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1 Linee generali per la gestione del paziente intossicato C.Locatelli, V. Petrolini, D. Lonati, A. Giampreti, S. Vecchio, S. Bigi, L. Manzo Centro Antiveleni di Pavia e Centro Nazionale di Informazione Tossicologica, Servizio di Tossicologia, IRCCS Fondazione Salvatore Maugeri Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, Pavia e Dipartimento di Medicina Interna e Terapia Medica, Università degli Studi di Pavia – www.cavpavia.it OBIETTIVI DEL CAPITOLO Conoscere i principi fondamentali per il primo approccio diagnostico-terapeutico al paziente con intossicazione acuta Inquadrare alcuni fra i quadri di intossicazione pura più comuni Conoscere l’impiego di alcuni antidoti CASO CLINICO Una signora di 31 anni giunge alle 24.00 in pronto soccorso (PS) riferendo di avere assunto 2 ore prima a scopo anticonservativo 80 compresse di un farmaco contenente solfato ferroso idrato (525 mg). La paziente è vigile, orientata nel tempo e nello spazio, completamente asintomatica con addome trattabile e non dolente, ma è poco collaborante con il personale sanitario. I parametri vitali e l’esame obiettivo sono nella norma anche se le condizioni generali sono scadenti e la paziente è decisamente sottopeso. All’anamnesi patologica risulta solo un disagio sociale per il quale è seguita da qualche mese senza terapia farmacologica specifica. Riferisce di aver assunto le compresse in seguito a litigio con il fidanzato. Viene praticata subito una lavanda gastrica con acqua dopo aspirazione di abbondante quantità di liquido bruno dallo stomaco. Gli esami ematochimici rivelano solo lieve leucocitosi. La radiografia dell’addome dimostra presenza di numerose (circa 80) compresse radiopache; radiografia del torace, emogasanalisi arteriosa ed ECG risultano invece nella norma. Si concorda con il laboratorio l'esecuzione immediata della sideremia sebbene non faccia parte degli esami normalmente disponibili in urgenza: essa risulta 295 μg/dL (valori normali 50-175 μg/dL). Viene iniziata somministrazione di gastroprotettori e infusione di soluzione fisiologica (150 mL/ora) tramite accesso venoso periferico. Due ore dopo l’accesso in PS le condizioni generali sono stabili e i parametri vitali nella norma: compare tuttavia lieve agitazione psico-motoria.

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    Linee generali per la gestione del paziente intossicato

    C.Locatelli, V. Petrolini, D. Lonati, A. Giampreti, S. Vecchio, S. Bigi, L. Manzo

    Centro Antiveleni di Pavia e Centro Nazionale di Informazione Tossicologica, Servizio di Tossicologia, IRCCS

    Fondazione Salvatore Maugeri Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, Pavia e Dipartimento di Medicina Interna e

    Terapia Medica, Università degli Studi di Pavia – www.cavpavia.it

    OBIETTIVI DEL CAPITOLO

    • Conoscere i principi fondamentali per il primo approccio diagnostico-terapeutico al paziente

    con intossicazione acuta

    • Inquadrare alcuni fra i quadri di intossicazione pura più comuni

    • Conoscere l’impiego di alcuni antidoti

    CASO CLINICO Una signora di 31 anni giunge alle 24.00 in pronto soccorso (PS) riferendo di avere assunto 2 ore

    prima a scopo anticonservativo 80 compresse di un farmaco contenente solfato ferroso idrato (525

    mg). La paziente è vigile, orientata nel tempo e nello spazio, completamente asintomatica con

    addome trattabile e non dolente, ma è poco collaborante con il personale sanitario. I parametri

    vitali e l’esame obiettivo sono nella norma anche se le condizioni generali sono scadenti e la

    paziente è decisamente sottopeso.

    All’anamnesi patologica risulta solo un disagio sociale per il quale è seguita da qualche mese

    senza terapia farmacologica specifica. Riferisce di aver assunto le compresse in seguito a litigio

    con il fidanzato.

    Viene praticata subito una lavanda gastrica con acqua dopo aspirazione di abbondante quantità di

    liquido bruno dallo stomaco. Gli esami ematochimici rivelano solo lieve leucocitosi. La radiografia

    dell’addome dimostra presenza di numerose (circa 80) compresse radiopache; radiografia del

    torace, emogasanalisi arteriosa ed ECG risultano invece nella norma. Si concorda con il

    laboratorio l'esecuzione immediata della sideremia sebbene non faccia parte degli esami

    normalmente disponibili in urgenza: essa risulta 295 µg/dL (valori normali 50-175 µg/dL). Viene

    iniziata somministrazione di gastroprotettori e infusione di soluzione fisiologica (150 mL/ora)

    tramite accesso venoso periferico.

    Due ore dopo l’accesso in PS le condizioni generali sono stabili e i parametri vitali nella norma:

    compare tuttavia lieve agitazione psico-motoria.

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    La radiografia dell’addome di controllo eseguita dopo la gastrolusi evidenzia permanenza nello

    stomaco di un numero ancora elevato di compresse (più di 60). Si decide quindi di eseguire una

    gastroscopia per tentare di rimuovere le compresse e per valutare il danno d’organo. All’esame si

    osservano iperemia della mucosa esofagea e iperemia con disepitelizzazione ed edema delle

    pliche gastriche del tratto prossimale del corpo. Al tentativo di esplorazione dell’antro, che risulta

    contenere abbondante liquido bruno misto a frammenti di compresse di colore rosso parzialmente

    digerite, si osservano aree iperemiche e aree di disepitelizzazione, diffuso stillicidio ematico ed

    estese aree di colore grigio-nerastro per evidenti fenomeni di necrosi. Non si procede oltre l’antro

    sotto-angolare per l’evidente rischio di lesionare la parete del viscere.

    A distanza di 8 ore dall’ingestione lo stato di agitazione psico-motoria della paziente peggiora, i

    valori pressori si riducono (90/60 mmHg), compaiono tachicardia e acidosi metabolica (pH 7.27,

    HCO3- 19 mmol/L, Cl- 122 mEq/L, gap anionico non aumentato); la sideremia risulta in lieve

    riduzione (237 µg/dL). Un accesso venoso centrale consente di aumentare l’infusione di liquidi e di

    monitorare la pressione venosa centrale, che si mantiene normale: viene iniziata la

    somministrazione di bicarbonato di sodio e.v.

    In considerazione dello scarso successo terapeutico della gastrolusi e dell’esame endoscopico,

    viene iniziata la decontaminazione gastroenterica mediante irrigazione intestinale continua (via

    sondino naso-gastrico) con soluzione di polietilenglicole-4000 (PEG-4000). Per il peggioramento

    dello stato di agitazione viene iniziata sedazione con midazolam in infusione continua a 0,1

    mg/kg/ora.

    L’irrigazione intestinale viene continuata per 8 ore (totale: 10 litri di PEG-4000) fino all’evacuazione

    di liquido limpido.

    La paziente viene ricoverata in medicina d’urgenza con controllo programmato della sideremia

    ogni 4 ore al fine di valutare l’eventuale indicazione a somministrare l’antidoto specifico

    (desferossamina). Tale trattamento non risulterà necessario, stante l'efficacia del lavaggio

    intestinale nella decontaminazione completa della paziente. Durante i due giorni di degenza

    vengono mantenute la sedazione con benzodiazepine, l’infusione endovenosa di liquidi e la

    gastroprotezione con dosi elevate di inibitori della pompa protonica: la sideremia rientra nella

    norma poche ore dopo l'avvenuta decontaminazione intestinale.

    A 48 ore dall’ingestione i parametri vitali sono nella norma e l’acidosi metabolica si è risolta (pH

    7.34, HCO3- 22.7 mmol/l, Cl- 119 mEq/L). Gli esami ematochimici documentano lieve

    anemizzazione, verosimilmente da stillicidio ematico dal tratto gastroenterico; i parametri

    emocoagulativi e gli indici di necrosi epatica risultano nella norma. La valutazione psichiatrica

    indica però la necessità di un trattamento specifico e il giorno successivo la paziente viene

    trasferita in reparto di psichiatria.

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    INTRODUZIONE

    Le intossicazioni acute sono un vastissimo insieme di patologie di diversa gravità determinate da

    esposizioni per vie e con modalità diverse a un enorme numero di agenti causali (agenti tossici o

    veleni). I quadri clinici che ne conseguono sono ogni volta diversi e risultano spesso di difficile

    inquadramento diagnostico e terapeutico.

    Questo tipo di patologia interessa tutto il settore dell’urgenza, dal soccorso territoriale ai servizi di

    pronto soccorso-medicina d’urgenza e alle rianimazioni. Non è però infrequente che in alcuni

    ospedali, oppure in relazione a specifici aspetti organizzativi, pazienti intossicati vengano ricoverati

    e trattati in reparti di medicina e chirurgia generale o in degenze specialistiche (es. unità

    coronarica) per necessità di assistenza e monitoraggio particolari.

    Benché vi siano ancora controversie su alcuni aspetti della gestione del paziente intossicato (es.

    disponibilità e necessità di indagini di tossicologia analitica in urgenza, impiego di alcuni antidoti), i

    principi, i processi e le procedure che caratterizzano l’approccio terapeutico nella fase acuta sono

    oggi chiaramente stabiliti e oggetto di consenso nella comunità scientifica. Essi dovrebbero quindi

    essere patrimonio, per lo meno nelle linee generali, di tutti i medici che operano nei servizi che più

    frequentemente si trovano affrontare urgenze ed emergenze tossicologiche, quali il 118, il pronto

    soccorso/medicina d'urgenza, la rianimazione e la pediatria.

    In tutti i casi la consulenza fornita dagli specialisti dei centri antiveleni (CAV) risulta essenziale per

    minimizzare gli errori e impostare i percorsi diagnostico-terapeutici più idonei.

    ELEMENTI DI EPIDEMIOLOGIA DELLE INTOSSICAZIONI ACUTE

    L'intossicazione acuta rappresenta un evento di sempre più frequente riscontro per chi opera nei

    servizi d'urgenza territoriali e ospedalieri, dato che l’incidenza media annua delle intossicazioni

    acute è, nel nostro Paese come nel resto d’Europa, approssimativamente di 1 caso ogni 100

    abitanti. Benché sia difficile accertare dati precisi di prevalenza, la patologia acuta da tossici

    esogeni (escludendo quella relativa alle reazioni avverse a farmaci) rappresenta in Italia in media

    circa il 3-4% di tutti gli accessi ai pronto soccorso (PS). Non è noto quanti di questi pazienti

    vengano ricoverati: le diagnosi principali di dimissione relative a intossicazioni/avvelenamenti e

    abuso di alcol/altre sostanze sono circa 100.000/anno. I dati delle Schede di Dimissione

    Ospedaliere - SDO (comunque imprecisi in quanto codificano prevalentemente i sintomi e non le

    cause) non includono però le prestazioni per intossicazioni acute fornite nei servizi d’urgenza e

    non seguite da ricovero (stimabili in circa 500.000/anno) e quelle ambulatoriali (per problematiche

    post-acute e croniche).

    Non più del 3% dei pazienti ricoverati per intossicazione viene inoltre ammesso in reparti di

    rianimazione: anche questo dato, però, risente dei differenti livelli organizzativi dei dipartimenti

    d'emergenza e ancor più della disponibilità di reparti di medicina d'urgenza, di osservazione breve

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    intensiva e delle relative possibilità di monitoraggio.

    I Centri Antiveleni (CAV) italiani forniscono consulenza specialistica per più di 150.000 casi/anno:

    ai CAV non vengono però segnalati circa il 70% dei casi di sovradosaggio da farmaci, la maggior

    parte dei casi di decesso extraospedaliero da intossicazione, così come i casi di overdose da

    alcune sostanze d'abuso i cui effetti sono ampiamente noti ai medici d'urgenza (es. alcool, eroina).

    La mortalità generale dei pazienti con intossicazioni acute, calcolata su dati dei CAV statunitensi,

    risulta inferiore allo 0,5%; se si considera, tuttavia, che solo il 22% delle consulenze dei CAV in

    questo Paese ha necessitato di osservazione/ricovero ospedaliero, la mortalità sui casi di

    effettiva/probabile intossicazione sale al 2,5% circa. Quando invece la mortalità viene stratificata

    per tipi di tossico, essa può superare il 10% come avviene ad esempio nel caso delle

    intossicazioni da alcuni tipi di veleni cardiotossici e da Amanita phaloides.

    Questi dati, nel loro insieme, indicano l'elevata frequenza della patologia da sostanze chimiche, la

    quale comprende una gamma di situazioni cliniche quanto mai eterogenee, dall’ingestione

    accidentale al tentato omicidio, dalla banale esposizione a un prodotto con tossicità irrilevante fino

    all’intossicazione grave che pone in pericolo la vita del paziente.

    Dietro ad ogni intossicazione si cela una complessità gestionale che richiede, per essere

    fronteggiata in modo ottimale ed evitare approcci diagnostico-terapeutici inadeguati, competenze

    tossicologiche specialistiche (fornite dai Centri Antiveleni) unitamente a una formazione specifica

    in tossicologia clinica per i medici che operano nell'area dell'urgenza-emergenza. Ciò anche in

    ragione del fatto che in Italia non sono diffusi sul territorio nazionale reparti di cura e servizi

    diagnostici specifici per la tossicologia clinica, e i pazienti intossicati vengono per lo più ricoverati

    presso reparti e ospedali che spesso non sono dotati di specifiche competenze (es. mancanza di

    strutture analitiche).

    LA PRESA IN CARICO DEL PAZIENTE INTOSSICATO

    Nella gestione del paziente intossicato esistono quattro momenti fondamentali: (i) la diagnosi, (ii) il

    trattamento d'urgenza, (iii) il trattamento nella fase post-acuta e (iv) il follow-up a lungo termine per

    il monitoraggio e trattamento di eventuali sequele tardive. In ciascuna di queste fasi occorre

    considerare gli aspetti peculiari di questa patologia al fine di effettuare l'intervento più efficace e

    sicuro: a tale riguardo la consulenza dei CAV risulta essenziale, anche in relazione al fatto che (a)

    a una frequenza elevata dell'evento "intossicazione" corrispondono in realtà moltissimi quadri

    clinici assai diversi fra loro per variabilità degli agenti e modalità di avvelenamento, (b) le

    intossicazioni acute sono solo in una piccola percentuale "pure" e cioè causate da una sola

    sostanza/farmaco (la maggior parte delle quali è accidentale), (c) le sostanze/farmaci dotati di

    potenziale tossicità con i quali l'uomo può venire in contatto sono in incessante aumento, (d) le

    conoscenze tossicologiche sono in continua evoluzione, (e) le possibilità di determinazioni

    analitiche specifiche in urgenza sono estremamente limitate nel nostro Paese, (f) la disponibilità di

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    trattamento antidotico efficace e sicuro esiste solo per un limitato numero di sostanze.

    DIAGNOSI

    La diagnosi in tossicologia clinica si basa in un primo momento, come in tutti i campi della

    medicina, dal confronto tra anamnesi e il quadro clinico presentato dall'intossicato. L'enorme

    variabilità di sostanze chimiche e di miscele delle stesse con cui l'uomo può venire a contatto per

    vie diverse, tuttavia, implica che ogni intossicazione acuta possa configurare un'evenienza insolita

    o addirittura unica, senza precedenti.

    Anamnesi Nella patologia da tossici esogeni non è sempre possibile ottenere dal paziente un'anamnesi

    veritiera (es. per comportamento autolesivo o alterazioni dello stato di coscienza) se non nel caso

    delle esposizioni accidentali: anche in questi casi, tuttavia, la non perfetta conoscenza del prodotto

    in causa può essere un elemento critico. Il processo diagnostico richiede spesso, pertanto, che la

    raccolta di informazioni avvenga attraverso (o per confronto con) domande specifiche poste a

    familiari, amici, conoscenti, o a coloro che hanno potuto raccogliere importanti dati circostanziali

    (es. soccorritori), oltre che, talvolta, al medico curante.

    L'identificazione esatta dei prodotti in causa è essenziale: benché esistano in commercio centinaia

    di migliaia di prodotti chimici, i CAV possono essere in grado di identificarne rapidamente la

    composizione e definire quindi il miglior approccio diagnostico-terapeutico. Nel caso di “agente non

    noto” l'identificazione delle sostanze in causa può essere fatta attraverso la valutazione esperta di

    segni/sintomi indicativi di specifici veleni.

    Per poter valutare la potenziale gravità dell’intossicazione, occorre cercare di stabilire la quantità

    massima che può essere stata assunta (nelle intossicazioni intenzionali è preferibile sovrastimare

    questa quantità): ciò può ad esempio fornire indicazione alle manovre di decontaminazione

    gastrointestinale anche in caso di assunzioni accidentali.

    In alcuni casi esistono dosi tossiche ben conosciute (es. paracetamolo, acido acetilsalicilico,

    glicole etilenico, metanolo, boro), ma sfortunatamente nella maggior parte dei casi la dose tossica

    non è nota: in queste circostanze si può considerare potenzialmente pericolosa, se pur con molta

    approssimazione, una dose di farmaco che supera di tre volte la dose terapeutica, mentre nel caso

    di sostanze non medicamentose qualunque dose assunta deve essere valutata in virtù della

    pericolosità intrinseca della sostanza (se nota) o comunque essere considerata potenzialmente

    pericolosa.

    La conoscenza delle modalità (singola o ripetuta) e del tempo intercorso dall'assunzione delle

    sostanze è molto importante: l'intervallo fra esposizione e comparsa di segni e sintomi è variabile e

    caratteristico per singole sostanze.

    Il quadro clinico e gli esami tossicologici devono essere sempre interpretati in base alla "storia

    dell'intossicazione" e quindi al tempo intercorso. Oltre che a fini diagnostici e prognostici, la

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    conoscenza del tempo intercorso è essenziale anche a fini terapeutici: questo dato può infatti

    condizionare sostanzialmente la scelta della metodica di decontaminazione, di un trattamento

    antidotico specifico o l'applicazione di una tecnica di depurazione extracorporea.

    Altri aspetti anamnestici hanno grande rilevanza. La via d'esposizione condiziona l'assorbimento

    dei veleni, la comparsa di tossicità in tempi più o meno lunghi e la scelta delle relative tecniche di

    decontaminazione. L'anamnesi patologica remota (comprese le terapie in corso, storie d'abuso,

    ecc.) può mettere in evidenza fattori di rischio aggiuntivi o controindicazioni ad alcuni trattamenti.

    Segni/sintomi L'esame del paziente deve essere accurato e mirato alla ricerca di segni/sintomi che concordino

    con l'anamnesi relativa agli agenti in causa o che consentano, in assenza di dati anamnestici certi,

    di indirizzare verso diagnosi specifiche. Ciò risulta talora possibile poiché la patologia tossica è

    caratterizzata da (i) un rapporto logico tra causa ed effetti che è molto più stretto e costante

    rispetto ad altre patologie, e da (ii) un tempo di latenza fra esposizione e comparsa dei sintomi

    caratteristico per ogni sostanza. Così, ad esempio, la diagnosi può risultare non difficile nelle

    intossicazioni pure da sostanze o farmaci che causano caratteristiche disfunzioni autonomiche (es.

    sindrome anticolinergica centrale, sindrome colinergica).

    Occorre tuttavia considerare che nelle patologie da tossici i segni/sintomi presenti a un dato

    momento possono repentinamente cambiare in seguito ad assorbimento di ulteriori quantità della

    stessa sostanza (es. formulazioni di farmaci a lento rilascio) o di sostanze diverse (intossicazioni

    miste), oppure per lento metabolismo del composto primario a molecole con effetti più potenti o

    differenti (es. metanolo, glicole etilenico).

    Oltre ai segni e sintomi che caratterizzano alcune sindromi tipiche (tabella 1), altri elementi

    possono indirizzare la diagnosi, quali, ad esempio, un odore caratteristico dell'espirato, la

    presenza di lesioni da caustici, il tipo di anomalie elettrocardiografiche o radiografiche (es.

    “pacchetti" di sostanze d'abuso nel tratto gastrointestinale), particolari quadri biochimico-metabolici

    (es. acidosi metabolica, gap anionico), il colore delle urine o dell'aspirato gastrico, oppure segni di

    venopuntura.

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    Tabella 1. Principali "sindromi tipiche"

    sindrome esempi di agenti segni/sintomi caratteristici anticolinergica periferica e centrale

    • farmaci (atropina e derivati, carbamazepina, antidepressivi triciclici)

    • piante (Atropa belladonna, Datura stramonium, Hyoscyamus niger, “stramoni” utilizzati nell’abuso, ecc.)

    • funghi (Amanita muscaria e pantherina)

    • periferici: tachicardia, midriasi, cute calda e arrossata, mucose secche, riduzione della peristalsi, ritenzione urinaria, ipertermia

    • centrali: agitazione e delirio (accompagnato da stato mentale fluttuante, confusione, allucinazioni visive, alterazioni comportamentali) tremori, mioclonie, coma

    colinergica o muscarinica • insetticidi (esteri organofosforici, carbamati)

    • agenti nervini • farmaci: fisostigmina, farmaci

    usati nell'Alzheimer (donepezil, galantamina, rivastigmina, taurina) e nella miastenia gravis (es. neostigmina), agonisti dell'acetilcolina (betanecolo, carbacolo, pilocarpina)

    • funghi (genere Inocybe e Clitocybe)

    • bradicardia, miosi, sudorazione profusa, scialorrea, broncorrea, lacrimazione, vomito, diarrea, iperperistalsi

    metaemoglobinemia • anilina • nitriti e nitrati

    • cianosi senza dispnea, sangue color cioccolato, insufficienza cerebrale, ipotensione (nitriti)

    simpaticomimetica beta-agonisti diretti (adrenalina, noradrenalina, isoproterenolo, albuterolo, clenbuterolo, terbutalina) alfa-agonisti diretti (adrenalina, alcaloidi dell'ergotamina, fenilefrina) simpaticomimetici indiretti (amfetamine, cocaina, fenfluramina, MAO-inibitori, metifenidato, fendimetrazina, tiramina) simpaticomimetici ad azione mista (dopamina, efedrina, pseudoefedrina, fenilpronalamina) piante (Ephedra, Ma huang)

    • gli effetti sono dipendenti dalla selettività recettoriale alfa o beta: tachicardia seguita da bradicardia, (solo bradicardia per fenilefrina), aritmie, ipertensione, midriasi, ipertermia, sudorazione, convulsioni, psicosi

    • nota: i segni/sintomi possono essere confusi da complicanze quali emorragie cerebrali o ischemie e vasocostrizione distrettuali

    oppioide • morfinici naturali e di sintesi insufficienza respiratoria (bradipnea, apnea), miosi puntiforme, depressione centrale fino al coma

    morso di vipera • vipere italiane segni di morso (1 o 2 puntini a distanza di 0,5-1 cm), edema duro bluastro e dolente, alterazioni della coagulazione

    Analisi tossicologiche La diagnosi tossicologica è completa e corretta solo quando, oltre a natura della sostanza, via di

    contatto, intervallo fra esposizione e comparsa dei sintomi, presenza di fattori individuali di rischio,

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    è possibile conoscere anche la quantità di veleno assorbita. Si tratta di un aspetto diagnostico

    peculiare, specifico di questa patologia, che ha particolare rilevanza soprattutto nella valutazione

    delle intossicazioni per ingestione di veleni lesionali. In questi casi la quantificazione della dose

    assorbita consente la conferma del sospetto diagnostico, la corretta applicazione di terapie

    antidotiche e di tecniche di depurazione extracorporea, la formulazione di una prognosi corretta e

    la previsione dell'entità e della durata dell'effetto massimale, indipendentemente dai segni e

    sintomi al momento presenti.

    Nella diagnosi delle intossicazioni acute possono essere utilmente impiegati, in una prima fase e

    con l'indicazione e l'interpretazione specifica del singolo caso, alcuni esami di routine della

    normale biochimica clinica. Gli esami diagnostici specifici sono invece i test analitico-tossicologici:

    la diagnostica tossicologica approfondita è tuttavia oggi ancora poco disponibile nella maggior

    parte dei DEA se non dove sono presenti reparti di cura di tossicologia clinica e Centri Antiveleni.

    I test di tossicologia analitica possono essere di tipo qualitativo, semiquantitativo o quantitativo;

    ogni metodica ha campi di applicazione e tempi di risposta diversi, affidabilità e accuratezza

    variabili, e richiede competenze analitiche più o meno specifiche con notevole differenza anche nei

    costi.

    Requisito fondamentale dei test di tossicologia analitica è la capacità di fornire in tempo reale e

    con elevato livello di affidabilità il risultato analitico concernente il più vasto spettro possibile di

    sostanze. Ciò è reso complesso da alcune difficoltà, fra le quali il numero elevato di sostanze

    potenzialmente causa di intossicazione, la loro diversificata struttura chimica, la continua

    immissione nel mercato di nuove molecole, le interferenze dovute a co-assunzioni di molecole

    diverse, l'ampio intervallo delle dosi efficaci e delle concentrazioni raggiungibili nei liquidi biologici.

    A questi aspetti si aggiunge, sul piano gestionale e organizzativo, l'imprevedibilità e irregolarità

    numerica e temporale con cui i casi si presentano, nonché le possibili implicazioni medico-legali ad

    essi sottese.

    Il più diffuso e semplice test di tossicologia analitica è rappresentato dallo screening su urine di

    alcune sostanze d'abuso e farmaci: ad alcuni vantaggi quali il costo limitato e la facilità di

    esecuzione, corrispondono numerosi limiti legati ad esempio alla scarsa sensibilità (falsi negativi)

    per molecole appartenenti alla stessa categoria di farmaci, alla specificità limitata (falsi positivi) ad

    esempio per reattività crociata tra farmaci, e alla matrice utilizzata. Nell'urina inoltre (i) la positività

    per i farmaci può risultare correlata alla semplice assunzione di dosi terapeutiche, (ii) il cut-off può

    non consentire di rilevare concentrazioni tossiche di alcune molecole appartenenti alla categoria

    testata, (iii) le concentrazioni del tossico eliminato sono influenzate dalla diuresi e dalla clearance

    renale, (iv) alcune sostanze (es. sostanze d’abuso) permangono positive nelle urine per giorni

    dopo l'assunzione, anche quando non sono più causa di effetti tossici clinicamente rilevabili.

    In alcuni casi il dato analitico qualitativo può essere il primo esame di screening che, in caso di

    positività, deve poi essere seguito da un'analisi quantitativa specifica per la valutazione del grado

    di tossicità (es. paraquat). In altri casi solo il test quantitativo ha utilità diagnostica: si tratta di veleni

    (in genere lesionali) per i quali è nota una correlazione dose-effetto la cui conoscenza ha evidenti

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    implicazioni terapeutiche, come nel caso di paracetamolo, salicilici, digossina, teofillina,

    carbamazepina, fenobarbitale, antidepressivi triciclici, metanolo, glicole etilenico, litio, boro, ferro e

    vari altri metalli.

    Al fine di evitare errori di interpretazione che possono avere conseguenze rilevanti, la disponibilità

    del dato analitico, sia qualitativo che quantitativo, non può tuttavia essere disgiunta dalla sua

    valutazione esperta. Numerosi fattori, infatti, quali modalità e tempo intercorso dall'assunzione,

    interferenze metabolico-cinetiche (es. metaboliti attivi) e tossico-dinamiche, nonché le terapie

    messe in atto, ne condizionano il significato.

    Gli ospedali italiani dotati di laboratori in grado di assicurare analisi tossicologiche quantitative in

    urgenza sono pochissimi. Una recente indagine condotta dal CAV di Pavia su 193 strutture

    sanitarie italiane che hanno partecipato a un progetto di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità

    ("Miglioramento della prevenzione e della gestione delle intossicazioni acute: razionalizzazione

    della presenza sul territorio degli antidoti", 2003) indica che un servizio di tossicologia e/o centro

    antiveleni è presente nel 3,1% degli ospedali, che il 48,7% dispone di un laboratorio in grado di

    effettuare alcune analisi tossicologiche (prevalentemente esami di tipo qualitativo, oltre a

    monitoraggio di alcuni farmaci, carbossiemoglobina, ed etanolo), ma che solo il 36,8% ne dispone

    in urgenza (Locatelli et al, 2006).

    Una migliore disponibilità e organizzazione dei servizi di tossicologia analitica in urgenza sarebbe

    senza dubbio auspicabile nel nostro Paese, specie per ciò che riguarda analisi di veleni lesionali

    (es. glicoli, metalli, solventi) e delle nuove sostanze d'abuso. Considerando l'impegno di risorse, le

    caratteristiche della struttura, il bacino d’utenza, le realtà territoriali, occorrerebbe che a fianco di

    analisi tossicologiche disponibili in ogni struttura per l'urgenza (es. alcolemia, carbossiemoglobina,

    metaemoglobina, esami qualitativi per ricerca di comuni sostanze d'abuso, benzodiazepine,

    barbiturici, antidepressivi triciclici), a livello provinciale e/o regionale fossero disponibili in urgenza

    esami più specifici fra i quali digossinemia, salicilemia, paracetamolemia, teofillinemia, litiemia,

    sideremia e determinazione di glicole etilenico. In laboratori più centralizzati dovrebbero invece

    essere disponibili esami ancora più specifici (es. nuove sostanze d’abuso, metanolo, colchicina,

    paraquat, solventi, metalli), oppure esami su matrici diverse (es. tessuto adiposo).

    Diagnostica strumentale Nella diagnosi delle intossicazioni acute possono essere utilmente impiegate, con indicazioni e

    interpretazioni specifiche relative agli agenti causali, le usuali tecniche elettrofisiologiche e di

    diagnostica per immagini.

    L'elettrocardiogramma a 12 derivazioni e il monitoraggio ECGrafico sono tecniche semplici,

    sempre disponibili e non invasive, che risultano spesso indicate dato che alterazioni cardiache

    possono conseguire ad assunzione di farmaci e altre sostanze non primariamente cardiotossiche

    (es. neuropsicofarmaci). Nella maggioranza dei casi si tratta di valutare e monitorare la presenza

    di aritmie e/o disturbi della conduzione e della ripolarizzazione: QRS e QT sono i principali

    parametri, ad esempio, da sottoporre a monitoraggio nelle intossicazioni dai principali

  • 10

    antidepressivi e neurolettici.

    La radiografia diretta dell'addome trova indicazione nella rilevazione di sostanze e compresse

    radiopachi quali solventi clorurati e medicamenti a base di ferro.

    L'esofagogastroduodenoscopia trova specifiche indicazioni, oltre che nella valutazione diagnostica

    delle ingestioni di caustici/corrosivi, anche per la valutazione dell'avvenuto svuotamento gastrico in

    caso di ingestione di veleni solidi a tossicità lesionale elevata, facilitando o completando

    eventualmente la decontaminazione (Francon et al, 1987).

    IL TRATTAMENTO D'URGENZA

    Le sostanze chimiche diventano veleni quando, attraverso un'idonea via di contatto, riescono a

    superare le barriere naturali dell'organismo e a raggiungere gli organi o tessuti bersaglio a una

    concentrazione o dose in grado di determinare effetti dannosi, la cui comparsa può essere

    immediata o tardiva. In quest'ultimo caso il primo intervento medico può essere effettuato sulla

    base della sola anamnesi e prima della comparsa di qualunque sintomo o segno.

    Fatte salve le manovre aspecifiche e generali di supporto delle funzioni vitali, il trattamento

    d'urgenza del paziente intossicato si può avvalere, quando indicati, di due interventi specifici: (a) la

    decontaminazione per evitare l'assorbimento del veleno e (b) il trattamento antidotico specifico. A

    questi può essere associato, in un secondo momento, un trattamento di depurazione finalizzato a

    promuovere l'eliminazione del veleno già assorbito. In alcuni casi è possibile utilizzare tecniche

    atte a rimuovere il veleno prima che venga assorbito e somministrare prontamente alcuni antidoti

    che consentono di diminuire drasticamente il carico tossico intervenendo sull'assorbimento, e

    trasformare una potenziale intossicazione in un evento privo di conseguenze clinicamente

    significative.

    Decontaminazione gastrointestinale Ognuna delle tecniche di decontaminazione gastrointestinale ha precise indicazioni e

    controindicazioni che non possono essere generalizzate, ma che devono essere considerate di

    volta in volta in relazione ai dati anamnestici, alle condizioni cliniche e alle caratteristiche

    tossicocinetiche e di pericolosità delle sostanze assunte.

    L'intervento di decontaminazione dal tossico ha una delle sue massime possibilità e indicazioni

    nelle intossicazioni per ingestione attraverso alcune manovre che, se effettuate nel minor tempo

    possibile, possono limitare o prevenire l'assorbimento di sostanze ancora presenti nel tratto

    gastrointestinale. A tale scopo possono essere utilizzate diverse tecniche, quali l'induzione del

    vomito e la lavanda gastrica per l'evacuazione del tratto gastroenterico superiore, la catarsi e il

    lavaggio intestinale per l'evacuazione di quello inferiore. La somministrazione di adsorbenti (es.

    carbone vegetale attivato) trova impiego da sola o in associazione a tali manovre. Le indicazioni

    all'uso dell'una o dell'altra tecnica variano in base a numerosi fattori, quali la natura della sostanza

  • 11

    assunta, l'intervallo di tempo intercorso dall'assunzione, le condizioni cliniche dell'intossicato.

    Indicazioni ed efficacia di tali manovre sono diventate, soprattutto negli anni ‘90, oggetto di

    dibattito. Alcuni studi su pazienti con intossicazioni da farmaci, su volontari sani e su animali di

    laboratorio, hanno indagato l'efficacia dei trattamenti di decontaminazione del tratto

    gastrointestinale (induzione del vomito con ipecacuana e lavanda gastrica con o senza

    somministrazione di carbone attivato), in genere per comparazione con la sola somministrazione di

    carbone attivato. Una puntualizzazione su tali aspetti è molto importante anche per le possibili

    implicazioni medico-legali. Infatti, alla carente dimostrazione di efficacia e ai possibili effetti

    collaterali delle procedure impiegate per lo svuotamento gastrico, si contrappone l’evidenza che il

    mancato impiego di tali tecniche può essere causa di intossicazioni gravi o letali (Kumar et al,

    2009).

    Il concetto che lo svuotamento gastrico sia perentorio in tutti i casi di sovradosaggio di farmaci per

    ingestione è stato giustamente criticato negli ultimi 15 anni. Un approccio più razionale, basato

    sulla conoscenza di alcuni fondamentali parametri tossicologici e tossicocinetici (es. dose tossica,

    velocità di assorbimento, effetti), unitamente a una precisa e corretta valutazione dell'attendibilità

    dell'anamnesi e della concordanza di sintomi e segni presentati dal paziente, consente un impiego

    più mirato della lavanda gastrica e dell'induzione del vomito, così come della somministrazione di

    carbone attivato.

    In effetti, i reali benefici terapeutici dell'applicazione dei metodi di decontaminazione del tratto

    gastroenterico sono ancora in buona misura mal definiti. Gli studi su volontari vengono effettuati in

    condizioni troppo distanti dalla realtà dell'intossicazione acuta: vengono utilizzate, ad esempio,

    dosi assorbite/assorbibili non tossiche, la cinetica del farmaco e i tempi fra l'ingestione e il

    trattamento sono differenti dalle reali condizioni di intossicazione, e non sono studiabili situazioni

    comuni quali l'ingestione di sostanze o miscele molto tossiche. Solo gli studi clinici su pazienti

    intossicati possono chiarire quale sia (i) la quantità di tossico che è possibile sottrarre

    all'organismo, specie per le sostanze non medicinali, (ii) il vantaggio di una tecnica nei confronti di

    un'altra in termini di sicurezza, tempo impiegato e costi, (iii) il reale beneficio clinico per il paziente,

    e (iv) l'intervallo temporale per un'azione efficace in varie condizioni cliniche. Nessuno studio

    clinico ad elevato valore statistico, tuttavia, è riuscito fino ad ora a indagare in modo preciso questi

    fattori.

    Di fatto, nessuna manovra di decontaminazione dovrebbe essere utilizzata senza che esistano

    validi presupposti clinici e tossicologici per la sua applicazione. Per contro, l'evidenza statistica

    della loro efficacia non deve essere il solo parametro che ne giustifichi l'impiego, tenuto anche

    conto della scarsa morbilità di tali trattamenti rispetto agli effetti dei tossici per i quali essi vengono

    impiegati.

    Allo stato attuale delle conoscenze è opportuno ritenere che i mezzi e i farmaci necessari per

    effettuare la lavanda gastrica, l’induzione del vomito e la somministrazione di carbone attivato,

    debbano essere disponibili in ogni pronto soccorso. In tutti i casi di ingestione di farmaci o

    sostanze non medicamentose potenzialmente grave o letale, le metodiche atte a impedire

  • 12

    l'assorbimento del veleno devono essere utilizzate il più precocemente possibile per cercare di

    ottenere l'effetto massimale. L’efficacia del trattamento probabilmente diminuisce se sono

    trascorse più di 1-4 ore dall'ingestione, ma non di meno è giustificata un'astensione dai trattamenti

    di decontaminazione anche diverse ore dopo l'ingestione, specie nel caso di intossicazioni da

    farmaci molto pericolosi, da sostanze non medicamentose, da veleni lesionali, e/o quando non

    sono disponibili trattamenti antidotici efficaci. Esiste infatti evidenza che il mancato impiego di tali

    tecniche può essere causa di intossicazioni gravi o letali (Danel e Baud, 1995).

    1. Induzione del vomito L'induzione del vomito ha alcune precise indicazioni e controindicazioni; in alcuni casi può essere

    più indicata della lavanda gastrica (es. stomaco pieno per pasto recente; ingestione di tossici solidi

    insolubili in acqua), anche se nella pratica il suo impiego è certamente meno frequente e quasi

    sempre limitato ai pazienti pediatrici (AACT-EAPCCT, 2004a).

    Può essere ottenuta meccanicamente mediante stimolazione della base della lingua, oppure

    farmacologicamente per somministrazione di sciroppo di ipecacuana che, attraverso l'azione di

    due principali alcaloidi (emetina e cefalina) agisce a livello periferico (azione irritante locale) e

    centrale (attivazione del centro del vomito). Il farmaco produce emesi nel 80-100% dei pazienti

    entro 5-10 minuti dalla somministrazione; l'effetto può non comparire se sono stati assunti farmaci

    ad azione antiemetica che ne bloccano l'effetto centrale.

    L'induzione del vomito con ipecacuana è efficace nell'allontanare il tossico se effettuata entro un

    tempo relativamente breve dall'ingestione (circa 1 ora): in questo caso la procedura consente di

    eliminare mediamente il 30-40% del contenuto gastrico (e quindi del tossico presente). Quantità

    superiori possono essere eliminate per somministrazioni più precoci dell'emetico: studi su animali

    e sull'uomo hanno evidenziato un'eliminazione massima del tossico pari a circa il 60% se l'emesi

    viene indotta immediatamente dopo l'ingestione. L'induzione del vomito è raramente efficace dopo

    3-4 ore dall'ingestione, tranne nel caso di sostanze che rallentano lo svuotamento gastrico o che

    formano agglomerati di compresse nello stomaco (es. aspirina).

    La procedura è controindicata in caso di ingestione di sostanze convulsivanti o depressori del

    sistema nervoso centrale, caustici/corrosivi, derivati del petrolio o solventi, schiumogeni, corpi

    estranei, materiali taglienti; è altresì controindicata nei pazienti che possono avere grave danno dal

    vomito ripetuto (es. recente intervento all’apparato gastrointestinale, età avanzata, gravidanza al

    3° trimestre, grave ipertensione, grave enfisema polmonare, cirrosi epatica e diatesi emorragica,

    età inferiore a 6 mesi) (Prevaldi e Petrolini, 2007).

    La posologia dello sciroppo di ipecacuana al 7,5%, che dovrebbe essere sempre disponibile in tutti

    i servizi di pronto soccorso, varia secondo l'età e viene fatta seguire da assunzione di 100 ml

    d'acqua nell'adulto e 30 ml nel bambino.

    I principali effetti collaterali sono il vomito protratto per più di 3 ore (1-5% dei casi), diarrea (16-

    26%), dolori addominali, irritabilità, e sonnolenza. La persistenza di vomito può ritardare la

    somministrazione di altri antidoti (es. carbone vegetale attivato). Negli anni ’80 sono stati descritti

  • 13

    singoli casi di ernia diaframmatica, gastriti emorragiche, sindrome di Mallory-Weiss, emorragia

    cerebrale, retropneumoperitoneo e pneumomediastino.

    Alcuni studi degli anni ’80 su gruppi di pazienti non hanno mostrato alcun "vantaggio clinico"

    derivante dall'uso di sciroppo di ipecacuana (da solo o seguito da carbone attivato) rispetto alla

    somministrazione del solo carbone attivato. Similmente, due studi su volontari sani hanno mostrato

    una maggiore efficacia nella prevenzione dell'assorbimento da parte del carbone attivato da solo

    rispetto alla somministrazione di ipecacuana o di ipecacuana seguito da carbone attivato. In base

    a tali dati, alcuni Autori consigliano la somministrazione di carbone attivato (con o senza catartico),

    senza induzione del vomito, nella maggior parte delle intossicazioni da farmaci; l'ipecacuana

    avrebbe ancora un ruolo solamente nei bambini che arrivano all'osservazione in pronto soccorso

    rapidamente dopo l'ingestione.

    2. Lavanda gastrica La maggior parte delle sostanze ingerite può essere rimossa con la lavanda gastrica. La tecnica è

    più invasiva dell'induzione del vomito con ipecacuana, ma presenta scarsi e solo lievi effetti

    collaterali se effettuata con attenzione e in modo corretto (Amigo et al, 2004). Farmaci a rilascio

    prolungato o gastroresistenti (quando ancora interi), frammenti di bacche vegetali o di canfora e

    naftalina sono scarsamente rimovibili.

    L'intervallo di tempo trascorso dall'ingestione entro il quale può essere indicato effettuare una

    lavanda gastrica efficace non è definibile a priori: esso dipende, ad esempio, dalle caratteristiche

    chimico-fisiche della sostanza (o della miscela di sostanze) ingerita, dalla forma farmaceutica,

    dallo stato di ripienezza dello stomaco, dalle caratteristiche individuali del paziente. Tale intervallo

    utile è probabilmente inferiore a 1 ora per sostanze allo stato liquido, assunte a stomaco vuoto e

    rapidamente assorbibili (AACT-EAPCCT, 2004b), ma può essere di molto maggiore (anche più di

    24 ore) in caso di assunzione di alcuni veleni (es. tallio, antidepressivi triciclici, salicilici, funghi,

    farmaci a rilascio prolungato) e in alcune situazioni cliniche (es. coma, shock) che determinano

    diminuzione della normale peristalsi. In tabella 2 vengono elencate alcune condizioni che

    aumentano l’appropriatezza della lavanda gastrica: si tratta di principi generali che devono essere

    considerati in relazione al singolo caso.

  • 14

    ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

    Tabella 2. Fattori che aumentano l’appropriatezza della lavanda gastrica ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

    • ingestione recente (1-3 ore) • sostanze a tossicità non nota • veleni con effetti lesionali su organi, sistemi, apparati (es aspirina, paracetamolo, Amanita

    phalloides, colchicina, pesticidi, fenoli) • ingestione di dosi tossiche di agenti con elevato livello di pericolosità (es. antidepressivi,

    calcio-antagonisti, beta-bloccanti, digitale, teofillina, antineoplastici, neurolettici, clorochina) • sostanze che aderiscono alla parete gastrica o che formano agglomerati poco solubili • sostanze non adsorbibili al carbone vegetale attivato (es. alcoli, glicoli, ferro, litio, metalli,

    cianuri) • ingestione di una quantità di sostanza che supera la capacità adsorbente del carbone

    attivato (es. quantitativi di farmaci che superano la dose di 100 mg/kg – includendo principio attivo e coformulanti - specie se le formulazioni sono a rilascio prolungato)

    • assenza o incompleta efficacia della terapia antidotica (es. colchicina, paraquat, Amanita phalloides, glifosate)

    ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

    La quantità totale di acqua (o soluzione salina) tiepida necessaria per effettuare una lavanda

    gastrica varia da un minimo di 2 litri a circa 20 litri per alcune intossicazioni. Attraverso una sonda

    di grosso calibro vengono somministrati volumi di 200 ml alla volta nell'adulto, ai quali talvolta

    possono essere aggiunti antidoti specifici per il tipo di veleno ingerito; il liquido di volta in volta

    instillato viene rimosso per suzione, e il lavaggio deve essere continuato fino a comparsa di liquido

    chiaro, inodore, senza frammenti delle sostanze ingerite (Prevaldi e Petrolini, 2007).

    Procedura per l’esecuzione della lavanda gastrica

    1. Prima della lavanda

    • rapida raccolta anamnestica al fine di valutare indicazioni, controindicazioni e fattori di

    rischio per complicanze (es. varici esofagee)

    • posizionamento di un accesso venoso, monitoraggio ECG, pulsossimetria (quando indicati)

    • protezione delle vie aeree, quando indicato (es. paziente incosciente)

    • se il paziente è molto agitato o ansioso si può somministrare una benzodiazepina a basse

    dosi

    2. Esecuzione

    Posizione del paziente. Il paziente cosciente e collaborante deve essere posto in decubito laterale

    sinistro, possibilmente su un lettino inclinato con il capo declive rispetto al corpo. Tale postura

    riduce il rischio di aspirazione (anche in caso di vomito), consente di aspirare più facilmente il

    contenuto gastrico che si viene a raccogliere lungo la grande curvatura dello stomaco e riduce il

    passaggio del liquido attraverso il piloro. Se tale postura non è possibile, la lavanda gastrica

    dovrebbe essere eseguita, se non vi sono controindicazioni, in posizione supina piuttosto che con

    il paziente semiseduto.

    Sonde. Le sonde da lavanda gastrica sono in materiale trasparente e possiedono alcuni orifizi

    laterali di grandi dimensioni nella parte terminale, i quali dovrebbero essere di larghezza uguale o

  • 15

    superiore al diametro del lume della sonda. Deve essere utilizzata la sonda con il calibro più

    grosso possibile: sonde con diametro superiore a 1 cm. consentono di recuperare più facilmente il

    materiale solido e hanno minor possibilità di inginocchiarsi. Nell’adulto sono indicate sonde con

    calibro da 30 a 50 French (da 10 a 16 mm) con lunghezza di circa 120 cm.

    Qualora il contenuto gastrico da rimuovere sia liquido e non vi sia presenza di cibo, è possibile

    utilizzare sonde o sondini di calibro inferiore (0,5 cm).

    Posizionamento della sonda - Le sonde di diametro maggiore di 36 French dovrebbero essere

    introdotte sempre per via orogastrica per evitare lesioni alla mucosa e ai turbinati. Questa via è

    generalmente meglio tollerata e può essere facilitata dall’utilizzo di un bloccamorso. I sondini

    possono essere introdotti per via naso-gastrica.

    Aspirazione - Una volta verificata la corretta posizione dell’estremità della sonda nello stomaco

    (gorgoglio di una bolla d'aria), si aspira il contenuto gastrico. L’aspirazione deve precedere

    l’immissione di liquido e deve proseguire fino a quando fuoriesce materiale, ritraendo e spingendo

    ogni tanto di qualche centimetro la sonda. In alcuni casi è indicata la sola aspirazione del

    contenuto gastrico (caustici/corrosivi) senza esecuzione di lavanda gastrica. Se indicato, si

    dovrebbe conservare un campione del contenuto gastrico aspirato per eventuali analisi

    successive.

    Lavaggio - Una volta completata l’aspirazione del contenuto gastrico, si inizia il lavaggio dello

    stomaco. Devono essere introdotti e rimossi volumi fissi di liquido di circa 200 ml nell’adulto, di

    circa 100 ml nei bambini di età compresa tra 5 e 12 anni e di 20-50 ml in quelli più piccoli. Una

    quantità maggiore di liquido stimolerebbe il passaggio del contenuto gastrico attraverso il piloro,

    mentre una quantità minore sarebbe meno efficace.

    Esistono in commercio diversi kit per l’effettuazione della lavanda gastrica. Possono essere

    utilizzate normali sonde e schizzettoni, oppure un raccordo a Y clampando alternativamente il

    ramo afferente e quello efferente; alcune procedure prevedono che la sonda venga spostata

    alternativamente da una posizione superiore (in) a una inferiore (out) al livello dello stomaco del

    paziente. I volumi di liquido immessi e drenati dovrebbero defluire liberamente per gravità: se ciò

    non avviene, la sonda è malposizionata, piegata, o ostruita da materiale solido. Il recupero del

    liquido immesso può essere facilitato esercitando un lieve massaggio sullo stomaco, oppure

    aspirando attivamente con uno schizzettone se residui solidi ostruiscono parzialmente il lume della

    sonda.

    Tipo di liquido - Nell’adulto la lavanda gastrica può essere eseguita con acqua potabile a

    temperatura ambiente. Nel bambino è indicato usare soluzione fisiologica (per i possibili rischi di

    iposodiemia) che dovrebbe essere riscaldata a circa 35-40°C.

    Quantificazione del lavaggio - La lavanda deve essere proseguita fino a quando fuoriesce liquido

    chiaro e limpido, privo di residui solidi. Non esiste una quantità definita di liquido che deve essere

    utilizzata: in presenza di alimenti nello stomaco e comunque in caso di ingestione di sostanze

    solide e/o molto pericolose si dovrebbero utilizzare non meno di 10-20 litri nell’adulto. Al termine

    della lavanda gastrica la quantità di liquidi introdotti è, il più delle volte, superiore a quella rimossa.

  • 16

    Per questo motivo è necessario verificare il bilancio tra liquidi introdotti e rimossi al fine di calibrare

    le successive terapie.

    Addizione di antidoti (eventuale) - In rari e selezionati casi, è possibile aggiungere al liquido di

    lavanda eventuali antidoti di volta in volta indicati. Questi possono essere somministrati, secondo

    specifiche indicazioni, prima, nelle fasi iniziali, nelle fasi finali, o durante tutta la lavanda gastrica. Il

    carbone vegetale attivato deve essere somministrato sempre alla fine della lavanda gastrica per

    poter controllare l’aspetto del liquido rimosso.

    Rimozione della sonda - Al termine della lavanda, la sonda deve essere rimossa dopo essere stata

    chiusa o pinzata per evitare aspirazione di liquido. Se vi è indicazione diagnostico-terapeutica a

    mantenere un sondaggio gastrico, è consigliabile sostituire la sonda (se è stata utilizzata una

    sonda di grosso calibro) con un sondino più adeguato, per via naso-gastrica. Se compare vomito

    durante la gastrolusi occorre rimuovere la sonda per consentire al paziente di proteggere le vie

    aeree con i normali meccanismi.

    Efficacia della lavanda gastrica

    L'efficacia clinica della lavanda gastrica, similmente a quanto descritto per l'induzione del vomito

    con ipecacuana, risulta ancora scientificamente poco valutabile. Essa è comunque indicata per

    rimuovere sostanze liquide o farmaci (specie se solidi) in caso di sovradosaggio massivo,

    soprattutto in pazienti con alterazioni dello stato di coscienza, nonché in caso di ingestione di

    sostanze non adsorbibili dal carbone e di ingestione di veleni lesionali.

    Negli ultimi 15 anni alcuni Autori hanno tentato di valutare l'efficacia della lavanda gastrica e di altri

    metodi di decontaminazione gastrointestinale da tossici. Al riguardo, esistono pochi studi clinici,

    alcuni studi sperimentali su animali di laboratorio e studi su volontari sani.

    L'impiego della lavanda gastrica non ha mostrato alcun "vantaggio clinico" in studi non

    randomizzati su pazienti intossicati rispetto alla sola somministrazione di carbone attivato; essa

    risulta inoltre in grado di rimuovere solo una piccola frazione del farmaco ingerito in pazienti

    intossicati da antidepressivi triciclici. A sostegno di una scarsa efficacia concorrono anche la

    dimostrazione della presenza a livello gastrico di materiale solido residuo in un'elevata percentuale

    di pazienti (88%) e della progressione intestinale del contenuto gastrico dopo lavanda gastrica;

    tale ultimo effetto può tuttavia essere evitato o minimizzato attraverso l'impiego di una tecnica

    corretta. Anche alcuni studi su volontari sani hanno concluso con una valutazione di scarsa

    efficacia della lavanda gastrica nella prevenzione dell'assorbimento.

    Risultati contrari sono descritti da altri studi nei quali, in una percentuale dei pazienti, la lavanda

    gastrica si è dimostrata efficace nel rimuovere significative quantità di farmaci quali paracetamolo,

    salicilati, antidepressivi triciclici, barbiturici e vari altri farmaci.

    L'efficacia della lavanda gastrica, da sola o con somministrazione di carbone attivato, diminuisce

    con l'aumentare del tempo trascorso dall'ingestione, quando cioè sono già avvenuti in misura

    copiosa la progressione post-pilorica e/o l’assorbimento del veleno. Per farmaci a rapido

    assorbimento la lavanda gastrica, associata a somministrazione di carbone vegetale attivato,

  • 17

    risulta più efficace del carbone da solo entro un'ora dall'ingestione con una diminuzione

    progressiva dell’efficacia dopo 2 e 4 ore. Per contro la lavanda gastrica si e dimostrata efficace nel

    determinare una significativa asportazione di molti veleni (es. ecstasy, aspirina, venlafaxina,

    funghi) a distanza di 4-12 e più ore dall'ingestione, come nel caso di farmaci ad assorbimento

    rallentato per caratteristica della stessa molecola o per formulazione: ciò è risultato determinante

    per salvare la vita del paziente.

    Non è nota la percentuale dei casi di intossicazione acuta nei quali viene oggi praticata la lavanda

    gastrica. Negli ultimi anni, ma specialmente dopo una Conferenza di Consenso tenutasi nel 1992

    in Francia si è assistito a una netta diminuzione della pratica della lavanda gastrica passando da

    più del 70% dei casi nel 1987 a meno del 40% nel 1995. Studi francesi indicano che essa viene

    effettuata nel 38% dei casi di intossicazione da farmaci negli adulti, mentre la somministrazione di

    carbone attivato viene prescritta solo nel 18,5% dei casi. La riduzione della somministrazione di

    adsorbenti, e in particolare di carbone attivato, a meno del 20% dei casi (rispetto a più del 40% agli

    inizi degli anni 1990) non ha fatto registrare un aumento del tasso di ospedalizzazione in reparti di

    rianimazione, né la durata media dei ricoveri.

    Controindicazione assoluta alla lavanda gastrica è la perforazione (in atto o potenziale) del tratto

    gastroenterico, come si può verificare nelle ingestioni massive di sostanze caustiche/corrosive;

    specifici trattamenti e/o manovre consentono di effettuare la lavanda gastrica in situazioni cliniche

    specifiche (es. insufficienza cerebrale, convulsioni, paziente scoagulato, diatesi emorragica) o in

    caso di ingestione di particolari veleni (es. solventi, tensioattivi) nei quali occorre particolare

    attenzione e l’utilizzo di procedure ad hoc.

    Le complicanze potenziali della lavanda gastrica (danno meccanico, perforazione esofagea,

    emorragia gastrica, lievi alterazioni dell'ossigenazione e della frequenza cardiaca, polmoniti da

    aspirazione, intossicazione da acqua) sono, nella pratica clinica, estremamente rare e non

    costituiscono un fattore limitante all'impiego della procedura.

    3. Carbone vegetale attivato (CVA) È ottenuto da carbone di legno trattato ad alta temperatura e con acidi forti: questa procedura

    modifica le proprietà fisiche del carbone con la formazione di miriadi di micropori che gli

    conferiscono una superficie disponibile per l’adsorbimento di circa 1000-2000 metri quadrati per

    grammo di sostanza. Il risultato è una polvere nera leggera inodore e insapore, con forte potere

    adsorbente attraverso i pori. Viene somministrato per via orale e non viene assorbito

    dall’organismo, ma rimane nel lume gastro-enterico dove svolge la sua azione.

    È un adsorbente aspecifico di molte sostanze, ma non tutte, la cui precoce somministrazione può

    prevenire l’assorbimento dei veleni presenti nello stomaco e nell’intestino (AACT-EAPCCT,

    2004c). Lega rapidamente le molecole non ionizzate, facilmente disponibili per l’adsorbimento (es.

    farmaci “sciolti”) con un rapporto antidoto/tossico di 10/1. Poiché l’azione del CVA è aspecifica,

    occorre considerare il carico ponderale totale delle sostanze assunte (principio attivo + eccipienti +

    coformulanti). Antidoto sicuro e privo di effetti collaterali, ha nell’ingestione di caustici la sola

  • 18

    controindicazione.

    Ha tre principali limiti:

    • non adsorbe i veleni in forma solida, non sciolti (es. compresse di farmaci, bacche)

    • non adsorbe molte sostanze in base alle loro caratteristiche fisico-chimiche (es. molecole

    ionizzate, acidi e basi forti, alcooli, glicoli, ferro, litio e metalli in genere)

    • ma specialmente ha un grande limite “ponderale” poiché la dose massima somministrabile

    (1 g/kg) è in grado di adsorbire solo 100 mg/kg della miscela di principi attivi, coformulanti e

    co-ingesti presente nel tratto gastroenterico.

    L'indicazione del CVA è impedire l’assorbimento dal tratto gastroenterico. Esso può anche

    promuovere l’eliminazione intestinale di sostanze il cui assorbimento sia già avvenuto e che siano

    caratterizzate da ricircolo entero-epatico o entero-enterico: questo processo viene definito “dialisi

    gastrointestinale”.

    Controindicazioni all'uso del CVA sono

    • compromissione dei riflessi di protezione delle vie aeree (a meno che il paziente non sia

    intubato)

    • ingestione di sostanze caustiche/corrosive: in questo caso il CVA oltre a non produrre

    alcun beneficio può indurre vomito, rendere difficile la visualizzazione endoscopica della

    mucosa, e peggiorare la situazione in caso di perforazione per dispersione nel mediastino,

    in peritoneo, o nello spazio pleurico (vi sono eccezioni correlate alla potenza del veleno)

    • occlusione intestinale

    • perforazione intestinale.

    Per le sostanze che vengono scarsamente adsorbite dal CVA (es. alcoli, glicoli, metalli, litio), la

    somministrazione del CVA non è controindicata, ma inutile.

    Il CVA viene somministrato per os o per sonda/sondino in sospensione acquosa (rapporto minimo

    CVA/acqua = 1:4); è meglio evitare l’utilizzo di bevande differenti perché possono ridurne

    l’efficacia. Esso può essere somministrato in singola dose o in dosi multiple.

    CVA in singola dose

    È indicato in tutti i casi di ingestione di sostanza tossica adsorbibile al CVA quando si stima che

    una quantità significativa di sostanza sia ancora presente nel tratto gastrointestinale. La dose

    standard empirica è di 0,5-1 grammo/Kg peso. Il CVA può essere somministrato insieme al

    purgante salino in quanto non lo adsorbe.

    Le rare complicanze della somministrazione di CVA sono costipazione e vomito. Errori nella

    procedura di somministrazione di CVA possono causare aspirazione nelle vie aeree con

    conseguente polmonite, bronchiolite o ostruzione nelle vie respiratorie. Fattori di rischio per

    l'aspirazione sono la somministrazione di quantitativi elevati in breve tempo, la somministrazione a

    paziente che diviene obnubilato e quella di dosi multiple in paziente occluso.

  • 19

    CVA in dosi multiple e dialisi gastrointestinale

    La somministrazione di dosi multiple di CVA (dosi di 0,3-0,5 g/kg ogni 4-6-8 ore per un periodo di

    12-24 ore) consente di prolungare l’effetto adsorbente nel tempo, nonché di adsorbire sostanze

    presenti nelle porzioni più distali del tratto gastrointestinale, farmaci a rilascio prolungato e

    formulazioni gastroprotette.

    La dialisi gastrointestinale (2,5-5 g/ora per un periodo di 24-96 ore secondo la cinetica del tossico)

    promuove l’eliminazione di sostanze interrompendo il ricircolo entero-epatico ed entero-enterico: il

    CVA lega ed evita il riassorbimento della sostanza escreta nel lume intestinale attraverso la bile o i

    villi. Questa tecnica ha dimostrato di aumentare la clearance complessiva corporea di numerosi

    farmaci e tossine fra cui carbamazepina, dapsone, digossina, tallio, fenobarbitale, chinidina,

    teofillina, amanitina.

    4. Catarsi e lavaggio intestinale Lo scopo è diminuire il tempo di transito intestinale del veleno, rimuovendolo dai siti di

    assorbimento. I catartici accelerano l’eliminazione del complesso carbone-tossico per via rettale.

    Vengono utilizzati catartici osmotici che agiscono aumentando la ritenzione di liquido nell’intestino:

    il più utilizzato è il solfato di magnesio (15-30 g nell'adulto, 250 mg/kg nel bambino), anche se in

    alcuni casi possono essere utilizzati altri catartici salini (solfato di sodio, citrato di magnesio) o

    saccaridici (sorbitolo, mannitolo). Per la catarsi può essere utilizzato anche il polietilenglicole-4000

    (PEG-4000) a dosi inferiori a quelle che si utilizzano per il lavaggio intestinale.

    La catarsi viene impiegata nelle ingestioni di sostanze allo stato solido e che hanno assorbimento

    particolarmente lento o che rallentano la peristalsi: può essere utilizzata in associazione al CVA.

    Non vi è indicazione all’uso di catartici in caso di ingestione di tossici in forma liquida e/o

    rapidamente assorbibili. Il rischio di squilibrio emodinamico è più elevato nelle età estreme, dove la

    somministrazione di catartico deve essere effettuata solo in caso di effettiva necessità.

    Le controindicazioni sono l'ingestione di caustici e corrosivi, di sostanze con forte effetto irritante

    sulla mucosa enterica, e l'occlusione o la perforazione intestinale.

    Il lavaggio intestinale si ottiene somministrando (come nella preparazione intestinale a esami o

    interventi) una miscela osmoticamente bilanciata di PEG-4000 in soluzione elettrolitica (1500-2000

    mL/ora nell'adulto di età maggiore di 12 anni), fino a ottenere un lavaggio rapido e completo

    dell'intestino con espulsione dei tossici presenti nel lume: sono raramente necessari trattamenti

    per più di 6 ore. L'effetto è più rapido ed efficace rispetto alla catarsi salina, ma la procedura

    richiede un impegno maggiore ed è meno tollerata dal paziente. La soluzione impiegata è

    isosmotica, e pertanto non provoca spostamento di liquidi o sbilanci elettrolitici: i dati ad oggi

    disponibili suggeriscono che gli ingenti volumi necessari per rimuovere meccanicamente pillole,

    ovuli di droga o altre sostanze attraverso il tratto intestinale, non provochino effetti avversi

    nemmeno in caso di gravidanza o nei bambini. Il paziente cooperante può bere la soluzione,

    anche se il notevole volume e il sapore possono limitarne la compliance: è consigliabile

  • 20

    somministrare il preparato attraverso un sondino naso-gastrico pre-riscaldando la soluzione a 37°

    per evitare ipotermia.

    Può essere indicato per decontaminare da veleni lesionali, potenti, e da sostanze non adsorbibili al

    CVA (es. ferro, litio, metalli in genere), sostanze non rimovibili con la gastrolusi perché di

    dimensioni superiori al lume della sonda (es. vegetali in foglia o bacca, farmaci che tendono a

    formare farmacobezoari come aspirina, carbamazepina, antidepressivi, ovuli di droga), farmaci in

    formulazioni a rilascio prolungato (AACT-EAPCCT, 2004d).

    Le controindicazioni sono le stesse della catarsi salina: è consigliabile cautela in caso di instabilità

    emodinamica, età estreme e recente intervento chirurgico sul tratto gastroenterico. Se il paziente

    presenta alterazioni del sistema nervoso centrale in atto o potenziali, le vie aeree dovrebbero

    essere protette prima di iniziare la procedura.

    Nausea, vomito e crampi addominali sono le principali complicanze del trattamento, durante il

    quale è utile la somministrazione di antiemetici.

    IL TRATTAMENTO NELLA FASE POST-ACUTA

    La corretta gestione del paziente intossicato in fase post-acuta prevede la prosecuzione dei

    trattamenti (specifici e/o sintomatici) e del monitoraggio delle funzioni alterate dal tossico, nonché

    l’impiego di accertamenti diagnostici definitivi.

    Il quadro clinico in questa fase può evolvere verso la completa restitutio ad integrum oppure con

    complicanze e aggravamenti a volte improvvisi. La temporanea assenza di segni o sintomi dopo la

    fase acuta non è necessariamente predittiva di una buona prognosi, dato che diverse

    intossicazioni sono caratterizzate da un periodo di latenza piuttosto lungo oppure da periodi di

    remissione dei sintomi di presentazione prima di un aggravamento (es. intossicazione da funghi

    epatotossici).

    In questa fase è possibile utilizzare al meglio strumenti diagnostici e analitici che non sempre sono

    facilmente disponibili nelle prime fasi della gestione del paziente (es. dati analitici di tipo

    quantitativo). Particolari indagini sono inoltre indicate solo a una certa distanza di tempo

    dall'esposizione (es. SPECT cerebrale e scintigrafia miocardica nell’intossicazione da monossido

    di carbonio).

    In caso di indisponibilità di dati analitici specifici, il paziente intossicato deve essere considerato ad

    alto rischio e necessita di un attento monitoraggio.

    La scelta del livello di assistenza e monitoraggio clinico (intensivo, sub-intensivo, medico) di cui

    necessitano i pazienti in questa fase non può essere effettuata solo sulla base delle condizioni

    cliniche presenti al momento del primo soccorso, ma deve prendere in considerazione nel modo

    più accurato la possibile evoluzione a medio e lungo termine dell'intossicazione. La disponibilità di

    competenze tossicologiche può consentire in questa fase una più corretta valutazione del singolo

  • 21

    caso: si può ad esempio stabilire quale sia il momento più opportuno per un trasferimento reparto

    psichiatrico senza esporre a gravi rischi il paziente.

    SEQUELE E VALUTAZIONE SPECIALISTICA

    Sequele tardive sono possibili come conseguenza dell'esposizione acuta a numerose sostanze

    chimiche, specie per quelle che determinano danni lesionali a carico di organi o tessuti bersaglio

    (es. monossido di carbonio, morsi di vipera, intossicazioni da funghi e metalli). All'assistenza

    massimale che viene prestata nella fase acuta dell'intossicazione, tuttavia, fa raramente seguito

    l’adeguato follow-up necessario per una corretta valutazione delle possibili sequele dell'evento:

    proprio a causa di questa rilevazione sporadica sono oggi ancora poco note le possibili sequele di

    molte intossicazioni.

    Il rilevamento delle sequele tardive, e conseguentemente il loro trattamento, è invece possibile

    attraverso un adeguato follow-up. Questo è in genere difficoltoso se i pazienti vengono dimessi dai

    reparti di cura e rinviati al curante senza specifiche indicazioni, mentre risulta facilmente

    effettuabile se il paziente viene indirizzato alla valutazione dello specialista presso il Centro

    Antiveleni. Presso alcuni di questi servizi possono infatti essere presi in carico pazienti in regime di

    ricovero, di day-hospital o ambulatoriale al fine di concludere il percorso diagnostico-terapeutico

    secondo processi ed esami (anche analitici) non facilmente disponibili in altre realtà del SSN.

    Il riconoscimento e la corretta valutazione delle possibili sequele tardive consente anche di

    valutare in modo più preciso l'efficacia e la sicurezza dei trattamenti impostati nella fase acuta.

    ANTIDOTI

    Gli antidoti sono sostanze che, con meccanismo specifico o aspecifico, consentono il

    miglioramento della prognosi quoad vitam o quoad functionem dell’intossicazione. Essi hanno

    quindi un ruolo determinante per la gestione del paziente intossicato anche quando vengono

    utilizzati nel contesto di un trattamento plurifarmacologico e unitamente alla terapia di supporto e

    alle manovre di decontaminazione. Alcuni antidoti vengono comunemente utilizzati nella pratica

    clinica e i loro effetti terapeutici e collaterali sono ampiamente conosciuti; altri sono di raro utilizzo,

    e la loro esistenza e disponibilità è spesso misconosciuta, nonostante in alcuni casi siano veri e

    propri farmaci salvavita.

    In relazione al meccanismo d’azione, l’antidoto è un farmaco in grado di modificare la cinetica e la

    dinamica dell’agente tossico attraverso modalità diverse (tabella 3)

  • 22

    Tabella 3. Modalità di azione degli antidoti

    1. Azione sulla cinetica del veleno Esempi di antidoti

    a prevenzione dell’assorbimento e riduzione della biodisponibilità del tossico

    ipecacuana, carbone vegetale attivato, catartici, calcio, terra di follatore

    b rallentamento/inibizione della formazione di metaboliti tossici

    alcool etilico, fomepizolo

    c accelerazione dell’eliminazione del tossico riducendone il riassorbimento

    bicarbonato di sodio, blu di prussia, ammonio cloruro

    d modificando la distribuzione del tossico nell’organismo

    agenti alcalinizzanti e acidificianti

    e legando il tossico rendendolo inattivo Idrossocobalamina, chelanti dei metalli, frammenti anticopali, antitossine, protamina

    f accelerando la formazione di metaboliti non tossici N-acetilcisteina, sodio tiosolfato, acido folico

    2. Azione sulla dinamica del veleno

    a spiazzamento del veleno dal recettore quando il legame con il bersaglio è reversibile

    naloxone, flumazenil

    b contrasto dell’effetto del tossico a livello recettoriale

    atropina, fisostigmina

    c riattivazione del bersaglio modificato dal tossico blu di metilene, pralidossima d ripristino della funzione attraverso il by-pass

    dell’effetto del veleno glucagone

    e apporto di componenti fisiologiche depletate dal tossico

    vitamina B6, calcio, N-acetilcisteina, vitamina K

    f modificando il legame del tossico con i bersagli bicarbonato di sodio g favorendo la formazione di composti meno lesivi o

    inerti simeticone, sodio tiosolfato, calcio, frammenti anticorpali

    L’indicazione all’uso di antidoti può essere basata, a seconda della sostanza implicata, del quadro

    clinico e del profilo di sicurezza dell’antidoto stesso, (i) sul solo dato anamnestico, (ii) sul dato

    anamnestico in associazione al quadro clinico, oppure (iii) può richiedere l’impiego di esami

    tossicologici che documentino la gravità dell’intossicazione.

    L’efficacia clinica di alcuni antidoti è immediata e risolutiva del quadro sintomatologico: ne sono

    esempi naloxone e flumazenil, i quali agiscono come antagonisti competitivi specifici sui recettori

    rispettivamente degli oppioidi e delle benzodiazepine. Per tale selettività d’azione, associata alla

    sicurezza d’impiego, questi due antidoti possono essere utilizzati anche in situazioni particolari

    quali la diagnosi differenziale ex adjuvantibus nell’insufficienza cerebrale da causa non nota. Per

    contro, esistono antidoti in grado di contrastare solo alcuni degli effetti tossici di un particolare

  • 23

    xenobiotico; quindi se la dose del veleno è elevata, è probabile che l’uso dell’antidoto non sia

    pienamente efficace, come può verificarsi nel caso dei chelanti, dei frammenti anticorpali (Fab) o

    della pralidossima.

    Esistono poi quadri di avvelenamento nei quali possono essere impiegati, contemporaneamente o

    in sequenza, più antidoti differenti la cui efficacia clinica e i tempi di risposta possono variare

    considerevolmente, come nel caso dell’impiego dell’idrossocobalamina e del sodio tiosolfato

    nell’intossicazione da cianuri.

    Numerosi antidoti sono di importanza fondamentale e rappresentano l’unico mezzo terapeutico in

    grado di modificare drasticamente il decorso clinico e la prognosi nelle intossicazioni di una certa

    gravità. Tra questi possono essere considerati “salvavita”, ad esempio, i Fab-antidigitale,

    l’ossigeno, l’idrossicobalamina, il glucagone e l’atropina.

    Dal punto di vista operativo gli antidoti sono stati classificati in base all’efficacia e all’urgenza

    d’impiego (Risoluzione CEE 90/C 329/03 e documenti dell’International Programme on Chemical

    Safety - IPCS). In base all’efficacia, gli antidoti sono stati classificati come

    1. antidoti di efficacia ben documentata (es. riduzione della mortalità negli esperimenti su animali

    e riduzione della mortalità o di gravi complicanze nell’uomo)

    2. antidoti largamente usati ma non universalmente accettati come efficaci a causa

    dell’insufficienza di dati (e che quindi necessitano di ulteriori indagini circa l’efficacia o le

    indicazioni)

    3. antidoti di dubbia utilità.

    Tale valutazione necessita tuttavia di essere integrata con considerazioni di carattere temporale, in

    quanto l’efficacia clinica di un antidoto dipende strettamente dal tempo entro il quale esso viene

    utilizzato. Ne è esempio l’impiego del naloxone: il farmaco mantiene la sua capacità di spiazzare

    l’oppioide dal recettore, ma se per effetto del tossico è insorto un danno anossico cerebrale, il suo

    impiego tardivo può consentire una ripresa dell’attività respiratoria senza che a questa corrisponda

    una restituito ad integrum della funzione cerebrale. Similmente, gli antidoti che inibiscono la

    formazione di metaboliti tossici sono clinicamente utili se impiegati prima che il tossico venga

    metabolizzato. Infatti, solo l’impiego precoce dell’etanolo o del fomepizolo nelle intossicazioni da

    glicole etilenico e metanolo è in grado di prevenire l’insorgenza del danno d’organo causato dai

    metaboliti di tali xenobiotici.

    Il corretto utilizzo della terapia antidotica nella gestione del paziente con intossicazione acuta

    richiede quindi di conoscere sia l’efficacia dell’antidoto che il momento corretto di impiego.

    Entrambi questi fattori condizionano e devono guidare le scelte per l’approvvigionamento e la

    disponibilità degli antidoti nei servizi d’urgenza del sistema sanitario nazionale (SSN). Per tale

    motivo gli antidoti sono classificati, in termini di urgenza d’impiego, come:

    A. antidoti che devono essere immediatamente disponibili (entro 30 minuti)

    B. antidoti disponibili entro 2 ore

    C. antidoti disponibili entro 6 ore

    La preparazione ad affrontare situazioni di emergenza è una responsabilità di tutte le strutture

  • 24

    deputate al trattamento dei pazienti in fase acuta, e la disponibilità di antidoti è parte di questa

    responsabilità. La mancanza di antidoti essenziali può avere effetti drammatici per il paziente

    intossicato, sia in termini di sopravvivenza che di sequele permanenti. Ne sono esempi

    l’insufficienza respiratoria dovuta all’intossicazione da esteri organofosforici, scarsamente

    responsiva alle terapie tradizionali non antidotiche, la cecità che può seguire un’intossicazione da

    metanolo o il danno cerebrale da cianuri.

    È però noto come la scarsa disponibilità e/o l’insufficiente quantità di antidoti siano un problema

    comune nei servizi d’urgenza, e non solo in Italia. Negli ultimi quindici anni, infatti, numerosi studi

    condotti in Europa, Stati Uniti, Canada e in altri Paesi hanno documentato che molti antidoti non

    sono disponibili negli ospedali dotati di dipartimenti d’emergenza. Anzi, le scorte di antidoti nelle

    strutture sanitarie risultano il più delle volte insufficienti anche per il trattamento di un singolo

    paziente, e gli antidoti di più raro utilizzo (es. per il trattamento delle intossicazioni da prodotti

    industriali) risultano poi spesso del tutto assenti. Sono state formulate diverse ipotesi per

    comprendere i meccanismi alla base del mancato approvvigionamento di antidoti, fra cui

    prevalgono scarsa conoscenza e scarsa familiarità con questi farmaci da parte di medici e

    farmacisti ospedalieri, e il costo talora elevato a fronte di un impiego raro.

    Un ulteriore aspetto da considerare è che non vi sono documenti di riferimento per la dotazione

    antidotica delle strutture ospedaliere. Dal 1997 le linee guida della Joint Commission on

    Accreditation of Healthcare Organizations (JCAHO), ad esempio, indicano che gli ospedali devono

    disporre di adeguate scorte di antidoti, ma non indicano le modalità per realizzarne lo stoccaggio.

    È compito dello staff medico dell’ospedale e del direttore della farmacia determinare quali siano gli

    antidoti di cui approvvigionarsi.

    Molti CAV e alcuni testi di riferimento forniscono indicazioni per lo stoccaggio e

    l’approvvigionamento di antidoti, ma non esistono linee guida applicabili alle singole realtà

    operative dei servizi d’urgenza operativi sul territorio. Un'indagine su scala nazionale relativa alla

    disponibilità di antidoti negli ospedali del SSN ha consentito di evidenziare rilevanti carenze nella

    disponibilità di antidoti nei servizi d'urgenza degli ospedali del nostro Paese (Locatelli et al, 2006).

    Gli antidoti più difficili da reperire risultano i frammenti anticorpali specifici, quelli di più recente

    introduzione e più costosi, e quelli per intossicazioni da composti industriali (es. cianuro).

    Quand’anche presenti, la “quantità” di antidoti disponibile nei PS risulta spesso inadeguata per il

    trattamento di un solo paziente per 24 ore. Sulla base dei risultati dello studio e al fine di rendere

    accessibile a tutte le strutture sanitarie del SSN l’informazione su tipologia e quantità di antidoti

    presenti sul territorio nazionale, regionale e provinciale (specie per quelli di impiego più raro e

    costo elevato), il Centro Antiveleni di Pavia - Centro Nazionale di Informazione Tossicologica ha

    realizzato e reso disponibile all’interno del proprio sto (www.cavpavia.it) un apposito database

    consultabile gratuitamente on-line, la Banca dati nazionale degli antidoti (BaNdA). Essa riporta gli

    antidoti disponibili (tipo e quantità) in ogni singola struttura sanitaria del territorio nazionale che

    intenda condividere tali dati e i riferimenti necessari per il rapido reperimento degli antidoti.

    La disponibilità di queste informazioni in rete può (a) contribuire a migliorare la corretta

  • 25

    acquisizione e stoccaggio di antidoti presso ogni servizio secondo criteri che tengano conto della

    disponibilità già presente sul territorio, delle caratteristiche operative delle singole strutture e delle

    peculiarità geografiche locali, (b) consentire un utilizzo più appropriato delle risorse senza cadere

    nell’errata e colpevole carenza di farmaci che, per quanto di raro impiego, sono salvavita, e (c)

    contribuire a migliorare l’appropriatezza delle cure fornite attraverso la corretta disponibilità di

    antidoti.

    LA CONSULENZA DEL CENTRO ANTIVELENI

    I Centri Antiveleni sono nati dall’esigenza, codificata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, di

    rendere disponibili, per chiunque ne abbia bisogno e con operatività 24/24 ore, servizi di

    consultazione medica telefonica che rispondano a richieste di informazione concernenti

    problematiche tossicologiche. Le modalità operative dei CAV, basate sullo scambio di informazioni

    per telefono senza la possibilità di intervenire direttamente sul soggetto intossicato, rappresentano

    un esempio unico in ambito sanitario e la prima forma pienamente operante di telemedicina. A

    partire dal 1953, anno in cui è ufficialmente sorto negli USA il primo CAV, numerosi centri sono

    stati creati pressoché in tutti i paesi sviluppati.

    Il contatto telefonico con il CAV è il metodo d’elezione per ottenere informazioni sulla tossicità delle

    sostanze e per ricevere indicazioni circa il trattamento dell’intossicazione. I CAV infatti sono

    riconosciuti dall’Unione Europea (Risoluzione CEE 1990) come servizi sanitari specialistici di

    pubblica utilità “... incaricati di fornire pareri e consigli specialistici in materia di diagnosi, prognosi,

    trattamento ed eventualmente prevenzione delle intossicazioni nell’uomo”.

    In Italia il 28 febbraio 2008 è stato sancito uno specifico “Accordo tra Governo e Regioni/Province

    autonome concernente la definizione di attività e i requisiti basilari di funzionamento dei Centri

    Antiveleni” (Rep. Atti n. 56/ESR). Esso definisce e fissa ruoli e funzioni (Tabella 4) di questi servizi

    fondamentali per la salute pubblica che “svolgono funzioni specifiche, non riconducibili ad altre

    strutture operative” ed essenziali per i Servizi Sanitari Nazionale e Regionali.

  • 26

    Tabella 4. Sintesi di funzioni e ruoli identificati per i CAV dall’Accordo Stato-Regioni 2008.

    1. consulenza tossicologica specialistica, in urgenza e non, agli operatori sanitari delle Aziende Ospedaliere, delle ASL, ai medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, per la gestione dei pazienti con problematiche tossicologiche

    2. consulenza tossicologica specialistica per via telefonica alla popolazione in relazione al grado di pericolosità dell’esposizione, alla possibilità di trattamento domiciliare o all’eventuale necessità di ricovero

    3. attività clinica specialistica al fine di assicurare la gestione diretta dei pazienti con intossicazione acuta presso il PS e il DEA dell’ospedale in cui è operativo il CAV o presso il proprio reparto

    4. attività di consulenza presso altri reparti dell’ospedale e visite specialistiche ambulatoriali 5. identificazione delle necessità di tossicologia analitica clinica a livello nazionale, ai fini di

    una razionalizzazione delle risorse esistenti e di una loro migliore disponibilità 6. reperimento, implementazione e continuo aggiornamento di banche dati tossicologiche e di

    banche dati relative a tutti i prodotti commercializzati in Italia (farmaci, prodotti per uso domestico, prodotti per uso agricolo, prodotti industriali, ecc.)

    7. elaborazione statistico-epidemiologica dei dati relativi alle intossicazioni 8. partecipazione alle attività di sorveglianza, vigilanza e allerta, in collaborazione con il

    Ministero della Salute, le Regioni e altri Enti istituzionalmente competenti 9. monitoraggio del fabbisogno e valutazione di efficacia e sicurezza degli antidoti 10. attività di collaborazione, fatte salve le competenze dei livelli istituzionali,

    nell’approvvigionamento, gestione e fornitura in urgenza degli antidoti di difficile reperimento

    11. supporto tossicologico per la gestione delle urgenze ed emergenze sanitarie derivanti da incidenti chimici, convenzionali e non, ivi comprese le problematiche terroristiche, anche a supporto della Protezione Civile

    12. partecipazione a gruppi di lavoro per l’elaborazione dei piani per le emergenze chimiche-industriali in stretto collegamento con gli Organismi ed Enti competenti in materia di Protezione Civile

    13. supporto, collaborazione e consulenza nei confronti dei Dipartimenti di Prevenzione e dei Dipartimenti Veterinari delle ASL, dei Laboratori di Sanità Pubblica, degli Istituti Zooprofilattici Sperimentali e dei Dipartimenti Provinciali delle ARPA/APPA per gli aspetti di competenza

    14. attività di formazione e aggiornamento in tossicologia clinica rivolta agli operatori sanitari dei Servizi Sanitari Regionali e Nazionale

    15. attività didattica rivolta a studenti di discipline sanitarie, nonché attività didattica per la prevenzione e il primo soccorso rivolta al pubblico (sia adulto che in età scolare)

    16. attività di ricerca clinica e, ove possibile, preclinica, con particolare riferimento agli aspetti di diagnosi, di trattamento e di prevenzione

    17. realizzazione, mantenimento e continuo miglioramento (funzionale, tecnologico, scientifico) di un sistema nazionale in grado di funzionare come una rete integrata sia nei servizi d’urgenza sia in quelli della prevenzione, sia a livello regionale, nazionale ed europeo.

    L’attività medico-specialistica presso i CAV deve essere svolta da uno staff di medici tossicologi

    esclusivamente dedicato, debitamente formato e continuamente addestrato. L’elevata

    specializzazione e le peculiarità funzionali dei CAV richiedono l’organizzazione di strutture

    complesse la cui operatività si svolga in modo autonomo, ma sinergico, con altri servizi

    eventualmente coinvolti nel percorso assistenziale, sia all’interno della struttura ospedaliera ove il

  • 27

    CAV ha sede che sul territorio.

    La consultazione del centro antiveleni da parte del medico di pronto soccorso appare del tutto

    naturale se si considerano l’eterogeneità delle sostanze potenzialmente causa di intossicazione -

    si stima che possano essere più di 11.000.000 - e la difficoltà di trasferire nella pratica clinica

    informazioni talora aneddotiche e spesso contraddittorie circa le modalità di conduzione dell’iter

    diagnostico-terapeutico. I tentativi di diffusione di strumenti informatici di consultazione per

    l’emergenza tossicologica affidati al pronto soccorso si sono dimostrati inefficaci, in quanto le

    banche dati si sono rivelate ridondanti di informazioni per la gestione dei casi più semplici e

    inutilizzabili nei pazienti con presentazione difficile o atipica.

    Il ricorso alla consultazione del CAV non è sistematico né costante, ed è fortemente influenzato sia

    dall’esperienza individuale sia dal tipo di intossicazione che il medico di pronto soccorso si trova a

    fronteggiare. Complessivamente, il CAV è consultato per circa un terzo dei pazienti con sospetta

    intossicazione acuta; per contro, problematiche quali le informazioni sul farmaco, le reazioni

    avverse da farmaci o gli effetti di esposizioni croniche o prolungate vengono discusse solo di rado

    con il tossicologo, nonostante la gestione di tali situazioni rientri appieno nelle competenze

    specialistiche di un CAV dedicato alla gestione dei casi complessi.

    Il rapporto che si viene a stabilire tra pronto soccorso e centro antiveleni è fortemente condizionato

    dalla qualità del servizio reso dal CAV. Il medico d’urgenza necessita di una consulenza medica a

    tutti gli effetti, per quanto effettuata per via telefonica, il cui contenuto clinico ed esperienziale sia

    evidente e pienamente adattato al paziente in esame (valutazione tailor-made). L’interazione e la

    stretta collaborazione clinica tra CAV e PS rappresentano la strategia vincente per ottimizzare

    l’impiego delle risorse e assicurare l’appropriatezza delle cure, anche se il percorso gestionale del

    paziente intossicato guidato da specialisti possa talvolta apparire più difficoltoso e complesso

    rispetto a quanto effettuato d’abitudine. Nella valutazione del singolo problema clinico occorre

    necessariamente tenere conto da un lato delle peculiarità del contesto specifico, che comprendono

    le caratteristiche organizzative del singolo ospedale, la possibilità di effettuare accertamenti

    tossicologici in urgenza e la disponibilità di antidoti, dall’altro delle necessità imprescindibili per la

    corretta gestione del paziente.

    I motivi di interazione fra pronto soccorso/medicina d'urgenza e CAV non sono rappresentati

    esclusivamente dalle telefonate per la “gestione della prima ora”. La prosecuzione della co-

    gestione del paziente durante tutto il percorso diagnostico-terapeutico amplia i contenuti della

    collaborazione tra medico d’urgenza