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Figure professionali e competenze critiche nei sistemi produttivi locali: un’analisi su base regionale (*) di Stefania Bragato e Giancarlo Corò 1. Introduzione Lo studio che qui presentiamo si propone di analizzare la domanda di figure professionali e le competenze da esse possedute nella prospettiva di accompagnare le trasformazioni economiche in corso nei sistemi produttivi locali di piccola e media impresa. L’obiettivo, in ultima istanza, è quello di fornire elementi utili ad impostare una politica formativa su base territoriale. La ricerca di cui discuteremo i risultati è stata condotta in due importanti distretti industriali del Veneto – quello della calzatura sportiva di Montebelluna e il sistema elettromeccanico di Montecchio Maggiore – ma le conclusioni che cercheremo di trarre vorrebbero avere un valore più generale, assumendo che in contesti economici ad elevato sviluppo industriale e sempre più aperti alla concorrenza internazionale, la creazione di nuove competenze costituisce uno dei fattori critici per il mantenimento delle posizioni raggiunte. L’approccio seguito in questo lavoro parte dall’assunto che i fabbisogni di competenze critiche non siano da confondere con la semplice domanda, espressa dalle imprese, di nuove posizioni lavorative. L’idea di base è, invece, quella di ( *) Questo lavoro contiene alcuni risultati di sintesi della ricerca multiregionale “Riconversione e riqualificazione delle risorse umane tra mutamenti tecnologici e organizzativi. Un’analisi delle professionalità emergenti nei sistemi territoriali in Emilia- Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Toscana e Veneto”, progetto finanziato dal Ministero del lavoro e dall’Unione Europea e rientrante nel sottoprogramma operativo multiregionale Docup obiettivo 4, Asse 1. La ricerca è stata coordinata dal Coses che ha curato la ricerca regionale sul Veneto. E’ in particolare a quest’ultima parte della ricerca cui faremo riferimento in questo saggio. 1

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Page 1: 1gottardi/district/cdrom/bragato.doc · Web viewLa terza fase della ricerca è dunque consistita nel passaggio dall’anagrafe delle figure professionali all’analisi dei loro profili.

Figure professionali e competenze critiche nei sistemi produttivi locali: un’analisi su base regionale(*)

di Stefania Bragato e Giancarlo Corò

1. Introduzione

Lo studio che qui presentiamo si propone di analizzare la domanda di figure professionali e le competenze da esse possedute nella prospettiva di accompagnare le trasformazioni economiche in corso nei sistemi produttivi locali di piccola e media impresa. L’obiettivo, in ultima istanza, è quello di fornire elementi utili ad impostare una politica formativa su base territoriale. La ricerca di cui discuteremo i risultati è stata condotta in due importanti distretti industriali del Veneto – quello della calzatura sportiva di Montebelluna e il sistema elettromeccanico di Montecchio Maggiore – ma le conclusioni che cercheremo di trarre vorrebbero avere un valore più generale, assumendo che in contesti economici ad elevato sviluppo industriale e sempre più aperti alla concorrenza internazionale, la creazione di nuove competenze costituisce uno dei fattori critici per il mantenimento delle posizioni raggiunte.L’approccio seguito in questo lavoro parte dall’assunto che i fabbisogni di competenze critiche non siano da confondere con la semplice domanda, espressa dalle imprese, di nuove posizioni lavorative. L’idea di base è, invece, quella di associare tale fabbisogno alla definizione di scenari evolutivi dell’economia locale, per poi individuare quali figure professionali possano giocare un ruolo strategico nell’accompagnare le trasformazioni del sistema produttivo. In secondo luogo, la ricerca si è posta di fronte al problema di analizzare quale sistema di competenze definisca il “profilo di eccellenza” delle figure professionali individuate, nell’ipotesi che le figure critiche siano, in realtà, una combinazione, mutevole nel tempo, di un insieme di capacità, attitudini e conoscenze che è sempre più difficile definire una volta per tutte. E’ in questa prospettiva che, a nostro avviso, possono poi venire formulate le linee di una strategia formativa a scala locale che assuma il carattere di una politica industriale per l’innovazione. In questo articolo esporremo solo per estrema sintesi i risultati empirici della ricerca, che sono invece presentati in dettaglio nel Rapporto finale redatto per il Ministero del Lavoro (Coses, 1998). L’obiettivo di questo nostro contributo è soprattutto quello di indicare le linee teoriche e metodologiche all’interno delle quali si è svolta la ricerca e proporre uno schema di lettura per gli studi di caso.Di seguito, verranno innanzitutto svolte alcune considerazioni sul significato, non sempre preciso, di fabbisogno formativo e di competenza, analizzando i modi attraverso

( *) Questo lavoro contiene alcuni risultati di sintesi della ricerca multiregionale “Riconversione e riqualificazione delle risorse umane tra mutamenti tecnologici e organizzativi. Un’analisi delle professionalità emergenti nei sistemi territoriali in Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Toscana e Veneto”, progetto finanziato dal Ministero del lavoro e dall’Unione Europea e rientrante nel sottoprogramma operativo multiregionale Docup obiettivo 4, Asse 1. La ricerca è stata coordinata dal Coses che ha curato la ricerca regionale sul Veneto. E’ in particolare a quest’ultima parte della ricerca cui faremo riferimento in questo saggio.

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i quali questi concetti vengono trattati nelle analisi sulla domanda di lavoro (cap. 2). Verrà proposto anche un confronto con le principali indagini sui fabbisogni formativi svolte a livello nazionale (cap. 3), le quali, oltre ad offrire un terreno di comparazione metodologica, consentono di valutare come i risultati ottenuti siano significativamente legati ai diversi criteri di analisi (cap. 4). Cercheremo quindi di descrivere in modo puntuale i passaggi nei quali si è articolato il percorso di ricerca effettuato sul campo, a partire dalle premesse di carattere teorico sulle ragioni di una indagine a base territoriale sulle figure professionali critiche (cap. 5), sull’analisi di scenario come strumento per fare emergere i fabbisogni di tali figure nel medio periodo (cap. 6), nonché sulle tecniche utilizzate per costruire un sistema integrato di informazioni sui fabbisogni formativi (cap. 7). Verrà dunque fornita una valutazione sui principali risultati raggiunti, con riguardo alle figure professionali maggiormente critiche e alle competenze ad esse richieste (cap. 8). Concluderemo, infine, proponendo alcuni spunti di riflessione sulle strategie formative a scala territoriale, e sulle condizioni per inquadrare tali iniziative all’interno di una più generale politica industriale per l’innovazione (cap. 9).

2. Fabbisogni formativi e analisi delle competenze

Il mismatch tra domanda e offerta di lavoro come causa almeno di una parte della disoccupazione, quella che non dipende da fattori legati alla crescita della domanda aggregata, è stato studiato fin dall’inizio degli anni ‘80. In alcuni Paesi si avviarono alcune analisi sulla curva di Beveridge con l’obiettivo di “misurare” quanto la tensione sul mercato (presenza contemporanea di posti vacanti e di disoccupazione) dipendeva dal non incontro tra domanda e offerta (Bragato, 1990). Come è noto, i problemi di mismatch possono essere fatti risalire sia alla scarsa mobilità spaziale dei lavoratori – che genera situazioni di eccedenza di posti di lavoro in un’area e file di disoccupati in un'altra – che al divario, all’interno di una stessa area, tra qualifiche professionali possedute dall’offerta di lavoro e quelle richieste dalle imprese. Le analisi sui fabbisogni formativi mirano, in particolare, a ridurre proprio questo secondo tipo di mismatch. L’accelerazione delle trasformazioni economiche, tecnologiche e organizzative ha creato anche per i lavoratori occupati un problema di disallineamento tra domanda e offerta di professionalità. In pratica, è venuta a crearsi una difformità tra professionalità acquisite e nuove competenze richieste dalle aziende. In questo caso le analisi sui fabbisogni formativi, svolte all’interno delle imprese o a livello di sistema produttivo, hanno come obiettivo quello di analizzare le esigenze formative per la riqualificazione e la riconversione delle risorse umane impiegate.E’ in questa cornice di problematiche che la formazione professionale ha assunto un’importanza strategica quale fattore di crescita. In particolare, nei Paesi dell’Unione Europea l’attenzione verso la formazione è testimoniata dalla messa in atto di programmi e politiche, per lo più governati dalle autorità centrali, che tendono a ridurre la disoccupazione in presenza di posti vacanti e ad evitare l’espulsione dei lavoratori meno qualificati. La programmazione delle politiche formative si basa sulla rilevazione dei fabbisogni professionali espressi dalla domanda di lavoro. In alcuni Paesi (noto è il caso della Germania) la realizzazione di percorsi in alternanza scuola-lavoro mira a

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ridurre la distanza tra domanda e offerta di lavoro (Scazzocchio, 1998). In Italia l’interesse per le analisi sui fabbisogni formativi è andato crescendo soprattutto negli ultimi anni. Si è così assistito ad un vero e proprio proliferare di tali analisi sia in specifici bacini territoriali, e al limite a livello aziendale, che a livello nazionale.Prima di entrare nel merito di alcuni di questi studi vorremmo tuttavia svolgere alcune considerazioni sul significato di “analisi dei fabbisogni formativi”. Da un punto di vista generale, il fabbisogno formativo nasce dal confronto – che, come vedremo, è tutt’altro che immediato – tra domanda e offerta di lavoro. Si è dunque in presenza di un fabbisogno formativo se, innanzitutto, mancano nel mercato le figure professionali e/o le competenze idonee a soddisfare la domanda, altrimenti il non incontro tra domanda e offerta si riduce ad un problema di diffusione delle informazioni. Ciò presuppone che, allo stesso tempo, esista un’offerta disponibile ad intraprendere un percorso formativo1. Un indicatore usato per identificare il legame tra domanda di lavoro e fabbisogno formativo è la scarsa disponibilità, dichiarata dalle imprese, di trovare un’offerta di lavoro adeguata alle richieste. In questa chiave, è alle imprese – quindi al solo lato della domanda – che viene attribuito, indirettamente, il ruolo di assegnare la natura formativa al fabbisogno espresso. Quanto detto non esaurisce, probabilmente, l’elenco degli elementi che incidono sulla debolezza del legame tra analisi della domanda di lavoro e fabbisogno formativo, ma contribuisce a chiarire meglio i nessi, non sempre immediati, tra i due termini. Più diretto è, invece, il rapporto tra analisi della domanda e fabbisogni formativi quando la prima mira a rilevare le esigenze in termini di riqualificazione e riconversione dei lavoratori occupati. In questo caso, infatti, il fabbisogno viene rilevato guardando ad un unico aggregato che è la forza di lavoro occupata e il confronto avviene al suo interno tra ciò che è la “richiesta ideale” delle aziende e lo stato delle conoscenze e delle competenze dei lavoratori impiegati. Dalle considerazioni fin qui svolte si evidenziano due macro categorie di fabbisogni formativi: per gli outsider (formazione iniziale); per gli insider (formazione continua).L’interrogativo che può sorgere a questo punto è in quale misura cambino i criteri di rilevazione a seconda si debbano considerare attività di formazione iniziale o per programmi di formazione continua.Gli elementi oggetto di indagine possono essere figure professionali, conoscenze e capacità tecniche o professionali, abilità comportamentali o tutti questi aspetti insieme. Rilevare la domanda di lavoro in termini di figure professionali significa mirare a conoscere l’insieme di tipologie lavorative che identificano alcune caratteristiche generali, come il livello di autonomia e responsabilità, l’area di specializzazione, la funzione svolta, ecc. Tuttavia, difficilmente si arriva ad una soddisfacente conoscenza dei caratteri specifici dei fabbisogni espressi dalle imprese. D’altro canto, com’è stato opportunamente osservato, “una classificazione esaustiva delle professioni, ovvero che rispetti tutte le specificità delle prestazioni lavorative, avrebbe una numerosità pari al

1 Una prima verifica comparata tra domanda e offerta di lavoro potrebbe riguardare il confronto tra gli esiti delle indagini conoscitive sulla domanda e i dati sulle rilevazioni delle forze di lavoro o sulle statistiche amministrative del Ministero del lavoro. In nessuno dei due casi avremo un termine di paragone efficiente in quanto in entrambe dovremmo utilizzare il titolo di studio come proxy di professionalità. Il titolo di studio, proprio per lo scarso contenuto informativo che esso rappresenta, è un’indicazione non sempre pertinente per un confronto tra domanda e offerta di professionalità.

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numero dei soggetti che lavorano o anche superiore considerando le esigenze non soddisfatte” (Isfol, 1998, pag. 163). Un compromesso sul grado di approfondimento va raggiunto considerando l’ampiezza del campo di rilevazione. Al limite solo studi su singole realtà aziendali evidenziano appieno quali sono i fabbisogni formativi dell’impresa. C’è inoltre da rilevare che le rigide logiche che distinguevano le figure professionali in base ai mansionari sono state da tempo superate da visioni più complesse, in cui i compiti e le competenze richieste al lavoratore non sono strettamente legate alla specifica professione esercitata. Il diffondersi di concetti e pratiche d’impresa come quelli ispirati alla learning organization, ha prodotto importanti trasformazioni nei criteri di valutazione dell’efficacia e dell’efficienza dei lavoratori. Tali trasformazioni modificano la scala delle priorità utilizzata dalle imprese nella selezione dei lavoratori e nella definizione delle carriere, siano essi occupati o da occupare.A questo punto risulta evidente che l’oggetto di indagine per rilevare i fabbisogni di formazione non può che essere quello dei contenuti delle professioni: siano essi mansioni, conoscenze di base, competenze tecniche o attitudini comportamentali. Conoscere il nome delle figure professionali di cui il sistema produttivo ha bisogno è, dunque, la prima delle informazioni necessarie a fornire indicazioni sulla direzione delle iniziative di politica formativa, ma non può essere ritenuta sufficiente2.Ai fini dell’implementazione dei moduli formativi, le analisi dovrebbero allora basarsi su rilevazioni più approfondite che, proprio per il loro carattere di esplorazione sulle singole figure, possono contribuire alla predisposizione di pacchetti formativi più coerenti con le effettive esigenze espresse dalla domanda di lavoro.A questo punto, è opportuno soffermarsi, sia pur brevemente, sul significato del termine “competenza” comunemente usato nelle analisi sulle figure professionali3. Delineare un significato preciso di tale termine è difficile, anche perché nelle ricerche empiriche esso viene “caricato di troppi contenuti e usato come sinonimo di molti altri termini” (Isfol, 1998, pag. 179). A volte esso identifica il contenuto delle prestazioni lavorative (compiti), in altre assume il significato di capacità a svolgere un determinato lavoro, in altri ancora viene riferito ad atteggiamenti, motivazioni e comportamenti verso il lavoro.D’altra parte la traduzione operativa del termine non è immediata proprio perché essa individua diverse dimensioni dell’agire che vanno dalle capacità cognitive a quelle comportamentali e psicologiche.Ciò che risulta chiaro è che con il termine competenza non si intende l’aspetto descrittivo del lavoro. Infatti, l’analisi delle competenze nasce da un’esigenza reale di conoscere ciò che esula dalla job description la cui importanza, negli studi sulle figure professionali, si è attenuata. Nella letteratura che si rifà agli studi di origine anglosassone sul concetto di competenza si incontrano diverse definizioni. Per citarne qualcuna:

2 Non discutiamo in questa sede dei problemi di inefficacia degli interventi formativi dovuti a due ordini aggiuntivi di motivi: 1) la mancanza di raccordo tra coloro che rilevano i fabbisogni e coloro che programmano gli interventi; 2) l’esistenza del gap temporale tra rilevazione e realizzazione degli interventi.

3 Sul significato di competenza si veda anche il successivo paragrafo 5.

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“Per competenza intendiamo: una caratteristica intrinseca individuale che è causalmente collegata ad una performance efficace e/o superiore in una mansione o in una situazione, e che è misurata sulla base di un criterio prestabilito.” (Spencer e Spencer, 1995)

“La competenza è una caratteristica personale intrinseca, una motivazione, un tratto, una skill, un aspetto dell’immagine di sé o di un ruolo sociale, o di un corpo di conoscenze usato da una persona.” (Boyatzis, 1982)

“Una competenza relativa ad una mansione è una caratteristica intrinseca di un individuo che risulta in (conduce a) una performance efficace o superiore nella mansione.” (Camuffo, 1998).

Da queste definizioni si evince che le competenze sono legate alla complessità attitudinale e comportamentale dell’essere umano, non sono mere prestazioni, non sono qualifiche. Sono misurabili ex-post attraverso l’osservazione di una prestazione superiore messa in campo dal lavoratore sulla base di proprie attitudini personali, conoscenze acquisite e del sistema di relazioni in cui opera.Per misurare le competenze occorre però usare un codice che identifichi gli oggetti (competenze) della misurazione. Per questo ogni qualvolta si debba procedere a studi sulle competenze è corretto definire a priori un manuale che riconduca i comportamenti osservabili in codici identificativi di competenze. I dizionari sulle competenze, ad esempio quelli di Spencer-Spencer e di Boyatzis4, possono costituire una base di partenza, ma un loro adattamento è necessario a seconda delle peculiarità delle figure o delle situazioni da analizzare. In pratica, le codifiche delle competenze vanno contestualizzate in base al tipo di figura professionale (soprattutto con riguardo al ruolo ricoperto nell’organizzazione) e all’ambiente di riferimento. Negli studi empirici l’individuazione delle competenze di successo avviene tramite il confronto di due gruppi di lavoratori: uno composto da “elementi eccellenti” e uno da “elementi medi e/o scadenti”. Per tale ragione, le metodologie per la rilevazione delle competenze sono molto complesse e richiedono tempi lunghi per essere applicate. Ed è per questo che l’applicazione dell’analisi rigorosa delle competenze tende, solitamente, a concentrarsi su una o poche figure professionali, in modo da poter entrare nel dettaglio delle diverse dimensioni nelle quali si esprime l’expertise professionale (si veda Camuffo, 1998).

3. Le indagini in Italia sulla domanda di figure professionali e i fabbisogni formativi

Tra gli studi promossi a livello nazionale uno dei più noti è il “Sistema informativo permanente per l’occupazione e la formazione” denominato Excelsior. L’indagine, condotta nel 1997 e nel 1998, è di tipo quantitativo, rileva cioè le figure professionali (classificazione Istat 1991) in termini di assunzioni che le imprese intendono effettuare nel biennio compreso tra l’anno di rilevazione e quello successivo. L’indagine riguarda l’universo delle imprese private iscritte al Registro delle Imprese delle Camere di Commercio che alla data del 31.12.1996 (per l’indagine del 1997 era il 31.12.1995) avevano almeno un dipendente. Nell’ultima rilevazione si è effettuato un innalzamento del campione raggiungendo la significatività dei risultati per tutte le 4 Tali dizionari riguardano in prevalenza le figure professionali che ricoprono ruoli e funzioni medio

alte nell’organizzazione.

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province italiane (nel Veneto la significatività del campione a livello provinciale era già presente nella precedente rilevazione) e si è allargata la rilevazione a tutti i settori privati ad esclusione della sola agricoltura. In pratica, nell’indagine del 1998 sono escluse: le imprese del settore agricolo e della pesca; le unità operative della pubblica amministrazione; le unità scolastiche e università pubbliche; le organizzazioni associative.Rimangono fuori inoltre le aziende municipalizzate e le Poste. Il confronto tra le due rilevazioni è possibile a meno dei servizi privati sanitari e di quelli educativi (insegnamento). Vi è da segnalare oltre a ciò, che nel 1998 sono state rilevate le richieste di addetti non dipendenti (soci, collaboratori, ecc.).I risultati dell’indagine consentono di conoscere non solo il volume della domanda in termini di professioni e figure professionali, ma anche altre caratteristiche che i lavoratori dovrebbero possedere: età, livello di istruzione; o relative all’assunzione: necessità o meno di formazione, tipo di rapporto di lavoro, area funzionale di inserimento5.Mentre alcuni esiti dell’indagine in Veneto verranno illustrati nel prossimo capitolo, vorremmo qui discutere di un altro studio condotto a livello nazionale, del quale però non sono ancora noti i risultati a livello regionale. Ci riferiamo al progetto dell’Organismo bilaterale nazionale per la formazione (Obnf) creato congiuntamente da Confindustria e da Cgil, Cisl, Uil6. Il progetto dell’Obnf, non ancora concluso in tutte le sue fasi, ha durata pluriennale e dovrebbe terminare nel 1999 (Obnf, 1998 e Isfol, 1998). Gli scopi dello studio sono: 1. determinare le esigenze del sistema produttivo in termini di competitività e

sviluppo delle imprese (vengono analizzate le filiere produttive di 16 settori7);2. definire l’anagrafe delle figure di riferimento, capaci di consentire il

funzionamento e lo sviluppo del sistema produttivo nel medio periodo;3. descrivere le figure di riferimento in termini di competenze;4. svolgere indagini locali sulle tendenze della domanda. Alla fine del percorso di ricerca si dovrebbe arrivare a definire, sulla base di scenari previsionali sul sistema produttivo, i fabbisogni, sia di figure e che di competenze, delle aziende. Gli esiti dello studio dovrebbero, quindi, fornire indicazioni sia di tipo qualitativo che quantitativo.Il percorso logico seguito in questa ricerca presenta analogie con il modello di indagine, prevalentemente di tipo qualitativo, seguito anche dalla ricerca Coses. In particolare, è

5 Per maggiori dettagli si rinvia a Unioncamere, Ministero del lavoro, Sistema informativo Excelsior, anni 1997 e 1998; si veda anche De Angelini (1998).

6 Sempre a livello nazionale vanno segnalati: 1) il progetto dell’Ente bilaterale nazionale dell’artigianato (organizzazioni dell’artigianato, Cgil, Cisl, Uil) che mira alla costruzione di un bilancio delle competenze professionali e dei percorsi seguiti per la loro acquisizione; 2) il progetto Chirone 2000 (iniziativa promossa da Intersind, Cgil, Cisl, Uil) che ha come obiettivo l’individuazione delle competenze professionali, in termini di fabbisogni nel medio periodo, delle principali aziende italiane di produzione e gestione dei più significativi servizi a rete sul territorio nazionale (Isfol, 1998).

7 I settori sono: alberghiero, edilizia, lattiero-caseario, pasta e prodotti da forno, chimica di base, chimica fine e delle specialità, farmaceutica, grafica e stampa, elettronica, meccanica, macchine e impianti, trasporti, mobili, tessitura, nobilitazione tessile, confezione.

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comune ai due approcci l’analisi sugli scenari previsionali. Nel primo caso, però, è il settore/filiera a rappresentare l’unità di analisi, mentre nel nostro è il sistema produttivo locale. Di conseguenza, i fattori critici analizzati sono relativi allo sviluppo della filiera nel caso Obnf, e quelli dell’evoluzione dell’economia del distretto nella ricerca Coses. E’ facile capire che questo diverso punto di partenza ha importanti implicazioni per la politica formativa.Per problemi di spazio non possiamo entrare qui nel merito dei singoli risultati della ricerca Obnf a livello settoriale (che nel rapporto vengono articolati in situazione e tendenze settoriali, analisi della filiera, anagrafe delle figure di riferimento). In questa sede richiamiamo alcuni esiti dello studio, in particolare quelli relativi al quadro di raffronto delle figure di riferimento nei 14 settori manifatturieri. Questa analisi ci consente di evidenziare, per ogni singola area aziendale, quali figure risultano critiche8

per lo sviluppo del sistema manifatturiero nel suo complesso nella misura in cui esse sono tali per un alto numero di settori. In altre parole si tratta di far emergere il livello di criticità delle figure con riferimento al sistema produttivo manifatturiero. Rispetto all’impostazione di Excelsior, lo studio dell’Obnf è a nostro parere particolarmente interessante per due ragioni: innanzitutto perché assume una prospettiva di medio periodo, e in secondo luogo perché connette due concetti di criticità: quello di settore (figure di riferimento) e quello di sistema (dimensione trasversale). Le figure con più elevato livello di criticità trasversale sono qui sotto elencate.Nell’area amministrazione su 6 figure, 5 sono critiche per tutti i settori: tecnici amministrazione/finanza/controllo di gestione; operatori di contabilità; tecnici di gestione/sviluppo personale; tecnici sistema informativo aziendale; operatori di segreteria.Nell’area commerciale si hanno: tecnici commerciali/marketing/organizzazione vendite (12 settori su 14); operatori servizi commerciali (12 settori su 14); tecnici di prodotto/servizio-assistenza clienti (10 settori su 14).Nell’area della programmazione della produzione/logistica sono critici per tutti i settori: tecnici di programmazione della produzione e della logistica; tecnici acquisti/approvvigionamenti; magazzinieri (accettazioni/spedizioni).Nelle aree della ricerca e sviluppo, della progettazione e della industrializzazione, il carattere della trasversalità viene attenuato proprio in ragione della specificità delle figure per settore. I tecnologi di industrializzazione di prodotto/processo sono comunque figure critiche per 11 dei 14 settori analizzati.Nelle aree qualità, laboratori, ambiente/sicurezza la criticità per il sistema emerge per: tecnici del sistema qualità (processi e prodotti) (14 settori su 14); tecnici di laboratorio (13 su 14); tecnici ambiente/sicurezza (14 su 14).Nell’area manutenzione la quasi totalità delle figure critiche presenta alti livelli di trasversalità: tecnici di programmazione/gestione manutenzioni (13 su 14);8 In realtà, la ricerca Obnf non usa la denominazione “figure professionali critiche”, termine che

abbiamo noi tradotto dalla espressione usata nello studio “figure di riferimento capaci cioè di consentire lo sviluppo del sistema produttivo in una prospettiva di medio periodo”.

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tecnici di informatica industriale (14 su 14); manutentori meccanici (14 su 14); manutentori elettro-elettronici e di sistemi di automazione (14 su 14); manutentori polivalenti (meccanico-elettrico-elettronici) (12 su 14); manutentori impianti (termoidraulici, caldaie, condizionamento) (12 su 14).Infine, nell’area della produzione si trovano due figure critiche diffuse in tutti i settori:: tecnici di produzione (gestione reparto/unità operativa) (14 su 14); operatori di produzione e servizi vari (14 su 14).In conclusione, possiamo dire che questi risultati, seppure fino ad ora espressi solo in termini di anagrafe delle figure, ci sembrano assai utili per una politica formativa che vada al di là degli ambiti ristretti di un settore e miri alla formazione di un “mestiere” spendibile, nel medio periodo, in più imprese nelle quali la domanda di lavoro muta in ragione degli andamenti congiunturali e delle trasformazioni strutturali.

4. I risultati dell’indagine Excelsior in Veneto

I dati rilevati dall’indagine Excelsior si riferiscono ad eventi previsti (assunzioni) e in quanto tali la loro portata dipende dal particolare momento in cui viene espressa la previsione stessa (le aspettative, basate sugli scenari evolutivi nazionali ed internazionali, hanno un ruolo centrale nel determinare gli esiti dell’indagine). Inoltre, le previsioni basate su un orizzonte temporale relativamente ampio (circa due anni), possono essere smentite dal succedersi degli eventi interni ed esterni all’azienda. Pertanto, l’analisi sui dati esprime indirettamente il livello di fiducia nei mercati, che muta a seconda delle fasi del ciclo economico e degli shock esterni. Al di là delle precise quantità, l’indagine consente, attraverso le analisi sulle professioni e sulle figure professionali9, di capire l’evoluzione dei bacini di occupazione in termini di dinamica relativa. Nel 1998 le imprese hanno previsto, per il biennio 1998 e 1999, una domanda di lavoro dipendente di 91.47910 unità, di cui il 40% per sostituzione mentre il rimanente 60% rappresenta la domanda aggiuntiva. Nel 1997 il quantitativo previsto era di 62.904 di cui il 28% riguardava nuovi posti di lavoro. Le aspettative positive di crescita del sistema economico veneto risultano maggiori nel 1998 che nel 1997. Il buon andamento dell’anno precedente e il non verificarsi, ancora, degli effetti delle crisi finanziarie ed economiche internazionali, hanno influito sull’incremento delle assunzioni previste. Combinando le informazioni in termini di quantità (tab. 1) e di variazioni registrate tra le due previsioni (tab. 2), si possono vedere quali sono le economie provinciali più vivaci dal punto di vista della domanda di lavoro. La provincia di Vicenza presenta i risultati migliori sia come bacino di attrazione di forza lavoro (ammontare delle assunzioni previste) che di dinamica nella domanda (incremento tra le due rilevazioni superiori al 50%). Venezia e Padova hanno un peso pressoché analogo sul totale regionale e dalle previsioni di crescita possiamo dedurre, per entrambe, la presenza diffusa di aspettative economiche positive. Nella provincia di Verona, invece, la

9 Le professioni sono i gruppi che includono diverse figure professionali. Ad esempio la professione di medico generico e specialistico (codice Istat 241) annovera nelle figure professionali il cardiologo, il chirurgo, il chirurgo estetico, l’ortopedico, l’anestesista, etc..

10 Si tratta di lavoro dipendente, sono esclusi gli autonomi.

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variazione nelle previsioni è inferiore al dato medio regionale (34% contro il 45%) e lo stock previsto è al di sotto di quello veneziano. Con riguardo a questo confronto vi è da dire che nell’area veneziana le previsioni nell’ultimo anno sono assai più ottimistiche che in precedenza, tanto da ridurre il precedente gap quantitativo con le altre realtà economiche territoriali. La domanda di lavoro prevista a Treviso, pur mantenendo un peso rilevante nel quadro regionale, sembra risentire in anticipo (primavera del 1998) della crisi emersa più chiaramente nel corso dei mesi successivi (la variazione tra le due previsioni è del 41%).Entrando nell’analisi delle professioni emerge per il Veneto una prevalenza di figure di tipo esecutivo. Nel 1998, su 100 lavoratori da assumere (tab. 3) le imprese chiedevano 26 operai specializzati, 19 tra conduttori di veicoli, assemblatori e operatori di impianti e macchinari industriali, 9 addetti da impiegare nella vendita, 8 addetti non qualificati di cui 5 facchini o simili. Le rimanenti domande erano per professioni tecniche (15) necessarie un po’ in tutti settori, per personale d’ufficio (10) e, infine, solo 4 erano i lavoratori previsti per ruoli dirigenziali o, comunque, altamente qualificati (lavoratori della conoscenza). D’altra parte se guardiamo il risultato di Excelsior in termini di titolo di studio, il risultato appare sconfortante: per quasi i due terzi (61%) delle assunzioni previste è sufficiente il percorso di studi della scuola dell’obbligo.Da un approfondimento a livello di professioni e di figure professionali risaltano alcuni fenomeni meritevoli di attenzione. In particolare, dal confronto tra 1997 e 1998, sottolineiamo: tra le due rilevazioni cresce la domanda prevista di figure professionali11 dell’area

commerciale e non solo di commessi (codice Istat, d’ora in poi solo CI, 512)12, ma anche di figure legate alla distribuzione e coordinamento tra produzione e vendita (CI 334) e gestione del magazzino (CI 413); la centralità, nel mondo produttivo, del problema del governo dei flussi in entrata e in uscita dalla produzione risalta anche da questi dati;

con la ripresa del mercato immobiliare le imprese esprimono un aumentato fabbisogno di addetti alle costruzioni e alle rifiniture (CI 612 e 613), di converso diminuisce la richiesta di figure esecutive impiegate nella produzione e confezionamento di prodotti tessili e di assemblatori di prodotti industriali; la delocalizzazione di alcune produzioni manifatturiere ha probabilmente giocato un ruolo significativo su tale dinamica negativa;

tra i due anni si evince un consolidamento13 della domanda prevista per alcune professioni, esse sono in prevalenza quelle che afferiscono alla cura e ai servizi alla persona siano essi ricreativi e culturali che socio-assistenziali (CI 55); quelle meramente esecutive ed operative legate alla gestione del magazzino (CI 81) e, non da ultimo, le professioni commerciali della vendita (CI 51).

11 Per la corrispondenza tra professioni e figure professionali si rimanda alla “Tavola riepilogativa della classificazione delle professioni” di Excelsior.

12 . Per non appesantire con ulteriori tabelle questa esposizione dei risultati Excelsior non abbiamo riportato le risultanze sulle professioni a tre cifre. Forniamo comunque i seguenti dati per dar conto, almeno in parte, delle conclusioni a cui siamo giunti: CI 512 da 3.801 a 7.599 unità; CI 334 da 194 a 1.103; CI 413 da 1.767 a 2.146; CI 612 da 2.190 a 3.483; CI 613 da 921 a 1.967.

13 Definiamo figura o professione in consolidamento quando si registra un incremento del peso relativo piuttosto consistente.

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In conclusione, se da un lato le previsioni della domanda di lavoro indicano il permanere dei bacini di occupazione legati al fare, al produrre, dall’altra non si possono trascurare alcuni segnali di una progressiva terziarizzazione delle professioni.

5. Il percorso metodologico della ricerca Coses: le ragioni di un’analisi a base territoriale

Analizzate le due principali indagini sui fabbisogni professionali e formativi condotte in Italia negli ultimi anni, vediamo ora di ripercorrere i passaggi essenziali della ricerca coordinata dal Cose. Il percorso logico seguito richiede, innanzitutto, di chiarire due fondamentali aspetti concettuali: da un lato la rilevanza della dimensione territoriale nel definire percorsi di sviluppo economico e occupazionale e, dall’altro, la centralità delle competenze lavorative nell’accompagnare l’evoluzione dell’economia locale. L’assunto di partenza è che il territorio costituisce per l’economia una infrastruttura di integrazione che fornisce agli attori della produzione una base di risorse non solo materiali ma soprattutto cognitive e relazionali (Becattini e Rullani, 1993; Brusco, 1994). Il valore critico di queste risorse è originato dai problemi che gli attori economici incontrano nel gestire la crescente complessità dello scenario competitivo, complessità generata dalla variabilità dei mercati, dalla rapidità dell’innovazione tecnologica e dall’estensione a scala globale della concorrenza. In questa prospettiva, affinché un sistema produttivo possa mantenere nel tempo un livello sostenibile di sviluppo, è necessario che oltre ad utilizzare le risorse materiali e immateriali di cui un territorio dispone, sia anche in grado di riprodurre i presupposti stessi della produzione, a partire dai fattori più direttamente legati al contesto concreto nel quale si svolge l’attività economica, come le istituzioni pubbliche, le infrastrutture e, soprattutto, il lavoro.Si può infatti sostenere che i sistemi di piccole imprese e il lavoro siano fattori di sviluppo destinati a mantenere un legame relativamente stabile con il territorio, in quanto la loro mobilità è vincolata da un insieme di condizioni culturali, sociali ed economiche che già oggi sono rilevanti e che si andranno ulteriormente rafforzando in futuro. Ciò vale in modo particolare per i lavoratori, siano essi dipendenti, autonomi, operatori dell’artigianato e dei servizi o imprenditori di piccole imprese. E’ evidente, d’altro canto, che le grandi imprese – grazie alle risorse finanziarie, cognitive e organizzative di cui dispongono – hanno margini di libertà decisamente maggiori nel definire le proprie strategie localizzative: tutte le grandi imprese sono in realtà multilocalizzate, e lo spostamento da un luogo all’altro dei fattori produttivi può avvenire attraverso un rapido ridisegno organizzativo della propria rete decentrata, senza che questo comporti necessariamente investimenti green field. Più in generale, è il disallineamento tra fattori destinati a mantenere un forte radicamento territoriale – lavoro, servizi, istituzioni – e strategie multilocalizzative dei fattori produttivi mobili – finanza, tecnologia, management, conoscenze – a rappresentare uno dei nodi critici dell’attuale fase dello sviluppo. Esiste inoltre anche un insieme di ragioni più propriamente economiche che inducono ad una rivalutazione della dimensione territoriale dello sviluppo. Dal lato del mercato del lavoro, infatti, la crescita del valore della professionalità come risorsa che l’offerta può giocare in una situazione di continue trasformazioni economiche e produttive,

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spinge verso investimenti cognitivi e relazionali per sviluppare conoscenze e competenze distintive che, una volta acquisite, sono principalmente spendibili all’interno del sistema produttivo nel quale si sono formate. L’esperienza lavorativa è d’altro canto definita da un processo di apprendimento che il lavoratore svolge in larga parte in un contesto specifico di tipo organizzativo (un’impresa o un sistema di imprese), settoriale (un cluster tecnico) e territoriale (un sistema locale). Ed è dunque innanzitutto all’interno di tale contesto che la professionalità14 può essere valorizzata. Più cresce il valore professionale del lavoro (e i sunk costs degli investimenti ad esso collegati) e più cresce, per i lavoratori, l’importanza dei contesti all’interno dei quali le professionalità si sviluppano.E’ plausibile sostenere che gli investimenti cognitivi e relazionali di tipo contestuale effettuati dai lavoratori assumano un valore particolare in due situazioni: laddove il mercato del lavoro gioca effettivamente un ruolo importante nell’allocazione delle risorse, e quindi anche nell’attribuzione di premi e sanzioni ai lavoratori; e per le qualifiche professionali a minor grado di reversibilità tecnica e funzionale. Si tratta di due situazioni riscontrabili soprattutto nei sistemi produttivi di piccola e media impresa specializzati in beni ad alto contenuto manifatturiero (sistema moda, casa-arredo, meccanica strumentale, etc.), nei quali domanda e offerta di lavoro tendono ad alimentare la dinamica concorrenziale soprattutto nella fascia professionale intermedia del mercato del lavoro. E’ in questa fascia (che in termini quantitativi è indubbiamente la più consistente) che il mercato del lavoro tende a funzionare come sistema unificato a base locale: in tale situazione un lavoratore può cambiare frequentemente posto di lavoro, offrendo le proprie conoscenze e abilità ad altre imprese senza necessariamente cambiare luogo di residenza. Allo stesso tempo, in un mercato unificato del lavoro un’impresa può contare su un bacino occupazionale qualificato che favorisce una gestione flessibile del personale. Quando la congiuntura è alta, l’impresa può infatti fare affidamento su risorse locali di manodopera specializzata, oppure su una rete di divisione orizzontale del lavoro che le consente di evadere gli ordini di punta; quando la congiuntura è bassa, la riduzione degli organici non provoca eccessivi drammi sociali (e conseguenti rigidità sindacali), in quanto il sistema ha maggiori probabilità di assorbire in altri punti le eccedenze create.Assumere i sistemi locali come base dell’analisi significa, dunque, individuare un ambito di osservazione rilevante non solo per la produzione economica ma anche per la riproduzione delle conoscenze e competenze necessarie alla produzione stessa. E’ all’interno di un ambito territoriale circoscritto che una parte consistente dei lavoratori misura la possibilità di sviluppare le proprie capacità e di mettere a valore la propria esperienza. Ed è il contesto locale che, soprattutto nei sistemi di piccola e media impresa, definisce la base di un sapere comune, il terreno nel quale si apprendono conoscenze pratiche, si sviluppano conoscenze e competenze distintive, legate cioè ad un’attività tecnica ad elevata specializzazione e di difficile trasferibilità. Il valore delle conoscenze di tipo contestuale nei processi di innovazione è stato recentemente riconosciuto in molti studi di economia aziendale e industriale. L’osservazione da cui i principali studiosi che hanno affrontato questo problema prendono spunto, è che la conoscenza che assume valore utile per l’economia non è paragonabile ad uno stock di informazioni codificate, al quale è possibile accedere, a chiunque detenga i linguaggi adeguati, ogni qualvolta se ne ravvisi la necessità. La conoscenza utilizzata nei processi 14 Come abbiamo precisato nel precedente cap. 2, il termine generico di professionalità racchiude la

combinazione di figure professionali, conoscenze e competenze.

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di innovazione è in gran parte una conoscenza creata nei processi stessi, che viene alimentata da percorsi di apprendimento nei quali saperi diversi – pratici e astratti, contestuali e generali, taciti ed espliciti – si combinano attraverso uno scambio tra individui, gruppi, organizzazioni impegnate nell’attività produttiva.L’autore che forse con maggiore chiarezza ha messo in luce la complessità del processo di creazione di conoscenza nelle organizzazioni economiche è stato Nonaka15. Studiando le modalità attraverso le quali le imprese giapponesi si misurano con l’innovazione, Nonaka ha messo a punto un modello di analisi che valorizza le forme di sapere implicite negli individui e nelle organizzazioni, e che si trasmettono mediante apprendimento per imitazione, osservazione, prova ed errore, e cioè attraverso modalità principalmente non linguistiche di comunicazione. Senza questa base comune di saperi pratici – che maturano nell’esperienza lavorativa e si creano nel confronto continuo con i problemi concreti della produzione e le domande del mercato – le conoscenze scientifiche e tecnologiche non riuscirebbero da sole ad attivare processi di innovazione utili per le organizzazioni economiche. E’ invece dalla conversione tra questi distinti livelli di conoscenza che prende avvio l’innovazione tecnologica e l’apprendimento organizzativo nell’impresa. Le condizioni di base che, secondo Nonaka, possono favorire questi processi, sono in netta contrapposizione con la tradizionale visione dello scientific management di tipo fordista: sono infatti necessarie aree di varietà, ridondanza e di caos non distruttivo per consentire all’autonomia e alla motivazione di individui e gruppi di creare nuova conoscenza. Oltre alla sovrabbondanza di informazioni, per rendere un’organizzazione più creativa verso l’innovazione è necessaria anche una certa equivalenza tra individui e gruppi nelle possibilità di appropriarsi dei benefici dell’innovazione (principio della “ridondanza del comando potenziale”). Ai nostri fini, l’aspetto che risulta interessante segnalare è che le condizioni che Nonaka indica come favorevoli per l’innovazione (il processo di creazione di conoscenza) sono forse più facilmente rintracciabili in un sistema specializzato di piccole imprese che non all’interno di una singola organizzazione produttiva. All’interno di un sistema produttivo locale si trovano infatti le seguenti situazioni: le imprese agiscono con una propria autonomia e in un sistema motivazionale e di enforcement garantito dal confronto continuo con il mercato; il territorio fornisce un ampio quadro di varietà produttive e di servizio, nonché un insieme di risorse eccedenti il fabbisogno di utilizzo immediato delle imprese (la ridondanza di risorse rappresenta un costo aggiuntivo che molto spesso risulta incompatibile con i criteri di efficienza interna delle imprese); allo stesso tempo, l’esperienza comune e il controllo sociale reciproco tra soggetti economici favorito dalla contiguità spaziale, garantisce una base comune di conoscenze e una rete di rapporti fiduciari che tendono a rafforzarsi con la continuità delle interazioni dirette.Il valore riconosciuto alla dimensione sociale e territoriale dei processi di apprendimento economico costituisce il risultato anche del contributo di Lündvall. Anche questo autore parte dall’assunto che l’aumento dei processi di codificazione della conoscenza – sospinti dalla rivoluzione delle tecnologie dell’informazione – non rende affatto meno importanti bensì, al contrario, più influenti per l’attività economica le forme di conoscenza tacita, e fa venire meno anche la tradizionale dicotomia tra conoscenza collettiva e individuale. Lundvall individua quattro diversi tipi di conoscenza impiegati nei processi di apprendimento. Ci sono le conoscenze sui fatti (il 15 Cfr. Nonaka e Takeuchi (1995). Per una discussione su questo approccio si veda anche Rullani

(1995).

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know-what) relative a standard produttivi, routine organizzative e archivi informativi nei quali si depositano i saperi consolidati (expertise) su alcune attività o tematiche e ai quali è possibile accedere per trovare risposte a domande specifiche. Ci sono poi le conoscenze più propriamente scientifiche (know-why), che si esprimono mediante linguaggi formali e astratti, in base alle quali è possibile avere spiegazioni razionali sui principi di funzionamento dei sistemi osservati, e quindi sulle condizioni di cumulabilità delle conoscenze e della loro replicabilità in altri contesti, evitando di incorrere nei più lenti processi di sperimentazione per prova ed errore. Il terzo tipo di conoscenza è il know-how, che richiama le competenze pratiche accumulate nel corso dell’esperienza economica e produttiva, come l’abilità nell’uso di una macchina complessa, nella lavorazione di un materiale, nella creazione di un prodotto o componente. Infine, il quarto tipo di conoscenza è relativo alle “capacità sociali” di individuare “chi sa cosa e chi sa come fare cosa” (know-who). Quest’ultimo tipo di conoscenza comporta, secondo Lündvall, “la formazione di relazioni sociali speciali tra gli esperti coinvolti, che permetta di avere accesso e utilizzare le loro conoscenze in maniera efficiente”16 Così come per Nonaka il processo di creazione di conoscenza è caratterizzato dalla continua combinazione di saperi pratici con forme di conoscenza codificata, per Lündvall l’apprendimento è fondamentalmente un processo interattivo tra diversi tipi di conoscenza, dove la dimensione sociale e inter-organizzativa degli scambi costituisce un fattore di potenziamento della learning economy.Se su questo quadro teorico si inserisce il contributo degli studi organizzativi, di psicologia del lavoro e di analisi delle risorse umane17, si può ottenere uno schema delle principali dimensioni che definiscono il concetto di competenza lavorativa. Sono essenzialmente tre gli aspetti che, anche da un punto di vista metodologico, è necessario considerare: una prima dimensione è rappresentata dalle competenze tecnico-pratiche (skills,

know-how, abilità manuali e operative, etc.) che si acquisiscono attraverso l’esperienza produttiva on the job e processi di interazione comunicativa diretta orientati all’efficacia dell’azione. Il presupposto per l’apprendimento di questo tipo di conoscenze è la condivisione di una base comune di regole, valori e di esperienze, che si forma e tende a rafforzarsi con lo sviluppo dell’interazione stessa;

una seconda dimensione è rappresentata dalle competenze di tipo cognitivo (bagaglio di saperi scientifici e tecnologici, capacità analitiche e di astrazione, possesso di linguaggi formali) che si formano mediante trasmissione di conoscenze codificate e lo scambio comunicativo entro comunità scientifiche e tecniche in un quadro di “aspirazione alla verità”;

la terza dimensione definisce invece le competenze organizzative e relazionali (capacità di attivare relazioni, propensione al rischio, grado di autonomia, impegno al dialogo) in base alle quali si attua la divisione del lavoro tra individui e gruppi, e le risorse di conoscenza vengono allocate sulla base di un criterio di efficienza. Queste competenze possono essere il frutto sia della personalità degli individui e delle loro capacità relazionali, ma anche degli assetti istituzionali e dei sistemi di governance entro i quali l’attività produttiva si esprime.

16 Lündvall (1995); Lündvall e Barras (1998).17 In aggiunta ai riferimenti citati nel precedente cap. 2, si vedano anche Levati e Saraò (1998);

Ajello e Meghnagi (1998).

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Una prima e provvisoria conclusione del ragionamento sviluppato fino a questo punto è che i contesti locali di produzione costituiscono, soprattutto per le piccole e medie imprese, una base rilevante, ancorché non esclusiva, per la formazione di competenze pratiche e relazionali. Le competenze di tipo cognitivo sono invece più aperte ai circuiti globali della comunicazione scientifica, anche se va osservato come la loro valorizzazione produttiva sia chiaramente ancorata a domande e condizioni di utilizzo che si formano nei sistemi concreti dell’agire economico.E’ questa specificità dei contesti che ha orientato l’indagine a base territoriale sulle figure professionali e sui relativi fabbisogni di competenze, assumendo che la loro formazione costituisce sia un risultato dell’esperienza produttiva e cognitiva che si sviluppa nel contesto, sia una condizione per assicurare capacità di risposta del sistema economico locale alle nuove sfide competitive.

6. L’analisi di scenario sullo sviluppo locale

Per ricostruire i fabbisogni di figure professionali critiche in modo coerente all’impostazione assunta in questo studio, è stato necessario impostare, per ogni sistema produttivo locale, un’analisi di scenario. L’analisi di scenario costituisce la premessa logica e un importante ausilio argomentativo per portare gli attori locali a prospettare, con un sufficiente grado di coerenza, le principali esigenze professionali che si creeranno nei percorsi di sviluppo delle imprese. In termini generali, una prima distinzione riguarda la capacità di tenuta delle specializzazioni produttive oppure l’esigenza di differenziare le attività caratteristiche del sistema locale. Se, ad esempio, si valuta che un distretto abbia oramai raggiunto lo stadio di maturità e si approssimi una fase di declino irreversibile della produzione (a causa della saturazione dei mercati, dell’affermazione di nuovi competitor, o di fenomeni di sostituzione dei prodotti) allora le figure professionali critiche saranno quelle che aiuteranno il sistema locale di imprese a differenziare la produzione e riposizionarsi in un nuovo scenario competitivo. Se, invece, non è la tenuta di una produzione specializzata ad essere messa in discussione, bensì la configurazione dei processi tecnologici e organizzativi delle imprese e il presidio di alcune attività nella catena del valore, allora le professionalità critiche si attesteranno sulle funzioni produttive destinate ad avere un ruolo strategico nella nuova rete di divisione del lavoro. Una terza ipotesi è che la stessa continuità produttiva e tecnico-organizzativa del sistema locale possa essere messa a rischio non tanto da minacce esterne ma dall’esaurimento di risorse professionali e lavorative interne all’area (una situazione già oggi presente in molti distretti italiani). In questo caso il problema sarà come favorire, attraverso adeguati investimenti infrastrutturali, cognitivi e promozionali, la continuità del processo di riproduzione delle competenze contestuali, al limite anche estendendo le reti di divisione del lavoro e aumentando la produttività delle risorse impiegate (processo che richiede a sua volta figure professionali specifiche).In ogni caso, queste diverse situazioni e le altre possibili che si dovessero individuare vanno innanzitutto testate attraverso l’analisi di scenario, vale a dire attraverso lo studio delle prospettive strategiche del sistema produttivo locale (generalmente per cluster di attività) misurando, rispettivamente, i punti di forza (Strenghts) e di debolezza

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(Weaknesses) interni al sistema, e l’insieme di opportunità (Opportunities) e minacce (Threats) provenienti dall’ambiente competitivo esterno.Per quanto riguarda i punti di forza e di debolezza è da considerare la qualità dei principali fattori territoriali presenti (o carenti) in relazione al cluster settoriale analizzato: risorse umane (professionali, imprenditoriali, lavorative), economiche e relazionali (legami di filiera, input intermedi, servizi dedicati), risorse fisiche e infrastrutturali (accessibilità alle reti, offerta di servizi reali, qualità della vita), risorse di capitale (struttura del credito, facilità degli impieghi), istituzionali (efficacia dei sistemi decisionali pubblici e qualità delle relazioni industriali), cognitive, formative, etc. E’ da osservare che, come ha sottolineato Michael Porter, nell’analisi dei fattori territoriali del vantaggio competitivo l’attenzione va riservata più ai processi di creazione dei fattori che non alla loro semplice dotazione. Nel contesto della ricerca, questo è un aspetto particolarmente rilevante, soprattutto nella prospettiva di analizzare le trasformazioni nelle condizioni dei fattori, a partire dalle risorse lavorative e professionali.Per quanto riguarda le condizioni dell’ambiente competitivo, sono state misurate in particolare le opportunità tecnologiche e di mercato che possono rafforzare il sistema produttivo locale, così come sono state considerate le minacce costituite dall’emergere di nuovi competitor nella scena mondiale, il possibile esaurimento o cambiamento della domanda, l’affacciarsi di nuovi paradigmi tecnologici che mettono in discussione i processi produttivi o la qualità relativa dei prodotti. Le due prospettive – interna ed esterna – dalle quali osservare i processi di cambiamento del sistema produttivo locale costituiscono due dimensioni complementari dello sviluppo. Per comprendere il meccanismo dello sviluppo non è infatti possibile separare la componente endogena da quella esogena, è necessario invece guardare al processo di accoppiamento strutturale tra i caratteri propri del sistema locale (le sue risorse interne e le capacità di integrazione versatile) e le tendenze economiche e tecnologiche di ordine generale (che si esprimono perciò a scala globale). E’ dunque nella capacità di mantenere a lungo una condizione di accoppiamento strutturale tra sistema locale e mercato globale che si misura la sostenibilità economica del processo di sviluppo.18

7. Le fasi della ricerca e la metodologia utilizzata

La prima fase della ricerca è costituita nella scelta delle economie locali oggetto di studio, che è stata guidata dall’esigenza di individuare dei sistemi produttivi contraddistinti dalla presenza di reti di imprese specializzate in settori tipici dell’economia regionale ma, anche, dalla rilevanza di processi di riposizionamento competitivo e riaggiustamento industriale. Le economie locali studiate sono, quindi, quelle che risultavano particolarmente interessanti proprio perché soggette a consistenti mutamenti dovuti agli effetti della globalizzazione dei mercati, delle trasformazioni tecnologiche e produttive, dello sviluppo di nuovi prodotti.Nel caso veneto gli studi sono stati condotti: nel distretto della calzatura sportiva di Montebelluna (sport-system); nel sistema di impresa elettromeccanico di Montecchio Maggiore.

18 Su questo punto sia consentito rinviare a Corò (1998). Si veda anche Dematteis (1995).

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Nella seconda fase della ricerca si sono individuate le figure professionali critiche nei contesti locali oggetto di analisi. Per figure professionali critiche intendiamo quelle figure legate a funzioni strategiche per lo sviluppo delle imprese e più in generale delle economie locali. Le caratteristiche essenziali che contraddistinguono le figure qui definite critiche sono: le figure rispondono a funzioni strategiche che l’economia locale deve rafforzare

affinché si verifichi una relazione positiva tra sviluppo del capitale umano e crescita economica;

le figure soddisfano fabbisogni non necessariamente espressi in modo palese dalle imprese o che, quanto meno, non sono legati esclusivamente alla soddisfazione di una richiesta esplicita e immediata espressa dalle aziende19.

Una volta individuate le funzioni strategiche e le relative figure professionali, si è condotto uno studio approfondito su tali figure al fine di capire quali siano i contenuti in termini di competenze che le caratterizzano. La terza fase della ricerca è dunque consistita nel passaggio dall’anagrafe delle figure professionali all’analisi dei loro profili.La quarta e ultima fase della ricerca si è invece concentrata sui temi della politica formativa. A partire dai risultati emersi dallo studio dei profili delle figure professionali, si sono svolte alcune riflessioni sul sistema di formazione dei lavoratori nelle economie locali.La ricerca ha utilizzato diversi strumenti metodologici per analizzare sia le economie locali che le figure professionali. Nel primo step si sono svolte le interviste ai testimoni privilegiati seguendo uno schema semistrutturato. Con tali interviste, rivolte ad imprenditori, associazioni di categoria, enti di formazione, si è cercato: di definire la struttura del sistema produttivo indagato, i suoi punti critici e i fattori di

successo; di avere le prime indicazioni sulle figure professionali critiche per lo sviluppo

dell’area.

In base ai risultati emersi si sono predisposti questionari di rilevazione rivolti ad una campione rappresentativo di imprese con l’obiettivo di testare alcune ipotesi sugli scenari evolutivi e sulle figure professionali (secondo step). La somministrazione del questionario è avvenuta per via telefonica.Da questi primi due passi della ricerca è emerso un primo quadro sugli ipotetici scenari di sviluppo futuri e sulle figure professionali che sosteranno tali evoluzioni. Le conclusioni che originano da ricerche di tipo qualitativo come la nostra, hanno bisogno di più test e validazioni. Per questo sono state promosse tavole rotonde (panel)di confronto con gli interlocutori locali appartenenti ai sistemi di impresa studiati. Questo terzo step della ricerca ha permesso di arrivare ad una definizione completa e convalidata di: un set di scenari evolutivi delle economie locali nei prossimi anni; un insieme di aree aziendali e di funzioni del distretto messe in crisi dalle

trasformazioni economiche, tecnologiche e organizzative;

19 Su questo fronte come abbiamo visto l’indagine Excelsior fornisce un importante contenuto informativo.

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un nucleo di figure professionali strategiche per lo sviluppo dell’economia territoriale.

Nel quarto step si è svolto uno studio analitico sulle figure professionali. Si è sviluppata un’analisi, utilizzando il metodo della rilevazione diretta tramite interviste, volta a costruire profili professionali che contemplassero gli aspetti relativi ai job e alle competenze. Questo approccio di studio delle figure professionali rappresenta un mix tra i più tradizionali metodi di analisi basati sulla job description e i più innovativi legati agli schemi competency based20. Con lo studio in profondità delle figure professionali si è quindi cercato di analizzare cinque diverse aspetti21:1. descrizione della figura (collocazione nell’organizzazione, contenuti, compiti,

responsabilità);2. cambiamenti previsti (nei contenuti, nel ruolo/collocazione);3. conoscenze (di base e di contesto);4. competenze (tecnico-professionali, di azione, relazionali);5. formazione e fabbisogni formativi richiesti.Va precisato che per lo studio sulle competenze ci si è avvalsi di uno schema di analisi che ha aiutato l’intervistatore a classificare le competenze a partire da racconti e/o episodi comportamentali descritti dagli intervistati. Attraverso l’utilizzo dello schema si è cercato un lessico comune, tra le diverse figure professionali, delle competenze rilevate. E’ necessario inoltre aggiungere che la ricerca non aveva come obiettivo principale la rilevazione delle competenze dei lavoratori e, pertanto, non sono state applicate le relative metodologie costruite ad hoc22.Per lo studio delle figure si sono coinvolti nell’analisi panel di esperti e i lavoratori medesimi al fine di avere un quadro informativo completo.Su alcune figure professionali si è condotta un’analisi su casi aziendali evidenziandone le differenziazioni a seconda della tipologia di impresa in cui era collocata. Per gli studi di caso si sono intervistati i lavoratori e i loro capi al fine di avere un confronto tra la percezione che ha il lavoratore del proprio ruolo e le aspettative sulla figura espresse dal suo superiore. Analogie e differenze che caratterizzano lavoratori con medesima titolarità del ruolo, nominalmente quindi assimilabili, emergono dallo studio di contesti organizzativi e produttivi diversi. Il principio che ci ha guidato nello studio delle figure professionali è stato quello di cercare di mettere in luce i profili che si esprimono nelle migliori performance. Ciò si è tradotto nel farci indicare, all’interno dei panel, le caratteristiche “ideali” del lavoratore tipo e nei casi studio, nell’intervistare i lavoratori titolari di ruolo che sono stati indicati dai responsabili del personale come quelli più efficaci nello svolgimento dei propri compiti. In pratica si è guardato ai profili dei migliori lavoratori nelle migliori aziende. In qualche modo utilizzando tali criteri nel tracciare i profili si è tentato di avvicinarsi il più possibile alle tipicità delle competenze/abilità di successo che sono richieste dalle imprese, per la cui individuazione, come abbiamo detto, nei casi di analisi micro si utilizzano metodologie più articolate (Camuffo, 1998).

20 A tal proposito si veda Gerli F. (1998).21 La griglia di rilevazione utilizzata non si discosta sostanzialmente da quella del Repertorio delle

professioni dell’Isfol (Isfol, 1998, pag. 756).22 Per un’illustrazione completa sulle metodologie volte allo studio delle competenze dei lavoratori si

rimanda oltre alla letteratura anglosassone e francese in materia anche a Camuffo A. (1998).

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8. Figure professionali e competenze critiche nelle economie locali

Obiettivo finale della ricerca era individuare le figure professionali critiche nell’evoluzione dei sistemi produttivi locali. Alla base di questa impostazione della ricerca vi è la convinzione che i sistemi locali manifatturieri del made in Italy – e quelli del Veneto in particolare – stiano attraversando una fase di cambiamenti profondi e in gran parte inediti. Il successo competitivo di questi sistemi è infatti ascrivibile proprio alla capacità di modificare il proprio assetto produttivo in funzione dei mutamenti tecnologici e di mercato, ma mantenendo stabile un nucleo invariante di conoscenze e competenze distintive e di relazioni economiche. Dalla prospettiva di una analisi dei percorsi evolutivi, la ricerca si è mossa assumendo l’indagine sulle figure professionali critiche come un modo per osservare non solo le trasformazioni in atto nell’area, ma anche la funzione che il rinnovamento del capitale umano e cognitivo può svolgere nell’accompagnare il distretto a compiere i passaggi critici che oggi ha di fronte. In questa ottica, la formazione delle figure professionali critiche e, più in generale, l’innalzamento delle competenze del capitale umano, assume un ruolo assolutamente fondamentale nel quadro delle politiche industriali per l’innovazione. Le figure professionali sulle quali ci siamo soffermati sono dunque, quelle legate più alle esigenze di evoluzione del sistema produttivo locale che non ai bisogni immediati – numericamente più consistenti – espressi dalle imprese.L’analisi dei profili professionali condotta nei due sistemi locali ha cercato di andare oltre una semplice elencazione dei job richiesti, cercando invece di approfondire sia i contenuti in termini di competenze “eccellenti” sia il profilo professionale di fronte ai cambiamenti tecnologici e organizzativi del mondo produttivo. Per quanto riguarda il distretto di Montebelluna, le figure critiche individuate sono state le seguenti: operatore CAD modellista tecnico di prodotto responsabile della produzione caporeparto operaio specializzato tecnico di sourcing responsabile marketing direttore commerciale tecnico del controllo di gestione tecnico del controllo qualità progettista responsabile della logisticaLe figure indicate presiedono le funzioni strategiche che il distretto deve sviluppare per mantenere un vantaggio competitivo sostenibile negli scenari di evoluzione futuri. Le funzioni sono legate 1) alla ricerca di nuove soluzioni (di prodotto o di materiale) mirate a soddisfare una domanda latente o palese da parte del consumatore, 2) al miglioramento dell’efficienza produttiva all’interno delle singole organizzazioni, 3) alla capacità commerciale intesa come sviluppo della conoscenza dei mercati concorrenti e delle esigenze della clientela, 4) allo sviluppo dell’attenzione alla qualità del prodotto che passa anche attraverso la qualità del processo, 5) alla ricerca dei fornitori interni ed esterni (anche esteri) idonei a soddisfare le richieste dell’azienda committente, 6) alla

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crescita di una funzione logistica non più rivolta all’interno dell’azienda ma al governo dei flussi interaziendali e internazionali.Per l’economia locale di Montecchio Maggiore sono emerse, di fatto, le medesime funzioni strategiche (anche se non necessariamente le medesime figure), a conferma che l’evoluzione produttiva di questi sistemi presenta, indipendentemente dalle specializzazioni tecniche, le stesse criticità. La diversità del tra la filiera dello sport system di Montebelluna e la produzione elettromeccanica di Montecchio Maggiore risalta nella criticità di figure con ruoli che, seppure più operativi, accomunano conoscenze specialistiche a competenze che spesso esulano dalle mere posizioni esecutive proprio in ragione delle trasformazioni nel modo di operare dentro e fuori l’azienda.In particolare, in termini di figure professionali i risultati per Montecchio Maggiore sono i seguenti: tecnico elettronico responsabile della produzione caporeparto tecnico della produzione operatore macchine a controllo numerico manutentore attrezzista montatore (meccanico/elettronico) responsabile marketing direttore commerciale tecnico del controllo di gestione responsabile del sistema qualità responsabile di progetto/commessa progettista tecnico commercialeNon è questa la sede per entrare nel merito dei singoli profili professionali per i quali si rimanda al rapporto di ricerca (Coses, 1998). Più appropriato è svolgere alcune considerazioni di sintesi sui risultati.Il primo risultato è rappresentato dalla forte analogia tra i due sistemi produttivi analizzati delle funzioni critiche in una prospettiva di sviluppo di medio periodo. Questo risultato è confermato, del resto, anche dal confronto con gli altri sistemi locali delle regioni del Nordest e Centro Italia. Una prima conclusione è, pertanto, che i principali fattori critici da tenere sotto controllo per la crescita dei sistemi produttivi locali hanno natura generale, e rinviano a trasformazioni dello scenario competitivo che accomuna più settori e aree produttive. Possiamo così affermare che siamo in presenza di una base comune di funzioni produttive e di relative figure professionali sulle quali la politica della formazione, sia essa iniziale o continua, dovrà orientare in futuro le proprie strategie.Una seconda conclusione che emerge dal raffronto tra i profili professionali delle diverse figure è la ricorrenza di alcune competenze trasversali, segnalate come rilevanti per il raggiungimento delle performance migliori. Tra queste, innanzitutto, la capacità nel ricercare informazioni, intesa come orientamento all’esplorazione di nuovi mercati, di nuove soluzioni, come studio dei comportamenti dei concorrenti, come capacità di ricevere stimoli e apprendere da altri contesti, anche settoriali, per migliorare l’efficacia delle azioni promosse all’interno dell’azienda. Questa, in particolare, è una competenza

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assai ricorrente tra le figure non strettamente legate ai ruoli operativi. E’ da sottolineare come alla capacità di ricercare informazioni è connessa, come caratteristica individuale, anche la creatività, intesa come sapere combinare le informazioni in modo da sviluppare soluzioni innovative e realizzabili.Sono inoltre risultate importanti le abilità relazionali nella gestione dei rapporti interni (lavoro in team) e dei rapporti verso l’esterno. Questo tipo di abilità diventa una competenza critica per tutte le figure che, nel proprio lavoro, devono interfacciarsi con colleghi o devono agire all’interno di reti interne ed esterne al distretto che, negli ultimi anni, assumono sempre più un’estensione transnazionale.Rilevante è risultata anche la capacità di elaborare un orientamento al cliente. La capacità di cogliere le esigenze della clientela è una competenza necessaria non solo per soddisfare un cliente già individuato (come nel caso di commesse acquisite), ma anche per conquistare nuovi clienti, progettando e offrendo prodotti che incontrano gusti specifici e nuove esigenze. Inoltre, sapere pianificare (auto-organizzare) il proprio lavoro aumenta l’efficienza nelle prestazioni lavorative: questa competenza sottende, in particolare, la capacità di assumere un comportamento di auto-imprenditorialità che esce dai rigidi schemi direttivi del fordismo.Infine, una competenza con la quale devono misurarsi alcune delle figure studiate è data dalla capacità di decisone in situazioni di incertezza e di stress. Questa competenza è riscontrabile in tutte le figure investite da ruoli manageriali, ma anche in ruoli intermedi sui quali gravano a volte responsabilità di azioni da prendere in fretta e, magari, in assenza di informazioni soddisfacenti.Le competenze qui indicate diventano rilevanti man a mano che ci si allontana dalle figure più operative, dotate di modesta discrezionalità, e ci si avvicina alle figure che ricoprono ruoli più complessi anche se non manageriali. Quanto più un modello organizzativo si basa sull’autonomia, sulla flessibilità dei propri lavoratori e sul loro coinvolgimento, tanto più diventa importante che il lavoratore possieda le competenze di azione, di realizzazione e quelle relazionali per il raggiungimento degli obiettivi dell’impresa, che, nel caso di partecipazione ai risultati, diventano obiettivi anche del lavoratore.

9. La formazione come politica per l’innovazione

Nei sistemi economici moderni la formazione si configura sempre più chiaramente come uno strumento essenziale di politica economica e industriale per l’innovazione. E’ questa una conclusione che può forse sembrare scontata, tuttavia è questo un concetto da ribadire e sostanziare alla luce delle profonde trasformazioni che stanno caratterizzando il mondo della piccola impresa, e in particolare dei sistemi produttivi locali del Made in Italy. Infatti, questi sistemi locali – che hanno manifestato nel corso degli anni 80 e 90 una vitalità straordinaria in termini di crescita economica, capacità di esportazione, livelli di occupazione, e che hanno contribuito in modo decisivo ad assicurare all’Italia il difficile passaggio all’Euro – stanno oggi attraversando una complessa fase di trasformazione che li sottopone a nuove e inedite tensioni. L’esaurimento degli effetti della svalutazione del 1992-95, che coincide con le turbolenze dei mercati finanziari

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provocate dalla crisi delle economie asiatiche, apre scenari competitivi nei quali risulterà assai difficile mantenere a lungo le posizioni raggiunte, e rende necessario accelerare processi di cambiamento interno e di riposizionamento internazionale per i quali, sebbene vi sia consapevolezza tra gli attori locali, le soluzioni non risultano affatto “naturali”. All’origine di queste spinte al cambiamento vi sono fenomeni in parte già noti, ma è la rapidità con la quale esse si stanno imponendo che accresce l’urgenza di scegliere tra le opzioni in campo. C’è innanzitutto l’aumento della pressione concorrenziale esercitata da aree a basso costo del lavoro (dell’Europa orientale, della Cina e dell’Est-Asia, in parte anche del Sud America), dove, pur tra molte contraddizioni, cominciano a consolidarsi una base di istituzioni economiche e un insieme di capacità e competenze non più solo derivate dagli investimenti esterni. Paradossalmente, sono stati proprio i processi di decentramento produttivo attivati anche dai sistemi locali manifatturieri italiani a creare le premesse di uno sviluppo di aree che oggi, com’è inevitabile, tendono ad occupare propri spazi di mercato e ad insidiare le nicchie di mercato in cui si riteneva di possedere un vantaggio stabile. La minaccia concorrenziale è maggiormente sentita nei sistemi locali della manifattura più tradizionale – come quelli del tessile, dell’abbigliamento e della calzatura, per il momento meno in quelli del mobile – ma le tensioni iniziano a farsi sentire anche per alcune produzioni meccaniche – della meccanica strumentale, dell’elettromeccanica e dell’elettrodomestico – che vedono ridursi gli spazi di mercato che inizialmente si erano ampliati proprio attraverso il decentramento della manifattura tradizionale (e che sono ben documentati dal trade-off nella composizione dell’export registrato negli ultimi anni). Processi di rafforzamento economico nelle aree in via di sviluppo e fenomeni di backward linkages nelle filiere produttive di questi Paesi si uniscono ad un nuovo e più difficile quadro macro-economico internazionale in cui i rapporti di cambio non giocano più – e giocheranno sempre meno – a favore della manifattura italiana.A questa situazione si aggiungono altri due fenomeni rilevanti: da un lato la sofisticazione e la crescita di variabilità e indeterminatezza della

domanda nei mercati più evoluti, che riguarda sia i beni finali che gli input intermedi, e che richiede nuove modalità di comunicazione e di organizzazione delle relazioni tra produttore e consumatore;

dall’altro il ruolo sempre più pervasivo della tecnologia, attraverso la quale si creano nuovi prodotti e servizi, si impongono nuovi materiali, si ridisegnano i processi anche nei settori supplier dominated.

In questo quadro, l’innovazione non rappresenta più per le imprese un episodio occasionale ma un fattore di competitività con il quale confrontarsi in modo sistematico, e senza il quale si rischia facilmente di perdere le condizioni di vantaggio.Analizzando in questa prospettiva le figure professionali emergenti, abbiamo osservato che, nei sistemi produttivi considerati nel corso della nostra ricerca, le direzioni che imprese e istituzioni locali stanno assumendo portano ad almeno tre distinte direzioni: nei distretti industriali del made in Italy l’opzione che sembra emergere e affermarsi

è quella della riconfigurazione delle attività presidiate localmente nella catena del valore, con la crescita delle funzioni a monte e a valle del ciclo (progettazione, design, ricerca sui materiali e sviluppo dei prodotti, logistica, controllo di qualità, distribuzione) e la progressiva riduzione delle operazioni più direttamente manifatturiere. Fino ad oggi questo processo è stato abbastanza lento, sia perché le condizioni macro-economiche rendevano meno conveniente procedere a radicali decentramenti di attività (la svalutazione e le turbolenze internazionali hanno

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certamente giocato in questo senso come freno), sia perché è risultato finora difficoltoso il rinnovamento dal basso di attività, mestieri e funzioni produttive le cui competenze sono state create nel lungo periodo, e sulle quali si sono costruite istituzioni, aree di interesse e identità sociali dalle quali è difficile separarsi. Inoltre, un freno all’evoluzione di funzioni terziarie è venuto anche dai processi di merger & acquisition effettuati negli ultimi anni da imprese multinazionali, le quali hanno sì portato nei distretti nuove risorse finanziarie e manageriali – che hanno così contribuito a rinnovare gli impianti, modernizzare l’organizzazione produttiva e aprire nuovi mercati – ma hanno generalmente tenuto all’esterno le funzioni strategiche a maggior contenuto di conoscenza (come la progettazione, la ricerca, il marketing), per le quali è invece proseguito il processo di concentrazione nei propri centri direzionali. In ogni caso, nei prossimi anni la riduzione delle operation di fabbrica dei distretti italiani è destinata ad accentuarsi, anche perché le strategie di investimento delle imprese leader – di quelle arrivate dall’esterno e di quelle cresciute all’interno del sistema produttivo locale – hanno margini di mobilità spaziale decisamente superiori del passato. Questo comporterà una forte selezione della fornitura tradizionale e un innalzamento delle soglie di qualità richieste anche all’industria locale. L’idea di abbandonare completamente il presidio manifatturiero è non solo improbabile ma anche sbagliato: senza una base produttiva industriale anche la ricerca, la progettazione, la prototipazione e le attività di controllo di reti decentrate, rischiano di perdere di importanza, poiché verrebbe a mancare una fonte fondamentale di apprendimento e di sviluppo della cultura del prodotto. Il problema che anche le politiche formative dovranno affrontare, sarà piuttosto quello del giusto equilibrio da raggiungere tra la crescita di funzioni di controllo strategico e la produzione industriale di alta qualità, per la quale la domanda è destinata a crescere anche per effetto dello sviluppo dei mercati emergenti;

una seconda direzione è quella della differenziazione, della riconversione e dell’apertura verso nuovi settori. Questa direzione si sviluppa anche in corrispondenza del riposizionamento su nuove funzioni, alle quali il mercato locale e le reti captive del distretto non sono più in grado di assicurare le economie di scala necessarie agli investimenti produttivi. Il fenomeno più tipico in questa prospettiva è la generale crescita dei diversi comparti della meccanica – ma ciò vale anche per attività più specifiche come la stampistica, l’editoria e la cartotecnica, la produzione di componenti, etc. – che se in origine erano cresciuti a supporto di un settore manifatturiero guida, oggi tendono ad inserirsi in nuove reti di divisione del lavoro, molto più estese geograficamente e più articolate settorialmente. Il problema, in questo caso, è come rinnovare senza disperdere quel nucleo invariante di conoscenze, cultura produttiva e identità sociale su cui sono cresciute la base locale di relazioni e la reputazione internazionale dei distretti originari. La formazione ha dunque anche in questo caso un ruolo importante, focalizzando le nuove aree di sviluppo in rapporto alle tradizioni dell’area (l’automazione meccanica per il tessile, la stampistica per la calzatura sportiva e la plastica, la multimedialità nei beni culturali e museali, etc.) e favorendo l’accesso alle nuove reti applicative per beneficiare delle necessarie economie di replicazione della conoscenza;

una terza direzione è quella della crescita dei contenuti scientifici e tecnologici nella produzione. Sia nei settori tradizionali (come l’abbigliamento, la calzatura, il mobile o i servizi turistici) che in quelli più avanzati (i grandi impianti, l’elettromeccanica, il multimediale) la base di conoscenze tecnologiche indispensabili al mantenimento di

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un vantaggio competitivo diventa molto più complessa e pervasiva, coinvolgendo trasversalmente figure professionali alle quali un tempo non venivano richieste particolari competenze tecniche (come, ad esempio, accadeva alle funzioni commerciali, a quelle manageriali o alle attività “creative”). Nei settori supplier dominated diventa strategica la ricerca sui nuovi materiali, sui sistemi di automazione e sulle tecnologie di rete attraverso le quali “virtualizzare” i contesti di relazione business-to-business e raggiungere direttamente il consumatore finale. Nelle diverse filiere della meccanica l’attività di vendita del prodotto è sempre meno una funzione scollegata dalla progettazione, dalla ricerca e dalle diverse fasi di produzione, in quanto la domanda di qualità tende ad orientarsi verso sistemi integrati e specifici, a cui si chiede dunque anche un alto livello di servizio di assistenza e manutenzione post-vendita. E in tutte le aree produttive – tanto più se organizzate su reti di global sourcing – diventano strategici i sistemi di connessione logistica, di accreditamento e controllo di qualità. Sono queste attività che non necessariamente le imprese distrettuali devono assicurare al proprio interno ma con le quali devono tuttavia saper dialogare, sviluppando un’interfaccia intelligente in grado di selezionare i fornitori specializzati più idonei.

L’insieme di queste trasformazioni genera una diffusa, ma spesso anche confusa, domanda di formazione. In realtà, sempre più frequentemente si tende rinviare alla formazione come ad uno strumento demiurgico, in grado di risolvere problemi la cui fonte di complessità non è solo cognitiva, ma anche sociale, istituzionale e per molti versi anche politica, in quanto gli interessi in gioco non sono affatto convergenti, bensì molto spesso tra loro in conflitto. Investire per lo sviluppo di nuove funzioni immateriali, o per la riconversione di alcuni settori, o per l’innalzamento dei livelli tecnologici delle produzioni si scontra con lo scetticismo (quando non con una vera e propria ostilità) degli operatori e delle professioni tradizionali, che con le loro attività hanno costruito non solo la propria base di esistenza economica ma anche una identità socialmente riconosciuta nel sistema locale. Inoltre, la formazione non è che uno strumento tra i molti possibili e necessari di politica per l’innovazione, tra i quali i servizi per il trasferimento tecnologico, per la certificazione e la qualità, per la creazione di impresa, per il sostegno all’apertura internazionale, per la ricerca sui nuovi prodotti e i nuovi materiali, per l’introduzione e l’accesso a sistemi di comunicazione multimediale, per l’utilizzo di nuovi strumenti finanziari, etc.. Per essere efficace, una politica per la formazione deve perciò sapersi integrare con questi strumenti, uscendo da quella logica di separatezza e di autoreferenzialità nella quale troppo spesso è caduta per diventare invece una componente essenziale di progetti di innovazione congiunta.

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