione e di disturbo degli outsider che venissero impiegati per sostituire gli insider eventualmente licenziati. All’elevato saggio di salario che i lavoratori interni riescono a imporre le imprese rispondono muovendosi lungo la curva di domanda di lavoro e dando, quindi, luogo a un minor volume di occupazione.Anche le ipotesi teoriche fondate sull’esistenza di complementarità strategiche in mercati comunque imperfetti sono numerose. Esse sottolineano l’esistenza di una sorta di esternalità positive reciproche fra le decisioni dei vari operatori: l’uno tende a fare ciò che fa l’altro.

3.7 GLI SQUILIBRI DELLA BILANCIA DEI PAGAMENTILa bilancia dei pagamenti (BdP) è il documento contabile nel quale si registrano le transazioni economiche che hanno luogo in un determinato periodo di tempo fra

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residenti di un paese e non residenti e dalle quali scaturiscono di norma esborsi o introiti di valute estere. Viene registrata a debito ogni transazione che comporti esborso di valute; è registrata a credito ogni operazione che comporti afflusso di valute.La BdP è composta da tre conti: il conto corrente, il conto capitale, il conto finanziario.Il conto corrente comprende le esportazioni e le importazioni. Il conto capitale comprende le operazioni commerciali e i trasferimenti relativi ad attività di investimento. I due conti insieme rilevano dunque movimenti di beni (merci e servizi). Il conto finanziario comprende i movimenti di capitale, a breve, medio e lungo termine, che sono distinti in:Investimenti direttiInvestimenti di portafoglioDerivatiAltri investimentiVariazione delle riserve ufficiali.Le riserve ufficiali italiane contribuiscono a definire le riserve dell’UEM. Una parte delle nostre riserve è conferita alla BCE. Le riserve comprendono oltre all’oro monetario, ossia l’oro utilizzabile a fini di regolazione delle transazioni internazionali, le attività in valuta verso i non residenti dell’area, “liquide, commerciabili e di qualità elevata”.La somma dei tre conti, teoricamente, dovrebbe essere nulla. L’eventuale discrepanza è rilevata nella voce “errori e omissioni” che può assumere valor elevati.Corrispondentemente alla variazione delle riserve ufficiali, muta la quantità di base monetaria in circolazione nel sistema economico, che costituisce la contropartita dei movimenti ufficiali di valute.

4. LA TEORIA NORMATIVA DELLA POLITICA ECONOMICA

4.1 LO STATO COME OPERATORE RAZIONALEPer superare le carenze del mercato, sia sul piano microeconomico, sia sul piano macro economico, nasce l'esigenza dell'intervento di un operatore che sia mosso da obiettivi di natura collettiva anziché individuale.In questo capitolo si individuano le potenzialità astratte di un simile operatore, analizzate da un punto di vista condiviso in larga misura dall'economia neoclassica. Questa posizione deduce il comportamento ottimale (massimizzante) dei vari operatori (privati) sulla base di alcuni postulati.La teoria normativa risulta essere necessaria come pietra di paragone della realtà dell'intervento pubblico e delle possibilità di migliorarne la condotta e i risultati.Inoltre, l'elaborazione di uno schema logico tendente ad accrescere la coerenza interna, e quindi la razionalità, di un sistema di politica economica evita che questo si basi esclusivamente sull'intuizione e sulla capacità di previsione dei responsabili delle decisioni. Come sostiene Caffé, sulla base di conoscenze scientifiche, un'efficace programmazione delle decisioni di politica economica, concorre a migliorare i risultati dell'azione pubblica.

4.2 LA PROGRAMMAZIONE1. Significato e fondamento: programmare significa adottare decisioni

coordinate e coerenti di politica economica. Nel campo dell'azione pubblica ciò implica non procedere a interventi slegati gli uni dagli altri, ma considerare per ogni problema il complesso delle finalità di politica (obiettivi) e l'insieme delle

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azioni possibili (strumenti). La necessità di interventi coordinati nasce da una serie di considerazioni: Per conseguire i diversi obiettivi sono disponibili vari strumenti, ognuno con

efficacia, tempi e vincoli di utilizzo diversi. L'utilizzo di uno strumento per risolvere un obiettivo, può avere effetto anche

su altre questioni e non necessariamente nel senso desiderato. Si pone quindi il problema dell'inseparabilità dei vari problemi di politica economica.

I problemi di politica hanno natura intertemporale. La soluzione di un problema presente è legata alla soluzione dello stesso problema in periodi successivi. Si pone il problema della “coerenza temporale” delle decisioni pubbliche.

2. Elementi costitutivi del programma: due elementi sono già stati citati in precedenza. Per obiettivo si intende un traguardi di politica economica che può essere misurato in termini di una grandezza, ad esempio il reddito, l'occupazione. Per strumento si intende una “leva” -rappresentata da un'altra variabile- di cui dispongono i responsabili delle decisioni di politica economica (policy makers) per raggiungere un obiettivo. La capacità degli strumenti di influire sugli obiettivi si desume dall'analisi economica, ossia dalle relazioni tra le diverse variabili economiche. La “struttura informativa” sulle relazioni tra variabili economiche può essere espressa da un modello matematico che descriva il funzionamento del sistema economico a livello aggregato (macroeconomico) o disaggregato (microeconomico). Tale modello di analisi, costituisce il terzo elemento della programmazione.

3. Esemplificazione (semplificata nel caso di un unico obiettivo): supponiamo che i policy makers intendano incrementare il livello di occupazione (N) sino a raggiungere un valore prefissato N(N=Ň). Gli economisti avranno formulato un modello del tipo [4.1], che individua grandezze (ad esempio, secondo un'impostazione keynesiana, le componenti autonome della domanda, A), dalle quali dipende l'occupazione:

Y = πN[4.1] Y = C + A

C = cYNel modello [4.1] Y è il reddito; π è la produttività media del lavoro; C ed A indicano, rispettivamente, consumi e spesa autonoma; c è la propensione marginale e media al consumo. Sostituendo la seconda e la terza equazione nella prima, il modello [4.1] può essere espresso ne l modo seguente, che esplicita la variabile N in funzione delle altre residue:[4.2] N = 1/π • 1/(1 – c) • AIl passo successivo sta nell'individuazione degli strumenti, ossia delle grandezze comprese nella [4.2] che possono essere manovrate dai responsabili di politica e economica e sono capaci di influenzare la variabile obiettivo. Ad esempio, A è composto, fra l'altro, dalla spesa per i consumi e investimenti pubblici (G), che è direttamente manovrabile, nonché dall'investimento privato (I), che è influenzabile indirettamente dall'azione pubblica attraverso le manovre della liquidità. Anche c può essere considerato come strumento di politica, in quanto riflette le operazioni di redistribuzione del reddito indotte dall'azione pubblica, che possono influire sulla propensione marginale al consumo dell'intera collettività. Nel caso esaminato, se si decide di utilizzare il solo strumento G, I e c saranno considerati dati e il problema di politica economica consiste nel trovare il valore di G che permette di rendere N=Ň.Per fare ciò si riscriva, anzitutto, la [4.2] come:[4.2'] N = 1/π • 1/(1 – c) • (I + G)

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Si esprima, poi, lo strumento, G, in funzione dell'obiettivo N:[4.3] G = [π (1 – c) N] – ILa [4.3] ci dice come varia G al variare di N, essendo considerate date tutte le altre variabili.Assegnando, infine, a N il valore prefissato Ň, si ottiene:[4.4] G = [π (1 – c) Ň] – ICiò consente di ottenere l'unico valore di G coerente con i dati e con l'obiettivo desiderato (N=Ň).

4.3 GLI OBIETTIVI DI POLITICA ECONOMICASupponendo (in linea teorica) che gli obiettivi espressi dai policy makers rispecchino le preferenze dei cittadini e che non vi siano ostacoli o distorsioni burocratiche all'esecuzione delle politiche scaturenti da questi obiettivi, ci si può trovare dinnanzi a diverse situazioni:

1. i vari obiettivi che i policy makers si propongono di raggiungere in un dato periodo possono essere coerenti fra loro (la stessa manovra porta al raggiungimento dei diversi obiettivi);

2. i vari obiettivi possono essere sostituti l'uno dell'altro (la manovra attuata per raggiungere un obiettivo, preclude il raggiungimento di un altro obiettivo). In questo caso si dice che esiste trade-off tra i vari obiettivi.

É possibile individuare 4 modi di esprimere gli obiettivi:a) metodo degli obiettivi fissi;b) metodo della priorità;c) metodo degli obiettivi flessibili con saldo marginale di sostituzione (s.m.s.)

variabile;d) metodo degli obiettivi flessibili con s.m.s. costante.

4.3.1. OBIETTIVI FISSI (APPROCCIO MEZZI-FISSI)Questo metodo, elaborato da Tinbergen negli anni '50, consiste nell'attribuzione di valori prefissati alle variabili che costituiscono gli obiettivi di politica economica. Consideriamo due esempi, di cui il primo è tratto da Graziani (1979):

1. Gli obiettivi sono costituiti dal livello del reddito in due zone geografiche, Nord e Sud (Yn e Ys). Le possibilità di produrre reddito con le risorse esistenti nelle due aree sono espresse dalla relazione Yn = f(Ys), rappresentata graficamente dalla figura 4.1 come una curva di trasformazione.Esprimere gli obiettivi indicati come obiettivi fissi equivale a prendere un punto su tale curva, ad esempio come il punto A, nel quale Yn = Ŷn e Ys = Ŷs

Se la coppia di valori desiderata dei due redditi si collocasse all'esterno della curva, il politico avrebbe a disposizione due alternative: o ridurre i valori di

Figura 4.1

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almeno uno dei suoi obiettivi o tentare di spostare verso l'alto la curva di trasformazione (la seconda soluzione richiede molto tempo).

2. Il secondo esempio è dato dall'obiettivo di occupazione (espresso in termini di u, tasso di disoccupazione) e da quello di stabilità monetaria (in termini di p, tasso di inflazione). Questi due obiettivi possono essere legati, empiricamente, dalla relazione rappresentata dalla figura 4.2.

Esprimere i traguardi indicati come obiettivi fissi significa prendere un punto sulla curva di Philips derivata, ad esempio il punto B, nel quale p = p* e u = u*.

4.3.2 METODO DELLE PRIORITÁSe non si conosce l'esatta relazione che collega un obiettivo a un altro, può essere opportuno indicare la priorità nel raggiungimento degli obiettivi.In questi casi si cerca di massimizzare (o minimizzare se si tratta di un male) il valore dell'obiettivo prioritario, subordinatamente al valore desiderato dell'obiettivo prioritario e al vincolo rappresentato dalla “curva di trasformazione” o, comunque, dal modello che rappresenta il funzionamento dell'economia.

4.3.3 OBIETTIVI FLESSIBILI: FUNZIONE DEL BENESSERE SOCIALE CON S.M.S. VARIABILE

L'impostazione di un problema di politica in termini di obiettivi flessibili, è del tutto equivalente a quella del problema del consumatore della microeconomia. Infatti, come il consumatore indica in termini flessibili i suoi obiettivi esprimendo le sue preferenze, così si individua per il politico una mappa di curve di indifferenza che, intersecandosi con il vincolo di bilancio (curva di trasformazione), determinerà la scelta degli obiettivi [Fig 4.4]. La mappa di curve di indifferenza che riflette i desideri della collettività viene definita funzione del benessere sociale.Nel caso in cui gli argomenti della FBS non fossero dei “beni” ma dei “mali” (come nel caso rappresentato precedentemente riguardante la disoccupazione u e l'inflazione p), la rappresentazione grafica delle curve cambierebbe, e si avrebbe una funzione di perdita da minimizzare [Fig 4.6].Nel caso di beni si avranno curve convesse con s.m.s. decrescenti, nel caso di mali, si avranno curve concave caratterizzate da s.m.s. crescenti. Il punto C e il punto D, rappresentano, nei due rispettivi grafici, i gradi di soddisfazione più elevati.

Figura 4.4 Figura 4.6

Figura 4.2

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Sia nel caso di beni sia nel caso di mali, gli argomenti della FBS costituiscono gli obiettivi della politica economica. Tuttavia, a differenza dell'approccio con obiettivi fissi, essi sono determinate endogenamente, come quei valori che, dato il vincolo, rendono massimo il benessere sociale. Si parla in questo caso di approccio ottimizzante.L'approccio ottimizzante risulta essere quello più corretto se vengono soddisfatte due condizioni:

1. perfetta controllabilità dell'attività dei policy makers;2. perfetta certezza circa la posizione e l'andamento della “curva di

trasformazione”.Se la prima condizione fosse rispettata e la seconda no, vi sarebbe un ulteriore vantaggio dell'approccio ottimizzante. Infatti, lo spostamento della curva di trasformazione, non richiedendo una riformulazione degli obiettivi (che non sono stati espressi in modo esplicito e invariante), contribuirebbe ad individuare nuovi punti di massimo, ognuno adatto a dare una risposta più reattiva alle contingenze, oltre che alle preferenze dei policy makers.Al contrario, in una situazione in cui sia soddisfatta solo la condizione 2, la fissità degli obiettivi può costituire uno strumento di controllo da parte dei cittadini sull'attività dei responsabili della “cosa pubblica”. Nella realtà entrambe le condizioni non vengono rispettate e il mancato conseguimento degli impegni dei responsabili dell'azione pubblica, potrà essere attribuito da questi ultimi a spostamenti della “curva di trasformazione” (peggioramento della congiuntura internazionale) oppure alla negligenza del governo precedente.

4.3.4. OBIETTIVI FLESSIBILI: FUNZIONE DEL BENESSERE SOCIALE CON S.M.S COSTANTE

Questo caso corrisponde a una funzione del benessere sociale che, per ragioni di semplificazione, è stata resa lineare negli argomenti (che sono i nostri obiettivi) e, pertanto, presenta un saggio marginale di sostituzione costante.Considerando, ad esempio, il caso degli obiettivi relativi alla distribuzione territoriale del reddito, la funzione del benessere sociale potrebbe essere:

W = aYn + bYsdove a e b sono i pesi assegnati al reddito nelle due circoscrizioni. Questi possono avere valore qualsiasi, riflettendo le preferenze del soggetti che esprime la FBS. In questo caso, comunque, a e b restano costanti per qualsiasi valore di Yn e Ys. Ne consegue che l's.m.s. fra Yn e Ys, che è dato da b/a è costante. Il punto D della figura 4.7 rappresenta la soluzione che, dati i pesi, rappresenta la ripartizione ottimale del reddito nelle due circoscrizioni.

Figura 4.7

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Nell'altro esempio, se gli argomenti della FBS con s.m.s. costante sono p e u, la funzione si presenta nella forma:

W = ap + budove a e b sono costanti negative. Infatti una aumento di p o di u implica una riduzione di benessere, ovvero un aumento di malessere. Se invece decidiamo di misurare il benessere sulla scala dei valori negativi e parliamo quindi di malessere, a e b sono costanti positive. Nel caso particolare in cui a = b =1, si ha il cosiddetto indice di malessere di Okun,che risulta pari alla somma del tasso di disoccupazione e di inflazione. Questo tasso viene talora utilizzato per comparazioni nel tempo e nello spazio riguardanti l'evoluzione economica di un paese.L'indice di malessere di Okun è stato oggetto di diverse critiche, tra cui:

1. il fatto che pone sullo stesso piano, disoccupazione e inflazione attribuendo loro pari importanza. Il responsabile di politica può avere, nelle proprie scelte, preferenze diverse;

2. la diminuzione del benessere causata da un punto in più di disoccupazione è sempre compensata da una diminuzione di un punto dell'inflazione, e viceversa, qualunque sia la situazione di partenza. Questa situazione può essere difficilmente accettabile, se non ci si muove in un intorno limitato di un certo punto. Infatti, ad esempio, ci si potrebbe trovare in una situazione nella quale la disoccupazione sia del 3% e l'inflazione del 20%: in questo caso si potrebbe essere disposti ad accettare un 1% in più di disoccupazione, per ridurre l'inflazione di 2 punti percentuali. Ma se la disoccupazione fosse pari all'8% e l'inflazione pari al 6%, si accetterebbe un punto percentuale in più di disoccupazione soltanto se l'inflazione cadesse in misura più drastica, poniamo, di 4 punti percentuali.

4.4 GLI STRUMENTI DI POLITICA ECONOMICA

4.4.1 DEFINIZIONE

Una variabile può essere definita come variabile strumentale, ossia come strumento di politica economica, se sono soddisfatte le tre seguenti condizioni:

1. I policy makers possono controllarla, ovvero decidere quale valore debba assumere e, con la propria azione, fissarlo direttamente (controllabilità dello strumento)

2. La variabile così fissata ha influenza su altre variabili che assumono il ruolo di obiettivi (efficacia dello strumento). Nel caso di un obiettivo e uno strumento, l’efficacia si misura mediante la derivata dell’obiettivo considerato rispetto allo strumento.

3. La variabile deve poter essere distinta da altri strumenti in termini di diverso grado di controllabilità ed efficacia. Due strumenti che abbiano la stessa efficacia su tutti gli obiettivi costituiscono in realtà un unico strumento (separabilità o indipendenza degli strumenti).

Così come definito lo strumento appare come una variabile con l’unico scopo di influenzarne un’altra, che è quella rilevante per il policy maker. Situazione che di fatto si presenta di rado nella realtà. Le autorità di politica possono così includere sia variabili-obiettivo vere e proprie, sia variabili con ruolo strumentale al conseguimento di variabili-obiettivo. Ad esempio la spesa pubblica è una variabile strumentale,

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influenza numerosi obiettivi di politica, il reddito, l’occupazione, la bilancia dei pagamenti, ecc. L’inesistenza di confini rigidi tra obiettivi e strumenti non costituisce eccessive difficoltà per l’impostazione di un problema di politica economica. Difficoltà invece possono esservi nell’esistenza di vincoli all’uso di uno strumento. Questi derivano da ragioni istituzionali: la Costituzione, le leggi o le norme, ecc. Ad esempio l’impossibilità di far ricorso ad alcuni strumenti o a combinazione di strumenti, imposizione di pareggio di bilancio, divieto di finanziamento monetario del deficit, ecc.Quando poi la catena casuale che lega alcuni strumenti agli obiettivi è complessa, può essere opportuno introdurre i concetti di indicatori di politica, obiettivi operativi e obiettivi intermedi.

4.4.2 I VARI TIPI DI STRUMENTI

Svariate possono essere le classificazioni degli strumenti di politica. Una di esse è quella dovuta a Tinbergen (1956), che distingue fra politiche quantitative e di riforma. Le politiche quantitative rappresentano la modifica del valore di uno strumento esistente (per esempio variazione del livello della spesa pubblica); le politiche qualitative corrispondono all’introduzione di un nuovo strumento, o alla cancellazione di uno strumento esistente, senza che ciò comporti sostanziali mutamenti nel sistema economico (ad esempio introduzione di un nuovo limite al credito che può essere concesso alle banche; introduzione di una nuova imposta). Le politiche di riforma (o riforme), infine consiste nell’introduzione di un nuovo strumento o nella cancellazione di uno esistente, quando ciò comporti modifiche sostanziali nei caratteri e nelle regole del sistema economico. Hanno una forte connotazione istituzionale, possono assumere o meno rango costituzionale, definiscono per esempio: il regime di proprietà, l’assetto del sistema fin., regolamentazione della struttura produttiva (evitare situazioni di monopolio), ecc. Si possono distinguere inoltre, misure di controllo diretto, mirano a certi obiettivi imponendo un dato comportamento ad alcune categorie (per esempio: per ridurre il deficit commerciale, si impone un contingentamento delle importazioni; obbligo di far uso di depuratori; divieto di carne trattata con ormoni; legislazione antimonopolistica, ecc). Politiche di controllo indiretto, tendono a conseguire gli obiettivi non imponendo dati comportamenti, bensì inducendo gli operatori ad agire nel modo desiderato, influenzando le variabili dalle quali loro dipendono (per esempio per migliorare il deficit commerciale, aggiungendo un dazio all’importazione estera, se ne scoraggerebbe la stessa). Le tre principali misure di controllo indiretto sono: politica fiscale, politica monetaria, politica di cambio. Un’ulteriore distinzione importante è fra misure discrezionali e regole automatiche. Le misure discrezionali sono strumenti di politica che vengono manovrati a discrezione, caso per caso. Le regole automatiche sono strumenti di politica economica senza che vi sia bisogno di valutare di volta in volta la situazione e decidere di conseguenza le misure da adottare. Un insieme di regole automatiche può assurgere al ruolo di costituzione monetaria o fiscale, l’adozione di un certo regime monetario ad esempio, il gold standard.Una classe specifica di regole automatiche è data dagli stabilizzatori automatici se per ampiezza e portata tende a ridurre le oscillazioni cicliche dell’economia; ad esempio sussidi di disoccupazione e imposizione progressiva.Un vantaggio degli stabilizzatori automatici, introdotti in larga misura dopo la II G.M., è quello di rendere più celere l’intervento pubblico.

4.5 IL MODELLO

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E’ un modello di analisi, un insieme di relazione espresse in termini matematici che rappresentano in modo astratto e semplificano il modello economico.

4.5.1 IL MODELLO IN FORMA STRUTTURALE

Un modello di analisi in forma strutturale, è quello che presenta le connessione fra le grandezze così come esse vengono suggerite dall’analisi economica. È un modello semplificato della realtà, ne coglie dunque solo alcuni tratti. Si dovranno costituire tanti modelli quanti sono gli aspetti che si vogliono sottolineare della realtà economica. Per gli scopi di politica economica il modello analitico deve essere specificato o modificato al fine di poter essere utilizzato come modello di decisione (o di strategia). Un modello in forma strutturale si compone di equazioni di vario tipo:

a) Eq. di definizione;b) Eq. di comportamento;c) Eq. tecniche d) Eq. di equilibrio;e) Eq. istituzionali.

Talvolta una stessa equazione può essere interpretata in modo diverso. La prima delle eq. viene normalmente intesa come eq. tecnica, in quanto rappresenta una caso particolare della funzione di produzione Y = f (K, N) (K mezzi di produzione disponibili, N quantità di lavoro) La seconda delle eq. è un’eq. di equilibrio fra prodotto (offerta) e componenti della domanda. Con altre specificazioni del modello potrebbe essere intesa come un’eq. di definizione della domanda aggregata.L’ultima è un’eq. di comportamento in quanto indica come i consumatori assumono le loro decisioni.Le eq. di tipo istituzionale assenti nel modello semplificato, esprimono vincoli derivanti da norme e consuetudini. Esempio divieto di finanziare il debito pubblico con base monetaria: ΔG = ΔT + ΔBDove G, T e B sono rispettivamente, spesa pubblica, tributi, debito pubblico. Essa esprime la norma per cui l’incremento della spesa può essere finanziato solo con imposte o titoli del debito pubblico e non con base monetaria. Vi sono nel modello: variabili esogene, determinano altre variabili ma non ne sono influenzate; variabili endogene possono anche variare il valore di qualche variabile, ma il cui valore dipende, comunque, da altre variabili. Indicando con y le var. endogene e con x quelle esogene, la forma strutturale si presenta così: y = f(y, x)

4.5.2 IL MODELLO IN FORMA RIDOTTA

IN CASO DI OBIETTIVI FISSIIl modello in forma ridotta si ottiene a partire da quello in forma strutturale, eliminando le var. irrilevanti ed esprimendo ogni var. endogena residua (ossia ogni obiettivo) in termini di sole var. esogene. Le equazioni della forma ridotta saranno pertanto tante quanti sono gli obiettivi. Dato obiettivo y e strumento x, allora y = f (x) La forma ridotta o invertita (o inversa) si ottiene con l’esprimere gli strumenti in funzione degli obiettivi. Riflettendo sul fatto che in un problema di politica economica le incognite sono gli strumenti e che il numero delle eq. della formula ridotta è pari al numero degli obiettivi, si può derivare LA REGOLA AUREA DELLA POLITICA ECONOMICA, dovuta a Tinbergen: nel caso di obiettivi fissi, la soluzione di un problema di politica

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economica richiede la disponibilità di un numero di strumenti almeno pari al numero degli obiettivi. Se così è il sistema è determinato, se esso è superiore/inferiore al numero degli obiettivi il sistema è sottodeterminato (sovradimensionato) , ossia esistono molteplici soluzioni (o non ne esiste alcuna).

IN CASO DI OBIETTIVI FLESSIBILISi imposta come sopra ma in termini di massimizzazione o minimizzazione. Questo problema può essere risolto anche quando gli strumenti siano di n. inferiore agli obiettivi. Più strumenti sono disponibili maggiore sarà la funzione del benessere.

5. I FALLIMENTI DEL “NON MERCATO”: ELEMENTI PER UNA TEORIA “POSITIVA” DELLA POLITICA ECONOMICA

5.1 LA RAPPRESENTAZIONE DEI SOGGETTI SOCIALILa teoria normativa della politica economica è una “teoria dell’interesse pubblico” e non si pone il problema del grado di realismo delle ipotesi sulle quali essa si basa o del comportamento delle autorità pubbliche che ne discende. La politica normativa ipotizza l’esistenza di un operatore che si faccia carico degli interessi dei singoli soggetti economici, riflettendo in una funzione del benessere sociale la “volontà del popolo”, una impostazione del genere trascura: il sistema economico non è composto di operatori indistinti i responsabili delle decisioni di politica non sono anonimiLa teoria normativa della politica economica assume l’esistenza di individui quasi anonimi, pur se caratterizzati da specifiche preferenze e diverse dotazioni iniziali. Il “popolo” in realtà non è un’entità composta da individui più o meno indistinti, che possono essere aggregati in classi o gruppi aventi caratteristiche comuni di potere, interessi e che tendono a operare in maniera unitaria con proprie organizzazioni al fine di far prevalere le proprie preferenze su quelle degli altri; è importante quindi conoscere il modo in cui individui simili si organizzano per conseguire scopi comuni. Particolare rilievo la teoria dei gruppi di interesse (o teoria della cattura) che riconosce l’esistenza di gruppi di individui con interessi comuni con radice nella idea marxiana; teoria formulata dalla scuola delle scelte pubbliche con un chiaro orientamento liberista. Sono così emersi nel ruolo di operatori le figure dei capitalisti e dei lavoratori non come individui ma come istituzioni. Ogni gruppo desidera indirizzare l’azione dell’ente pubblico:negli atteggiamenti più generali, oggetto di interesse a gruppi più vastiin atteggiamenti più specifici con l’uso di interventi selettivi, sollecitati da gruppi più ristrettiI modi attraverso i quali esercitano la loro influenza sui poteri pubblici sono molteplici e vanno dal voto, alle campagne di opinione ecc.

5.2 I PROBLEMI DI DELEGA: GLI OBIETTIVI DELLE AUTORITA’ DI POLITICA ECONOMICA E IL CICLO POLITICO-ECONOMICOL’identità dei policy makers è completamente trascurata nella teoria classica della politica economica. Essi non hanno identità e non viene riconosciuta la loro natura di agenti degli individui indistinti che essi dovrebbero rappresentare o dei soggetti sociali organizzati in gruppi; non hanno idee personali sulla preferibilità delle varie soluzioni,

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non hanno interessi propri o interessi altrui da perseguire al di là del generico “interesse pubblico”. Il soggetto pubblico è composto da due categorie: i politici, che hanno origine elettiva e definiscono gli obiettivi dell’azione pubblica, e i burocrati, lavoratori dipendenti che traducono in realtà le linee di azione individuate dai primi. Per entrambi sorge il problema di delega e perciò di incentivi. La prima formulazione di una teoria del ciclo politico- economico è quella di Kalecki il quale sosteneva l’impossibilità per un sistema capitalistico di perseguire il pieno impiego nel lungo periodo. Il ciclo politico-economico di Nordhaus è il risultato dell’ipotesi che le decisioni dei politici siano espressione di loro preferenze proprie.Ipotesi che i politici possano essere caratterizzati per il loro status ed esprimano preferenze e interessi conseguenti, l’obiettivo preminente dei politici in carica è quello di essere rieletti, essi perciò indirizzeranno l’economia in modo da massimizzare i voti attesiSeconda ipotesi è che i risultati elettorali siano influenzati in modo significativo dall’andamento economicoTerza ipotesi, capacità del governo di espandere nel breve periodo l’economia attraverso strumenti monetari e fiscaliLe ipotesi utilizzate appaiono senz’altro verosimili, ma viene superata con la teoria partigiana del ciclo politico-economico dove ogni partito politico assegna pesi diversi ai vari obiettivi economici per ragioni di carattere ideologico e/o in quanto assume la rappresentanza di differenti interessi e gruppi sociali.La probabilità di risultare vincitore dipenderà da vari elementi, fra questi va incluso il grado di “ingenuità” o “miopia” degli elettori, che non può ritenersi uguale in vari paesi né costante nel tempo.

5.5 FALLIMENTI DEL MERCATO E FALLIMENTI DELLO STATONegli anni 80 e 90 in quasi tutto il mondo ci furono movimenti di opinione contrari all’intervento pubblico nell’economia; Stati Uniti e Gran Bretagna maggior consistenza, drasticamente ridotto l’intervento pubblico sia nel campo allocativo che distributivo. Dal mutato funzionamento dell’economia scaturiscono problemi che risulta difficile gestire in termini delle esistenti istituzioni e che non di rado danno origine a interventi pubblici numerosi, ma poco efficaci. Influenti contributi dottrinali furono quelli di Friedman, Coase, Simon e in ultimo la scuola di Public choice. La scuola evidenzia le inefficienze ed iniquità che possono associarsi all’azione pubblica come conseguenza di questa ipotesi di comportamento. Sono così emersi nella realtà fallimenti dello Stato. Sorgono due problemi se questi fallimenti possono essere valutati, ed è importante rilevare che i fallimenti del mercato si pongono in larghissima misura a un livello elevato di astrazione e costituiscono un problema logico e non soltanto empirico, e se essi sono superabili o meno. Appropriato ora far uso dell’approccio dei costi di transazione nelle analisi per la scelta fra strutture di governo alternative. Tre punti rilevanti per l’analisi dell’importanza relativa del rischio morale nelle istituzioni pubbliche e private:la misurabilità degli obiettivil’estensione e la natura delle situazioni nelle quali si presentano problemi di agenzial’effetto delle istituzioni complementari nella soluzione dei problemi di agenziaIl rischio morale è un problema comune alle strutture di governo pubbliche e private e non è vero che è più grave nei problemi di incentivo per le istituzioni pubbliche ma due argomentazioni assumono rilevanza: il maggior numero di strati nel rapporto di

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delega e la molteplicità degli obiettivi. Ci sono numerosi modi per affrontare i problemi di rischio, Stiglitz suggerisce alle imprese pubbliche di fornire ai loro manager gli stessi incentivi che offrono le imprese private con ampia base azionaria. L’esistenza di regole può certamente limitare l’arbitrio dei politici e dei burocratici, a volte limitano anche la capacità discrezionale di intervento dei politici per contrastare shocks inattesi. La necessità di regole formali sorge in presenza di forti divisioni sociali. Le decisioni di politica economica devono essere viste come il risultato di un processo dinamico che tenta di sviluppare regole e strutture organizzative per far fronte a vari limiti nella informazione e nelle azioni dei vari operatori.

5.6 IL PROCESSO DI DEFINIZIONE DI UN INTERVENTO PUBBLICO: COME MIGLIORARE L’EFFICIENZA E L’EFFICACIA DELL’AZIONE PUBBLICAL’obiettivo è quello di costruire una teoria normativa dell’intervento pubblico consapevole delle alternative esistenti, nonché degli effetti molteplici che ne scaturiscono; necessario soffermarsi sui vari stadi nella definizione di un programma di azione pubblica.L’origine dell’intervento pubblico, consapevolezza dei politiciL’analisi del funzionamento di altre istituzioni, l’emergere di un problema non implica l’intervento pubblico, ma lo giustifica quando soddisfa due condizioni:Vi è un fallimento del mercato o di altre istituzioni privateLo stato può ottenere effetti migliori di quelli delle altre istituzioni almeno da un punto di vista a parità di condizioniLa scelta fra tipi alternativi di intervento, può avvenire con strumenti diversi che implicano costi e risultati differenti che devono essere attentamente analizzati e poi comparati. La scelta va operata nei termini dei seguenti elementi:Fattibilità politica e burocraticaFattibilità dal punto di vista delle reazioni dei mercati e delle altre istituzioniNatura dei risultati in termini micro e macro

5.7 IL DECENTRAMENTO DELLE FUNZIONI STATUALI E LO STATO FEDERALEL’attribuzione a separati soggetti o a specifici organi dello Stato di alcune funzioni di politica economica può avere una giustificazione in termini di efficienza. Il decentramento può essere verticale o orizzontale. Il primo la funzione viene svolta da un certo organo dello Stato o da un soggetto pubblico separato con riferimento a tutto il territorio nazionale (es. authoriry indipendente). Il secondo si ha una differenziazione territoriale delle funzioni delle varie articolazioni dello Stato o di altri soggetti pubblici. Giustificazioni economiche di una simile forma di stato prende il nome di federalismo fiscale “Stato federale”.Alla base del federalismo fiscale sta la constatazione che i beni pubblici hanno diverso grado di non rivalità. L’efficienza allocativa richiede che la responsabilità di fornire i primi tipi di beni sia assegnata al governo centrale sia attribuita alle strutture di governo territorialmente decentrate. Da alcuni il federalismo viene visto come un’articolazione dell’intervento pubblico tale da assicurare un appropriato sistema di incentivi, dando almeno parziale soluzione ai problemi di azzardo morale nell’azione pubblica perché a livello locale aumenta il grado di informazione e si riducono i costi di accesso e partecipazione alle decisioni pubbliche e i cittadini potrebbero fare una sorta di concorrenza per comparazione, yardstick competition; vi sono forti dubbi sulla validità dell’idea che la concorrenza fra circoscrizioni costituisca un’alternativa

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superiore alla concorrenza all’interno di ogni circoscrizione per ottenere il suffragio dei cittadini.

6. OBIETTIVI, STRUMENTI E MODELLI DELLA POLITICA MICROECONOMICA

6.1 INTRODUZIONELa politica microeconomica è l’insieme di misure tendenti:Ad assicurare l’esistenza e il funzionamento del mercato quando è capace di garantire l’ottimo desiderato; politiche che configurano lo Stato minimale cioè funzioni minime che dovrebbero essere svolte dall’operatore pubblicoA correggere le molteplici carenze derivanti dal concreto funzionamento del mercato stesso; politiche riconducibili all’esistenza di esternalità, beni pubblici, costi di transizione e asimmetria informativaAd assicurare una distribuzione del reddito o della ricchezza ritenuta equa e a garantire la presenza di beni meritoriLe politiche di redistribuzione in ambito microeconomico sono quelle riguardanti la distribuzione personale o familiare del reddito sia quelle che concernono la distribuzione regionale e la distribuzione settoriale del reddito. Il modello economico di riferimento con i suoi vantaggi e limiti è quello dell’equilibrio economico generale in regime di perfetta concorrenza. Più di frequente il modello di riferimento non è concepito per riflettere l’azione economica pubblica e si tratta allora di adattarlo, con l’introduzione di ulteriori variabili o anche di nuove relazioni. In alcuni casi il modello di riferimento non è quello dell’equilibrio generale, ma descrive piuttosto l’equilibrio parziale di mercato; molto usato quando il criterio di riferimento dell’intervento pubblico sia quello dell’efficienza dinamica.

6.2 LA FUNZIONE DI “GARANZIA” DEL MERCATO: LO STATO MINIMALEGli strumenti sono diversi a seconda dell’atteggiamento prescelto nei confronti del mercato. I compiti minimi che vanno affidati all’operatore pubblico sono l’attribuzione dei diritti, la giustizia e la difesa, che sono condizione stessa di esistenza e buon funzionamento del mercato; l’attribuzione dei diritti, in particolare dei diritti di proprietà, sono il fondamento stesso del mercato. Non è importante sono l’attribuzione ma anche la garanzia del loro rispetto. Lo svolgimento di queste funzioni ne richiede di ulteriori; infatti visto che legislazione, giustizia e difesa comportano costi vi è l’esigenza di effettuare qualche genere di prelievo dai cittadini attraverso l’imposizione di tributi. Chi crede nell’operare del mercato deve lasciarlo libero di operare eventualmente eliminando i vincoli di vario genere esistenti (liberalizzazione)

6.3 LA FUNZIONE DI “GARANZIA” DEL MERCATO: L’ATTRIBUZIONE DEI DIRITTI DI PROPRIETA’Sono due i problemi che sorgono in relazione al compito dello Stato minimale di assegnare i diritti di proprietà:La necessità di attribuire comunque i diritti

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L’opportunità di attribuire i diritti in modo da risolvere i problemi di equità nonché i problemi di efficienza evidenziati da Coase.Il funzionamento del mercato richiede che sia individuato il titolare del diritto di proprietà, senza che ogni scambio sarebbe disincentivato.Nel modello decentralizzato in assenza di costi di transizione e con perfetta informazione ciò che conta non è la struttura proprietaria, ossia chi detiene la proprietà di cosa, ma la semplice esistenza di diritti privati di proprietà; la proprietà privata ha indubbiamente consentito notevoli incrementi di efficienza. Ciò che va incentivato è l’innovazione, fondamentale negli investimenti in capitale umano. La proprietà dovrebbe essere attribuita ai soggetti più “adatti” per talento, inclinazione, impegno, ad investire in capitale umano. Storicamente il problema dell’allocazione dei diritti di proprietà viene risolto dalla trasmissione di conoscenze e di mezzi finanziari dall’una all’altra generazione; quindi è necessario l’intervento pubblico sotto varia forma. Un secondo problema sorge nelle situazioni in cui un soggetto, dotato o no di capacità da valorizzare, voglia intraprendere una certa attività di impresa soltanto con il concorso della proprietà di altri soggetti o attingendo a capitale di debito; in questo caso sorge opposizione di interessi. Casi simili si verificano nella cosiddetta impresa manageriale ossia impresa amministrata da managers non proprietari; problema di riduzione del rischio morale. Due le esigenze da soddisfare:Soggetto controllante deve essere incentivato ad amministrare l’impresa nell’interesse di tutti i proprietari e tendere a perseguire il massimo profittoI proprietari non controllanti devono essere incentivati a fornire il capitale necessario all’impresa e tutelati nei confronti di possibili abusi dei controllanti.Questo trade-off tra i diversi interessi viene disciplinato attraverso un insieme di istituzioni complementari date da:Strumenti di natura contrattualePatti di sindacato o altri accordi di votoRelazioni di fiduciaDisciplina del mercato del controllo societarioI proprietari non controllanti devono potere cogliere in tempo i segnali di cattiva gestione o di abuso di controllo, per poter intervenire; necessario inoltre che il potenziale acquirente possa disporre dei mezzi finanziari per acquisire il controllo; ciò richiede l’esistenza di:Un efficiente sistema di regole che disciplinano il mercato del controllo societarioEfficienti istituzioni finanziarie, capaci di valutare l’affidabilità di chi intende subentrare nella proprietà e nel controllo di attività produttive, pur non disponendo di capitali sufficienti

6.4 INCENTIVI E DISINCENTIVILa concessione di incentivi o l’introduzione di disincentivi deriva pur sempre da un apprezzamento delle capacità del mercato di assicurare efficienza o equità. È necessario che le forze sottostanti il mercato debbano essere aiutate nello svolgimento delle loro funzioni; l’introduzione di imposte può servire molteplici obiettivi di politica microeconomica. Ovviamente saranno favorite le attività o le persone che pagano un’imposta negativa e saranno scoraggiate le attività o le persone su cui ricade un’imposta positiva; la sussidi azione che si risolve con un esborso per lo Stato e un introito per l’operatore privato può assumere varie forme. La traslazione delle imposte farà divergere il soggetto percosso da quello inciso. Al fine di

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valutare con precisione gli effetti di un’imposta sugli obiettivi sarà necessaria una preliminare analisi della misura della traslazione. Gli obiettivi indicati potranno essere in alcuni casi coerenti fra loro o sostituti l’uno dell’altro.

6.5 POLITICHE DELLA DOMANDA PUBBLICAIn Italia Stato, Regioni, Provincie e Comuni realizzano spese correnti o in conto capitale per l’acquisto di beni e servizi. La domanda pubblica di beni e servizi può essere amministrata per raggiungere varie finalità:Garantire il funzionamento dell’apparato amministrativo e la produzione di servizi pubbliciSostenere determinate branche dell’attività produttiva (politica industriale)Regolare la domanda globale (politica anticiclica)Il primo obiettivo, se il Parlamento ha la responsabilità di individuare, quantificare e distribuire i bisogni della collettività, sono il governo e la pubblica amministrazione che devono approntare i servizi pubblici, utilizzando criteri di efficienza, le risorse umane e fisiche disponibili. L’efficienza implica la scelta dell’alternativa meno costosa a parità di risultato o quella con risultato migliore a parità di costo. Secondo obiettivo, la posizione di latecomer nello sviluppo industriale si stimolò la nascita e lo sviluppo dei settori strategici con strumenti vari, compreso l’utilizzo delle commesse pubbliche. Il perseguimento degli obiettivi di politica industriale richiede che la domanda pubblica sia indirizzata verso alcuni beni, soprattutto quelli con contenuto innovativo; può richiedere inoltre una deviazione dai principi di efficienza. Contrariamente ai compiti di politica industriale, quelli di regolazione della domanda globale sono stati recepiti in ritardo, fine anni 60. La consueta vischiosità delle nostre istituzioni ha fatto si che le esigenze di rinnovare le procedure amministrative a fini di regolazione della domanda trovassero scarso soddisfacimento. Questo è irrilevante, ma l’esigenza primaria dell’ente pubblico di fornire servizi pubblici, un’opportuna programmazione e progettazione degli acquisti pubblici può assicurare la coerenza fra i due obiettivi.

6.6 LA REGOLAMENTAZIONE NELLE SUE VARIE FORMELa regolamentazione indica la misura di controllo diretto con la quale lo Stato o altro ente pubblico disciplina in astratto o in concreto il comportamento degli operatori privati in un determinato settore economico o in determinate circostanze. La regolamentazione può proporsi obiettivi molteplici; le forme sono numerose:Regolamentazione dei prodotti dell’ingegno, al fine di stimolare l’attività innovativa e l’efficienza dinamicaRegolamentazione ambientaleRegolamentazione dell’entrata e della concorrenza effettivaRegolamentazione di elementi strutturali del mercato o della condotta delle imprese (legislazione antimonopolista)Regolamentazione tariffaria e di prezzo con finalità di efficienza statica o dinamica e/o con finalità distributiveRegolamentazione qualitativa e informativa al fine di garantire la posizione del consumatore quando sorgano problemi di sicurezza nell’uso di un prodotto e/o vi siano notevoli asimmetrie informativeRegolamentazione delle quantità importate o esportate (contingentamento)La regolamentazione ha contenuti variegati e può introdurre limiti incisivi sul libero operare del mercato. Vi è il rischio che la regolamentazione venga adottata per

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perseguire non le finalità indicate di natura collettiva ma finalità sezionali per ottenere provvedimenti di regolamentazione a loro favorevoli. La regolamentazione delle tariffe, anziché costruire uno strumento di efficienza allocativa e di difesa del consumatore, può tendere ad assicurare il godimento di extra-profitti da parte delle imprese nel settore regolamentato; l’impostazione di alcuni standard di sicurezza può discriminare a favore di alcuni produttori.

6.7 LA REGOLAMENTAZIONE DELL’ENTRATA E DELLA CONCORRENZA EFFETTIVALa regolamentazione dell’entrata in un dato mercato può essere introdotta con varie finalità, dal sostegno al reddito degli operatori, alla protezione della sicurezza dei consumatori. Il perseguimento degli obiettivi può indurre i policy makers a limitare l’entrata in un mercato sottoponendola a restrizioni varie. I policy makers possono essere indotti a favorire al massimo le possibilità di ingresso in una certa attività, riducendo o eliminando le barriere all’entrata naturali. La contendibilità non potrà mai essere perfetta per l’esistenza di ineliminabili barriere all’entrata e all’uscita. La regolamentazione può proporsi il compito di accrescere la concorrenza effettiva. Due misure specifiche utilizzabili a questo fine:All’unica impresa si sostituirebbe una molteplicità di imprese, il che potrebbe introdurre una concorrenza effettiva fra le stesse; ciò ridurrebbe lo sfruttamento del potere di mercato e accrescerebbe l’efficienza interna di ognuna.Introdurre un diritto di accesso esclusivo al mercato stesso, da assegnare sulla base di un’asta (concorrenza per il mercato o concorrenza per il monopolio), in questo modo si accrescerebbe la concorrenza effettiva non nella fase di produzione, ma in quella precedente dell’attribuzione del diritto di produrre il bene. Un’asta così impostata avrebbe l’unica finalità di evitare che il monopolista goda di extra-profitti, cioè si porrebbe un obiettivo di carattere meramente distributivo. Modo alternativo di organizzare un’asta consente nell’osservanza delle condizioni di efficienza paretiana al tempo stesso in cui garantirebbe l’estrazione della rendita di monopolio. Il meccanismo d’asta può essere anche interpretato come uno strumento che simuli la contendibilità. Il vantaggio dei meccanismi d’asta risiede nella capacità di realizzare l’efficienza senza che le autorità regolamentatrici siano caricate di oneri eccessivi. La gran parte delle industrie ha caratteristiche tali che la concorrenza per il monopolio non può operare con successo per numerose ragioni:Pericolo di collusione fra i partecipanti all’astaPossibile che uno di questi abbia dei vantaggi strategici sugli altriEsistono margini e soluzioni tecniche per accrescere la contendibilità o la concorrenza effettiva.

6.8 LA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICALa legislazione antimonopolistica tende a modificare la struttura dei mercati o il comportamento degli operatori economici in modo da conseguire tre finalità:Tutelare la libertà economica, delle piccole imprese, di entrare nel mercato e di sopravvivervi consentendo così la libera iniziativaLimitare il potere economico e politico che sorge dalle concentrazioni economiche Accrescere l’efficienza allocativaL’inefficienza allocativa può derivare da:Accordi e intese restrittive della concorrenza

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Abuso di posizione dominante Concentrazione delle risorse economiche in poche imprese La legislazione antimonopolistica prescrive regole di comportamento per le imprese e/o sanziona i comportamenti e le situazioni che realizzano condizioni “monopolistiche” oppure ne rappresentino lo sfruttamento; essa può proporsi di influire su aspetti della struttura economica, stabilendo che l’impresa che abbia acquisito un’elevata quota del mercato sia obbligata a scorporare una parte delle sue attività, o su aspetti della condotta delle imprese. L’individuazione nel concreto dei casi di violazione della legislazione antimonopolistica è affidata ad organi quasi giurisdizionali organizzati in Autorità indipendenti dal potere esecutivo.

7. LA POLITICA MICROECONOMICA IN AZIONE: LE POLITICHE ANTIMONOPOLISTICHE, LE POLITICHE IN PRESENZA DI ESTERNALITA’ E BENI PUBBLICI.

7.1 IL FONDAMENTO DELLE POLITICHE ANTIMONOPOLISTICHEIl perseguimento dell’efficienza paretiana costituisce uno dei fondamenti delle politiche antimonopolistiche.I sostenitori delle virtù del mercato e della concorrenza sono dell’avviso che una maggiore concorrenza sia auspicabile sul piano dell’efficienza statica.La perdita di efficienza statica è proporzionale al grado di monopolio.Quanti sostengono che attraverso l’accrescimento della concorrenza si persegue il duplice risultato dell’efficienza statica e dinamica, di fatto dismettono l’approccio schumpeteriano, secondo il quale la condizione di monopolio, pur avendo risvolti negativi in termini di efficienza allocativa, costituisce un potente fattore di stimolo dell’innovazione e, perciò, di efficienza dinamica.In verità l’evidenza empirica mostra casi a favore dell’ipotesi schumpeteriana e casi contrari a essa. Pertanto non si può dire in generale se, promuovendo una maggiore concorrenza, si favorisca una maggiore efficienza dinamica.

7.2 GLI STRUMENTI: LA LIBERALIZZAZIONE DEI MERCATI E L’APERTURA INTERNAZIONALELa politica antimonopolistica può essere attuata attraverso la liberalizzazione dei mercati e l’apertura internazionale, la legislazione antimonopolistica, il controllo dei prezzi, le politiche di regolamentazione per l’accrescimento della concorrenza potenziale ed effettiva, l’impresa pubblica.

In Italia nel decennio 1950-60 la mancata adozione di una legislazione antimonopolistica ha trovato due apparenti giustificazioni:

a) Essa era resa inutile dall’apertura internazionale verso la quale si andava orientando in quegli anni il nostro paese, anche per effetto dell’adesione alle istituzioni europee;

b) Una legislazione nazionale era inutile, dal momento che il paese si trovava ad essere coperto da quella della Comunità economica europea.

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L’apertura internazionale può costituire un valido strumento di riduzione del potere di mercato delle imprese nei settori effettivamente esposti alla concorrenza internazionale e nel breve periodo.Non tutti i settori sono, però, esposti alla concorrenza internazionale, anche quando non esistano barriere imposte dallo Stato. Mentre le materie prime agricole e non agricole e i manufatti sono normalmente oggetto di commercio internazionale (tradables), non lo sono gran parte dei servizi e la produzione edilizia (non tradables). Pertanto, l’apertura internazionale non può costituire un valido strumento di riduzione del potere di mercato in questi settori.Anche nei settori dei beni commerciati internazionalmente, tuttavia, la capacità dell’apertura internazionale di incidere sul potere di mercato è non di rado limitata al breve periodo. Spesso, infatti, col passare del tempo, possono sorgere formazioni oligopolistiche o veri e propri monopoli a livello internazionale. Un esempio di ciò si può avere nell’industria del trasporto aereo e nell’industria discografica.

7.4 ALTRI STRUMENTI DI POLITICA ANTIMONOPOLISTICA: IL CONTROLLO DEI PREZZI E L’IMPRESA PUBBLICAL’attività di regolamentazione dei prezzi ha ricevuto un discreto sviluppo negli ultimi due decenni, spesso in relazione a programmi di privatizzazione.La disciplina pubblica dei prezzi in Italia nacque nell’ottobre 1944, riflettendo in qualche misura le esigenze straordinarie di quel periodo, in particolare quella di calmierare i prezzi in situazioni di carenze settoriali o generalizzate dell’offerta (o, specularmente, di eccessi di domanda). Furono istituiti il Comitato interministeriale dei prezzi (CIP), a livello nazionale, e i Comitati provinciali dei prezzi (CPP) a livello locale. A questi organi furono affidati poteri di carattere molto ampio, prevedendosi la possibilità che il CIP fissasse “i prezzi di qualsiasi merce, in ogni fase di scambio, anche all’importazione e all’esportazione, nonché i prezzi dei servizi e delle prestazioni”. Il CIP è stato soppresso dal gennaio 1994 e le sue competenze sono ora attribuite al Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) o alle Autorità di regolamentazione settoriale che sono state nel frattempo costituite (Autorità per l’energia elettrica e il gas e Autorità di garanzia per le comunicazioni).L’asimmetria informativa ha significativamente condizionato l’attività del CIP.Dopo una breve e negativa esperienza di controllo generalizzato dei prezzi con finalità antinflazionistiche, erano state previste due categorie di beni, designati rispettivamente come beni amministrati e beni sorvegliati. Per i primi il CIP determinava i prezzi massimi. Per i secondi le imprese avevano un semplice obbligo di informazione e di specificazione delle cause degli aumenti intervenuti. Da gennaio 1994, con la soppressione del CIP, è stata abolita la categoria dei beni sorvegliati e i prezzi di tali beni sono stati completamente liberalizzati.L’impresa pubblica ha svolto concretamente il ruolo di strumento di politica antimonopolistica in numerose occasioni.Con specifico riferimento al caso italiano, vi è innanzitutto da ricordare l’importante azione monopolistica svolta negli anni ’50 e ’60 dall’ENI, che contribuì a ridurre il potere di mercato delle grandi compagnie petrolifere internazionali. Altri casi di utilizzazione dell’impresa pubblica italiana a fini antimonopolistici furono quelli della siderurgia e del cemento.

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Nei decenni più recenti il ruolo attivo dell’impresa pubblica si è progressivamente affievolito e sono invece aumentati i casi nei quali questa impresa ha assunto comportamenti di tipo collusivo (nei settori ad oligopolio misto, come quello del cemento o chimico) o imitativo (nei settori a prevalente o totale controllo pubblico, come al telefonia, il controllo energetico) di quelli delle imprese private, con palesi comportamenti “monopolistici”.Il processo di liberalizzazione e privatizzazione non ha finora modificato in modo sensibile tali comportamenti e, in qualche caso, li ha anche accentuati.In alcune situazioni la liberalizzazione forzata di certi settori, con lo scorporo di attività prima facenti capo alla stessa impresa, ha comportato, da un lato, aumenti di costo (per la perdita di economie di scala) e, dall’altro, la formazione di monopoli locali, con conseguenti effetti negativi sui prezzi.

8. LA POLITICA MICROECONOMICA IN AZIONE: LE POLITICHE INDUSTRIALI E REGIONALI. LE POLITICHE REDISTRIBUTIVE.

8.1 L’EFFICIENZA DINAMICA E LA POLITICA INDUSTRIALE E REGIONALEVi sono importanti problemi microeconomici, che emergono quando l’obiettivo sia quello di accrescere l’efficienza dinamica.L’efficienza dinamica deriva dalla capacità di amministrare il cambiamento e/o di reagire al cambiamento introdotto da altri, consentendo in definitiva migliori risultati in termini di occupazione e tassi di crescita del reddito.Una tale capacità è legata a numerose circostanze, che esprimono aspetti rilevanti della struttura produttiva di un’economia. Essa include, oltre che taluni caratteri macroeconomici (dimensione del sistema economico, grado di apertura internazionale), caratteri microeconomici (composizione settoriale, ripartizione regionale della produzione, concentrazione tecnica, economica e finanziaria, tecniche di produzione impiegate e carattere innovativo dei prodotti, barriere all’entrata e all’uscita, organizzazione produttiva, rapporti di integrazione fra imprese).

Le politiche tendenti a modificare la struttura produttiva e, quindi, ad accrescere l’efficienza allocativa e quella dinamica sono dette politiche industriali. Esse possono tendere alla riconversione produttiva, ossia al mutamento della composizione settoriale della produzione o nella posizione occupata all’interno della filiera produttiva (riposizionamento) e/o alla ristrutturazione, termine con il quale si designa invece ogni mutamento di tipo microeconomico nella struttura produttiva.

La politica industriale può essere sostanzialmente di due tipi:• Politica industriale generale (od orizzontale);• Politica industriale selettiva.

Con la politica industriale generale si cerca di influenzare le decisioni delle imprese in modo che risulti rafforzata la struttura produttiva, attraverso l’uso di strumenti che agiscono su tutto il sistema economico, e non su una parte specifica di esso (es. l’attribuzione di opportuni diritti di proprietà e la garanzia del loro rispetto, lo stimolo alla concorrenza e all’innovazione, alla creazione di economie esterne, allo sviluppo dell’imprenditorialità, dell’internazionalizzazione delle imprese).

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La politica industriale selettiva tende ad influenzare le decisioni delle imprese in certi settori produttivi o in certe regioni (politica regionale). La politica selettiva può avere finalità aggressive o difensive. Nel primo caso essa si propone di mutare la struttura industriale; nel secondo caso di mantenere quella esistente. Gli strumenti della politica industriale selettiva sono la tassazione (introduzione di dazi) e la sussidiazione, la regolamentazione, l’impresa pubblica, la manovra della domanda pubblica.

8.2 L’EVOLUZIONE DELLA POLITICA INDUSTRIALE NEL DOPOGUERRA

Nella politica industriale del dopoguerra si possono individuare tre fasi:1) Politica industriale selettiva.

La prima fase va dal periodo della ricostruzione alla fine degli anni ’70. I vari paesi europei, il Giappone e gli stati Uniti cercarono di rafforzare la propria struttura produttiva, in particolare nei settori ritenuti strategici.Questo approccio ricorre a strumenti vari, quali la protezione doganale, la gestione della domanda pubblica (Giappone e USA), l’incentivazione fiscale e creditizia e l’impresa pubblica in Europa. Soprattutto l’impresa pubblica tende a costituire o rafforzare le cosiddette compagnie di bandiera nei settori ritenuti strategici dai vari Paesi europei.

2) Politica industriale generale tendente ad assecondare il mercato.Questa seconda fase dura dai primi anni ’80 ai primi anni ’90. In Europa è imposta dagli organismi sovranazionali (Comunità economica europea). Vengono approvati in Europa il regolamento comunitario per le concentrazioni, e in Italia la legislazioni antimonopolistica, l’incentivazione dell’imprenditorialità giovanile, le leggi per la ricerca scientifica e l’innovazione nonché numerosi provvedimenti di liberalizzazione.

3) Politica industriale generale tendente a fissare le regole del gioco.La terza fase inizia nel 1993, anno nel quale 3 eventi scandiscono a livello internazionale il mutamento di orientamento: l’inizio del Mercato unico europeo, la costituzione della North American Free Trade Area (NAFTA), e la conclusione dell’Uruguay Round.Tutti e tre questi avvenimenti tendono a mutare il quadro nel quale si pongono la politica industriale e quella commerciale, che assumono un carattere sempre meno discriminatorio nei confronti dei concorrenti esteri. Questi mutati atteggiamenti sono causa ed effetto della globalizzazione dei mercati e della produzione, ossia della tendenza ad una crescita su scala mondiale degli scambi e della produzione internazionale.Si è pensato allora che l’azione pubblica per il miglioramento della struttura produttiva del nostro paese avrebbe dovuto incentrarsi sulle cosiddette esternalità di sistema, ossia sulla definizione di regole del gioco e di diritti di proprietà capaci di accrescere la competitività dell’intero sistema economico in termini di prezzo e di qualità.Sul piano della politica sia industriale sia commerciale, tra le nuove regole del gioco, di chiara impronta liberista, si segnalano: la liberalizzazione della distribuzione commerciale, quella degli ordini professionali e quella dei servizi pubblici locali. Sul piano dei diritti di proprietà: la riforma dei mercati finanziari.

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Gli anni ’80 e ’90 hanno visto anche un notevole aumento delle misure di politica industriale di carattere automatico, con le quali si voleva evitare la discrezionalità della pubblica amministrazione; ma l’esperienza delle misure automatiche è stata deludente.Proprio l’inefficienza della PA ha in larga misura reso difficile il conseguimento degli obiettivi.Un secondo limite delle politiche industriali generali riguarda il fatto che, comunque, esistono scelte settoriali da compiere, che non possono essere lasciate al mercato. Non ci si può, d’altro canto, limitare ad una generica politica tendente a favorire l’innovazione tecnologica e la sua diffusione.

8.3 PRIVATIZZAZIONE E LIBERALIZZAZIONEDi particolare interesse è stato in tutto il mondo l’abbandono dell’impresa pubblica come strumento essenziale di politica industriale.Con specifico riferimento all’Italia vi sono state due ondate di privatizzazioni, la prima negli anni ’80, la seconda negli anni ’90, iniziata nel 1992, che ha ridotto drasticamente la consistenza del settore pubblico. Le motivazioni delle privatizzazioni italiane sembrano privilegiare l’obiettivo microeconomico di aumentare l’efficienza attraverso la modifica del governo societario. Infatti:a) Attraverso opportune clausole statutarie si è impedita la concentrazione del

controllo, al fine della realizzazione di un modello di public company, ossia di un’impresa con azionariato diffuso.

b) Si è introdotta la golden share pubblica, ossia la possibilità di esercitare un particolare diritto di voto in specificati casi che coinvolgano questioni strategiche per la difesa nazionale o l’esercizio di un servizio di pubblica utilità.

Altri obiettivi dichiarati delle privatizzazioni sono stati: lo sviluppo dei mercati finanziari; la diffusione dell’azionariato; il rispetto del vincolo comunitario di non ripianare le perdite delle imprese pubbliche.Le privatizzazioni in Europa e in Italia hanno riguardato spesso imprese in condizione di monopolio naturale: ad esempio nell’industria elettrica la trasmissione dell’energia; l’approvvigionamento, lo stoccaggio e la distribuzione del gas; la rete di trasmissione telefonica.Una pura e semplice privatizzazione delle imprese indicate avrebbe portato da una situazione di monopolio pubblico ad una situazione di monopolio privato. Per evitare una simile eventualità si sono usati numerosi accorgimenti, imponendo:

- Il frazionamento della produzione, nei settori e nelle fasi del processo produttivo nelle quali si è ritenuto che le economie di scala fossero meno accentuate.

- La regolamentazione dei settori considerati.- La regolamentazione del prezzo.- Meccanismi di selezione del monopolista tramite aste

Alla privatizzazione si aggiunge la liberalizzazione degli accessi in vari settori, in particolare nella distribuzione commerciale e nei servizi pubblici locali.

8.4 IL GOVERNO SOCIETARIO IN ITALIA E NEL MONDO

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Ci sono diverse soluzioni al problema societario: esse risiedono in strumenti proprietari e non proprietari.Vi sono situazioni concrete nelle quali l’onere del governo societario è posto quasi tutto sugli strumenti proprietari, rafforzati da istituzioni complementari che limitino la trasferibilità dei diritti o che garantiscano comunque la fiducia dei proprietari controllanti.Rapporti di proprietà e fiducia sono i principali ingredienti del controllo societario in sistemi economici come la Germania e il Giappone (modello renano-nipponico): la proprietà delle imprese è attribuita a istituzioni, come altre imprese o banche, che esercitano uno stretto controllo sulle strategie dell’impresa controllata. Questo modello presenta però gli inconvenienti di una scarsa tutela degli azionisti di minoranza, dell’accentramento della ricchezza mobiliare e della possibilità di pericolose formazioni di potere economico e politico.Il modello anglosassone è diverso: le funzioni di individuazione delle strategie e di monitoraggio della loro esecuzione sono certamente affidate all’eventuale proprietario controllante. Tuttavia, un ruolo complementare di particolare rilievo è svolto dal mercato finanziario, che rimuove il soggetto controllante, quando questo si dimostri inefficiente. La public company è un’estrinsecazione di questo modello di governo societario. Questo modello riduce la concentrazione della ricchezza mobiliare e del potere.In Italia il controllo e la supervisione di molte imprese era, ed è tuttora, affidato a famiglie, che sono non di rado coinvolte direttamente nella loro gestione.Le norme relative al governo societario introdotte con il D.Lgs 58/1998, riproducenti sostanzialmente il testo suggerito dalla Commissione Draghi, tendono a perseguire due finalità in qualche modo in conflitto reciproco, quella della tutela delle minoranze e quella dell’efficienza del mercato mobiliare e della contendibilità degli assetti proprietari attraverso il mercato azionario. Con la riforma Draghi la legislazione italiana tende ad avvicinarsi maggiormente a quella dei paesi anglosassoni, pur mantenendo alcuni caratteri del modello di controllo familiare dell’impresa.

8.5 LE POLITICHE REGIONALILa politica regionale è la politica industriale finalizzata ad una parte del territorio di un paese: essa persegue la crescita e lo sviluppo di una determinata parte geografica di un sistema economico, attraverso strumenti che sono in definitiva gli stessi della politica industriale e che tendono a favorire il permanere degli insediamenti già esistenti in una certa area, la formazione di nuove imprese da parte di imprenditori locali e l’afflusso di nuovi insediamenti provenienti dall’esterno dell’area. La politica regionale tende, dunque, a migliorare la distribuzione territoriale del reddito.Il principale ostacolo economico all’insediamento di attività produttive in un’area arretrata è dato dall’elevato costo di produzione in quell’area, che si riflette in una più bassa produttività del lavoro stesso, nonché nei più elevati costi di approvvigionamento di materie prime e di capitale.L’operare del mercato non porta ad una convergenza spontanea delle condizioni di un’area arretrata a quelle esistenti nelle aree più sviluppate. Può dunque essere necessario l’intervento dello stato per innescare lo sviluppo locale.La politica regionale si può proporre di ridurre le condizioni di arretratezza.Molti di questi strumenti sono stati utilizzati per stimolare la crescita dell’economia meridionale in Italia. La politica meridionalistica del dopoguerra ha sostanzialmente

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avuto inizio nel 1950, con la riforma fondiaria e la costituzione della Cassa per il Mezzogiorno, avente il compito di realizzare in quell’area la progettazione e l’esecuzione di opere infrastrutturali.Negli anni Novanta la politica di incentivazione al mezzogiorno si è progressivamente affievolita per effetto degli interventi dell’UE, tendenti ad evitare una diversione degli insediamenti produttivi capaci di falsare la concorrenza.La consapevolezza che il sottosviluppo del Mezzogiorno deriva dall’addensarsi di numerose cause (diseconomie esterne, corruzione ed inefficienza della PA, assenza di capacità imprenditoriale, elevati costi del lavoro) ha portato negli anni più recenti ad un mutamento nelle forme di intervento, con l’introduzione della cosiddetta programmazione negoziata, in particolare con i patti territoriali, i contratti d’area, l’intesa di programma, il contratto di programma, l’accordo di programma e i contratti di localizzazione. Con questi strumenti si vuole favorire un coordinamento a livello locale fra amministrazioni pubbliche, imprese e sindacati per finanziare e realizzare investimenti produttivi e infrastrutture nonché per assicurare comportamenti dei soggetti negoziali a questo fine coerenti.

8.6 LE POLITICHE REDISTRIBUTIVE E LO STATO SOCIALELe politiche redistributive si attuano attraverso tutte le politiche di politica economica, ad es. la legislazione antimonopolistica, la politica protezionistica, misure macroeconomiche come la politica monetaria, fiscale e dei redditi.Numerosi sono gli strumenti di politica redistributiva, ma quello principale è costituito dal bilancio pubblico. La redistribuzione attraverso il bilancio pubblico può avvenire, oltre che mediante imposte, anche con trasferimenti monetari e in natura.I trasferimenti monetari consistono nell’assegnazione da parte dello Stato di somme di denaro o di buoni spendibili liberamente dal cittadino. Con i trasferimenti in natura, invece, vengono attribuiti direttamente quei beni o servizi che lo stato vorrebbe fossero disponibili agli individui meno abbienti (servizi sanitari, di istruzione, di mensa) o vengono assegnati buoni con destinazione vincolata e non cedibili.

Il complesso delle attività di trasferimento attuata dallo Stato, in particolare nel campo dell’educazione, della sanità, della previdenza e dell’assistenza, prende il nome di stato sociale o stato del benessere (welfare state).Le differenziazioni nelle realizzazioni dello stato sociale sono riconducibili a diversi sistemi di valori. Si possono individuare sostanzialmente 4 modelli o regimi di welfare state:

a) Il modello conservatore- corporativo: attribuisce il diritto a beneficiare dello stato sociale a chi abbia avuto lo status di lavoratore occupato. Il ruolo sostanziale ai fini redistributivi viene svolto dalla solidarietà familiare e, comunque, privata ; lo Stato interviene soltanto in funzione residuale.

b) Il modello liberale: l’assistenza può essere subordinata all’accertamento dell’effettivo stato di bisogno e, pertanto, i trasferimento possono non essere universali.

c) Il modello socialdemocratico: tende a promuovere l’uguaglianza non dei soli lavoratori, ma di tutti i cittadini. Il mercato e la famiglia assumono rilevanza marginale.

d) Il modello cattolico: lo Stato deve intervenire soltanto quando l’individuo prima, la famiglia poi, la comunità locale successivamente, abbiano fallito nel loro compito.

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9. LE POLITICHE COMMERCIALI E IL FONDAMENTO DEL LIBERISMO

9.1. LE POLITICHE COMMERCIALI E IL FONDAMENTO DEL LIBERISMOLa politica commerciale consiste nell’atteggiamento assunto dai responsabili della politica economica nei confronti del commercio con l’estero.La politica commerciale può essere di due tipi:• Liberista• ProtezionistaL’atteggiamento liberista consiste nel non ostacolare le esportazioni e le importazioni, mentre l’atteggiamento protezionista tende a difendere la produzione interna dalla concorrenza estera mirando a proteggere la produzione interna dal resto del mondo. Il liberismo si basa sui concetti di “vantaggi da specializzazione a livello internazionale” messi in rilievo da Ricardo con il principio dei costi comparati.Il concetto del principio dei costi comparati si basa sulla diversa abilità dei paesi nel produrre beni differenti, da ciò deriva il fatto che se un paese si specializza nella produzione di un determinato bene ne potrà derivare economie di scala e scopo, nonché di abbassamento dei costi.In questo modo ogni produttore/stato potrà poi commercializzare il suo prodotto acquistandone altri a prezzi comparati minori.Questo principio soffre comunque di alcune limitazioni: • Le condizioni di offerta dei diversi paesi• La piena occupazioneAdam Smith, il fondatore della teoria protezionista, ha fondato proprio su queste limitazione le proprie teorie.

9.2. GLI STRUMENTI DELLA PROTEZIONEEsistono molteplici strumenti per far protezionismo:• Protezione tariffaria, si avvale di dazi, sono imposte indirette (entrate fiscali) che

mirano ad aumentare il prezzo delle merci importate.• Protezione non tariffaria:

1. contingenti: fissano i limiti quantitativi alle importazioni, si avvalgono di licenze che vengono rilasciate solamente a determinati operatori.

2. limitazioni varie 3. regolamenti che hanno finalità protezionistiche ma che si “camuffano” di

avere differenti scopi4. limitazioni 5. sussidi o incentivi alle esportazioni

Si hanno le “limitazioni volontarie alle esportazioni” (VER) quando il paese esportatore si auto-limita, gli “accordi per mercati ordinari” (OMA) sono restrizioni volontarie che vengono intraprese con accordi tra diversi stati.Il requisito di contenuto nazionale minimo della produzione prevede che per essere commercializzato un bene estero nel paese, esso deve contenere un minimo di valore/produzione derivante dal territorio nazionale importatore. Questo strumento è stato utilizzato specialmente nei paesi in via di sviluppo che tendono ad aumentare il valore della produzione locale e non un mero assemblaggio di parti.Il deposito previo all’importazione consiste nel depositare per un certo periodo di tempo in un conto infruttifero presso la banca centrale, una somma pari ad una quota del valore della merce importata.

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9.3. GLI EFFETTI DELLA PROTEZIONE TARIFFARIA E NON TARIFFARIACon l’introduzione di un dazio da parte di un paese si hanno le seguenti conseguenze:• effetto consumo: il dazio provoca un aumento del prezzo e una conseguente

diminuzione della domanda e quindi del consumo• effetto produzione: diminuiscono le quantità importate e quindi aumenta la

produzione interna per soddisfare la domanda e, nel caso aumenta anche l’occupazione

• effetto importazione: le importazioni si riducono• effetto entrate fiscali: le entrate fiscali aumentano come conseguenza del dazio

(che è un’imposta indiretta)• effetto redistribuzione: i consumatori pagano un maggior prezzo ai produttori

nazionale e il dazio allo stato.La differenza che si ha dall’applicazione dei contingentamenti è che con questi lo stato non riceve entrate di natura fiscale (derivante dai dazi).Il contingentamento provoca una redistribuzione di reddito a danno dei consumatori e a favore degli importatori.I sussidi vanno ad integrare gli utili dell’impresa che esporta, questo può essere controproducente per il mercato interno in quanto le imprese potrebbero non essere disposte a realizzare profitti minori sul mkt nazionale che in quello estero e quindi potrebbero essere “incentivate” ad aumentare i prezzi sul mkt di origine.

9.4. LE GIUSTIFICAZIONI DEL PROTEZIONISMO: LA DIFESA DELLE “INDUSTRIE NASCENTI”Un paese può introdurre dei dazi al fine di agevolare l’industria interna e di ridurre il gap tecnico con le imprese estere che per vari motivi sono avvantaggiate.L’introduzione di dazi ha il fine di recuperare e di raggiungere il livello di produzione e di standard delle altre imprese presenti nel mondo al fine di poter competere alla pari, in questo modo viene agevolata la curva di apprendimento.Una delle problematiche che ne possono derivare da questo tipo di protezionismo è che le imprese si adagino nella protezione e che attuino comportamenti speculativi.

9.5. LE GIUSTIFICAZIONI DEL PROTEZIONISMO: LA PROTEZIONE COME STRUMENTO PER MIGLIORARE LA RAGIONE DI SCAMBIOL’applicazione di dazi sulle merci importate può portare a migliorare la ragione di scambio, infatti un’impresa estera potrebbe, per mantenere invariato il prezzo, diminuire i suoi profitti attesi dalle vendite grazie anche all’attuazione di economie di scala derivanti da una maggiore produzione (incorpora il dazio nel prezzo P che era l’incasso dell’impresa).Nel caso in cui il prezzo rimanga invariato e ad esso venga sommato il dazio che verrà pagato dal consumatore, si avrà una diminuzione delle importazioni.Nel caso in cui il paese che applica i dazi è un paese con un notevole “valore economico” e quindi che importa molto, il prezzo tenderà a scendere e quindi P1 sarà < di P e si raggiungeranno miglioramenti della ragione di scambio.

9.6. LE GIUSTIFICAZIONI DEL PROTEZIONISMO: LA DIFESA DAL “LAVORO STRANIERO A BUON MERCATO”

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I paesi industriali a forte intensità di lavoro, applicano forme di protezione al fine di proteggersi dall’aggressione di forza lavoro estera a basso costo (cheap labour) che rende meno competitive le industrie nazionali.Il dumping sociale è una forma di concorrenza sleale esercitata da molti paesi in via di sviluppo che non badando alle forme più elementari di sicurezza, di salute, di orari lavorativi ecc.. riescono ad abbassare di molto il costo della manodopera.Come contropartita all’abbassamento di tali costi si hanno di norma un corrispondente abbassamento della produttività.Per evitare che le imprese perseguano meri abbassamenti di costi e si de localizzino in aree con mano d’opera a costi inferiori devono essere adottate politiche macroeconomiche indirizzata al pieno impiego e capace di assicurare mutamenti delle imprese in tempi rapidi al fine di poter essere sempre attive e dinamiche.

9.7. LE GIUSTIFICAZIONI DEL PROTEZIONISMO: IL PROTEZIONISMO COME AUSILIO AD UNA POLITICA PER L’OCCUPAZIONENel caso in cui un paese che non si trovi in uno status di piena occupazione e dalla bilancia dei pagamenti si noti un alto livello delle importazioni, si possono attuare politiche protezionistiche al fine di aumentare l’occupazione ed il reddito interno senza aumentare le importazioni ed utilizzando le risorse internamente prodotte.

9.8. POLITICHE INDUSTRIALI E POLITICHE COMMERCIALILe politiche commerciali tendono ad incidere direttamente sui flussi di importazione e di esportazione, date certe funzioni di domanda e di offerta dei beni.Le politiche industriali, tendono invece ad influenzare i fattori dai quali scaturiscono le funzioni di offerta ed in qualche modo anche quelle di domanda.La politica industriale attraverso determinate scelte di posizionamento su mercati mondiali che crescono velocemente, potenziamento in settori strategici, rafforzamento delle condizioni dalle quali dipende una riduzione dell’elasticità della domanda estera al prezzo, rafforzamento delle sinergie tra imprese sia interne che estere, può portare a migliorare la condizione competitivo di un paese.Le politiche commerciali e industriali sono una al servizio dell’altra al fine di migliorare lo status del paese.

11. GLI SCHEMI DI ANALISI MACROECONOMICA IN UN’ECONOMIA APERTA

11.1 OBIETTIVI, STRUMENTI E MODELLI DELLA POLITICA MACROECONOMICA

11.1.1 ASPETTI MACROECONOMICI E MICROECONOMICILa politica macroeconomica tende a conseguire gli obiettivi di “stabilità” di un sistema economico di mercato attraverso la manovra di grandezze aggregate. I principali strumenti di tale politica sono: politica monetaria, politica fiscale, politica dei prezzi e dei redditi, politica del cambio. Questi strumenti hanno natura selettiva.

11.1.2 L’APERTURA INTERNAZIONALE, GLI SCHEMI ANALITICI E LA POLITICA ECONOMICA

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L’apertura internazionale di un sistema economico determina effetti importanti sulla performance del sistema stesso e sulle possibilità di intervento pubblico, particolarmente nel campo macroeconomico.L’apertura internazionale introduce un ulteriore obiettivo (o vincolo)per l’azione pubblica: l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. D’altro canto in economia aperta sono disponibili strumenti di politica economica aggiuntivi ed opportunità ulteriori (manovra tasso di cambio)

11.2 BILANCIA DEI PAGAMENTI, MERCATO VALUTARIO E TASSO DI CAMBIO

11.2.1 BILANCIA DEI PAGAMENTI E TASSO DI CAMBIOConsideriamo 2 soli paesi, paese considerato e resto del mondo.Le transazioni economiche registrate nella bilancia dei pagamenti comportano esborsi e introiti di valute estere. I residenti che effettuano pagamenti a non residenti faranno domanda di valuta estera; i residenti che ricevono pagamenti in valuta estera ne faranno offerta. Ne scaturisce un mercato della valuta estera che, al pari di tutti gli altri mercati esprime un prezzo: cambio o tasso di cambio bilaterale. Tale cambio è quindi il prezzo di una moneta (valuta) in termini di un’altra moneta. Vi sono due modi per esprimere tale prezzo:

- incerto per certo (quantità variabile di moneta nazionale per un’unità di moneta estera);

- certo per incerto (unità di moneta nazionale per quantità variabile di moneta estera).

Quest’ultima è la quotazione adottata per l’Euro.Con la quotazione certo per incerto, un aumento del cambio indicherà un aumento del valore dell’Euro rispetto a quello del dollaro (apprezzamento dell’Euro); una diminuzione del cambio indicherà un deprezzamento.Al contrario con la quotazione incerto per certo, un deprezzamento della moneta sarà indicato dall’aumento del cambio e viceversa.Se n è il numero totale dei paesi che adottano diverse unità monetarie, il tasso di cambio nominale effettivo è una media ponderata degli n-1 tassi di cambio nominali bilaterali esistenti, con riferimento al paese considerato.Il cambio si determina sul mercato delle valute, il quale riflette l’andamento della bilancia dei pagamenti. Qualsiasi peggioramento dei conti con l’estero implica un deprezzamento del cambio; similmente ogni miglioramento della bilancia dei pagamenti comporta un apprezzamento. Inoltre, il peggioramento o miglioramento della bilancia dei pagamenti influisce sul cambio indipendentemente dalla composizione delle varie voci della bilancia dei pagamenti.Il cambio influenza inoltre la competitività, se sono dati i prezzi nei due paesi. Sorge quindi l’esigenza di trovare un indicatore della competitività che tenga conto simultaneamente del cambio nominale, dei prezzi interni e di quelli esteri. Un simile indicatore è facile da costruire; esso può essere dato dal rapporto fra:

- il prezzo dei beni nazionali espresso nella moneta nazionale (euro) moltiplicato per il tasso di cambio (ossia il numero di dollari equivalenti a 1 euro), che corrisponde al prezzo dei beni nazionali espresso in dollari e

- il prezzo della merce estera (p con w), espresso in dollari.A tale indicatore si dà il nome di tasso di cambio reale bilaterale (e con r)

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(…formula 11.1)Così, una aumento del rapporto è indicativo di un aumento del prezzo dei beni europei espresso in dollari rispetto al prezzo dei beni del Resto del mondo (espresso sempre in dollari) ed indica una perdita di competitività delle merci europee . poiché un aumento del rapporto che indica il tasso di cambio reale ha lo stesso effetto di un aumento del tasso di cambio nominale (certo per incerto), nell’ipotesi in cui (p) e (p con w) siano dati, si parla anche in questo caso di apprezzamento (del cambio reale). Al contrario, una riduzione del rapporto stimola le esportazioni nette europee e prende il nome di deprezzamento del cambio reale.Ove si abbia una pluralità di paesi esteri e non un solo paese estero, e non sarà bilaterale ma effettivo. In tal caso (e con r) rappresenterà il tasso di cambio reale effettivo.Ciò che interessa nel cambio reale non è il valore da esso assunto in un certo istante, ma la sua variazione nel corso di un dato periodo, dal quale deriva la variazione della posizione competitiva del paese.La variazione del tasso di cambio bilaterale è approssimativamente(…formula 11.2)Dove i puntini sopra le variabili indicano, come di consueto, tassi di variazione nell’unità di tempo e il termine in parentesi è detto inflazione relativa. Se l’aumento dei prezzi interni, accresciuto della variazione del cambio, è maggiore dell’aumento dei prezzi esteri, vi sarà una perdita di competitività per le merci del paese considerato; in questo caso il cambio reale aumenterà.Le variazioni del cambio nominale non sono sempre possibili in misura illimitata: se lo sono, si dice che esistono cambi flessibili o fluttuanti; se il cambio può oscillare entro limiti ben definiti (e ristretti) intorno ad un valore detto parità o tasso centrale, si dice che esiste un regime di cambi fissi. La fissità può essere assicurata dall’autorità monetaria o da altri meccanismi.In regime di cambi flessibili, l’intervento delle autorità monetarie può contenere le fluttuazioni del cambio (fluttuazione sporca o amministrata).Un regime intermedio è quello delle zone obiettivo proposto da John Williamson che è un tentativo di combinare i vantaggi dei cambi fissi e di quelli flessibili. Si tratta di un regime nel quale vi sono margini di variazione piuttosto ampi rispetto ad un tasso di cambio di equilibrio fondamentale, che viene calcolato periodicamente. Consideriamo un regime di cambi fissi. - Se il cambio è quotato certo per incerto, anche la parità o il tasso centrale sono definiti in modo coerente (quantità di moneta estera per 1 unità di moneta nazionale). La parità o il tasso centrale sono di norma costanti per un periodo di tempo più o meno lungo, ma possono mutare. Quando aumentano, si parla di rivalutazione della moneta nazionale (o svalutazione della moneta estera); quando diminuiscono si parla di svalutazione della moneta nazionale (o rivalutazione della moneta estera.- se il cambio è quotato incerto per certo, anche la parità e il tasso centrale devono essere definiti in modo coerente. In tal caso una rivalutazione (svalutazione) della moneta nazionale indica una riduzione (aumento) della parità o tasso centrale.Vediamo ora la relazione esistente tra modifiche della parità (rivalutazione o svalutazione) e modifiche del cambio (apprezzamento o deprezzamento).Una rivalutazione implica normalmente un apprezzamento e una svalutazione implica normalmente un deprezzamento.

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- quotazione certo per incerto. Una rivalutazione implica un aumento della parità e, corrispondentemente, un aumento del cambio. Una svalutazione implica una diminuzione della parità e comporta una diminuzione del cambio. Quindi assoceremo svalutazione a deprezzamento e rivalutazione ad apprezzamento.

- Quotazione incerto per certo. Anche qui vi sarà corrispondenza fra svalutazione e deprezzamento, rivalutazione e apprezzamento. L’unica differenza è che , con questo tipo di quotazione, una svalutazione (rivalutazione) implica un aumento (diminuzione) della parità o tasso centrale, corrispondentemente, un aumento (diminuzione) del cambio.

11.2.2 LE OPERAZIONI SUI MERCATI VALUTARISui mercati valutari sono presenti essenzialmente:

- le imprese- i consumatori- le banche e gli altri intermediari finanziari- le banche centrali.

I mercati nazionali sono oggi strettamente interdipendenti e non possono esprimere cambi diversi per la stessa valuta nello stesso momento. In tal caso si attiverebbero opportune operazioni di arbitraggio.I mercati dei cambi possono essere a pronti o a termine. Sui primi vengono contrattate disponibilità di valute da scambiarsi immediatamente al prezzo (cambio) che si forma sui mercati stessi. Sui secondi si negozia oggi il prezzo di una valuta che sarà disponibile in futuro. Le operazione a termine servono per la copertura dei rischi di cambio, ossia per la provvista di valuta ad un prezzo prefissato, oltre che a fini speculativi.Lo swap è un’operazione che consente di risparmiare sui costi di transazione, in quanto, invece di compiere separatamente due operazioni, una di acquisto a pronti e una di vendita a termine, si effettua una sola operazione.. può riguardare uno scambio di flussi di interessi.I contratti future sono dei contratti a termine standardizzati, ossia contenenti elementi (clausole) stilizzati.Le opzioni su cambi sono contratti a termine standardizzati con i quali una delle parti si riserva, dietro il pagamento di un premio, il diritto di acquistare o di vendere una certa quantità di una valuta estera ad un prezzo prefissato ad una certa data futura o entro un periodo prefissato.Oltre che a fini di arbitraggio e copertura, le opzioni e i contratti future possono essere utilizzati anche e soprattutto, a fini di speculazione.

11.3 LA TEORIA DELLA BILANCIA DEI PAGAMENTILa bilancia dei pagamenti è composta da tre conti: il conto corrente, il conto capitale e il conto finanziario.

11.3.1 CONTO CORRENTE E CONTO CAPITALE.I due conti si riducono ad esportazioni e importazioni di beni, ossia di merci e servizi.Consideriamo un mondo composto da due paesi, UE e Resto del mondo. Le importazioni vengono normalmente fatte dipendere dal livello della domanda (fattori di domanda), ossia si pone, mnella semplificazione più semplice: M = mY (M = importazioni; m = propensione ad importare; Y = livello del reddito interno). m viene in prima approssimazione considerato come dato, ma in realtà dipende da fattori strutturali, che non variano se non nel lungo periodo, nonché da fattori di

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competitività; questi ultimi a loro volta dipendono dalle caratteristiche di qualità e simili dei beni (fattori di competitività, non di prezzo) e dai prezzi dei beni nazionali, relativamente a quelli della produzione estera (competitività di prezzo).(…formule varie pag:338 – 339)

11.3.2 CONTO FINANZIARIOIl conto al netto della variazione delle riserve ufficiali, esprime i movimenti di capitale non imputabili all’autorità monetaria. Essi dipendono, anzitutto, dai differenziali nei tassi di interesse a lungo termine, dai differenziali dei tassi a breve, nonché da attese di variazione nel corso del cambio. Sugli investimenti diretti influiscono invece altre variabili e circostanze più difficili da rappresentare.Se, per semplicità, trascuriamo gli investimenti diretti e ipotizziamo che in ogni paese i tassi a lunga siano strettamente legati ai saggi a breve, il saldo dei movimenti di capitale MK, dipenderà semplicemente dai saggi di interesse (a breve o a lungo termine) nei due paesi nonché dalle variazioni attese nel cambio.

11.3.3 VARIAZIONI DELLE RISERVE UFFICIALIAl netto di errori e omissioni, la variazione delle riserve ufficiali è pari alla somma dei saldi del conto corrente, del conto capitale e delle altre voci del conto finanziario.(…formule pag: 341)

11.4 IL MODELLO MUNDELL-FLEMINGQuesto modello, che deriva dai lavori di Mundell e Fleming, supera l’ipotesi iniziale keynesiana di un sistema economico chiuso e generalizza l’apparato analitico IS – LM, introducendo:

a- come ulteriore componente positiva della domanda globale le esportazioni nette (X – M);

b- un ulteriore mercato, quello relativo ai pagamenti con l’estero, in aggiunta al mercato dei beni e della moneta.

(…formule e grafici che spiegano il modello Mundell - Fleming pag: 341 – 348)

11.5 LE LIMITAZIONI DEL MODELLO MUNDELL - FLEMINGAbbiamo limitazioni di 4 tipi:

a- si assume che i prezzi siano dato all’interno e all’estero.b- Si considerano solo i flussi e non gli stocks di credito e debito nei confronti

dell’estero.c- Si guarda all’equilibrio complessivo della bilancia dei pagamenti e non al suo

equilibrio pieno.d- Non vengono introdotte le aspettative di variazione dei tassi di cambio

13. GLI OBIETTIVI MACROECONOMICI E LA POLITICA FISCALE

13.1. I SOGGETTI DELLA POLITICA FISCALE

Con politica fiscale si designa la manovra del bilancio dello Stato e di altri enti pubblici con finalità di variazione del reddito e dell’occupazione nel breve periodo.Il settore statale comprende lo Stato, gli organi costituzionali, la Cassa depositi

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e prestiti, l’ANAS, la Gestione ex foreste demaniali; un contenuto simile hanno le amministrazioni centrali al quale si contrappongono quelle locali (regioni, province, comuni, USL, università, camere di commercio etc.) e gli Enti di previdenza (INPS, INAIL, istituti di previdenza amministrati dal Tesoro). Le amministrazioni pubbliche raggruppano le amministrazioni centrali e locali e gli enti di previdenza.Il settore pubblico include le amministrazioni pubbliche e le ex aziende autonome dell’amministrazione centrale.

13.2 - IL BILANCIO PUBBLICO E LA SUA MANOVRA

L’identità contabile del bilancio pubblico è :

T-Cg-Trc-INT-Ig-Trk = Bs

Dove T sono entrate correnti, C consumi pubblici, Trc trasferimenti correnti esclusi interessi, INT interessi sul debito pubblico, Ig investimenti pubblici al netto di disinvestimenti, Trk trasferimenti in conto capitale, Bs saldo di capitale.

Le entrate pubbliche sono di 2 tipi:

1. Entrate correnti che sono connesse con i tributi e in minima misura da altri fonti.

2. Entrate in conto capitale derivano da alienazione di beni patrimoniali e aziende pubbliche e dal rimborso di crediti.

Le spese pubbliche sono composte da:

• la spesa pubblica per beni e servizi. o Spesa per consumi pubblici che è il costo per il personale

aumentato delle spese per acquisti correnti di beni e servizi. o Spesa per investimenti pubblici che è destinata ad ampliare la

dotazione di capitale di proprietà pubblica (scuole). • I trasferimenti correnti in senso stretto includono:

o trasferimenti alle famiglie, aventi finalità redistributive e di fornitura di beni meritori.

o trasferimenti alle imprese, consistono di contributi assegnati alle imprese con varie finalità: miglioramento bilancia dei pagamenti, redistribuzione, aumento della domanda.

• trasferimenti al Resto del mondo, per contribuzioni a organismi internazionali, cooperazione con PVS etc.

• Gli interessi sono una voce di trasferimenti correnti; • I trasferimenti in conto capitale consistono di pagamenti effettuati alle

imprese per sostenere investimenti privati.

Il saldo complessivo è la somma algebrica del saldo della parte corrente e del saldo in conto capitale. Il saldo corrente ha la natura del risparmio privato che può essere impiegata per spese in conto capitale; per questa ragione un avanzo corrente positivo denota l’esistenza di un risparmio pubblico (positivo).

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Scorporando gli interessi dal totale delle spese (Gt= G+Tr) si ha la spesa pubblica primaria (Gp = Cg+Ig+Trc+Trk).Se dal saldo corrente o complessivo si scorpora la spesa per interessi si ha rispettivamente il saldo corrente primario (T-Cg-Trc) o il saldo primario (T-Gp= T-Cg-Ig-Trc-Trk).

La legge annuale di bilancio che scaturisce dalle linee guida sottostanti il documento di programmazione economico-finanziaria (DPEF) presentato entro il 30 giugno di ogni anno approva un bilancio annuale e pluriennale; la funzione dell’ultimo bilancio è quella di inserire la politica fiscale annuale in un quadro di più ampio respiro ed è presentato in 2 versioni:

1. bilancio pluriennale a legislazione vigente, che espone l’andamento delle entrate e delle spese sulla base della legislazione in vigore.

2. bilancio pluriennale programmatico, che tiene conto degli effetti sulle entrate e spese degli interventi programmati nel DPEF.

La legge finanziaria è lo strumento che dispone il quadro di riferimento finanziario coerente con il DPEF, ed indica:

• il limite massimo del ricorso al mercato finanziario (rappresenta il fabbisogno lordo o disavanzo, ossia differenza fra totale delle spese aumentate dei prestiti da rimborsare e totale delle entrate aumentate di quelle derivanti da accensione di prestiti) e del saldo netto da finanziare (fabbisogno netto, ossia totale delle spese al netto del rimborso dei prestiti diminuito delle entrate al netto dell’accensione dei crediti).

• Le quote di spese pluriennali destinate a gravare su ogni anno. • Le variazioni alle imposte e alle tariffe esistenti.

13.3. L’IMPOSIZIONE: L’EVOLUZIONE IN ITALIASi può notare come nel nostro Paese le entrate in valori correnti siano notevolmente accresciute.Rapportando i tributi al valore del PIL a prezzi correnti ci si accorge che la prima grandezza risulta essere depurata dall’aumento dei prezzi. L’andamento del rapporto delle 2 variabili ci fornirà quindi delle indicazioni sull’incremento relativo in termini reali delle due variabili stesse. (NOTA: consiglio vivamente di guardare la tabella a pag. 400 con la relativa spiegazione)

13.4. REDDITO, OCCUPAZIONE E IMPOSTE

Gli effetti sul reddito e sull’occupazione con la manovra delle imposte; la tassazione influisce solo indirettamente sul reddito potendo influire sul consumo e/o sull’investimento: C =f(Y,T) I =g(i,T).

Si distinguono i casi di imposta:

13.4.1 - In Somma fissa.Si avrà:

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Il moltiplicatore della tassazione è minore di quello della spesa pubblica (G); cioè l’incremento di 1 euro di tassazione provoca un decremento di reddito minore dell’incremento di reddito prodotto dall’aumento di 1 euro di spesa pubblica.Il minor effetto è dovuto al fatto che la tassazione di 1 euro non entra direttamente nel circuito del reddito. Essa si traduce in minore domanda solo nella misura in cui influenza il consumo che è componente diretta della domanda globale (c euro)

13.4.2 - ProporzionaleSe si suppone inoltre che T=tY, (con t costante) cioè se si ipotizza imposizione proporzionale si ha :

L’effetto sul reddito di un aumento dell'aliquota di imposta è sempre negativo in quanto esso comporta un aumento del denominatore del moltiplicatore.

13.4.3 - ProgressivaSe l’imposta è progressiva l’aliquota non è più costante ma è funzione crescente del reddito del contribuente.Se vi sono mutamenti della spesa autonoma che tendono a variare solo il numero dei percettori di reddito, rimanendo invariato il reddito pro capite, l’aliquota media non varierà. Al contrario, variazioni della spesa autonoma che si riflettono anche in variazioni del reddito pro capite tendono a far variare l’aliquota media t; quindi il moltiplicatore aumenterà o si ridurrà al ridursi o all’aumentare della spesa autonoma.Ne discende che l’imposizione progressiva costituisce un caso di stabilizzatore automatico: gli effetti sul reddito reale di oscillazioni nei valori delle componenti autonome della domanda aggregata vengono “smorzati” da variazioni in senso contrario del moltiplicatore dovute a variazioni dell’aliquota media, in presenza di imposizione progressiva.L’effetto stabilizzatore è amplificato con la considerazione dei movimenti di prezzo; l’aumento dell’imposizione in termini reali che deriva dalla compresenza di aumento dei prezzi e progressività della aliquote viene detto drenaggio fiscale.

13.5. L’EQUITA’ E LE IMPOSTE IN ITALIADato che le imposte in Italia sono quasi tutte progressive (es. IRPEF), ci si aspetterebbe che un loro aumento corrispondesse ad un aumento del reddito del contribuente. Questo invece non avviene per i seguenti motivi:- Erosione: Esenzione dalle imposte di determinate categorie di reddito, al

fine di permettere il più agevole sviluppo di un settore industriale o di una determinata area geografica. Inutile dire che troppo spesso questo tipo di manovra viene utilizzata in modo improprio e per fini non nobili come quelli sopracitati.

- Elusione: Adottare manovre “legali” sfruttando dei buchi normativi al fine di non pagare determinate imposte

- Evasione: Si spiega da sé

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L’adozione di tali manovre ha portato ad una maggior concentrazione degli oneri fiscali sulla categoria dei lavoratori dipendenti e all’insorgere di seri problemi giuridici, politici ed economici, generando comportamenti imitativi o compensativi da parte di questa categoria di soggetti, creando situazioni disgreganti sul profilo socio-economico.

13.6. LA SPESA: L’EVOLUZIONE IN ITALIA (guardare tabella a pag. 408)Il contenuto della spesa pubblica può essere molto vario. Secondo la teoria keynesiana esso è comunque poco rilevante (anche se ciò non vuol dire che si possa assoggettarlo a sperperi, parassitismi o manipolarlo per fini politici).E’ utile avere un’ idea delle varie categorie di spesa incluse nel bilancio di Stato italiano (vedi tabella a pag. 408) e conoscere la loro dinamica.Negli anni ‘70-‘80 le voci più dinamiche sono state quelle relative a interessi e prestazioni sociali e i loro contributi alla produzione.L’aumento degli interessi è stato dovuto fondamentalmente a due ragioni:- Incremento dello stock di debito pubblico accumulato nei vari deficit di

bilancio (a partire da metà anni ‘70)- Aumento del tasso di interesse nominale e di quello reale, quest ultimo,

negativo dal ’70 al ’79, è tornato positivo negli anni ’80 grazie al mutamento della politica monetaria e del cambio attuato dalla Banca centrale (dovuto all’ adesione allo SME e alle cambiate condizioni socio-politiche del periodo)

Tutto questo non è comunque bastato a risolvere i problemi del Bilancio Pubblico, che sono anzi sempre più peggiorati fino agli anni novanta. Un effetto rilevante di questo aumento degli interessi è stato l’accrescimento dei redditi dei ceti medio - alti e la creazione di una situazione di squilibrio.Da metà degli anni ’90 in poi invece abbiamo assistito a una sostanziale invarianza della corrente spesa primaria in rapporto al PIL (38% - 40%) e ad un crollo verso il basso degli interessi (da 11,17% a 4,58%). I fattori che hanno causato l’aumento di questa spesa pubblica sono stati:a fine anni ’70 motivi strettamente economici quali la prima crisi post bellica e l’utilizzo massiccio della spesa pubblica come strumento redistributivo e per ottenere consensi politici ( è dato statistico infatti che esso aumenta sempre in periodo di elezioni). Oggi come nel passato è inoltre sempre rilevante l’asimmetria della politica fiscale, che opta quasi sempre per assumere forme di politica espansiva ( - entrate + spese) piuttosto che restrittiva.

13.7. IL FINANZIAMENTO DELLA SPESA

La spesa può essere finanziata attraverso tributi (pareggio del bilancio) o in deficit (emissione di titoli del debito pubblico, a parità di BM, o creazione di base monetaria).

13.7.1 - Pareggio del BilancioSe il finanziamento avviene attraverso le imposte, l’aumento della spesa ha comunque effetti espansivi, in quanto agisce direttamente sul reddito nazionale, laddove l’incremento dell’imposta influisce soltanto sul reddito disponibile, quindi sul consumo e sul reddito nazionale; l’aumento di 1 euro della spesa pubblica comporta un pari

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aumento del reddito, l’aumento di 1 euro di imposte comporta una riduzione di c euro del consumo e del reddito. Poiché c è minore di 1 vi è un aumento netto del reddito. Quindi il moltiplicatore della spesa è maggiore di quello dei tributi:

Se si ipotizza una variazione della spesa pubblica e dell’imposizione ne deriva Dunque un aumento di spesa pubblica pari a 1 euro finanziato da un pari incremento delle imposte accresce il reddito di 1 euro (teorema del bilancio in pareggio o di Haavelmo); indica la possibilità di conseguire un qualsivoglia obiettivo di reddito anche in assenza di deficit di bilancio, ma con un livello di spesa pubblica pari a quello del reddito e con la pubblicizzazione dell’intera economia.

13.7.2 - Finanziamento in deficitSe la spesa pubblica non viene finanziata con imposte, essa determina effetti più elevati sul reddito e sull’occupazione. Se il totale delle spese supera le entrate, ossia se si ha un deficit di bilancio (Bs<0), si ha un disavanzo che può essere finanziato in 2 modi, attraverso la creazione addizionale di base monetaria , , o l’emissione di nuovi

titoli del debito pubblico, ; le modalità di finanziamento in deficit hanno effetti diversi.

13.7.3 - Finanziamento con Base MonetariaIl finanziamento con BM è niente affatto costoso se realizzato attraverso emissione di monete o biglietti del Tesoro; è in minima misura costoso se ottenuto nell’ambito di convenzioni fra Stato e Banca centrale o nell’obbligo della Bc di finanziare lo scoperto del Tesoro sul c/c della Tesoreria.La seconda differenza tra finanziamento monetario e finanziamento con titoli di del debito pubblico è da ricollegarsi agli effetti espansivi sul reddito. In termini dello schema IS-LM un finanziamento della spesa addizionale attuato con base monetaria comporterebbe uno spostamento verso destra delle curve (aumento reddito certo mentre non lo è quello di i ); una politica monetaria che assicuri l’invarianza del tasso di interesse è detta accomodante.Il finanziamento monetario può provocare aumenti di prezzi in presenza di pieno impiego o di strozzature settoriali. Se questi effetti fossero presenti i policy makers dovranno scegliere fra più elevati livelli di reddito e di occupazione associati a inflazione o a livelli di reddito e di occupazioni minori ai quali corrisponderebbe maggior stabilità monetaria.I Pmakers possono far abbassare la curva di trasformazione (u e π) con politiche di qualificazione professionale; politiche di mobilità e politiche di sviluppo della produttività e della produzione in alcuni settori.

13.7.4 -IndebitamentoSe l’aumento della spesa pubblica finanziato da emissione di titoli del debito pubblico avesse luogo in presenza di una LM orizzontale (tasso di interesse invariabile) si avrebbe un incremento di reddito più alto che in un modello dove la LM non è orizzontale, perché il

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moltiplicatore ΔY/ΔG è più basso per l’effetto freno prodotto dalla costanza dell’offerta di moneta. In questo caso si parla anche di effetto di retroazione monetaria. Infatti l’aumento del reddito comporta in successione aumento della domanda di moneta per motivi transattivi, eccesso di domanda di moneta rispetto all’offerta, incremento del tasso di interesse, riduzione degli investimenti e freno all’aumento del reddito stesso. L’effetto di retroazione corrisponde al termine ak/v che essendo positivo fa aumentare il denominatore del moltiplicatore riducendone il valore.La sostituzione della spesa privata per investimenti da parte di quella pubblica prende il nome di spiazzamento finanziario ed è connessa con l’aumento del saggio di interesse derivante dal finanziamento non monetario della spesa pubblica.L’aumento della spesa pubblica causerebbe uno spiazzamento reale completo, in quanto gli individui si preparano a questa evenienza con il ridurre il consumo attuale. I titoli del debito pubblico non costituiscono ricchezza netta in quanto a un loro aumento nel portafoglio corrisponde una maggiore imposta che saranno necessarie per ripagare il debito pubblico; si ricava l’equivalenza ricardiana che significa che il finanziamento della spesa con l’emissione di debito pubblico in realtà equivale al finanziamento mediante imposte.Il finanziamento mediante titoli del debito pubblico provoca aumento del tasso di interesse, un effetto di freno (retroazione) dell’incremento del reddito indotto dall’aumentata spesa pubblica.

13.9 - DEBITO PUBBLICO

13.9.1 - Evoluzione in Italia e altri Paesi

In caso di deficit ripetuti nel tempo il debito pubblico si accumula sempre di più. Questo è ciò che si è verificato in Italia e in altri paesi nel dopoguerra. Attualmente vantiamo il rapporto debito/PIL maggiore di tutti i membri dell UE.13.9.2 – Le cause e la crescita

Vi è crescita quando nel rapporto B/pY il numeratore aumenta a tassi superiori rispetto a quelli del denominatore.(B-p-Y>0)Δ B dipende da:

1. se c’è un pareggio primario il debito pubblico può crescere solo per gli interessi maturati sullo stock di debito precedente (iB; cresce solo di i ne deriva i-p-Y>0). Ma i-p è il tasso di interesse reale quindi in assenza di deficit primario e di finanziamento monetario il rapporto fra debito pubblico e PIL cresce, se il tasso di interesse reale è maggiore del saggio di crescita PIL.

2. se si ha un deficit primario ci sarebbe un’ulteriore crescita del debito pubblico: questo potrebbe aumentare anche se il tasso di interesse reale fosse pari al tasso di crescita del reddito; al contrario un avanzo primario tende a frenare la crescita del debito pubblico.

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Negli anni 80 e 90 il tasso di interesse reale è stato superiore al tasso di crescita del reddito per varie ragioni:I CCT fruttavano un saggio di interesse reale in media al 7% mentre il PIL era al 2,5%, questo per:

• la stretta monetaria iniziata alla fine degli anni 70 in USA ha fatto aumentare i tassi di interesse mondiali.

• Divorzio Banca centrale e Tesoro che portò l’adozione di politiche monetarie restrittive portando un aumento del tasso di interesse reale a livelli superiori.

La diminuzione del finanziamento monetario del Tesoro ha comportato una crescita ulteriore del debito.Se il rapporto fra debito e prodotto risulta crescente si arriverà alla dichiarazione di insolvenza da parte dello Stato o il razionamento del credito da parte del creditore (mercato).La riduzione del rapporto fra debito e PIL (rientro) si ottiene con l’uso di strumenti capaci di influenzarne i fattori dai quali dipende la dinamica del rapporto.

1. Politiche di sviluppo del reddito.Lo stimolo del reddito va affidato a un riorientamento della spesa pubblica e dei tributi che accentui l’efficienza della spesa pubblica e abbia effetti di stimolo per l’attività economica privata (politica di offerta di servizi pubblici efficienti e di una politica industriale capaci di accelerare lo sviluppo). Inoltre si può usare una politica monetaria espansiva, una politica di deprezzamento del cambio, una politica di moderazione salariale.

2. Politiche riguardanti il saldo primario.L’accrescimento del saldo primario è un obiettivo della manovra che porta alla riduzione del rapporto B/PIL, si agisce dal lato della spesa primaria e delle entrate.La riduzione della spesa è una azione possibile ma si rischia di non avere miglioramenti sostanziali nella qualità dei servizi pubblici che si traduce in una perdita del benessere dei cittadini.Una riorganizzazione del sistema tributario e un migliore funzionamento dell’apparato amministrativo, che hanno portato più di recente ad una riduzione dell’elusione e dell’evasione. La privatizzazione di imprese pubbliche contribuisce a ridurre il fabbisogno finanziario netto.

3. Politiche del saggio di interesse.L’abbassamento del tasso di interesse reale sul debito pubblico può contribuire a ridurre il rapporto fra debito e PIL.Si agisce con una politica di gestione del debito pubblico che si proponga di ridurre il costo reale del debito agendo sulle condizioni alle quali viene emesso il debito stesso o sul funzionamento del mercato secondario dei titoli di Stato.Sono state adottate soluzioni tendenti a facilitare l’assorbimento di forme di obbligazioni, con l’introduzioni di strumenti di controllo diretto: obbligo di destinare una quota dell’incremento dei depositi all’acquisto di obbligazioni (vincolo di portafoglio) o prestito forzoso che garantisce l’assorbimento di quantità del debito pubblico.

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Altre soluzioni per abbassare il tasso di interesse reale sono connesse con i mercati finanziari mondiali

14. LA POLITICA DEI REDDITI E DEI PREZZI

14.1 INTRODUZIONE

Nel cap. 3 l’inflazione è stata caratterizzata come il risultato di una gara competitiva nella quale ogni operatore tende ad accrescere la propria quota nella distribuzione del reddito con l’aumentare del prezzo del bene venduto. Risulta quindi chiara la connessione tra distribuzione del reddito e livello dei prezzi. L’obiettivo della politica dei redditi è di evitare l’aumento del livello generale dei prezzi, attraverso il controllo di variabili quali: salario e margine di profitto.Ad esempio, consideriamo il salario: esso costituisce un reddito per i lavoratori e un costo per le imprese. La politica dei redditi può proporsi di contenere l’aumento del salario, in modo da tenere basso il costo del lavoro, e ridurre così la possibilità di un aumento dei prezzi.

14.2 DISTRIBUZIONE DEL REDDITO, COSTO PIENO E POLITICA DEI REDDITI

Consideriamo un sistema economico chiuso, viene prodotto un solo bene, non esiste capitale fisso e vi sono soltanto due categorie di percettori del reddito, i lavoratori e i capitalisti. Il valore complessivo del prodotto sarà pertanto: pY = W + R (dove p e Y sono il prezzo e la quantità, W è la massa salariale ed R la massa dei profitti).L’inflazione viene meno se la gara per accrescere la quota del reddito sociale cessa, e le varie classi di percettori di reddito mantengono (o sono indotte o costrette a mantenere) invariate le loro quote di reddito, ovvero se esse si accordano sul modo in cui le quote devono variare, facendo corrispondere all’aumento dell’una una pari riduzione dell’altra. Questo semplice schema ha molti limiti: considera l’esistenza di un solo bene, non vengono considerati altri costi variabili come le MP; l’economia è chiusa; nella realtà esiste anche un’altra categoria di percettori di reddito: si tratta dei percettori delle rendite; non viene contemplato il prelievo fiscale statale diretto e indiretto; tutti fattori questi ultimi che potrebbero dare luogo a variazioni di prezzo dei beni a parità di reddito percepito dai due principali attori economici.Devono essere soddisfatte numerose condizioni affinché i prezzi non varino. Le regole (o criteri guida) di politica dei redditi più frequentemente usate sono quelle che prevedono una crescita dei salari pari a quella della produttività media del lavoro e l’invarianza del margine di profitto. Ma queste non sono le uniche regole possibili, né garantiscono l’assenza di inflazione, se non sono soddisfatte altre condizioni come ad esempio la variazione della quota delle rendite sul reddito nazionale o la variazione del prezzo delle materie prime di importazione.

14.7 POLITICA DEI REDDITI E POLITICHE DELLA PRODUTTIVITA’ La politica dei redditi parte dall’accettazione della situazione esistente, da numerosi punti di vista, in particolare per ciò che concerne la variazione della produttività. È l’evoluzione di questa grandezza che in definitiva condiziona la coerenza delle variazioni dei redditi con la stabilità dei prezzi. Se ad esempio, la produttività cresce del 2%, una pari variazione dei salari e l’invarianza dei margini di profitto assicurano la costanza dei prezzi. Se invece, la produttività aumentasse del 4%, sarebbe possibile aumentare i salari in misura superiore al 2%, e/o il margine di profitto, senza che ne derivino effetti inflazionistici.

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Si può pensare, che il campo delle scelte di politica dei redditi si allarghi se si adottando misure volte ad aumentare il tasso di crescita della produttività. Per individuare tali misure è necessario discutere dei fattori dai quali dipende la produttività stessa. Questi possono essere distinti in due gruppi:

a) Fattori interni all’impresa; sono compresi alcuni fattori controllati dai lavoratori e altri dall’impresa. I primi concludono i ritmi di lavoro, nonché preparazione e qualificazione professionale compiute per iniziativa propria. Fra i secondi, preparazione e qualificazione di iniziativa dell’azienda, organizzazione del lavoro, dotazione di capitale, tecnologia. Alcuni di questi fattori possono essere oggetto di intervento pubblico o delle parti sociali nei negoziati di politica dei redditi, in quanto da esse controllati. Ad esempio il sindacato può accettare un determinato tetto degli aumenti salariali, considerando dato l’aumento di produttività possibile nell’immediato, ma allo stesso tempo può chiedere alle imprese impegni sull’introduzione di innovazioni organizzative, tecnologiche, capaci nel futuro di spostare il vincolo agli aumenti salariali connesso con la variazione della produttività.

b) Fattori esterni all’impresa; rapporti interaziendali e intersettoriali, la semplice disponibilità di beni che servono come input all’impresa, le condizioni (costo, qualità) delle forniture. Disponibilità di efficienti reti di trasporti e comunicazioni, istituzioni scolastiche e accademiche, centri di ricerca, servizi di informazione, servizi finanziari, ecc. poiché non è pensabile che il mercato riesca a garantire le condizioni per uno sviluppo ottimale di queste attività, nasce l’opportunità di interventi di politica industriale. Questo genere di interventi può assumere una funzione ancillare (propedeutico) rispetto alla politica dei redditi.

14.8 LE ESPERIENZE DI POLITICA DEI REDDITISi sono avute situazioni nelle quali il governo ha formulato criteri guida non coercitivi, ma sostenuti da atteggiamenti di persuasione (moral suasion) nonché dalla minaccia di qualche tipo di ritorsione (si pensi al caso Cuba e USA). Vi sono state anche esperienze di negoziazione e scambi più o meno formali fra moderazione salariale e politiche espansive, come nel caso della GB negli anni 60 e 70 e della FR negli anni 60. Casi di controllo vincolante dei salari e/o dei prezzi si sono avuti in molti paesi fino ai primi anni 50 (in Olanda fino al 1959), nonché in GB con interventi di breve durata (all’incirca annuale) negli anni 60-70 , in Australia e in altri paesi. In Italia il concetto di politica dei redditi è stato introdotto per la prima volta nel 1963 in un documento ufficiale (la relazione annuale della banca d’Italia del 1962 presentata dal governatore Carli). Questa politica veniva considerata come lo strumento capace si superare l’inaccettabile dilemma fra disoccupazione e inflazione, e avrebbe dovuto riguardare tutti i prezzi, sia quelli di natura negoziale (salari) sia quelli fissati direttamente sul mercato.Al di là di molteplici discussioni non si ebbero azioni concrete fino al 1984, allorché il governo emanò un DL che predeterminava per quell’anno i punti di contingenza nel meccanismo della scala-mobile, in un tentativo si spezzare il circolo vizioso fra aumenti salariali e aumenti di prezzo, seguendo in ciò un suggerimento di Tarantelli. Allo stesso tempo venivano bloccati l’equo canone (una misura di regolamentazione degli affitti) e le tariffe pubbliche. Il tentativo sembrò avere un qualche successo, determinato anche da una congiuntura economica internazionale favorevole: l’incremento del costo del lavoro per unità di prodotto scese dal 12,3% del 1983 al 5,4% del 1984 (risalendo peraltro leggermente nel 1985), mentre quello dei prezzi al consumo decelerò più lentamente, passando dal 15% del 1983 all’11% del 1984, al 9% del 1985 e al 6% del 1986. Nel luglio del 1993 industriali, sindacati e governo conclusero un accordo che prevedeva i seguenti 4 punti (è tuttora in vigore):

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1. Passaggio da 3 a 4 anni della durata della contrattazione nazionale del lavoro (CNL), per la parte normativa, da 3 a 2 anni per la parte retributiva. Gli aumenti di salario devono essere coerenti con i tassi di inflazione programmata, ma al termine dei 2 anni un’inflazione effettiva superiore a quella prevista può far adeguare i minimi contrattuali, per salvaguardare il potere d’acquisto della retribuzione.

2. Contrattazione aziendale –avente durata di 4 anni– riguarda materie e istituti diversi rispetto a quelli retributivi proprio del CNL. Integrazioni rispetto alle retribuzioni fissate a livello nazionale sono possibili solo per le imprese che producano utili, in relazione agli incrementi di produttività derivanti da programmi concordati fra le parti.

3. In caso di mancato rinnovo del CNL , dopo 3 mesi dalla sua scadenza, i lavoratori hanno diritto un elemento provvisorio di retribuzione pari al 30% del tasso di inflazione programmata, sale al 50% dopo 6 mesi, cessa una volta definito il CNL.

4. Sono previste due sessioni annuali di politica dei redditi, la prima maggio-giugno, che precede la presentazione del DPEF, la seconda in settembre prima della definizione della legge finanziaria.

Gli accordi del 1993 enunciano inoltre le seguenti 3 linee di sviluppo:

I. Estensione ammortizzatori sociali per gestire situazioni di crisi dell’occupazione;II. Introduzione di politiche per la flessibilità dei contratti di lavoro;III. Adozione di politiche di sostegno al sistema produttivo, ricerca e sviluppo,

soprattutto nel Mezzogiorno.

Alcune delle indicate linee di sviluppo si cono concretamente affermate, si pensi all’abolizione del monopolio del collocamento, introduzione del lavoro interinale, ampliamento della gamma dei contratti a tempo determinato.Il patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione concluso fra governo, imprenditori e sindacati il 22 dicembre 1998 ribadisce il contenuto dell’accordo di concertazione del 1993 e prevede sgravi fiscali e contributivi per gli imprenditori che effettuino investimenti nonché per i lavoratori. Ribadisce la struttura contrattuale su 2 livelli e lo svolgimento delle 2 sessioni annuali di politica dei redditi. Sottolinea l’eccessivo carico fiscale gravante sul lavoro e delinea la riduzione del cuneo fiscale (ossia, della differenza fra costo del lavoro e reddito da lavoro dovuta al prelievo fiscale).

14.9 RIEPILOGO1. Obiettivo della politica dei redditi (e dei prezzi) è di evitare l’aumento generale

dei prezzi attraverso il controllo delle variabili distributive, essenzialmente del salario e/o dei margini di profitto.

2. Le regole più frequentemente usate prevedono una crescita dei salari pari a quella della produttività media del lavoro e l’invarianza del margine di profitto.

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3. Il campo delle scelte di politica dei redditi si allarga con misure volte ad aumentare il tasso di crescita della produttività, che dipende da fattori sia interni che esterni all’impresa.

4. Numerosi casi di applicazione della politica dei redditi non offrono sempre risultati confortanti per il controllo dell’inflazione, in Italia la politica dei redditi di tipo coercitivo ha trovato applicazione nel 1984; politiche dei redditi di tipo istituzionale nel luglio 1993 e nel dicembre 1998.

FOCUS ON: SCALA-MOBILELa scala mobile veniva calcolata seguendo l'andamento variabile dei prezzi di particolari beni di consumo, generalmente di larga diffusione, costituenti il cosiddetto paniere. Un'apposita commissione aveva il compito di determinare ogni tre mesi le variazioni del costo della vita utilizzando - come indice di riferimento - appunto le variazioni dei prezzi di tali beni.Accertata e resa uguale su base 100 la somma mensile necessaria per la famiglia tipo, in riferimento ad un dato periodo per l'acquisto dei prodotti del paniere, le successive variazioni percentuali dei prezzi dei beni di consumo divenivano i punti di variazione dell'indice stesso del costo della vita.Nel 1975 la scala mobile, applicata fino ad allora al solo settore industriale, venne unificata agli altri settori con un accordo considerato storico stipulato tra la Confindustria e le tre maggiori organizzazioni sindacali CGIL, CISL e UIL.Fra i vari successivi interventi legislativi, quello maggiormente incisivo è stato quello concretizzato nel Decreto Legge 1º febbraio 1977 n. 12 che regola le Norme per l’applicazione dell'indennità di contingenza. Con esso è stato introdotto il divieto di corrispondere, a lavoratori di settori diversi, trattamenti retributivi di scala mobile più favorevoli rispetto a quelli previsti dall'accordo per il settore industriale (cosiddetta abolizione della "scala mobile anomala"). Dagli anni 2000, l'indennità di contingenza è confluita in un'unica voce retributiva, insieme al salario base previsto dai contratti nazionali per ogni livello di inquadramento. L'indennità è aggiornata, come minimo, a cadenza annuale. Invece, la scala mobile, indennità di contingenza, aggiornata ogni mese con l'inflazione corrente, è rimasta invariata per alcune categorie quali politici, magistrati, giornalisti, con reddito maggiore di 5 volte la pensione sociale INPS.Il 14 febbraio 1984 un decreto del Governo Craxi taglia 4 punti percentuale della Scala Mobile, convertendo un accordo delle associazioni imprenditoriali con Cisl e Uil. Al decreto farà seguito la conversione nella legge 219 del 12 giugno 1984.La scala mobile è stata definitivamente soppressa con la firma del protocollo triangolare di intesa tra il Governo Amato I e le parti sociali avvenuta il 31 luglio 1992. Con la scala mobile è stata abolita l'indennità di contingenza ed è stato introdotto per tutti i lavoratori dipendenti (dirigenti esclusi) l’Elemento Distinto della Retribuzione.Nel dibattito di quel periodo i detrattori del sistema sostenevano che la scala mobile fosse causa d'inflazione, oltreché una misura di questo fenomeno che avrebbe dovuto mantenere inalterato il potere di acquisto dei lavoratori e il loro salario reale. L'aumento salariale non comportava una variazione della base monetaria, ma una riduzione dell'utile delle imprese, che veniva ridistribuito ai lavoratori: diversi economisti, come quelli che si riconducono alla scuola monetarista austriaca di von Mises, ritengono che l'aumento dei prezzi dipenda unicamente da un aumento dell'offerta di moneta, e di conseguenza escludono un legame scala mobile-inflazione.

15. LE POLITICHE PER LA BILANCIA DEI PAGAMENTI

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15.1. EQUILIBRIO E SQULIBRIO DELLA BILANCIA DEI PAGAMENTI

Per equilibrio della bilancia dei pagamenti si intende una situazione nella quale la somma dei saldi dei movimenti di beni e dei movimenti di capitale è nulla. Sia avanzo (disavanzo) quando le riserve ufficiali aumentano (si riducono). L’equilibrio della bilancia dei pagamenti rappresenta un obiettivo di politica economica di lungo periodo, nel senso che un paese in media deve tendere a bilanciare gli avanzi che può ottenere in certi periodi con il deficit di altri periodi.Il perseguimento di continui avanzi è in apparenza fattibile, mentre non sarebbe tale una situazione di persistenti disavanzi, che provocherebbe prima o poi l’esaurimento delle riserve e l’impossibilità di effettuare ulteriori pagamenti netti all’estero, salvo che nel caso in cui il paese considerato sia quello che mette una moneta che sia detenuta senza limiti come riserva dall’altro paese.A una riflessione più attenta in un mondo a due paesi il persistente avanzo di un paese non è fattibile, perché implica il persistente disavanzo dell’altro, che non è tecnicamente possibile.Parleremo pertanto di continui avanzi intendendo con ciò che un paese è in avanzo di bilancia dei pagamenti per un periodo lungo ma non infinito, ovvero che esista un mondo con più di due paesi.La posizione di avanzo è certamente preferibile rispetto a quella di disavanzo:

- Comporta disavanzi per altri paesi, - Può comportare pressioni inflazionistiche all’interno, un saldo positivo della

bilancia dei pagamenti è fonte di creazione di base monetaria, nella misura in cui si dimostri difficile compensare questa fonte con altri canali di creazione della base monetaria, questa potrebbe crescere a ritmi tali da causare inflazione.

A parte ciò può esservi un’altra ragione per cui un paese può tendere ,se non a eliminare, a contenere gli avanzi della sua bilancia dei pagamenti. Saldi positivi di movimenti di beni hanno diretta rilevanza per il livello e i ritmi di crescita del reddito interno; saldi positivi di capitali possono essere impiegati all’estero e allo stesso tempo per ostacolare l’impiego interno di capitale estero. L’obiettivo dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti si pone nel lungo periodo. Nel breve periodo l’obiettivo può essere diverso:

- Riduzione del disavanzo, pareggio o avanzo.

15.6. LE POLITICHE PER LA COMPETITIVITA’

Ipotizziamo un bene omogeneo che venga prodotto nel paese considerato (Europa) e nel resto del mondo e limitiamoci a considerare i fattori di competitività.Non vi sarebbe convenienza a esportare o importare se il prezzo della merce europea in dollari fosse uguale al prezzo della merce estera in dollari. Si può operare sul prezzo o sui fattori dai quali questa grandezze dipende, essenzialmente i salari, la produttività, i margini di profitto .In apparenza è impossibile agire sul prezzo della merce estera in dollari perché fuori controllo dei policy makers europei, in realtà ciò è possibile attraverso politiche protezionistiche ( come quelle tariffarie) che tendono ad accrescere il prezzo della merce estera nei paesi considerato.Si può agire inoltre sul tasso di cambio nominale, svalutando o rivalutando rispettivamente nel caso di difetto o eccesso di competitività in regime di cambi fissi. Si ricordi che avendo una quotazione del cambio certo per incerto, una svalutazione o un deprezzamento dell’euro implicano una riduzione del cambio dollaro euro.

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16. I SISTEMI MONETARI

16.1. I SISTEMI MONETARIPer sistema monetario si può intendere in linea generale l’insieme di regole che disciplinano gli aspetti monetari del funzionamento di un singolo sistema economico e/o delle relazioni di questo con altri sistemi economici.Un sistema monetario deve essere formato da regole che lo “gestiscano” sia internamente che in ambito internazionale:• Deve definire l’unità monetaria utilizzata nel sistema• Deve regolare l’emissione di moneta• Deve definire i rapporti con le monete estere in termini di valore, circolazione e

convertibilità

16.2. IL SISTEMA AUREOIl sistema aureo si è realizzato completamente per la prima volta in Gran Bretagna nel 1982, nel 1870 ha assunto il ruolo di sistema internazionale in quanto molti paesi lo adottarono, nel 1914 ebbe fine in quanto con la prima guerra mondiale ci fù l’emissione di molta moneta per il finanziamento del conflitto. Non fù più ripristinato in quanto sarebbe costato perdita di occupazione e di reddito, come prevedeva Keynes, ed in parte successe.Se il valore dell’unità monetaria viene riferito a quello di una merce o di un metallo prezioso, in questo caso l’oro posseduto da un paese nelle sue riserve, si ha il sistema aureo.Il sistema aureo è stato adottato al fine di assicurare la stabilità del valore della moneta e di sottrarre la creazione di questa all’arbitrio di una qualche autorità.Regole del sistema aureo:• Devono circolare biglietti emessi dalla banca centrale aventi potere liberatorio e

che costituiscono la moneta del paese.• Viene definito il contenuto dell’unità monetaria del paese intermini di oro.• La banca centrale deve mantenere una riserva di oro in rapporto alla quantità

emessa di moneta, a richiesta la moneta può essere convertita in oro e l’oro in moneta sulla base del contenuto aureo prefissato della moneta.

• L’oro può essere liberamente importato ed esportatoLa parità monetaria indica il rapporto di valore tra le diverse monete dei diversi stati che hanno applicato tutti congiuntamente il sistema aureo.I prezzi (cambi nominali bilaterali) delle diverse monete potranno comunque discostarsi dalla parità monetaria in quanto sono influenzati dalla domanda e dall’offerta delle stesse.Il sistema aureo limita molto l’escursione dei cambi dalla parità monetaria in quanto se si deve effettuare un pagamento all’estero si potrà effettuare anche mediante spedizione di oro.Per questo motivo il cambio tra monete non potrà eccedere il punto dell’oro superiore (prezzo dell’oro equivalente alle monete da scambiare più le spese di spedizione) se no sarà più conveniente scambiare la moneta in oro e poi trasferirlo al posto di acquistare monete estere ad un cambio sfavorevole per poi effettuare il pagamento che risulterà più costoso.

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Al contrario, se il cambio scendesse al di sotto del punto dell’oro inferiore, uguale alla parità diminuita delle spese di spedizione dell’oro, anziché valuta sarà più conveniente farsi spedire l’equivalente in oro.Il sistema aureo (gold standard) è un sistema a cambi fissi.In assenza di variazioni del cambio nominale è la variazione dei prezzi nei due paesi che assicura la variazione del cambio reale che può essere necessaria per il riequilibrio.

16.3. IL SISTEMA A CAMBIO AUREO E IL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALENei suoi tratti essenziali il sistema a cambio aureo (gold Exchange standard) è un sistema nel quale almeno un paese adotta il gold standard ed altri fissano il contenuto aureo della proprio moneta , adottano la moneta del primo paese (ma non l’oro) come riserva a fronte delle missione della propria moneta nazionale e consentono di convertire la propria moneta nella moneta da riserva a un valore prefissato e costante (rapporto tra i contenuti aurei delle monete).Il sistema a cambio aureo si presta a economizzare l’uso dell’oro in caso di scarsità, presenta il vantaggio di consentire ai paesi che lo adottino di avere riserve fruttifere.Si può essere in presenza di svalutazione nel caso in cui ci vogliano più monete nazionali per acquistare una moneta estera mentre, i parla di rivalutazione nel caso in cui per acquistare una moneta estera ci vogliano meno monete nazionali rispetto al tempo t-1.Il fondo monetario internazionale è stato istituito con il trattato i Bretton Woods nel 1944 al fine di favorire la cooperazione internazionale in campo economico, sociale e politico, si è concluso nel 1971.Per parteciparvi i paesi dovevano sottostare a determinate regole per garantire efficienza e trasparenza del sistema.Il fondo controllava che tutti i paesi si attenessero alle regole imposte e che non sforassero, in tal caso il paese fuorviante doveva aggiustare le sue performance con adeguati strumenti di politica economica o utilizzare dei prestiti a breve termine concessi dal fondo stesso.Il sistema di cambio aureo può entrare in crisi nel caso in cui entri in contraddizione la domanda di liquidità sempre più frequente con la necessità di mantenere il rapporto costante tra la moneta in circolazione e le quantità di oro detenute dalla banca centrale.Questo problema si presentò quando nel 1971 Nixon dichiarò la non convertibilità del dollaro in oro dichiarando di conseguenza la fine del gold Exchange standard nella forma del fondo monetario internazionale.Attualmente la FMI svolge funzioni di finanziamento e di sorveglianza delle politiche economiche degli stati membri, il regime di cambi vigente tra le grandi aree regionali è attualmente un regime a cambi flessibili.

16.4. LA CREAZIONE CENTRALIZZATA DI RISERVEL’ipotesi avanzata, ma mai entrata in uso, è la creazione di una banca centrale per il mondo che si applichi per determinati obiettivi, per esempio la crescita del reddito, e che venga “governata” dai paesi che la utilizzano.Questa ipotesi non si è mai trasformata in realtà in quanto gli stati tendono ad auto-governarsi e di auto-gestirsi la liquidità interna e di cambio.

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Una banca centrale internazionale non potrebbe creare altro che moneta internazionale, ad uso esclusivo delle banche nazionali, per il regolamento dei debiti che sorgono fra esse.I diritti speciali di prelievo, che sono stati creati nel 1967 a Rio de Janeiro, hanno natura vera e propria di moneta (internazionale) e consistono in accreditamenti contabili.I paesi in deficit possono cedere i DPS ad altri paesi in avanzo in cambio di valuta convertibile.L’utilizzo di moneta internazionale fù largamente contestato per la paura di tensioni inflazionistiche proprio nel periodo in cui la moneta più utilizzata per gli scambi a livello mondiale era il dollaro che è legato all’andamento della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti.

16.5. IL REGIME A CAMBI FLUTTUANTI E L’EVOLUZIONE DEL FMIIl regime a cambi fluttuanti è basato sul libero oscillare delle valute estere, senza l’utilizzo di politiche che riassestino il sistema, e lascia alle regole del mercato (domanda e offerta) il riequilibrio del mercato delle valute estere.Questo tipo di regime ha portato a fluttuazioni manovrate.Il regime a cambi flessibili è stato immesso per evitare speculazioni in quanto, il regime a cambi fissi, permetteva di acquistare la moneta desiderata ad un prezzo fisso e quindi di speculare sulla variazione dell’incerto.Solo la fluttuazione dei cambi renderebbe meno profittevole la speculazione.Anche il regime a cambi flessibili può portare a speculazione, infatti, mentre il cambio di una moneta si deprezza a causa di acquisti speculativi, la previsione iniziale del cambio futuro non si mantiene invariata ma viene influenzata determinando variazioni da cui si possa trarne vantaggio.La flessibilità dei cambi può rendere più rischiosi gli scambi di merci e movimenti di capitale a medio-lungo termine.I cambi fissi costituiscono un potente strumento di coordinamento internazionale implicito in quanto, sia a livello privato (imprese) che a livello pubblico, porta a non far aumentare i prezzi al di sopra di quelli dei concorrenti ma ad attuare strategie di miglioramento dell’efficienza dinamica e statica.Il regime a cambi flessibili invece garantisce maggior autonomia ai diversi stati.Un sistema a cambi flessibili si è instaurato a livello mondiale fra le grandi aree regionali a partire dalla prima metà degli anni 70 quando Nixon ha dichiarato l’inconvertibilità del dollaro e consentendo più ampi margini di oscillazione ad un regime di cambi fissi che oramai non lo era più.Dal 1978 il Fondo Monetario Internazionale ha modificato il proprio statuto e ogni paese può applicare il regime di tassi che preferisce.Con l’avvento della globalizzazione il FMI ha accresciuto notevolmente i suoi compiti in quanto:• Concede prestiti a medio lungo termine ai paesi in via di sviluppo• Sorveglia tutte le politiche macroeconomiche e non che diventano sempre più

interdipendenti tra gli stati

16.6. IL SISTEMA MONETARIO EUROPEO

16.6.1. IL SISTEMA MONETARIO

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Il sistema monetario europeo SME è stato creato da alcuni paesi europei che avevano reagito nel 71 mantenendo costante e fisso il rapporto di cambio fra le proprie monete e che nel 79, data di inizio dello SME, hanno rafforzato questo rapporto dichiarando il regime di cambi fissi.Lo SME era sostanzialmente composto di due elementi:• Gli accordi europei di cambio (AEC), tendenti a ridurre le oscillazioni dei cambi tra

le monete comunitarie (permettevano oscillazioni del range massimo del 2,5% dal tasso centrale), che non erano necessariamente sottoscritti da tutti i membri dell’UE.

• Un meccanismo per fornire credito ai paesi con difficoltà di bilancia dei pagamenti, al quale aderivano tutti i paesi dell’UE.

L’ECU era la European Currency Unit, una moneta formata da tutte le monete europee che serviva per individuare il paese che nonostante le politiche adottate per mantenere constante il cambio nel 2,5% non riusciva a rispettare gli accordi, non è mai funzionata.Lo SME ha mantenuto i cambi fissi fino al 1993 anche se i tassi centrali venivano continuamente aggiustati.Lo SME ha cessato di esistere nel 98 con la creazione dell’UEM ma viene utilizzato per i paesi che si candidano all’ingresso dell’Unione Economica e Monetaria.

16.6.2. GLI OBIETTIVI E LE REALIZZAZIONILo SME ha un funzionamento asimmetrico, infatti la politica monetaria è sostanzialmente quella fatta dalla Germania , notoriamente inspirata a obiettivi di stabilità dei prezzi, i comportamenti interni degli altri operatori devono adeguarsi.Lo SME può comunque essere servito come strumento per ridurre le svalutazioni con le quali i paesi a più elevata inflazione avrebbero potuto tendere a mantenere invariata la loro competitività e per ridurre gli shock sull’economie interne dei paesi europei derivanti da economie esterne come quella Statunitense.

16.6.3. IL PROGETTO DI UNIONE MONETARIAL’ atto unico europeo del 1986 sancì l’accresciuta propensione dei paesi europei a procedere sulla via dell’integrazione economica e monetaria.Nel 1993 si decise di creare il mercato unico, eliminare le barriere non tariffarie al movimento delle merci e degli ostacoli ai movimenti di capitali e delle persone.Si rafforzarono i meccanismi di credito e di coordinamento degli interventi fra le Banche centrali (il Rapporto Delors indicò le tappe per il raggiungimento della UEM).Il rapporto Delors si articolava in 3 fasi:• 1990 eliminazione delle restrizioni ai movimenti di capitali • 1994 creazione dell’istituto monetario europeo con il compito di rafforzare il

coordinamento delle politiche monetarie e preparare la fase finale• Caratterizza solo i paesi che hanno soddisfatto i criteri di convergenza fissati col

trattato di Maastricht.La terza fase concerneva:

1. la stabilità dei prezzi (il tasso dei prezzi non poteva superare più di 1,5 punti percentuali il tasso di inflazione medio dei tre paesi più virtuosi)

2. la convergenza dei tassi di interesse a lungo termine (il tasso di interesse medio a lungo termine del paese non avrebbe dovuto superare più di 2 punti percentuali quello dei tre paesi con il più basso tasso di inflazione)

3. la sostenibilità della posizione finanziaria dell’operatore pubblico (venivano considerati come indicatori di sostenibilità il rapporto fra stock di debito

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pubblico e PIL e il rapporto tra disavanzo pubblico e il PIL, stabilendosi per il primo un valore non superiore al 60% e per il secondo un valore massimo del 3%)

4. un comportamento valutario consono all’obbligo di stabilità dei cambi (il paese avrebbe dovuto osservare i margini normali di fluttuazione e non doveva aver svalutato la propria moneta per almeno 2 anni)

per evitare che queste restrizioni scatenassero movimenti speculativi vennero ampliati i margini di oscillazione al ±15%.

16.6.4. CAMBIO NOMINALE E CAMBIO REALE NELL’ESPERIENZA DELLO SMETra il 1987 e 1982, la quasi invarianza dei tassi centrali portò ad un apprezzamento del cambio reale nei paesi.Per esempio, in Italia, i prezzi tendevano a crescere più che nella media europea della CEE generando disavanzi dei movimenti di beni, in Germania si ebbe un deprezzamento del cambio (con inflazione negativa) e questo generò avanzi.Per i paesi con una bilancia dei pagamenti in deficit fu attuata una politica di elevamento dei tassi di interesse, in questo modo il debito estero aumentava e si rifletteva accrescendo il deficit dei redditi da capitale e del disavanzo dei movimenti di beni.Si ebbe un aumento di disoccupazione nei paesi come l’Italia, questo dovuto all’apprezzamento del tasso di cambio reale che affievoliva la domanda.La Francia ebbe tassi inflazionistici più bassi della Germania solamente grazie a opere deflazionistiche ferree attuate al suo interno ma anch’essa con aumenti di disoccupazione.Le politiche deflazionistiche del cambio forte portarono quindi a diminuzione dell’occupazione nei paesi AEC.

17. LE ISTITUZIONI PUBBLICHE INTERNAZIONALI: LA BANCA MONDIALE E L’ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEL COMMERCIOLe istituzioni pubbliche, create nel dopoguerra, si sono ispirate ai principi della cooperazione, in particolare al multilateralismo che è la propensione ad operare a livello mondiale e a risolvere i problemi di relazioni internazionali tra Paesi.Questi accordi tra Paesi non escludono tuttavia, i Paesi terzi che quindi non vengono discriminati.Il multilateralismo si contrappone al regionalismo, ovvero risolvere i problemi economici con accordi limitati a un ristretto numero di Paesi, e al bilateralismo(accordi con singoli Paesi).Le istituzioni pubbliche internazionali possono considerarsi come organi analoghi all’ONU oppure istituti specializzati che svolgono la stessa funzione.Gli organi sussidiari dell’ONU svolgono attività economiche, garantendo assistenza tecnica.I principali istituti specializzati sono il FMI e la BANCA MONDIALE; quest’ultima nata dagli accordi di BRETTON WOODS nel ’44, ha il compito di promuovere investimenti pubblici e privati, nei Paesi delle regioni meno sviluppate, cercando di migliorare lo stile di vita in queste aree.

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Le risorse della BANCA MONDIALE sono: sia il capitale proprio costituito da quote percentuali dei Paesi membri, sia in misura maggiore finanziamenti esterni, pubblici e privati.Gli orientamenti della BANCA MONDIALE ha cercato di appoggiare maggiormente quelli liberisti dei governi, cercando di accrescere il ruolo del mercato.I Paesi finanziati furono spinti a migliorare i loro bilanci, risolvendo alcune situazioni che in alcuni casi erano gravose.Secondo la maggior parte degli studiosi, però questa esposizione da parte di alcuni Paesi, considerati “colonne portanti” del sistema internazionale, ha portato, agli shocks di questi mercati, con situazioni di crisi pesanti e moltiplicando i costi.Le politiche di liberalizzazione e privatizzazione attualmente sono messe in discussione dagli stessi studiosi.Insieme a queste due organizzazioni(FMI e BANCA MONDIALE) si era pensato di costituire una terza organizzazione, la ITO(international trade organisation) ma nn fu possibile per la mancata adesione di alcuni Paesi tra cui gli USA. Al posto di quest’ultima organizzazione, fu sottoscritto nel ’47 a Ginevra, da tutti, l’accordo generale per i dazi e per il commercio(GATT-general agreement on Tariffs and trade).Il GATT mirava essenzialmente ad accrescere il benessere sociale dei Paesi aderenti, attraverso l’eliminazione delle discriminazioni commerciali, riduzione dei dazi, riduzione e restrizione nonché regolamentazione di barriere non tariffarie.Il GATT però incontrò delle difficoltà nel perseguimento dei suoi obiettivi e per la necessità di ottenere l’adesione unanime dei Paesi membri.In ogni caso però la sua azione può considerarsi positiva poiché consentì di tornare ai principi del multilateralismo.L’Uruguay round fu l’ultima sessione di negoziazioni multilaterali organizzata dal GATT; essa fu avviata nel ’86 sotto la pressione del Giappone e degli Usa; mirava a includere nuove materia tra quelle di competenza delle istituzioni internazionali che disciplinavano il commercio.Si definì inoltre la politica che configurava la sovvenzione(sussidi), furono introdotte misure anti-dumping e vennero pubblicate necessariamente delle regole di condotta.L’1/1/1995 iniziò ad operare il WTO, creata con l’accordo di Marrakech del ‘94, a conclusione dell’Uruguay round. L’OMC(organizzazione mondiale del commercio) ovvero il WTO, sostituì appunto il GATT, anche se ne copiava in parte i principi e le regole, ma aveva un carattere più istituzionale e una struttura in grado di risolvere i contrasti tra Paesi, quindi era molto più stabile.Tra le materie del GATT prima e dell’OMC poi, vi sono:le politiche ambientali, le politiche antimonopolistiche, e di protezione del lavoro che si ripercuotono a livello internazionale.L’importanza, di queste politiche è aumentata con il passare del tempo spesso in relazione alla pressione competitiva ma anche a causa di particolari condizioni di arretratezza che si trova ad affrontare un Paese.Alcune politiche permissive di alcuni governi di Paesi in via di sviluppo, ma anche arretrati portano ad acquisire effetti positivi(vantaggi) nel breve periodo, ma anche svantaggi nel lungo periodo.Le politiche di riduzione di alcuni governi di nazioni più avanzate(RACE TO BOTTOM), creerebbe problemi ai Paesi più arretrati ed è per questo che vi è un’esigenza di coordinamento internazionale che permette di evitare distorsioni e disuguaglianze tra reddito e ricchezza.

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18. LE ISTITUZIONI PUBBLICHE SU BASE REGIONALE: L’UNIONE EUROPEA

18.1 L’INTEGRAZIONE EUROPEA

L’integrazione europea avviene in diverse fasi:Piano Marshall (’47): aiuti statunitensi ai paesi europei per la ricostruzione post-bellica condizionavano i governi dell’ EU (Unione Europea) alla collaborazione.CECA (’51) Comunità Economica del Carbone e dell’AcciaioTrattato di Roma (’57): In cui si pongono le basi del MEC (Mercato Europeo Comune) e dell’euratom. I paesi coinvolti sono L’Italia, la Francia, la Germania, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo. Gli accordi si basano su principi liberisti e trattano l’unione doganale, l’abbattimento dei dazi interni, una tariffa doganale unica, politiche comuni per l’agricoltura ed i trasporti, una legislazione antimonopolistica.SME (’79) Sistema Monetario EuropeoAtto unico Europeo (’85) con il libro bianco si modifica il trattato di Roma. Eliminazione delle barriere non tariffarie. Nuovi obiettivi: Ambiente, Ricerca, Coesione economica e sociale, Sicurezza, Salute, Posti di lavoro.Maastricht (’92): Nascita della UEStrategia di Lisbona (2000) e UEM (Unione Europea Monetaria)Euro (‘02) Circolazione della moneta unica europeaOggi: Allargamento a 27 Paesi

18.2 L’UNIONE EUROPEA: GLI ORGANI

Consiglio europeo: Insieme dei capi di stato o di governo dei paesi membri con il presidente della CE.Consiglio dei Ministri: Insieme dei Ministri degli Stati membri responsabili della materia iscritta all’ordine del giorno.Commissione Europea (CE): Organo collegiale con poteri esecutivi, di gestione e controllo.Parlamento Europeo: Eletto direttamente dai cittadini, approva il bilancio, vota la fiducia alla CE, controlla i lavori della CE.Corte di giustizia, Corte dei contiBCE (Banca Centrale Europea), Banca Europea degli investimenti

18.3 IL FUNZIONAMENTO DI UN’AREA MONETARIA (UEM)

L’introduzione della moneta unica ha portato alcuni benefici: la diminuzione dell’incertezza dei prezzi dei beni o delle attività finanziarie (annullamento del rischio di cambio), la riduzione dei costi di transazione.Il maggior timore deriva dalla possibilità che degli shock asimmetrici (contrazione della domanda con possibilità di recessione) colpiscano certi paesi e che siano insufficienti sia le capacità di reazione dei mercati sia le politiche pubbliche di riequilibrio.Ulteriori difficoltà possono derivare dalla diversità dei tassi di crescita del reddito o dalle diverse preferenze dei policy makers per l’inflazione e la disoccupazione.

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18.4 LA POLITICA MONETARIA

La politica monetaria è responsabilità del Sistema Europeo di Banche Centrali (SEBC), costituito dalla BCE e dalle BCN (Banche Centrali Nazionali). L’eurosistema è formato dalla BCE e dalle BCN che hanno aderito all’euro.La SEBC opera ai sensi del trattato di Maastricht, le è garantita l’indipendenza politica ed operativa.I principali compiti sono:

- Definire ed attuare la politica monetaria della UEM (La BCE ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione delle banconote da parte delle BCN

- Svolgere operazioni sui cambi per influenzare il tasso di cambio dell’euro verso le altre monete

- Detenere e gestire le riserve ufficiali degli Stati membri- Promuovere il regolare funzionamento dei pagamenti

Gli obiettivi sono:- Il mantenimento della stabilità dei prezzi- Il mantenimento della stabilità monetaria (dottrina tedesca)- Decidere il tasso d’inflazione

La BCE interviene sui mercati dei valutari per perseguire gli orientamenti generali di politica di cambio fissati dal Consiglio dei Ministri.

18.6 LA POLITICA FISCALE

La politica fiscale è responsabilità dei Governi Nazionali con i limiti posti dal patto di stabilità e crescita.Ognuno dei paesi membri della UEM deve evitare il deficit e l’indebitamento eccessivo per evitare effetti negativi verso gli altri paesi. I paesi per mantenere l’equilibrio dovrebbero utilizzare gli stabilizzatori automatici (sussidi di disoccupazione, imposizione progressiva) al posto di politiche fiscali discrezionali.Ogni Stato membro deve presentare un programma di finanza pubblica di medio termine con gli obiettivi e le misure necessarie per raggiungerli.Se non si osservano i limiti di Maastricht (disavanzo/PIL >3%)si dà avvio alla procedura sui disavanzi eccessivi. In situazioni di crisi si chiede un diverso modo di calcolo.E’ necessario un maggiore coordinamento fra le autorità di politica fiscale dei diversi paesi per aumentare la domanda e l’occupazione.

18.7 LE POLITICHE REGIONALI E REDISTRIBUTIVE

Redistribuzione a favore di regioni o di settori produttivi.Finalità

- Sostegno dei redditi- Protezione sociale- L’aumento della competitività- L’innovazione- Modifiche alla struttura produttiva

Mezzi- Fondo Europeo di Sviluppo regionale. Per le infrastrutture e la ricerca- Fondo sociale europeo. Per l’occupazione e la formazione

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- Fondo di coesione. Per le infrastrutture nell’ambiente e nei trasportiObiettivi

- Convergenza fra gli Stati (aumento dell’occupazione e crescita economica)- Competitività regionale ed occupazione- Cooperazione territoriale europea

Programmazione pluriennale (2007-2013) in cui ogni Stato definisce un quadro di riferimento strategico con programmi operativi.Politiche di redistribuzione si attuano con i fondi strutturali, con la PAC (politica agricola comune), la PCP (politica comune sulla pesca), la politica sociale.La PAC per garantire autosufficienza alimentare all’UE, per lo sviluppo rurale di alcune aree.La PCP per uno sviluppo sostenibile delle risorse acquaticheLa Politica sociale per aumentare l’occupazione e combattere la povertà.

18.7 LE POLITICHE INDUSTRIALI E COMMERCIALI

Politiche di tipo passivo.Anni ’70. Avevano una natura settoriale, settore della siderurgia ed introduzione di quote di produzione nazionale.Anni ’80. Cooperazione fra gli Stati, ed aumento della spesa della ricerca sul PIL. In una prima fase era promossa la ricerca pura, in seguito si preferì una ricerca applicata di tipo selettivo (principali progetti finanziati su ICT, materiali ed energia)Strumenti

- Eliminazione delle barriere non tariffarie, libera circolazione delle persone delle merci, dei servizi e dei capitali.

- Definizione di standard tecnici, armonizzazione delle direttive e delle specifiche tecniche, riconoscimento reciproco.

- Liberalizzazione di molti settori (finanziari e di pubblica utilità)- Creazione di un codice di condotta in materia fiscale, eliminazione della slealtà

fiscale, maggior coordinamento fra gli stati.

19. L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE ISTITUZIONI PRIVATE. LA GLOBALIZZAZIONE DEI MERCATI E DELLA PRODUZIONE

19.1 LE FORME DI GLOBALIZZAZIONE La globalizzazione può essere definita come la crescita ad una scala tendenzialmente mondiale delle interrelazioni fra i diversi sistemi economici e sociali nazionali attraverso istituzioni economiche private.Tale crescita è connessa sia con l’aumento degli scambi internazionali di merci, di capitale finanziario e di lavoro (integrazione superficiale), sia con l’aumento della produzione attribuibile in larga misura alle imprese multinazionali (integrazione profonda)Integrazione superficiale: nel secondo dopoguerra il commercio internazionale è sempre cresciuto a tassi più elevati del PIL, portando ad un aumento del grado d’apertura internazionale delle varie economie. Di notevole rilevanza, nel dopoguerra, è la continua crescita dei movimenti internazionali dei capitali finanziari (tra cui quelli bancari, obbligazioni e azioni).

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Integrazione profonda: è riferita all’attività dell’impresa multinazionale.; si tratta quindi di un’impresa che ha centri di produzione in vari paesi, acquisiti attraverso investimenti diretti esteri.Le ragioni per le quali un’impresa possa essere indotta ad investire all’estero sono molteplici:

1. essere presente su un mercato in espansione;2. adattare il prodotto alle esigenze locali e dargli un immagine locale;3. abbassare i costi di trasporto e gli oneri derivati dalla presenza di dazi;4. abbassare i costi di produzione;5. apprendere nuove tecnologie.

Vi sono tre tipi di imprese multinazionali:1. Impresa multinazionale multidomestica: tende a replicare all’estero tutta (o in

parte) l’attività svolta nel paese d’origine.2. Impresa multinazionale con integrazione semplice: si tratta di un’impresa che

delocalizza una o più fasi della produzione, essenzialmente per trarre profitto dal più basso costo del lavoro o per approvvigionarsi si materie prime o, infine, per ragioni tecnologiche.

3. Impresa multinazionale con integrazione complessa: ogni consociata si specializza in certe funzioni, per sfruttare economie di scala o per trarre vantaggio dalla diversa disponibilità e costo di vari tipi di lavoro o di altri fattori produttivi.

19.2 I CARATTERI DI NOVITA’ DELLA GLOBALIZZAZIONESe si guarda al fenomeno della globalizzazione in una prospettiva storica più ampia, si noterà che il grado di internazionalizzazione raggiunto negli anni più recenti non è apprezzabilmente più elevato di quello presente alla vigilia della prima guerra mondiale.Le novità che quindi caratterizzano la globalizzazione di oggi rispetto a quella del passato sono:

• Per i paesi più sviluppati una parte sempre più consistente del PIL è attribuibile ai servizi, i quali per loro natura danno luogo a transazioni internazionali più contenute di quelle interne essendo largamente non tradable; quindi se il grado di integrazione totale (tradeble + non tradeble) rimane sostanzialmente invariato, è perché si è verificato un aumento dell’integrazione internazionale del settore tradeble.

• Il contenuto degli scambi internazionali è profondamente diverso da quello pre-1914; oggigiorno prevale lo scambio di manufatti contro altri manufatti (spesso all’interno della stessa industria), sia nell’ambito della paesi sviluppati sia fra questi e i paesi in via di sviluppo.

• Il numero dei paesi che fanno parte del mercato globale è notevolmente superiore a quello pre-1914, anche se ancora sono molti i paesi che restano in una posizione di marginalità in termini di grado di sviluppo.

• I movimenti internazionali di capitale sono ora molto più rilevanti che nel periodo anteriore alla prima guerra mondiale, soprattutto in quanto a capacità nell’influenzare le politiche economiche nazionali.

19.3 LE CAUSE DELLA GLOBALIZZAZIONEI principali fattori che hanno contribuito alla crescita della globalizzazione sono:

1. Il progresso tecnico ha comportato un notevole abbattimento dei costi di trasporto e di comunicazione. Tutto ciò ha contribuito ad attenuare le distanze fisiche, facilitando quindi i contatti tra le diverse economie nazionali. La riduzione dei costi di trasporto e comunicazione tende a:

a. facilitare la specializzazione della produzione e il commercio internazionale (compreso quello dei fattori produttivi);

b. facilitare le operazioni di delocalizzazione della produzione;

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c. accrescere l’elasticità rispetto al prezzo della domanda e dell’offerta dei beni.

2. Scelte di politica economica: ossia, la graduale eliminazione degli ostacoli al commercio internazionale posti in precedenza dai governi dei paesi sviluppati. La globalizzazione è cresciuta anche per la convertibilità delle varie monete e per la liberalizzazione di movimenti di capitale sia nei paesi sviluppati che nei PVS.

Un ulteriore spinta è derivata dall’apertura dei paesi appartenenti all’ex blocco sovietico a partire dalla fine degli anni Ottanta.

19.4 GLI EFFETTI DELLA GLOBALIZZAZIONELe conseguenze della globalizzazione sono numerose, e valutabili in termini di efficienza ed equità.In termini di efficienza, le conseguenze sono soprattutto legate ad un aumento del saggio di crescita dell’economia mondiale caratterizzato da un sempre più crescente livello di specializzazione, che consente di sfruttare al meglio le economie di scala, di ridurre i costi di produzione e di aumentare a capacità di crescita dell’economia mondiale.Un aspetto particolare delle crescente specializzazione concerne la deindustrializzazione dei paesi sviluppati; secondo alcuni economisti questo aspetto potrebbe discendere dalla delocalizzazione di una parte della loro produzione manifatturiera e quindi imputabile direttamente dal processo di globalizzazione. Inoltre la deindustrializzazione potrebbe essere attribuita alla più elevata elasticità della domanda di servizi rispetto a quella di beni primari; da un punto di vista tecnologico, invece, la deindustrializzazione potrebbe derivare dal fatto che i servizi hanno una minor produttività rispetto all’attività manifatturiera, il che implica che incrementi di domanda di servizi richiedono un maggior incremento occupazionale rispetto a incrementi di domanda nell’industria.Le conseguenze distributive della globalizzazione riguardano, oltre alla ripartizione fra i vari paesi dei benefici e dei costi, la distribuzione all’interno di ogni paese fra le varie forme di reddito e allo stesso interno di ogni categoria di reddito.In termini di equità, oggigiorno, è evidente che i vantaggi della globalizzazione non siano distribuiti in modo uniforme; per quanto riguarda i PVS, ad esempio, la caduta delle barriere tariffarie erette per proteggere la loro fragile struttura economica, l’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli da questi importati e il venir meno dei sussidi concessi a tali prodotti da molti paesi industrializzati, ha contribuito non poco a rafforzare il processo di marginalizzazione che li aveva già caratterizzati negli ultimi decenni.