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PRASSI ANALITICA E CRISI DELLA CONTEMPORANEITA'
San Servolo - Seminario Residenziale CIPA 16 -17 -18 Novembre 2012
INTRODUZIONE
Enrico Ferrari
I Seminari Residenziali del CIPA costituiscono un'occasione unica per promuovere la
riflessione e coltivare l'appartenenza.
Nel preparare il presente Seminario, l'Istituto di Milano ha espresso il desiderio che la nostra
appartenenza al CIPA venga coltivata nel continuo domandarci in quale modo poter essere
significativi per coloro che con coi condividono la stanza d'analisi: i pazienti. E in un continuo
sforzo di comprendere il mondo in cui essi, assieme a noi, abitano. Da qui il titolo: “Prassi
analitica e crisi della contemporaneità”, con il quale diamo per assodato che la
contemporaneità sia attraversata dalla dimensione della crisi, e che la prassi analitica non
possa non farsi interpellare da essa.
Nuovi pazienti, nuovi setting, nuovi interrogativi sulla psicologia analitica, nuove forme di
precarietà del vivere, nuove sollecitazioni provenienti dalla tecnologia e dai suoi nuovi stili
comunicazionali, specie nell'ambito dell'adolescenza: sono queste le declinazioni del rapporto
tra prassi analitica e mondo contemporaneo che abbiamo scelto di sviluppare, convinti di non
poter svolgere il nostro lavoro senza saper leggere il tempo presente e abitare la crisi che gli
uomini e le d'onne d'oggi vivono, a motivo dell'incertezza degli scenari culturali e delle
limitatezze degli scenari economici. Conoscendo già le difficoltà di dare risposte sicure e
anticipando l'inquietudine del dover comunque rimanere nella domanda.
Del resto, saper stare nella domanda, saper formulare delle domande più che avere delle
risposte, sembra oggi il requisito irrinunciabile per chi voglia essere analista. In special modo
per chi voglia essere analista junghiano. Perché se c'è un elemento che indubitabilmente
connota la psicologia junghiana, questo è il suo carattere dialettico, di apertura al nuovo e di
accoglimento delle istanze della storia, al di là di ogni pretesa dogmatica e di ogni edificazione
teorica di una fissità naturalisticamente data.
E abbiamo scelto di svolgere tutto questo nostro lavoro proprio a Venezia: sede di bellezza, di
storia e di cultura; ma anche sede di commercio, quindi di capacità di incontro, di scambio e di
dialogo, fin anche di contaminazione con le diverse culture. E, a Venezia, abbiamo scelto l'Isola
di san Servolo, segnata all'inizio del secondo millennio dall'essere stata luogo di preghiera e di
contemplazione, non disgiunte dall'operosità, in quella mirabile sintesi che è propria del
movimento benedettino. E poi, negli ultimi due secoli, l'Isola di san Servolo è diventata
ospedale militare per malati di mente, fino ad essere vero e proprio ospedale psichiatrico:
luogo di cura dell'esperienza della follia, con tutte le ombre e le contraddizioni che la
psichiatria manicomiale ha comportato. Il manicomio è durato fino al 1978, quando la Legge
180, la famosa “legge Basaglia” (il famoso psichiatra è nato proprio a Venezia), ha chiuso con
l'esperienza dei recinti della psichiatria e ha aperto la possibilità di nuove donazioni di senso
all'esperienza della sofferenza psichica ed alla sua cura.
Fino ad arrivare, all'inizio degli anni 90 del secolo scorso, ad essere restituito alla cultura
come Centro Studi.
Ed eccoci allora qui, a cercare di congiungere bellezza, dialogo, cura. Sono questi i tre luoghi
umani, di emozione e di pensiero, che cercheremo di visitare e di conoscere in questi tre
giorni.
RELAZIONE D'APERTURA
PRASSI ANALITICA E CRISI DELLA CONTEMPORANEITA'
Marco Goglio
“Sifilitici, dissoluti, dissipatori, omosessuali, bestemmiatori, alchimisti, libertini: tutta una popolazione variopinta si trova d’un tratto, nella seconda metà del XVII° secolo, rigettata al di là di una linea di separazione, e rinchiusa in asili che erano destinati a diventare, dopo un secolo o due, i campi chiusi della follia.”1
Premessa
Siamo ospiti sull’isola di San Servolo a Venezia, dove nacque Basaglia, regista della crisi
dell’Istituzione manicomio che ha proiettato la psichiatria nel tempo della contemporaneità.
Nel 1725 il Consiglio dei Dieci emette il primo documento dell’Istituto di San Servolo ed invia
sull’isola “L’Illustrissimo Signor Lorenzo Stefani […] come pazzo”.
Nei locali del museo si trovano anche alcune apparecchiature per l’elettroshock la cui
paternità è italiana; l’inventore fu il neuropsichiatra romano Ugo Cerletti, che la utilizzò per la
prima volta nel 1938. Ma San Servolo fu, in precedenza, anche scenario di cambiamenti con
l’applicazione di una terapia innovativa: la musicoterapia. Suo promotore fu Cesare Vigna,
Vice Direttore del manicomio nella seconda metà dell’Ottocento, nonché grande amico del
compositore Giuseppe Verdi (in esposizione, il pianoforte utilizzato all’epoca per le terapie
nella “sala della musica”).
Questo luogo ha visto la storia della psichiatria a partire dal contraddittorio “trattamento
morale” (di Pinel2 ed Esquirol) che alternava il momento del silenzio dove, critica Foucault, il
malato “liberato dalle catene, si trova ora incatenato, dalla virtù del silenzio, alla colpa e alla
vergogna”3, al momento del riconoscimento nello specchio, dove lo sguardo del folle agirà solo
all’interno dello spazio della follia(“Essa vedrà se stessa e sarà vista da se stessa”4) per
1 Rodotà S., Foucault e le nuove forme del potere, La biblioteca di Repubblica, Roma, 2011 2 Pinel Ph., Traité médico-philosophiche sur l’aliénation mentale, Paris, 1809 3 Foucault M., Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 1973 4 ibidem
concludere nel momento del giudizio perpetuo dove la follia sarà chiamata a giudicare se
stessa. Se questo approccio delle sintesi morali profila il manicomio come un microcosmo
giudiziario, dall’altro scrive Esquirol nel 1805, che l’alienista, per “guarire” i soggetti internati,
deve riuscire a “mettersi in armonia” con l’ “idea‐madre” da cui derivano i loro “pensieri”, i
loro “ragionamenti”, i loro deliri.
L’osservazione, la sintonia, l’esser‐ci nel “qui ed ora” tra medico e paziente aprirà a Basaglia la
possibilità di tornare nel mondo, lui con i suoi malati.
Heidegger scrive che la dimensione in cui l’esserci quotidiano si esprime naturalmente è nel
mondoambiente (la mondità)5, la cura diviene tale quando il terapeuta come il malato si
pongono come essere avanti a sé in un mondo in quanto entrambi facente parti del mondo.
L’organismo umano non può essere considerato alla stregua di un semplice oggetto di natura
(e quindi di studio) ma gli elementi della forza dell’essere derivano dalla possibilità di esser‐ci
nel tutto in sé (mente e corpo), come essere‐nel‐mondo ed essere‐oltre‐il‐mondo (koinonia)6.
Proprio queste basi portano Basaglia all’incontro con l’altro dove lo psicolologo ed il medico
dovranno supplire all’incapacità di aprirsi del malato e dovranno essi stessi provocare
l’incontro7.
L’incontro nasce da una investigazione atropo‐fenomenologica come “rapporto intuitivo nel
quale si fonde l’unità del medico e del malato formandone una unica che precede le due
singole entità.”8
1 ‐ Contemporaneità tra globalizzazione e nuove emergenze.
Anche oggi siamo immersi nel cambiamento continuo dell’individuo in una società in crisi.
Per osservare queste dinamiche complesse nello scenario della contemporaneità dobbiamo
mettere a fuoco i confini dei territori che si confrontano, vedere i limiti, vedere il nostro
territorio e accorgerci che oltre il confine c’è un altro territorio, … che limita la nostra
comprensione.
5 Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2005 6 Bisnwanger L., L’importanza dell’analitica esistenziale di Martin Heidegger per l’autocomprensione della
psichiatria, Astrolabio, Roma, 1973 7 Molaro A., Civita A., Binswanger e Freud, Cortina, Milano,2012 8 Basaglia F., Su alcuni aspetti della moderna psicoterapia: analisi fenomenologia dell’incontro, Einaudi, Torino,
1981
Nel corso di questo mia sollecitazione proporrò alcune riflessioni e non certo soluzioni ad
un tema così complesso, alternandole a domande che vogliono rappresentare spunti per
una vostra elaborazione (anche onirica vista l’ora serale).
Ognuno di noi appartiene a diversi ambiti di vita, comprende esperienze interiori
differenti, a volte integrate a volte frammentarie, ognuno di noi ha l’esperienza di
frequentare varie parti di sé. Nel mondo in cui viviamo ci capita di passare varie esperienze in
cui il nostro io attraversa mondi e tempi diversi, siamo sottoposti a molteplici relazioni ma
anche sollecitati da informazioni variegate e complesse.
Una lettura rigida e precostituita di questo scenario limiterebbe la ricchezza delle
informazioni ricevute; un analogo scenario capita quando l’uomo rappresenta in modo rigido
le varie facce del proprio mondo interiore, rischierebbe di disperdere il proprio io in molte
maschere vuote.9
Una prima domanda (o alcuni dubbi …)
1) L’individuo moderno prosegue la lotta prometeica contro la parte oscura di sé (ombra)
impedendo l’integrazione di polarità opposte e l’affermarsi di un’espressione
originale e libera del sé?
Tra rigidità e opposizione rimane aperta una possibilità di gioco solo se nella sincronia del
nostro presente le varie parti mantengono una disponibilità reciproca che permette il
passaggio tra una e l’altra. Questa fluidità che connette le diverse polarità in tensione
reciproca (e spesso in contrasto) ci permette di convivere con le percezioni, le emozioni ed i
pensieri che compongono il nostro mondo interno e ben rispecchiano le complessità del
mondo contemporaneo in cui viviamo.
Ognuno di noi deve fare i conti col tempo presente ma allo stesso tempo col proprio
tempo interno che contempla le visioni che abbiamo avuto nel passato, i nostri cambiamenti,
i cambi di lavoro e quelli affettivi che hanno complicato le nostre scelte.
Oggi che i passaggi rituali sono meno connotati rispetto alle culture arcaiche (o religiose), la
soglia del diventare adulti ci viene proposta come un passaggio a forme di vita diverse, di
adattamento a nuove relazioni e condizioni, di apprendimento di nuovi ruoli e responsabilità.
Adultità diviene la capacità di lasciare alle spalle quello che eravamo per accogliere il nuovo
che siamo.
9 A. Melucci, Passaggi d’epoca, Idee Feltrinelli, Milano, 1994
Gehlen ha stabilito uno degli assunti dell’antropologia filosofica più famoso e più largamente accettato (e che
contribuisce a renderlo il filosofo più rilevante in questo campo): l’uomo è caratterizzato da una carenza
istintuale, da una “nudità” originaria che è segnalata tanto da una costituzionale precocità di nascita quanto da
debolezza anatomica associata a una scarsa specializzazione degli organi. Tutto ciò rende l’essere umano
l'animale più adattabile ma anche un animale la cui esistenza dipende strettamente dalla tecnica e dal capitale
culturale e istituzionale della società in cui si trova a vivere.10
Lo scenario della contemporaneità (che chiamiamo oramai globale) ci sottopone ad
adattamenti nuovi: culture differenti per storia e contenuti, visioni del tempo e dei modi di
vivere completamente diversi tra loro. Anche le migrazioni trasformano i più sedentari di
noi ad essere viaggiatori non solo nel mondo ma anche nel tempo: in piazza del Duomo, a
Milano, ti imbatti in gruppi di molteplici etnie Sudamericane o Orientali, al semaforo trovi il
lava vetri albanese o il mutilato bosniaco, nella via abbandonata dietro a casa, la domenica
trovi il mercatino delle cose usate che a me riporta a quando accompagnavo mio padre alla
fiera di Senigallia dove si vendevano anticaglie o oggetti usati, pezzi di bombe esplose nella
guerra, elmetti tedeschi.
2) Se tutto muta come l’individuo può mantenere una unità di lettura del mondo e una
continuità con la propria storia personale?
3) Quali novità culturali conseguono all’immigrazione continua da altre culture?
L’individuo si trova esposto a sollecitazioni contrastanti: più un sistema vive al confine di
culture diverse e più l’individuo deve imparare linguaggi diversi e apprendere mediazioni
nuove.
La società globale e massificante vive una grossa ambivalenza: c’è un grande dispendio di
energie per spingere la persona all’individualità e al contempo si annullano le scelte
individuali attraverso i Mass Media che direzionano i nostri bisogni
4) Come può l’individuo integrare una forte spinta verso l’autonomia personale che
contrasta con la massificazione dei bisogni, dell’informazione, del consumismo?
10 Arnold Gehlen, L’idealismo e la dottrina dell’agire umano, con una nota di Alberto Gualandi
Zygmunt Bauman osserva che nella fase attuale, della "modernità liquida", non possiamo
più permetterci la vita edonistica e consumistica con cui abbiamo vissuto finora dalla
seconda metà del Novecento a oggi11.
Ci troviamo a vivere grandi cambiamenti negativi che vanno dall'emergenza ecologica (il
problema mondiale dell'inquinamento, l'allargamento del buco dell'ozono, lo scioglimento dei
ghiaicciai al Polo Nord, l'allarme provocato dall'insicurezza delle centrali nucleari, dopo la
catastrofe di Chernobyl è toccato alle centrali giapponesi di Fukushima nel marzo 2011) ai
problemi economici. Sembra quasi che le élites finanziarie mondiali abbiano decretato,
anche a livello politico, la debolezza o la fine dello "Stato sociale" nei vari Stati nazionali
occidentali, indebolendo anche lo status delle democrazie, diventate così sempre più dei
contenitori vuoti, dunque meno sostanziali.
5) E’ sostenibile un’educazione politica e sociale che guardi al rispetto delle persone e
della natura, piuttosto che a continuare ad abusare sia delle une che dell'altra?
2 Funzioni sociali e funzioni psichiche: dati i limiti quali le possibilità?
Occorre un nuovo modo di pensare collettivo che, come direbbe Franco Fornari (1921‐1985),
sia basato sulla "vita mea vita tua", ossia quella possibilità di sentire e pensare in termini di
responsabilità riparativa che caratterizza l'amore reciproco tra gli esseri umani, piuttosto
che sulla "mors tua vita mea", cioè la responsabilità biologica, che è "la forma più elementare
di responsabilità", o sulla "mors mea vita tua", ossia "la necessità di sacrificio" propria della
nostra specie e che Fornari chiama responsabilità etica12 (v. Fornari, 1970, p. 145), come
occorre educare a praticare i "giochi a somma diversa da zero"13, quelli basati sul
compromesso favorevole tra i soggetti, dunque anche questi basati sulla 'salvezza
reciproca', l'amore reciproco, piuttosto che i "giochi a somma zero" e che caratterizzano i
conflitti distruttivi, l'uccisione dell'altro, la guerra (v. Watzlawick, 1986, tr. it. 1987), e che lo
stesso Franco Fornari considera, in senso psicoanalitico, come "elaborazione paranoica del 11 Bauman, con Rovirosa-Madrazo, 2010, tr. it. 2011 12 Fornari, 1970, p. 28 13 M. Goglio (a cura), Quando 1+1 fa 3. La psichiatria nella logica del fareassieme raccontata da operatori, utenti, familiari e volontari, EricksonLive, Trento 2012
lutto", cioè come "esportazione sul nemico di una violenza originariamente rivolta agli oggetti
d'amore del proprio gruppo".
Sembra chiaro che un’integrazione possibile tra queste spinte conflittuali debba risultare dal
grado di apertura, di elasticità e di equità a livello personale e sociale, tale da rappresentare
la complessualità del mondo globale. In fondo proprio queste funzioni intrapsichiche di
integrare, di contenere, di vivere nel conflitto, possono minare le parzialità dei pensieri
fondamentalisti e le inflazioni di tanti nostri pazienti.
In clinica vediamo sempre più spesso forme di caratteropatia in persone incapaci di integrare
l’abbandono traumatico con le prestazioni complesse che la società chiede oggi più che prima.
Un paziente, con diagnosi di disturbo del carattere, seguito da un CPS ha perso il lavoro, ha
iniziato ad esprimere condotte antisociali gravi, ha ricevuto denunce per atti osceni e tentativi
di abuso sessuale; al giudice inquirente ha dichiarato: “La vita sociale mi diventa sempre più
complicata; da quando ho perso il padre etilista ed ho dovuto seguire mia madre demente mi
son sentito solo (ma solo lo era sempre stato). La società mi deve indennizzare del lavoro e del
sesso che non riesco più a pagare!”
6) Cosa può dire la nostra scuola, esperta di complessità, all’interno della stanza d’analisi e
all’esterno, nel mondo sociale e culturale?
La maschera che difende la persona diviene sempre più fragile e anche le personalità più
integrate vivono uno scarto tra il ruolo che mettono in gioco nel mondo e l’esperienza che l’io
sta vivendo.
Questa zona d’ombra, fatta di ritiri, di silenzi, di depressione esistenziale ci mette in contatto
col limite e può divenire una risorsa per la nuova identità dell’oggi.
Il limite diviene lo snodo cruciale; difficile confrontarsi con esso!
Molti giovani, e non pochi adulti, che arrivano in terapia tendono a dimenticarlo: tutto è
possibile, io posso fare tutto! Assistiamo spesso ad un’ipertrofia dell’io che mal si adatta
alla complessualità e rischia di spingere la persona verso chine di dipendenza (alcool, droghe,
gioco d’azzardo).
Statistiche recenti ci parlano di 1.400.000 individui, nelle fasce d’età 11/25 anni, che
manifestano “modalità rischiose” verso alchol ; se prendiamo un campione di persone sotto i
16 anni il rischio alcholcorrelato è del 18,5% nei ragazzi e del 15,5% nelle ragazze (circa
475 mila minori). Preoccupa la situazione del le donne con un incremento delle
consumatrici, nella fascia 25‐44 anni, con un incremento di consumo alcholico del 45,2% negli
ultimi dieci anni. 14
“Il bruco ed Alice si guardarono in silenzio per qualche tempo. Da ultimo il bruco si tolse di bocca il narghilé e l’apostrofò con voce languida, assonnata: ‘Ma chi sei?’ disse il bruco. ‘Ehm… veramente non saprei, signore, almeno, per ora… cioè, stamattina quando mi sono alzata lo sapevo, ma da allora credo di essere cambiata diverse volte’. ‘ Che vorresti dire,’ disse il bruco, secco, ‘spiegato meglio’. ‘Temo di non potermi spiegare, signore’, disse Alice, ‘perché non sono io’. ‘Non capisco’, disse il bruco. ‘Temo di non potere essere più chiara di così. Perché purtroppo sono la prima a non capirci nulla …’”15
Nella dispersione di unità attuale assistiamo ad una pluralizzazione del senso: la famiglia, il
gruppo di appartenenza, la scuola o l’ambito di lavoro, l’origine geografica ed etnica che
portano ad agire in modi e secondo valori che l’altro non comprende.
La moltiplicazione delle appartenenze complica ulteriormente la nostra cultura e
l’individuo che si trova ad appartenere a gruppi ed a sistemi diversi tra loro.
Analoghi conflitti li incontravano i viaggiatori del Medio Evo16, che oltrepassavano il “limite”
del conosciuto, tendevano ad ingigantire ciò che appariva piccolo o a sminuire ciò che in
Occidente appariva grande; chi oltrepassa il limite dà all’immaginazione la libertà di
fluidificare il tempo, lo spazio e le forze. E’ così che le popolazioni a sud dell’equatore
vivono capovolte rispetto a noi; agli Antipodi le stirpi hanno i piedi sopra alla testa
(scialopodi) ed ogni valore trapassa nel suo opposto.
La lettera del Prete Gianni17, misterioso testo del XII° secolo spinge a credere che esistano
realtà che superano le fantasie anatomiche grottesche. Il corpo ibrido dei mostri unisce
specie diverse e rivela una permeabilità reciproca di tutte le forme del caos primordiale.
L’evanescenza delle forme ed il loro trapasso l’una nell’altra viene a colmare quel vuoto
insito nella natura umana e spinge alla creatività di immaginare nuovi mondi, come a ristoro
dalla dura realtà quotidiana.
Nella lettera mitologica del Prete Gianni, troviamo gli uomini con la testa al posto della
pancia e, nell’interpretazione che possiamo intuire, siamo invitati a vedere oltre il confine
con gli occhi del ventre.
14 X° Alchol Prevention Day, Roma, 7 aprile 2011, Istituto Superiore di Sanità 15 Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie 16 Colombo, Mandeville, Polo 17 La lettera del Prete Gianni, trad. it. A cura di G. Zaganelli, Pratiche, Parma, 1990 Dall’inizio del XII° secolo si era diffusa, in Occidente, l’immagine di un potente sovrano e sacerdote
orientale (secondo alcune tradizioni africano), che scrive all’imperatore di Bisanzio Manuele I° Comneno (1143-1180).
“Abbiamo bestie assai strane… Là vi sono pigmei che combattono con le gru; da quelle parti i più alti di loro misurano un piede e mezzo. Abbiamo leoni dai corpi immensi, alcuni bianchi, altri rossi … Là dimorano i grifoni E anche i Sagittari: sono un popolo sempre selvatico e hanno corna per tutto il viso; hanno con sé archi e frecce, mai mancheranno il bersaglio cui mirano. In quella regione vi sono i giganti Oltremodo orribili e grandi; misurano – lo sappiamo per vero – quaranta cubiti di lunghezza. Là si trovano i Ciclopi Ma un cristiano ne vide di più brutti, sono un popolo orribile e nero e invero non hanno che un occhio. Ma questo sta in cima al loro corpo Come uno specchio in mezzo alla fronte. Dalle nostre parti c’è l’uccello fenice Che è molto bello e splendente; la sua natura è strana, non ve né altri al mondo. Non c’è nessun tipo di animale Per quanto strano e feroce Creato sotto il cielo, che non si trovi presso di noi”18
“Ciò che talvolta definiamo ‘individualizzazione delle credenze’ somiglia piuttosto ad una
interiorizzazione dei dubbi e delle paure. Le antiche cosmogonie, che circondavano la miseria
umana di un alone di senso, erano proiezioni di società che si definivano attraverso la loro
iscrizione nello spazio e nel tempo. Ora, mentre sulla terra compaiono nuove mobilità, si
diffonde agli occhi di molti l’immagine più o meno confusa di un universo materiale dalle
dimensioni infinite ed in perenne espansione che, incontestabilmente eccede le nostre
capacità di immaginazione.”19
18 La lettera del Prete Gianni, versione anglo-normanna, op. cit. p.99 19 Marc Augè, Futuro, Bollati Boringhieri, Torino, 2012
In questo “meticciato” complesso l’unità dei valori e degli scopi deve essere ricercata e
continuamente condivisa; lo scopo è arrivare a delle scelte, condivise, per ridurre l’incertezza
tra le opzioni che l’individuo ha di fronte.
Il “meticciato” culturale tende a condividere le differenze: è questo lo scenario attuale in
un mondo che non è pìù così integrato e omogeneo come nei secoli passati.
Condividere significa creare connessioni ed organizzare soluzioni che mettano in contatto
processi culturali differenti, senza cadere nella semplificazione dell’unità!
7) Perchè la differenza ci allarma? Perchè il confine che differenzia diviene barriera? Perchè
il contatto con la complessitá non sopporta il diverso?
Il negoziato diviene la pratica centrale delle nuove organizzazioni politiche e sociali,
ma anche il lavoro personale di individuazione.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad enormi cambiamenti culturali:
1) Maschile e femminile non coincidono più col sesso in senso biologico e diventano
modelli culturali a cui tutti sono esposti.
2) Nazionalismo ed etnicità mettono in gioco incontri e scontri, su base difensiva, fino
ad arrivare ad estremi reazionari in continuo fermento nel mondo intero. (Identità
etnica e territorio)
3) Borghesia e proletariato sono termini superati dall’intensificazione degli scambi
sociali, dalla circolazione delle idee e delle informazioni, dalla diffusione degli stili di
vita.
4) Sinistra e destra non sono più rappresentative di provenienze sociali e culturali ben
definite: oggi la Russia è di destra o di sinistra? Nello scenario politico italiano chi
rappresenta la sinistra? Obama è il nuovo modello culturale di sinistra che propone il
mondo occidentale?
5) Accanimento terapeutico, cure palliative, qualità della vita sono questioni che ci
interrogano quotidianamente
8) Il concetto di dolore e di vita rimane invariato nella società contemporanea o apre
dibattiti sulle cure palliative, sull’accanimento delle cure e sull’eutanasia?
Salvatore Natoli ci incita a ricercare “… la giusta riserva di coscienza per distinguere ciò che
davvero ci serve da ciò che ci asserve. E’ una pausa della concitazione del fare, un coraggioso
scrollarsi di dosso l’inerzia del non fare, per divenire appieno padroni di noi stessi e del nostro
agire … il nostro tempo offre all’uomo la possibilità e l’opportunità che non ha mai avuto nella
sua storia, con tutti i rischi connessi … Ciò impone a maggior ragione di saper fare un buon
uso del mondo.”20
Le grandi questioni spesso ci separano in arroccamenti ideologici mentre la conoscenza di
come siamo fatti ci può istruire su quello che è possibile fare per noi. L’uomo è apertura al
possibile, anticipa il futuro ed entro certi limiti lo crea nella direzione di dell’educarci a
scegliere passando oltre la costrizione.
3 Responsabilità nel conflitto.
Educare alla responsabilità può essere la dimensione alle domande della società globale:
responsabilità di scegliere, di accettare il limite, di contenere le differenze tra i confini
conflittuali.
Gli scenari sociali sono complessi a causa di tre processi fondamentali: la differenziazione, la
variabilità, l’eccedenza delle possibilità.
Gli ambiti delle esperienze si sono differenziati; la famiglia ha delegato la scuola per le
funzioni educative come per l’impresa aziendale che si trasforma in impresa
economica. Il piccolo villaggio rurale dove la tradizione uniformava le vite e gli individui
viene sostituito dalla periferia delle città che differenzia i costumi, i linguaggi, i
sistemi di riferimento.
La complessità fa riferimento anche ad un concetto temporale di variabilità per il
mutamento continuo a cui le culture sono sottoposte; se nel passato esistevano culture
millenarie con caratteristiche sostanzialmente immutate, oggi le variazioni sono sotto
l’occhio di tutti noi. Nelle nostre vite la tecnica ha modificato le condizioni sociali: da un
mondo TV in bianco e nero, al cervello elettronico/computer, al cellulare, a internet, alee
chat e forum.
20 Salvatore Natoli, Il buon uso del mondo, Mondadori, Milano, 2010
Altra caratteristica della complessità riguarda l’eccedenza culturale. Le possibilità che oggi
abbiamo di fronte sorpassano di gran lunga la nostra possibilità di frequentarle
tutte: i programmi al computer mostrano continue offerte di miglioramento, e così le
opportunità di studio, di vacanza, di viaggio, di attività sportiva, di hobby.
9) Come può oggi, un giovane, riuscire a scegliere invece di rimanere in una sorta di
sospensione, come se si potesse vivere per prova, rimandando tempi e tappe della vita
personale (lavoro che non c’è, matrimonio e abitazioni costose)?
In un mondo dove tutti siamo interdipendenti diventa responsabile scegliere di non essere
separati; è un percorso che richiede un’apertura spirituale che vada oltre l’egoismo ed il
particolarismo. Per esprimere questa scelta elevata (che chiamerei sacra) possiamo utilizzare
linguaggi della tradizione religiosa o riferirci a valori laici di solidarietà e di pace.
Marco Garzonio citando il Cardinale Calo Maria Martini, in un recente articolo, scrive: “Tutti,
politica e chiesa, abbiamo davanti un compito culturale urgente, cioè, innescare un
movimento di restituzione di stima sociale e di prestigio al comportamento onesto e
altruistico, anche se austero e povero”.
Onestà e solidarietà che colmano le distanze tra me e l’altro tra la nostra cultura e la
cultura “altra”; solidarietà e curiosità come ponte che mi avvicinano alla diversità dell’altro:
all’escluso, all’etnia che ci invade, alle povertà del Sud del mondo21 e alle nostre nuove
povertà.
Nei precari e decadenti scenari della politica fatta dai partiti si va rinforzando sempre più una
modalità sociale nata negli anni Sessanta: il movimento.
Movimenti giovanili, movimenti di donne, di pacifisti, di ambientalisti.
Movimenti politici che sostituiscono le deludenti risposte dei partiti: dai verdi ai grillini.
21 Richard Sennett, “Insieme: rituali, piaceri, politiche della collaborazione”, Feltrinelli, Milano, 2012
10) Il ritorno dei “movimenti” deriva da una scelta di mediare la dove i partiti vivono
oramai di conflitti e non vedono più il conflitto, non riescono più a scegliere ed
interpretare il bisogno del cittadino?
I militanti tradizionali non escono dal classico partitismo e si chiudono in correnti
identitarie frenando il cambiamento. I vecchi paradigmi della politica sono andati in
frantumi, emerge una situazione di crisi della visione soggettiva che corrisponde alla crisi
dell’Occidente.
All’interno di questa crisi si rinforzano i movimenti per la loro caratteristica di ricerca e di
nuova energia.
In Europa le persone sono immerse nelle logiche dell’immediato, nella vita individuale:
disoccupazione, debiti, ma la vita politica è distante da queste emergenze. Gli slogan e le
parole d’ordine della politica di ieri non valgono più e quelle del domani non sono ancora
state dette.
Nel movimento nascono nuovi linguaggi e nuove parole d’ordine.22
11) Nel conflitto tra individualizzazione e globalizzazione il superamento potrebbe venire da
una visione globale nelle situazioni locali? (Il rischio è di contrapporre
l’individualismo dell’Occidente alla identificazione comunitaria spinta: clanica, etnica,
integralista kamikaze).
Anche la visione del potere appare diversa: i nuovi movimenti internazionali (“sem terra”
brasiliani23, piqueteros argentini24 e boliviani, i ribelli algerini, i no global europei) non hanno
come obiettivo principale la presa del potere ma appaiono come masse fluide
attraversate da venti fluttuanti e contrari. Gli obiettivi delle rivoluzioni, della lotta di classe
per la conquista del potere sono sostituiti da movimenti di idee, di ribellione con fini più
visibili e legati all’oggi.
22 Florence Aubenas e Miguel Benasayag, Resistere è creare, MC Editrice sas, Milano 2004 23 Il MST è un movimento contadino nato nel 1984, dalle occupazioni di terra nel sud del Brasile. È oggi presente in 24 stati del
paese e coinvolge un milione e mezzo di persone. Grazie alle sue lotte, 350.000 famiglie hanno conquistato la terra, mentre 150.000 stanno lottando negli accampamenti.
24 Nuove forme di organizzazione politica e di azione collettiva, che si caratterizzano prevalentemente per l'azione diretta, l'autonomia organizzativa e un'importante dinamica assembleare.
Nel corso della marcia zapatista del marzo 2001 Marcos spiega25:
“Noi non vogliamo che la gente voti per noi, né che ci dia un assegno, uno stipendio, nulla. Noi
vogliamo che si risolva e che sia riconosciuta una questione storica, nel senso in cui essa fa
parte della storia di ciascuno di noi. … Perché è facile dire: anch’io condivido la tua lotta e poi
tornarsene a casa. Abbiamo cercato di resistere a questa tentazione e di dire alla gente:
riconosciamo che il tuo grido è giusto, ma per il momento non è questo lo scopo.”
Oggi parte del mondo pare consapevole che un altro mondo non sorgerà più. Il mondo
diviene il “qui ed ora” dei due barboni di Samuel Beckett che aspettano Godot “Qui e ora,
l’umanità siamo tu ed io”. Navighiamo in una sorta di nebbia che suscita spinte opposte:
abbandonare o investire? credere o rinunciare?
Le votazioni politiche dei paesi Occidentali segnalano sempre più questa opposizione tra
votanti e non votanti, tra partiti ed estremismi nazionalisti. In modi diversi il mondo vorrebbe
più giustizia ed ognuno manifesta in modo individuale questa esigenza: siamo insieme ma da
soli!
In molti nasce la fiducia di una nuova umanità che non segue più le linee tradizionali della
politica ma riesca ad aggregare su idee etiche e largamente condivise.
4 Psicologia analitica e contemporaneità.
Un dibattito contemporaneo aperto tra gli psicologi riguarda la lontananza della comunità
degli psicologi dalla sensibilità al tema dell’accessibilità e della sostenibilità dei servizi
da loro offerti . “Nei servizi si starebbe sviluppando una “nuova utenza” che non
propone problemi di disturbi o malattie da curare, bensì problemi di fallimento della usuale
processualità di collusione con il proprio contesto, o se si vuole problemi d convivenza. Si
tratta di un’utenza alla quale gli psicologi potrebbero proporre la loro competenza
psicologica, competenza a trattare i problemi della relazione individuo‐contesto.”26
25 Intervista rilasciata dal subcomandante Marcos al settimanale messicano “proceso”, 11 marzo 2001 26 Carlotta Longhi, La Professione di Psicologo di Fronte alla Sfida della Sostenibilità Sociale, dalla rivista Plexsus, n° 7, novembre 2011
L’attività psicologico clinica si configura in questo senso quale “funzione integrativa” e non
sostitutiva all’attività “produttiva” del cliente stesso”27.
Anche l’esperienza dei Servizi che si occupano di salute mentale rileva un importante
aumento delle emergenze attuali dove ansia e depressione sono spesso scatenate da precarie
situazioni economiche e lavorative: disoccupazione, cassa integrazione, assenza di una casa.
La Psichiatria di Comunità ha sempre perseguito la ricerca del porre al centro, del proprio
interesse, il paziente con i suoi limiti ma anche con le sue risorse; il movimento anglosassone,
soprattutto, ha spinto verso i temi dell’empowerment e della ricovery proprio per restituire al
paziente una propria partecipazione attiva alla cura.28
12) Se l’utenza diviene l’ancoraggio fondamentale dell’azione professionale, si pone la
necessità di verificare la professione in base alla sua utilità sociale, alla capacità di
affrontare e risolvere problemi di interesse collettivo. La questione centrale è: la
psicologia si interroga su di un mandato sociale?
13) Costi e durata della psicoterapia come si conciliano con gli scenari attuali? Il settore
privato è in crisi e quello pubblico abbraccia solo approcci cognitivocomportamentali
(più attenti alle questioni della durata e validati per motivi assicurativi)
“L’importante è che impariate a pensare, a inquietarvi”
Carlo Maria Martini
E’ proprio della sensibilità junghiana verso gli scenari culturali, antropologici e sacrali ma
anche epistemologici e scientifici l’atteggiamento di inquietudine curiosa, di osservazione
critica e di apertura al mondo ‘altro’ (ciò che è oltre il confine, la modulazione tra distanza e
vicinanza ad Altro).
Questa identità forte, non priva di derive conflittuali e critiche all’interno dei nostri stessi
Istituti, spinge lo psicologo analista ad essere aperto e lontano da ogni dogmatismo.
Lo scopo della pratica della psicoterapia non consiste nella scoperta o nella conferma di una
specifica teoria, ma nel favorire un pensiero dinamico tra conflitti. Lo psicologo utilizza la
27 Succhiarelli, 2001 28 Empowerment: «Competenza individuale in politica sanitaria», termine che descrive il percorso nel quale l’utente si riprende una propria autonomia e un potere relazionale nel percorso con i curanti. Recovery: percorso di guarigione.
propria presenza davanti alla presenza di un paziente; entrambi stanno vivendo una nuova
esperienza frutto delle immagini, dei sogni e delle emozioni di altre esperienze che ora
diventano racconto di un io, di un noi di un Sé.
E’ una modalità di cura sfaccettata che alimenta il pensiero emozionale e richiede, ad ogni
analista e ad ogni analizzando, di ricercare una congruità tra la propria esperienza di vita
e i propri pensieri, tra la propria sensibilità e il proprio linguaggio, tra la propria coscienza
etica e le proprie azioni, avvalendosi della capacità di tacere ove non si possa più parlare,
ma continuando comunque sempre a mettersi in ascolto.
In questo contesto di ricerca Ileana Marozza sottolinea l’importanza del confronto tra
psicologia e neuroscienze, tra natura e cultura, tra oggettività e soggettività del sogno; gli
schemi affettivi alla base della motivazione onirica sottolineano come “il sogno sia un modo
per cercare un significato ad un affetto, cosa che consente di modularlo, di elaborarlo ed
integrarlo nella vita psichica.” 29
Questo ‘gioco’ elaborativo diviene una domanda aperta nello sfondo dell’alientità che ci
costituisce e ci interroga.
La nostra attenzione, che diviene anche un nostro valore, è quello di “adottare un linguaggio
che vari con lo spirito del tempo"30 superando le rigide certezze dei modelli formalizzati per
abbracciare “metamorfosi infinite”.
14) Quali innovazioni e stimoli nascono dall’incontro tra psicologia e nuroscienze? Quali
modificazioni induce la psicoterapia che siano visibili con brain imaging?
Un’ultima considerazione riguarda l’importanza che, nello scenario attuale, va riservata al
confronto, allo scambio di esperienze, alla formazione. Aggiornarsi e stare al passo coi tempi
è indispensabile ma ogni aggiornamento deve prevedere la disponibilità di accogliere e di
modificare nuove concezioni; ne sono un esempio le nuove acquisizioni della neurobiologia
con il concetto che Fonagy ha definito schemi emozionali, per molti versi sovrapponibile a
quello junghiano di complesso.
Ogni disciplina scientifica è destinata a divenire obsoleta in un arco variabile di anni.
In uno dibattito‐sondaggio (Delphi Poll), tre psicologi americani31, sostengono che “l’emivita
complessiva delle conoscenze richieste dalla professione di psicologo passerà, nei prossimi
29 M. Ileana Marozza, Jung dopo Jung, Moretti & Vitali, Bergamo, 2012 30 C.G. Jung, La psicologia della traslazione, Opere Volume XVI, pag. 206
dieci anni, dagli attuali 9 anni a circa 7 anni, … L’emivita della psicofarmacologia, attualmente
attorno ai 4,8 anni, scenderà a 3,6 anni; … quella dell’assesement della personalità, da 10,4
anni scenderà a 9,4 anni. L’emivita della psicologia psicoanalitica, invece, passerà dai 15,6
anni di oggi ai 17 anni.”
A parte questo ultimo dato che si allunga e può dipendere sia da rischi di stagnazione che da
verità senza tempo, è indubbia la necessità che ogni professionista aumenti le proprie
conoscenze ed il proprio rapporto col mondo, in relazione ai cambiamenti:
Per concludere una citazione che mi sembra in tema con le domande di oggi ma anche ci
avvicina a chi negli ultimi mesi ha sofferto per il terremoto emiliano.
TERREMOTO32
Quando viene il tempo del buio
bisogna rincantucciarsi,
avvolgersi su se stessi,
stare in silenzio ed aspettare,
senza muovere un muscolo.
Bisogna solo aspettare che passi,
perchè non dipende da noi
e non ci possiamo fare nulla.
Bisogna mantenere intatte
tutte le energie e la voglia di vivere
e coltivare la certezza che
verranno tempi migliori.
Perchè la vita è troppo grande
per essere sempre indirizzata
secondo i nostri desideri.
A volte ci si riesce,
altre volte no:
queste sono le regole
31 Da un articolo di Vittorio Lingiardi, Il Sole 24, Domenica 15 luglio 2012. Greg Neimeyer, Jennifer Taylor, Ronald
Rozensky, “Professional Psychology: research and Practice”, 2012 32 Dal blog di Giorgio Giorgi: www.lapoesiadellapsiche.blogspot.it
ed è bene ricordarle sempre,
per non esagerare mai,
nè con la disperazione
nè con l'arroganza.
WORKSHOP N. 1
ATMOSFERE TRAUMATICHE E MUTAMENTI NEL SETTING
Chairperson: Francesco La Rosa
Relatori: Anna Benvenuti
Corrado Guglieri
Francesca Picone
Wilma Scategni
IL TRAUMA E' IL MASSIMO DI TENSIONE CHE UN SISTEMA PSICHICO PUO' SOPPORTARE
Anna Benvenuti
Il trauma è il massimo di tensione che un sistema psichico può sopportare senza
autodistruggersi. Questo stato di tensione è sempre lì, inscritto nella memoria del corpo, nella
memoria implicita, come un eterno presente, e ha come correlato cognitivo non la paura, ma il
terrore. In questo eterno presente ci si trova come ne “Il Deserto dei Tartari” di Buzzati,
sempre in attesa del nemico. Solo che qui può arrivare davvero. Semplicemente perché il
terribile è già accaduto e può riproporsi di nuovo.
Da qui il rischio del suicidio, pensiamo a Betthelheim o a Primo Levi che morirono suicidi a
distanza di anni dalla loro prigionia nel campo di concentramento. Ma forse solo perché
avevano un compito da portare a termine, che era soprattutto perché non si dimenticasse.
Trauma viene dal termine greco “trauma” che vuol dire “ferita” – dalla radice tro—che vuol
dire forare, cioè una ferita con perforazione. Traumatizzato, sempre in greco, può assumere il
significato di “ucciso”.
La non rappresentabilità dell’evento , a volte come assenza del ricordo, a volte come assenza
del vissuto ci dice che un simbolo si è rotto e che “limiti della simbolizzazione e impossibilità
della rappresentazione coincidono”. Qualora i fatti vengano ricordati sono privi delle
emozioni che li hanno accompagnati e ancora più spesso le emozioni che li hanno
accompagnati vengono del tutto rovesciate nel loro contrario.
Tempo fa in un reportage televisivo sullo Tsunami che aveva colpito Haiti, prima di mandarlo
in onda, si avvertirono gli spettatori che, poiché sarebbero comparse immagini terribili dei
corpi che venivano scaricati nella fossa comune, si poteva scegliere se guardare oppure no.
Dove c’è stato un trauma non c’è stata possibilità di scelta. Davanti all’immagine intollerabile
di un incubo noi ci svegliamo, spontaneamente. Ovvero ci dissociamo.
“Il genere umano non può sopportare troppa realtà” scriveva T.S. Eliot.
La scissione rappresenta quindi lo scudo protettivo davanti all’intollerabile, ed è ciò che
permette alle persone di funzionare in modo relativamente adattivo nonostante l’esperienza
dell’angoscia o della depressione che caratterizzano alcuni stati del Sé, ed è ciò che permette
di entrare in contatto con altri stati del Sé temporaneamente isolati dalle associazioni con le
molteplici esperienze di sé (Bromberg).
La dissociazione permette la sopravvivenza e se sopravvivo posso avere la possibilità di
riprendere a vivere. Possiamo usare la metafora dell’embrione congelato per indicare le
potenzialità vitali che possono ancora svilupparsi.
Anche se questa sopravvivenza comporta una ipersensibilità nei confronti di tutto ciò che si
accosta al complesso isolato.
“Non è possibile che se uno ti pesta un piede per sbaglio tu reagisci sparando con la
mitragliatrice”, diceva spesso un suo amico a un mio paziente.
E rende chiara l’esistenza psichica di un tempo passato eternamente presente, di un tempo
che non è mai diventato passato,di una ferita che non è mai diventata cicatrice.
Si può tentare di curare quella ferita, di trasformarla in una cicatrice? La cicatrice resterà a
testimonianza della ferita, e a volte, quando cambia il tempo può ancora far male, ma non è
più una ferita aperta.
Ricordo che alla base del vivere umano sta la relazione Io‐Mondo, e che l’essere umano si
struttura nell’incontro dell’uomo con il mondo, e che con questo mondo si stabilisce una
relazione affettiva e significativa ed è solo laddove esiste una relazione affettiva significativa
che un evento o una situazione può avere un effetto traumatico.
E’ ovvia quindi l’importanza della relazione primaria Io‐Madre, (le teorie dell’attaccamento ne
hanno discusso a lungo), ma le relazioni Io‐Mondo possono essere molteplici: un evento
catastrofico, una strage, una dis‐umanizzazione dei rapporti con il prossimo, una cultura
repressiva, una violenza distruttiva di qualunque significato relazionale , come durante il
Nazismo, e tutto ciò che esula dall’istinto fondamentale della comunità crea un dolore senza
né ragioni, né spiegazioni, un dolore che non può tollerare l’assurdo dell’esistenza di un
mondo dove le relazioni sono soltanto di violenza distruttiva.
( Nel momento in cui sto radunando questi appunti c’è appena stata un’ennesima strage degli
innocenti, questa volta in America).
L’affetto legato alla scena traumatica si chiude in una “zona rossa”, come la chiamava un mio
paziente, zona alla quale non ci si doveva accostare.
Una porta che non doveva mai essere aperta, perché sarebbe partito il sistema di allarme a
denunciarne l’intrusione. E in quella stanza, o fortezza, o comunque la si voglia chiamare
l’altro è solo con il suo carceriere.
In questo caso l’affetto legato alla scena traumatica nasceva dall’improvvisa scoperta che “il
mondo magico” nel quale era cresciuto non faceva parte della realtà del mondo che aveva poi
incontrato. La sua stanza psichica era entrata in un dis‐ordine incontenibile.
Scrive Devereaux: “ L’inconscio etnico di un individuo è quella parte del suo inconscio totale
che egli ha in comune con la maggioranza dei membri della sua cultura. Esso è composto di
tutto ciò che , in conformità alle esigenze fondamentali della sua cultura ogni generazione
impara a rimuovere e che a sua volta costringe la generazione successiva a rimuovere. Tale
segmento cambia con il cambiare della cultura e si trasmette come si trasmette la cultura
mediante una sorta di insegnamento e non biologicamente…. Ogni cultura permette a talune
fantasie, pulsioni e altre manifestazioni dello psichismo di accedere al livello conscio e di
rimanervi, mentre esige che altre siano rimosse: Ecco perché tutti i membri di una medesima
cultura hanno in comune un certo numero di conflitti inconsci.”
Un esempio può essere oggi il problema dell’omosessualità, che di sicuro non fa parte
dell’ideale etnico del gruppo, anche se apparentemente accettata. Persino fra gli omosessuali
c’è ancora a livello inconscio una difficoltà a legittimarsi nella loro differenza, che non è
differenza di identità di genere, ma di orientamento sessuale. (Nel lavoro analitico questo è
spesso un tema da analizzare profondamente)
Ad esempio la psicoanalisi si incontra fin dagli inizi con un modello culturale repressivo del
femminile, per cui la donna può inizialmente parlare solo con la voce della follia, anche quella
del corpo, finchè non riuscirà ad avere accesso alla parola.
Ma questo comincia molto indietro nel tempo, possiamo andare addirittura ai racconti della
Bibbia per vedere come l’istinto di conoscenza e la disobbedienza alle regole vennero puniti
con la cacciata dal paradiso.
Sappiamo che un bambino piccolo, data la sua situazione di dipendenza, salva sempre la
madre e pensa di essere lui il cattivo. Nonostante abbia visto, o forse proprio perché ha visto
la verità.
E il bambino, come ci suggerisce ancora Devereaux, “… viene direttamente in contatto non con
i materiali o i tratti culturali, ma soltanto con l’ETHOS, cioè soltanto con il modello culturale
rispetto al quale diventano mediatori, nei suoi confronti, i genitori, i fratelli e le sorelle
maggiori attraverso le loro emozioni, i loro atteggiamenti, i loro gesti.”
Da junghiani conosciamo bene l’influenza del collettivo sull’individuo e il lavoro che richiede
distinguere l’uno dall’altro, tant’è che Jung arriva a dire che molte persone sono malate di
troppo adattamento, ovvero si “adattano” ai modelli culturali negando così la propria
individualità.
Il mutamento nel setting è inevitabile nel momento in cui il problema di fondo è riuscire ad
entrare in contatto con l’affetto legato al momento traumatico, di qualunque genere esso sia.
Tutto il lavoro psicoanalitico è strettamente legato alla relazione che si riesce a costruire tra
paziente e analista, relazione che implica certamente la massima neutralità, ma nel senso
dell’assenza di giudizio della posizione dell’altro, e la massima capacità di ascolto della
situazione dell’altro, il che non vuol dire compiacenza o differenza, ma vuol dire costruire una
relazione anche nella differenza, che è ciò che è mancato in particolare laddove c’è stata una
situazione traumatica.
La ricostruzione di una relazione “buona” diventa fondamentale in quanto offre la possibilità
di far stare insieme il “non‐me” e l’io.
Sono questi i casi in cui vengono in mente le parole di Gaetano Benedetti:
“…Nei casi in cui esiste una “simbiosi terapeutica”ho la precisa sensazione, illogica,ma sicura,
che nessuna richiesta del paziente sarebbe superiore alle mie capacità” (G.Benedetti:”
Alienazione e personazione nella psicoterapia della malattia mentale”, Einaudi, 1980, p. 277)
Scriveva Hillman nel suo libro “Il suicidio e l’anima” che “ nel momento in cui si entra nella
posizione dell’altro, l’altro non è più solo”. E se non sei più solo può darsi che qualcosa ti
trattenga in questo mondo.
E questa è una grande sfida in analisi.
NUOVI VECCHI PAZIENTI
Corrado Guglieri
Ringrazio la proposta stimolo, chiunque l’abbia compilata perché mi permette di confrontarmi
con i colleghi, su un tema che mi suscita una certa irritazione e sul quale ho molte idee.
Sono trentacinque anni che faccio questo lavoro a tempo pieno e non mi pare che vi siano
grandi mutamenti nei nostri pazienti. Situazioni traumatiche in relazione a “eccessiva
presenza o assenza dell’altro” sono sempre esistite e così anche i cosiddetti nuovi pazienti.
Detesto le mode e ancora di più le nuove nominazioni se non portano alcun vantaggio utile o
peggio.
Pazienti di questo tipo esistono da decenni: è cambiato il tempo, il mondo ma soprattutto la
situazione di mercato. La psicoanalisi vive un momento assai poco felice ed il mercato della
psicoterapia è inflazionato, come sappiamo. Per cui i pazienti pro‐capite sono nettamente
diminuiti e parimenti gli allievi: questo è cambiato. Il paziente “da analisi junghiana” non
esiste quasi più: intendo quello che buono buono si confrontava col proprio inconscio tramite
i sogni idealizzando la figura dell’analista.
Quindi, se si vuol campare e non si è ricchi di famiglia, bisogna adattarsi a patologie che prima
non erano prese in considerazione, relegate sotto l’etichetta di “pazienti da CPS” o comunque
“non da analisi”. Vogliamo chiamare costoro col nome di nuovi pazienti? Io penso che sotto
questa nominazione si trovino in realtà tutte quelle patologie con un fondo o nucleo psicotico
che prima erano evitate, almeno in campo junghiano.
Erano considerate “da psichiatria istituzionale” data l’abbondanza di pazienti più gratificanti,
semplici e duttili.
Questi pazienti richiedono modifiche di setting?
Certamente, di setting e di tecnica e i freudiani sono più chiari in proposito. Del resto loro
possono attuare modifiche alla tecnica di base.
Ma noi, che per posizione caratteristica abbiamo l’assenza di una tecnica codificata cosa
dobbiamo modificare? Se junghianamente lo strumento è l’analista, è l’analista che si deve
modificare?
Certamente, ma in concreto che cosa significa?
La mia idea personale che getto sul piatto è che bisogna risolvere un annoso problema degli
junghiani (e non di Jung!): a mio avviso c’è uno scollamento (si vede nelle produzioni scritte)
tra teoria e pratica, salvo poche lodevoli eccezioni.
Da una parte opere teoriche raffinatissime, dotte, con citazioni appropriate e frequentissime,
accompagnate, quando presenti da brevissimi scampoli clinici. Dall’altra vignette o narrazioni
che mal sopportano qualche citazione teorica spesso non propriamente junghiana: resoconti
clinici che sono racconti e si rifanno al tutto o al nulla.
Ma se lo strumento della terapia siamo noi e siamo obbligati a un corpo a corpo con le parti
psicotiche del paziente, se vogliamo parlarne e quindi progredire, saremo obbligati a parlare
di noi e o a confrontarci quanto meno sulla nostra teoria incarnata! E qui iniziano le vere
difficoltà! …..
SETTING, TRAUMA E PSICOPATOLOGIA:
L'ESPERIENZA DELL'ANALISTA
Francesca Picone
L’esperienza clinica più recente impone una riflessione aggiornata sul ruolo delle
esperienze traumatiche nello sviluppo della psicopatologia e sull’importanza di una
riflessione teorica sui mutamenti del setting che ciò comporta.
Jonathan Safran Foer, nel suo romanzo, Molto forte, incredibilmente vicino (Extremely
Loud and Incredibly Close, 2005), narra di una storia tra le tante di uno dei più drammatici
eventi dei tempi moderni. In un giorno qualunque, a New York, un ragazzino riceve dal padre
un messaggio rassicurante sul cellulare: "C'è qualche problema qui nelle Torri Gemelle, ma è
tutto sotto controllo". E' l'11 settembre 2001. Inizia così per il ragazzo una ricerca
drammatica tra cose e rapporti del padre, girando anche tutta la metropoli, per riallacciare il
rapporto troncato e per compensare un vuoto affettivo che neppure la madre riesce a
colmare. Alla fine, l'incontro col nonno riuscirà a fargli ritrovare un mondo di affetti e a
riaprirlo alla vita. La vicenda di Oskar e l’imponente entità del trauma da lui vissuto sembrano
condurci dentro meccanismi psichici, che hanno connotazioni particolarmente dolorose e
drammatiche.
Infatti, è come se l’effetto del trauma non riconosciuto si costituisse nella mente come una
paura sorda, sempre presente, come una palla al piede, che se non la si guarda, magari si crede
che non ci sia, ma si sente che limita. Il trauma non visto e soprattutto non detto, non smette
di agire sul presente e non permetterà mai di sentirsi bene, perché si sentirà sempre di poter
esprimere un potenziale maggiore, di poter essere più liberi, più se stessi. Insomma, è come se
di fronte al trauma si fosse costretti a erigere uno scudo protettivo che ottunde la percezione,
nel quale l’Io cade come in letargo, messo in scacco da componenti troppo spaventate per
affrontare la vita, attivando nella migliore delle ipotesi, strategie altre, come nel caso di Oskar.
Si può pensare, infatti, anche che il trauma sia parte del processo evolutivo individuale,
partendo dalla considerazione che fare i conti con gli eventi traumatici che la vita impone,
possa rappresentare, dando spazio ad una peculiare resilienza, anche una straordinaria
opportunità individuativa.
E’ vero, infatti, che, parafrasando Valleur (2003), che così si esprime a proposito
dell’addiction, il trauma presenta sempre due facce:
una di desoggettivazione, di negazione di senso, di trasgressione;
l’altra, invece, di ricerca di senso.
E’ condivisibile il fatto che il nostro tempo si presti bene ad identificare più la faccia
della desoggettivazione, della negazione di senso, del ‘senza senso’, in epoche nichiliste, di
cultura liquida.
Il passo è breve per potere poi correlare il trauma alla psicopatologia, partendo dal fatto
che esperienze negative nell’infanzia hanno gravi ripercussioni sulla psiche adulta.
Innanzitutto, come afferma R.J. McNally (2003) nella definizione di trauma si possono
includere eventi qualitativamente assai diversi tra loro; in particolare, però, è noto che
bambini che non riscontrano il proprio essere intenzionale nella mente del caregiver
subiscono uno scarso sviluppo del processo di mentalizzazione (Fonagy, Target, 1991),
danneggiando le capacità riflessive e il suo senso del Sé.
E’ il cosiddetto “trauma relazionale precoce” (Schore, 2003) quello al quale principalmente
ci riferiamo qui, quel tipo di interazione, per cui, anche quando un genitore non è
esplicitamente maltrattante, si può giungere a quella condizione di “terrore senza sbocco
(Main e Hesse, 1990), che non ammette alcuna strategia per il bambino che possa
interrompere il circolo vizioso di paura crescente e di meccanismi contraddittori, in cui è
intrappolato.
In caso di esperienze negative (trascuratezza, abuso, maltrattamento), infatti, si struttura
la dinamica del triangolo drammatico (Karpman, 1968), in base alla quale il genitore è
persecutore e salvatore nello stesso tempo, e lascia il bambino, vittima, a vivere la
dissociazione emotiva, in presenza di rappresentazioni non integrate di sé e della figura
genitoriale, caratterizzate da ostilità, impotenza e oblatività coatta.
Pertanto, non è l’esperienza traumatica in sé, ma la rappresentazione della figura
genitoriale e di sé, secondo la modalità dissociata del triangolo drammatico, che, nel produrre
un deficit nella capacità di riflettere sull’esperienza e quindi nella capacità di mentalizzazione,
probabilmente ostacola l’elaborazione di eventi traumatici e quindi facilita lo sviluppo di
disturbi dissociativi, disturbi borderline e di disturbi post traumatici da stress in seguito ad
eventi traumatici. (Liotti, 2001)
E’ possibile quindi pensare che tra trauma e dissociazione ci sia una forte interazione
reciproca, sebbene i processi dissociativi siano innanzitutto una difesa mentale, dentro cui
collocare stati affettivi non integrati in strutture di significato non unitarie che possano
sopravvivere o in stati somatici o in stati psichici, avvicinandosi ad una sorta di complesso
junghiano.
Il pensiero junghiano, infatti, a partire dalla costitutiva scindibilità della psiche,
fisiologicamente struttura attorno al centrale complesso dell’Io la coesistenza degli altri
complessi.
Il meccanismo dissociativo, secondo Jung, è la risultante dell’impossibilità dell’Io di
entrare in contatto con gli altri complessi, con la conseguente tendenza del complesso a
prendere il sopravvento sulla personalità in toto, determinando una organizzazione
psicopatologica di un certo tipo piuttosto che un’altra organizzazione.
La dissociazione, che è una funzione normale della mente, quando è volta ad escludere dal
campo della coscienza emozioni e sensazioni caratterizzate da forte sofferenza interna ed
esterna, si costituisce quindi come un vero e proprio meccanismo di sbarramento che
metterebbe al riparo la coscienza ordinaria dall’inondazione di un eccesso di stimoli dolorosi,
traducendosi, dal punto di vista psicopatologico, in un comportamento dipendente,
compulsivo e reiterante. Scrive Bromberg (1998/2001), ma sembrano qui riecheggiare tanti
scritti di Jung su questo tema, “il meccanismo dissociativo può essere considerato un
organizzatore fondamentale della personalità normale e patologica, con una funzione adattiva
e vitale in tutti quei casi in cui il soggetto si trova a dover fare i conti con esperienze
particolarmente intense e dolorose”, proteggendo spesso così la fragilità dell’Io in tutte le sue
varie fasi evolutive e costruendo una realtà parallela più favorevole (pensiamo a tutte le
forme di abuso/dipendenza nel virtuale), nella quale trovare un agevole riparo.
“Alcuni complessi nascono da esperienze dolorose o penose della vita individuale. Sono
esperienze vissute di tipo fortemente affettivo, che si lasciano dietro visioni psichiche di lunga
durata. Una brutta esperienza per esempio può reprimere qualità preziose di un individuo. Di
qui l’insorgere di complessi di natura personale… Parte dei complessi autonomi nasce da
esperienze personali di questo genere. Un’altra parte proviene da una fonte completamente
diversa…l’inconscio collettivo…Si tratta in fondo di contenuti irrazionali, di cui in precedenza
l’individuo non aveva mai avuto coscienza… Per quanto posso giudicare, queste esperienze
interiori intervengono… quando… un’esperienza esterna ha provocato nell’individuo una
scossa così forte che la visione della vita che l’ha accompagnato fino allora crolla…” (Jung C.G.,
1928)
Sempre più spesso i pazienti oggi ci portano forme di malessere legate a questo di
meccanismi psichici e in questo noi analisti dobbiamo saperci muovere, in un diverso modo
di concepire la relazione analista‐paziente, e di concepire la cura, la terapia, tra ars medica e
amore, se è vero che therapeia indica rispetto, cura, servizio, nel senso di sollecitudine per
qualcuno e solo secondariamente indica anche il trattamento.
Seguendo Hillman, l’oggetto del servizio è la psiche, che diventa terapia nella relazione tra
psiche e psiche, nella relazione tra me e il paziente. E’ la complessità del paziente, con la sua
storia e i suoi vissuti traumatici, ma anche la mia complessità e quella della nostra relazione,
una relazione a tutti gli effetti, a causa della quale l’attenzione a diversi parametri diventa
inevitabile.
Come afferma G. Polizzi (2010), è l’attenzione a come mi pongo quando accolgo il paziente,
come gli stringo e come mi stringe la mano, lo sguardo che attenziona l’anima, l’ascolto, il
parlare all’altro, e non solo con l’altro, la prossemica, la filotecnia (visto che curare è
comunque un’arte), la filantropia, l’attenzione al setting, al luogo di cura (dove etica ed
estetica si congiungono), ad eventuali manipolazioni, collusioni, alla dimensione transferale e
alla sua conseguente temperatura emotiva: tutto ciò è necessario, fa parte del setting ed è
intrinseco alla relazione.
L’altro, infatti, oggi ci porta sempre più spesso i misteri indecifrabili della dissociazione,
così come descritti nei 5 sintomi fondamentali di M. Steinberg e M. Schnall (2001), ci parla di
amnesia, declinabile, ad esempio, in buchi della memoria, o come tempo perduto, di fenomeni
di depersonalizzazione, come sensazione di distacco da se stessi o di un guardare a se stessi
come farebbe una persona esterna, o ancora di fenomeni di derealizzazione dall’ambiente,
percepito come ambiente irreale o strano, e infine, ancora in termini di confusione
dell’identità, come sensazione di incertezza, perplessità o conflitto su chi si è, in una continua
lotta per potere definire se stessi, o di alterazione dell’identità, di cambiamento nel ruolo o
nell’identità della persona, magari anche accompagnato da cambiamenti comportamentali
osservabili dagli altri, come parlare con una voce diversa o usare nomi diversi. Per inciso,
sembra proprio che questi ultimi due siano proprio quelli che descrivono meglio come il
trauma influenzi negativamente il proprio senso di sé.
E allora è necessario forse pensare che nell’impatto con tutto ciò, il setting subisca dei
mutamenti, sia costretto a modificarsi e noi analisti assistere e garantire a ciò. S Argentieri
afferma che è possibile considerare la psicoanalisi stessa, nella sua fattualità terapeutica
quotidiana, come uno specialissimo rituale dei nostri giorni.
E se il rito, come sostiene E. De Martino, ha la funzione di venire in soccorso a quelle che
chiamava “crisi della presenza”, momenti nei quali l’individuo, nello scontro con eventi
traumatici naturali o relazionali, precipuamente con l’evento della morte, si sente minacciato
nella sua integrità psicofisica, nel suo essere al mondo, allora il rito aiuta a sopportare ed a
superare la difficoltà, fornendo stereotipi e modelli di comportamento oggettivi e rassicuranti,
garantiti dalla tradizione collettiva.
In tal modo, il rituale, concretamente “inutile”, esplica invece paradossalmente la sua
precipua utilità, restituendo il singolo alla dimensione sociale (si pensi alle complicate
pratiche del lutto). Il termine “rito”, avendo lo stesso prefisso di restituire, rinforzare,
rinnovare, ricostituire, come il termine psicoanalitico, riparazione, sembra rinviare al
significato di restauro di qualcosa che un tempo esisteva e poi era stato deteriorato.
Il rito, collegato con le tecniche di accostamento al sacro, continua la Argentieri, serve a
rendere praticabile, ripetibile l’esperienza religiosa, sottraendola alla unicità del vissuto
mistico, e non è da confondersi con l’esteriorità del cerimoniale, guscio vuoto anaffettivo e
inerte.
Il senso profondo del rito, come quello del setting, è quindi quello della difesa dalle
intemperie emozionali e di sostegno nei momenti di difficoltà dei rapporti e del vivere, tanto
più efficace e prezioso, di fronte alla necessità di confrontarsi con l’elaborazione di un proprio
trauma infantile.
Una sorta, quindi di inestimabile funzione protettiva, in fondo, quella svolta dal setting,
dentro cui in fondo garantire quel processo, di cui noi analisti siamo parti integranti e
testimoni, per il quale, in ultima analisi, la notevole sapienza della psiche possa assicurare la
sopravvivenza dello “spirito personale imperituro”, dell'”essenza della persona” (Kalsched,
2001).
Voglio chiudere queste brevissime riflessioni con un brano tratto dal romanzo citato
all’inizio: “E il cuore mi va in pezzi, certo, in ogni momento di ogni giorno, in più pezzi di
quanti compongano il mio cuore, non mi ero mai considerato di poche parole, tanto meno
taciturno, anzi non avevo proprio mai pensato a tante cose, ed è cambiato tutto, la distanza
che si è incuneata fra me e la mia felicità non era il mondo, non erano le bombe e le case in
fiamme, ero io, il mio pensiero, il cancro di non lasciare mai la presa, l'ignoranza è forse una
benedizione, non lo so, ma a pensare si soffre tanto, e ditemi, a cosa mi è servito pensare, in
che grandioso luogo mi ha condotto il pensiero? Io penso, penso, penso, pensando sono uscito
dalla felicità un milione di volte, e mai una volta che vi sia entrato. (p. 30)”
Bibliografia
8) Argentieri Bondi S. “Un rito di oggi: il setting psicoanalitico tra creatività e coazione” http://www.istitutoricci.it/docs/Argentieri_Setting.pdf
9) Bromberg P.M (1998/2001), Standing in the Spaces, Essays on Clinical Process, Trauma and Dissociation. The Analytic Press, Trauma and Dissociation. The Analytic Press, New York. Tr. It. Clinica del trauma e dissociazione . Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007.
10) De Martino E. “Morte e pianto rituale nel mondo antico”. Bollati Boringhieri, Torino, 2008.
11) Fonagy, P., Target, M. (1996). “Giocare con la realtà 1) Teoria della mente e sviluppo normale della realtà psichica. In: Fonagy, P., Target, M.: Attaccamento e funzione riflessiva. Cortina, Milano, 2001.
12) Kalsched D. Il mondo interiore del trauma. Moretti e Vitali, Genova, 2001. 13) Karpman S. Fairy tales and script drama analysis. Tranactional Analysis Bulletin, 7, 39‐
43,1968. 14) Jung C.G., (1928), L’Io e l’inconscio, Opere, vol. 7°, Bollati Boringhieri, Torino, 1983. 15) Jung C. G. (1934). Considerazioni generali sulla teoria dei complessi. Opere, vol. 8°,
Bollati Boringhieri, Torino, 1976. 16) Hillman J. Il mito dell’analisi. Adelphi, Milano, 1972. 17) Liotti G. Le opere della coscienza: Psicopatologia e psicoterapia nella prospettiva
cognitivoevoluzionista. Raffaello Cortina, Milano, 2001. 18) Main M., Hesse E. Parents’ unresolved traumatic experiences are related to infant
disorganized attachment status: is frightened and/or frightening parental bevahior the linking mechanism? In MT Greenberg, D. Cicchetti Em Cummings (Eds), Attachment in the preschool years. Chicago: Chicago University Press, p 161.182.
19) Mc Nally R.J. Progress and controversy in the studyof posttraumatic stress disorder. Annual Review of Psychology, 54:229‐252,2003
20) Polizzi G. Il “sutram” rosso tra l’ars medica e l’amore. Riflessioni analitiche sul rapporto medicopaziente. Palermo, Palazzo Jung, Ottobre 2010.
21) Safran Foer J. (2005)“Molto forte, incredibilmente vicino”. Guanda, Brezzo di Vedero (VA), 2011.
22) Schore A.N.Affect dysregulation and the repair of the Self. Norton, New York, 2003. 23) Steimberg M., Schnall M. La dissociazione. I cinque sintomi fondamentali. Raffaello
Cortina, Milano, 2006. 24) Valleur M. Le condotte di addiction, in Nizzoli U, Pissacroia M. (a cura di) ‘Trattato
Completo degli abusi e delle dipendenze’, Piccin, Padova, 2003.
LA PSICOLOGIA ANALITICA IN TEMPI DI GLOBALIZZAZIONE. CONTESTI, INTERROGATIVI, STRUMENTI
Wilma Scategni
Venezia tavelogue Omaggio al Genius Loci
“Venezia è un pesce. Guardala sulla carta geografica,assomiglia ad una sogliola colossale distesa
sul fondo…..E’ dalla notte dei tempi che naviga…ha toccato tutti i porti, ha strusciato addosso a
tutte le rive, le banchine, gli approdi….sulle squame le sono rimaste attaccate madreperle
medioorientali,sabbia fenicia trasparente,alghe bizantine….”, (Tiziano Scarpa “Venezia è un
pesce”)
Ho aderito subito con entusiasmo all’idea di un incontro CIPA residenziale a San Servolo. Un
isola nella laguna mi sembrava rappresentare il contesto giusto per una riflessione su quella
“individuazione di gruppo della nostra Associazione” che permette di riflettere sul processo e
sulle trasformazioni del nostro “essere Junghiani nel XXI secolo all’interno del CIPA”, tra
“aperture” verso il mondo contemporaneo e “raccoglimento” all’interno di un gruppo di
lavoro‐istituzione
Anche l’impostazione stessa sotto forma di seminari e gruppi di lavoro è una formula che
trovo congeniale rispetto alla mia identità “di frontiera” tra Psicologia Analitica ed Analisi di
Gruppo, da oltre 25 anni al centro della mia esperienza personale, professionale e di ricerca.
Inoltre il mio impegno sottoforma di partecipazione attiva nel board di Confederazioni di
gruppo Europee (FEPTO e IAGP), di conduzione di seminari residenziali in giro per l’Europa e
di incontri “Umbrella” mi rende difficile partecipare di persona alle interessanti attività del
CIPA con continuità, se non per i momenti di incontro a livello nazionale. San Servolo ha
rappresentato quindi per me una ottima opportunità di incontro con colleghi che stimo e con
cui condivido da anni progetti ed esperienze, anche se non sempre in forma diretta
Nel recente convegno CIPA AIPA anche Stefano Carta ha parlato di “Individuazione di
gruppo”, accanto al più noto “Processo di individuazione che riguarda i singoli….”, indicando
come tale quel processo che coniuga l’individuazione dei singoli in relazione al gruppo in
questione e la memoria “storica” del gruppo stesso attraverso la ri‐narrazione dell’esperienza
condivisa e le riflessioni sul processo. Si tratta del tema su cui da anni si focalizza la mia
ricerca attraverso i gruppi analitici, le matrici di Social Dreaminge, lavori in contesti
internazionali ecc Tratta quell’intensa sperimentazione di alternanze tra appartenenza ed
estraneità, con i connessi disagi…nel sentirsi sempre e comunque un po’ “fuori posto”… che
ogni conduttore di gruppi analitici conosce molto bene…..e che in fondo è altrettanto noto a
chi è abituato, per scelta o necessità, a viaggiare in solitudine …..
Ogni incontro col “nuovo”è però un’opportunità per gettare lo sguardo al di là del disagio,
ritrovando gli elementi che riconducono ad una qualche forma di familiarità:
immagini,suggestioni, dettagli in grado di captare l’attenzione, tracce di ricordi condivisi
…..qualche sogno ….
Venezia è la sua laguna rappresentano il luogo ideale …..L’acqua presente ovunque suggerisce
l’ immersione in un tempo lento …contemplativo … in uno spazio ideale al riemergere di
memorie sopite da tempo ….
Venezia rimanda nello stesso tempo alla curiosità,al desiderio di esplorazione ed avventura,
dei navigatori e dei politici veneziani … spesso .capaci di adattarsi e ricavare il meglio da
ogni situazione … più inclini ed abili nell’ esercizio della mediazione e nell’evitare i conflitti
piuttosto che scatenarli …..(non è una dote da poco ….) …Senz’altro collegata a queste doti è
l’arte della narrazione, esercitata da Marco Polo sotto forma di diari di viaggio …Da questi
hanno preso forma le incantate fantasticherie di Italo Calvino nelle “città invisibili” …..
Kubla Kan “Non so quando hai avuto il tempo di visitare tutti i paesi che mi descrivi …a me
sembra che tu non ti sia mai mosso da questo giardino,….nè sono sicuro di essere qui, a
passeggiare tra le fontane di porfido, ascoltando l’eco degli zampillie non a cavalcare,incrostato
di sudore e di sangue alla testa del mio esercito…
Marco Polo;”Ogni cosa che vedo e faccio prende senso da uno spazio della mente dove regna la
stessa calma di qui,la stessa penombra, lo stesso silenzio percorso da fruscii di foglie…
… forse questo giardino esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate … e mai abbiamo
interrotto, tu di sollevare polvere sui campi di battagli ed io di contrattare sacchi di pepe in
lontani mercati ….”
Intorno, gli antri ed i vicoli segreti descritti da Corto Maltese, si anfrattano nei labirinti di
Venezia …Ci camminano o trovano rifugi nascosti il prof Aschenbach, Casanova fuggito dai
piombi, Don Giovanni, Leporello e il convitato di pietra in mezzo a mille altre maschere e
fantasmi… .Sotto il ponte di Rialto ,in mezzo a fuochi d’artificio emerge la gigantesca
maschera del carnevale creata da Fellini…..
Il pensiero junghiano e S ServoloRicordi frammentari di una ex psichiatra
manicomiale in tempi basagliani
S Servolo è un’isola, di fronte a quella degli conosciuta come “degli Armeni”…(Quest’ultima è
emblema del salvataggio dall’estinzione di una cultura e di sacri testi, sfuggiti alla distruzione
delle persecuzioni… appunto la testimonianza del processo individuativo di un gruppo ….)
San Servolo è sede di un ex Ospedale Psichiatrico e prima ancora di un monastero
benedettino….
Nello sbarcare sull’isola e nell’osservare la struttura che mi trovavo di fronte, al di là della
conformazione armoniosa dei giardini ben curati ….e della piacevolezza del luogo …la mi a
memoria è tornata alle “notti di turno” nell’Ospedale Psichiatrico, ed alle serate in cui
raccoglievo al tramonto le foglie autunnali nel parco, per rendere più accoglienti le stanze del
medico di guardia e dei reparti, creando composizioni in compagnia dei degenti, …. in
un’atmosfera surreale, pregna di contrasti :…..reclusione, sofferenza, tristezza, disperazione,
ma anche raccoglimento, introversione, spiritualità ….… Quest’ultimo elemento era rimandato
soprattutto dal frequente incontro con la morte di pazienti, spesso molto anziani, scandita dal
verso delle civette sui pini, dal trillo del telefono nella notte ….dal nodo in gola che mi
accompagnava nel percorrere i sentieri bui tra gli alberi secolari del parco ….
Mi e tornata alla mente anche qualche immagine serena:…. passeggiate nel parco in mezzo
alla natura con pazienti silenziosi , la stanza del cucito, gruppi….gruppi…ancora gruppi…di
equipe, di lavoro, di formazione degli operatori…. di terapia… qualche sorriso, qualche passo
di danza, sporadici miglioramenti….speranze…delusioni cocenti….ancora speranze….
E poi i pazienti…...la candida e folta testa ricciuta di una anzianissima ospite, che ogni sera
usciva seguita da una incredibile moltitudine di gatti a cui elargiva gli avanzi della
cucina….Trascorreva le giornate da sola, immersa nel ricamo di fiorellini colorati su
grembiulini e camicette vezzose, memorie di un passato lontano che nella sua degenza aveva
tutto il tempo di ricordare …ma su cui serbava il più assoluto segreto … …..e di una vita
all’esterno che non rimpiangeva per nulla ….In tempi di dimissioni e possibile chiusura
affermava con caparbietà che avrebbe lasciato il manicomio solo quando la Provincia (che
allora gestiva la Psichiatria) le avesse fornito una villa con un parco altrettanto vasto … ed
abitato da altrettanto numerosi ed amichevoli gatti …….
Una anzianissima ex lady anglosassone finita chissà come e da quanto tempo a Torino, amava
conversare nella sua lingua madre ….Una premurosa autonominata“assistente al caffè dei
medici di guardia”,….” non mancava mai di accudire con soffocanti attenzioni … i colleghi che
non riuscivano a salvare la loro privacy stabilendo limiti ….Un minorato mentale gravissimo e
del tutto cieco era protetto ed accudito amorevolmente da un paziente più anziano …(i loro
atteggiamenti non mancavano mai di commuovermi …).Un’ infaticabile tutt’altro che
avvenente’adescatrice di uomini spariva continuamente nei sotterranei ….Le effusioni
pubbliche di una passione scoppiata tra le mura del manicomio creavano non pochi problemi
con i parenti in visita….e con il personale…Un altro degente ingoiava continuamente sassi o
quant’altro, con una predilezione speciale per crocifissi … Una ragazzina minorata mentale
gravissima, in primavera brucava l’erba dei prati……..Mille altri personaggi tragici o comici,
patetici o ridicoli, tristissimi o esuberanti … per molti anni sono tornati e tornano ogni tanto
tutt’ora nei miei sogni … Per fortuna non c’erano più elettro schok o altri strumenti di
infausta memoria, …ma.solo racconti sussurrati nei corridoi ……e difficoltà …dubbi…problemi
continui in attesa di soluzioni sempre e comunque inadeguate: …. tolleranza o limiti…farmaci
o rischio…silenzio o divulgazione….libertà o repressione ….protezione o reclusione…muri o
spazi aperti….?
Purtroppo ricordo molto bene, che quando l’ospedale ha buttato giù con esultanza i muri,
simbolo della reclusione …non sono stati i pazienti a minacciare gli “esterni”, ma esterni senza
scrupoli che sono entrati a violentare le pazienti, o ad approfittare in tutti i modi
dell’ingenuità degli ospiti Luci ed ombre… ma soprattutto …. continuamente dubbi,
impotenza, doloroso senso del limite che continuamente si scontravano con l’onnipotenza
delle ideologie ….. ma anche nuove consapevolezze, soddisfazioni, entusiasmi …..
L’ospedale Psichiatrico era al tempo stesso luogo di sofferenza e reclusione quanto giardino di
ricomposizione di memoria, raccoglimento, spiritualità ……..quale più evidente esperienza e
tentativo di ricomposizione di opposti laceranti?
I ricordi dell’Ospedale Psichiatrico di Collegno‐ Grugliasco‐Savonera (dove molti anni dopo
Faenza ha girato “Prendimi l’anima” per rappresentare il Burgozli di Zurigo ) erano il
contorno in quegli anni, delle mie letture junghiane sul ramo….ed i pazienti …l’incarnazione
concreta delle riflessioni sui riferimenti teorici …
Un sicero grazie, a San Servolo,ed a chi ha scelto questo luogo per il convegno, per avermene
ravvivato la memoria…
L’opera di Jung e il mondo
Leggere le pagine di Jung è attraversare il globo fluttuando liberamente in quel tempo senza
tempo proprio dei sogni, attraverso l’esplorazione di miti, ipotesi sull’origine del mondo,
modalità di affrontare la morte e il mistero dell’esistenza …. in una dimensione che
continuamente sposta il suo focus ed i punti di vista mantenendo ed alimentando la curiosità e
lo stupore propri dei fanciulli ….E’ però nello stesso tempo esame ed analisi di una realtà
concreta fatta di piccoli eventi quotidiani, in cui quel pensiero “mitologico”che si esprime in
linguaggio immaginale e poetico …. trova, anche se con fatica, parole che si arricchiscono via
via di nuove sfumature …..Il magmatico materiale psichico che abita la nostra mente si
“incarna” nella contingenza dei fatti quotidiani, …. in ciò che avviene nel microcosmo
relazionale di ognuno, declinato nel contesto abituale. Riunire frammenti, riconoscere le mille
sfumature dei colori emotivi ed i loro rapidi cambiamenti, dare “corpo” alle immagini ….
cercandone i nessi, le “teste di ponte”che lascino intravedere ipotesi di senso attraverso una
narrazione che via via prende forma è compito dell’analisi. Si tratta di esprimere in parole, (o
per lo meno tentarci) la sequenza delle immagini che continuamente affiorano alla coscienza
attraverso formulazioni ambigue ed indistinte …. lasciare emergere ed evidenziare quel “ filo
rosso”che permette di identificare le possibili sequenza che si aggregano in tracce narrative …
E’ l’esplorazione di questi labirinti il compito intrigante, fertile e ricco di fascino, proprio
dell’analisi…in cui la narrazione apre ad una dimensione relazionale sempre del tutto unica ed
irripetibile ….
Il racconto della medesima sequenza di eventi assume forme diverse in relazione alla persona
che ascolta, la cui sola presenza fisica, materializzata dalla postura, dall’espressione del volto,
dal contesto, è in grado di evocare ricordi diversi, mettere a fuoco dettagli che si credevano
scomparsi o che erano stati a suo tempo del tutto ignorati …. colorare o sbiadire immagini
collegate a sequenza di eventi a cui si attribuivano valori differenti, modificandone i toni e le
sfumature…. A tratti ripercorrere quei medesimi labirinti è fonte di un processo laborioso e
spesso inconcludente e frustrante, che è tuttavia pronto a cambiamenti repentini, nuove
consapevolezze e sorprese del tutto inaspettate….
Qualche riflessione tra analisi e gruppo in atmosfera junghiana
Nei gruppi analitici o terapeutici le medesime forme caleidoscopiche, riflesse in una
moltitudine di relazioni concrete, permettono, attraverso continui rispecchiamenti, la visione
e la presa di coscienza di sempre nuove consapevolezze, accompagnate da altrettante
imprevedibili sorprese ….
… Del resto,tornando a Jung ogni sua frase non è un ‘asserzione, ma un’ ipotesi aperta
nell’attesa di echi a più voci …. È attesa:….senza la fretta di attribuire significati fittizi o ri
sistematizzare in teorie ipotesi di pensiero. Ogni formulazione ed anche ogni pensiero, o
abbozzo di pensiero …. resta aperto al dubbio,…
La relazione con l’altro o con gli altri, sia sotto forme di persona fisica che gli sta di fronte nella
relazione analitica, che di gruppo con cui viene a contatto in un esperienza o in un viaggio,
mantiene la forma di un’esplorazione continua, una fonte inesauribile di nuove scoperte, rese
possibili da un atteggiamento recettivo …..una perenne attesa di echi a più voci, di
metamorfosi e contaminazioni con le ipotesi iniziali …
“Non so cosa mi sta dicendo l’Africa, ma so che parla….”
Jung scrive alla moglie in una lettera dall’Africa ….Ed è proprio la capacità di stare in ascolto di
quel balbettio spesso incomprensibile in atteggiamento di recettiva apertura e attesa,
restando nel dubbio, nell’indecisione della terra di confine, che permette al pensiero
junghiano di non lasciare dietro di sé un retrogusto di “colonialismo culturale” , ma si rivela
una sensibilizzazione all’ ascolto, alla visione …un ampliamento alle porte della percezione….
Per questo il suo pensiero o meglio le “tracce” che ci indica nei suoi scritti …. favoriscono in
chi gli si accosta …. l’apertura verso mondi “altri” e lo rendono più che mai adeguato ad
accostarsi alle nuove forme di culture, spiritualità ed espressione, proprie del mondo
globalizzato Certamente forse si tratta di quel mio personale modo di “leggere Jung” che fa
parte di quei “mille modi” di leggerlo, di cui alcuni laboratori del CIPA si sono occupati negli
ultimi anni…
Io credo sia importante, accostandosi alla lettura di Jung, entrare nello spirito di chi non ha
fretta di “fissare sotto il vetro farfalle con uno spillone” per esaminarle ormai morte ed
immobili, ma nell’atteggiamento di chi ne segue, con attenzione e rispetto, il volo, la direzione,
l’impercettibile frullare di ali …. con lo zelo dell’appassionato naturalista …..attento ai più
minuti dettagli, ma senza alcun desiderio di immobilizzare con la formalina ciò che abita il
campo che osserva … In quest’ottica è indispensabile però accettare continuamente il rischio
che gli elementi di quella stessa volatilità, propria del movimento, sfuggano al controllo,
inabissandosi nuovamente nel magma dell’indistinto ….Non resta che rimanere in attesa di
successive possibili opportunità … .aperte alla ricchezza del dubbio
Riattraversare “con gli occhi dell’altro” il tema del destino, delle origini, del tempo …
.attraverso gli innumerevoli occhi dei migranti e del mondo multietnico che incontriamo ai
nostri giorni è una possibilità. Abbiamo il supporto dei miti, delle immagini ….e delle metafore
che abbondano negli scritti Junghiani e sono in grado di penetrare la polisemia dei simboli:
alludono piuttosto che spiegare, aprono nuove porte piuttosto che imprigionare pensieri in
cornici prive di mobilità … .Gli scritti di Jung, ma soprattutto il suo atteggiamento,
continuamente in grado di spostarsi rapidamente … da una visione del mondo all’altra,
superando ogni barriera spazio temporale sono di non poco aiuto ….Forse indicano l’unico
atteggiamento possibile di fronte ad una realtà sconcertante, enigmatica, in un costante e
frenetico cambiamento di cui continuamente sfuggono direzione e confini ….
Parallelamente Jacob Levi Moreno invita ad uno “scambio di occhi”, attraverso la
drammatizzazione e lo scambio di ruolo nel gioco psicodrammatico ….,che permetta di
“sperimentare concretamente” la visione del mondo” dal punto di vista dell’altro da sé…(o
almeno tentarci….)
Il pensiero Junghiano e Moreniano possono così potenziarsi a vicenda in una
complementarietà singolare, …. suggerendo una metodologia di lavoro, che si è rivelata molto
fruttuosa nel lavoro in gruppi internazionali ….e che nel corso degli anni si è rivelata per me
un aiuto molto significativo in nei contesti più variegati … anche del tutto in antitesi …….Ma
anche questo …. non è detto che funzioni: permette di tentare una ricerca di strade con
qualche riferimento in più….….….
Per questi caratteri insieme a numerosissimi altri, ma soprattutto per l’assenza nel suo
pensiero di ogni dogmaticità, il pensiero di Jung si rivela, più di ogni altro in grado di
fronteggiare scivolamenti verso la temuta perdita di identità nell’incontro‐scontro con l’ “altro
da sé” o anche semplicemente nell’affacciarsi a mondi altri ed a culture estranee. Allo stesso
modo può frenare (o almeno tentarci….) lo slittamento verso quelle derive integraliste in
grado di suggerire sicurezze fittizie attraverso un’identità rigida….
La negazione della spiritualità e la rinascita dogmatica ed integralista
Più di una volta nelle mie interminabile soste negli scali aereoportuali ho notato con curiosità
(purtroppo finora non in Italia) tra le numerose indicazioni delle porte di imbarco, degli uffici
informazioni,, delle compagnie aree, delle toilette e dei punti di ristoro, l’indicazione delle
“stanze di meditazione”, talvolta in coesistenza o talvolta in sostituzione delle nostrane più
abituali “cappelle di preghiera”….Su queste indicazioni più “laiche”i simboli religiosi delle più
diffuse religioni del mondo compaiono affiancati ….Si accede in stanze spoglie, ma silenziose,
per chi nello strepito dei chiassosi labirinti dei “non luoghi” aeroportuali sente la necessità di
uno spazio protetto e silenzioso, adatto al raccoglimento, alla riflessione o alla preghiera
quanto alla meditazione ….Le medesime coesistenze si affacciano nei cimiteri, negli spazi
“laici” delle Società di Cremazione, quanto, da non molto tempo, in alcuni ospedali cittadini
italiani …..
Esposti in vendita per poche rupie, avevo trovato, sulle strade di Bombay, all’inizio degli anni
’70, coloratissimi fumetti che illustravano il Mahabarata, le gesta di differenti divinità del
pantheon induista: Ganesha, Krishna e Shiva a profusione… ma anche le imprese del Budda
(considerato da alcune correnti induiste un incarnazione di Visnù), del Guru Nanack
(fondatore della religione Sick come tentativo di sintesi tra il mondo Indù e Mussulmano) di
altri “Baba”…. e persino di un “Lord Crist” insolitamente sorridente in posizione del loto…, Mi
aveva favorevolmente colpita questa coesistenza di immagini sui marciapiedi….e per qualche
tempo aveva nutrito in me, ancora piuttosto giovane, l’ ingenua speranza di una coesistenza
pacifica tra religioni in India…
Solo pochi mesi dopo i giornali occidentali riportavano la notizia che quegli stessi marmi su
cui avevo passeggiato in Punjab, nel “Tempio‐D’oro” di Amritsar, osservando con curiosità
sacerdoti barbuti che recitavano in edicole circondate da piccoli assembramenti di fedeli, “il
libro sacro “di una religione il cui anelito era la conciliazione del mondo indù e
mussulmano…nascondevano armi. Poco dopo sarebbero state usate in sanguinose
rivolte…Avevo sottovalutato anche le vistose spade, che accanto ai turbanti ed alle barbe
arrotolate e raccolte in crocchie alla sommità del capo, distinguevano i Sick, un popolo
storicamente guerriero….
Tornando a noi uno degli aspetti più inquietanti nel mondo contemporaneo è proprio come la
coesistenza più o meno forzata di religioni differenti porti più facilmente ad una attenuazione,
se non del tutto alla perdita, di ogni manifestazione di spiritualità legata o meno ad aspetti di
culto, se non sotto forma di integralismo politico‐religioso ….
Così sterili lotte su “crocifisso sì‐ crocifisso no” o sul nascondere o abolire le suggestioni del
presepe rischiano di riempire un vuoto lasciato dal totale disinteresse alla divulgazione ed alla
riflessione sulla Storia delle religioni”. Sono così ignorati i loro possibili intrecci o punti di
incontro .nel rispetto dell’altro e del mondo circostante quanto la ricerca di molteplici
possibilità presenti in ogni forma di contatto col “sacro”….Il rischio di alimentare le fiamme al
rogo di Giordano Bruno in Campo dei fiori resta comunque una minaccia onnipresente su cui è
bene riflettere ….Una collega mussulmana mi raccontava sorridendo come le immagini di
alcuni nostri santi e dei crociati siano talvolta usate come minaccia per spaventare i bambini
….
Jung attraverso lo studio delle religioni, attraverso il suo spaziare attraverso i miti di
creazione, il folklore e le innumerevoli manifestazioni dell’inconscio collettivo, in grado di
superare agevolmente barriere spazio‐temporali….ha indicato da sempre teste di ponte al
mondo della Psicologia…che speriamo non crollino per il disuso …
Mi sembra che all’inizio degli anni ;70 alcuni testi di Jung “Psicologia e Alchimia”…”Simboli
della trasformazione”… erano gli unici libri di Psicologia che inframmezzavano al testo
illustrazioni tratte dalla simbologia di culti diversi, sottolineando l’importanza del ““ mondo
immaginale”come ponte aperto verso il linguaggio dell’ “anima”…
Lui stesso aveva invitato Olga Froebe”, creatrice ed animatrice degli incontri di Eranos dal
1933 ad andare in Oriente e nel mondo alla ricerca di immagini sacre, in grado di esprimere
una spiritualità oltre le barriere spazio temporali…Ad Eranos, crocevia di Teologi, Psicologi ,
Orientalisti e studiosi di Storia delle religioni, ai momenti di’incontro delle relazioni teoriche
si accompagnava l’intensità dell’esperienza condivisa. in un contesto ricco di suggestioni. Qui
la spiritualità era ed è tuttora evocata dalla natura, dalle acque del lago, e dalla storia delle
ricerche utopiche che hanno abitato quell’angolo di mondo nel contiguo “Monte Verità”.….
Diverse di quelle immagini sono esposte ad Ascona nella sala conferenze di “Casa Eranos”,
insieme ad una scultura del viso di Jung… Forse proprio in queste immagini e negli
scritti‐ di Jung su Psicologia e Religione, possiamo trovare indicazioni per riscoprire quelle
“teste di ponte” tra Oriente e Occidente che sarebbe così importante riprendere nella realtà
contemporanea, ….anche se forse molte tra quelle folle di migranti che incontriamo nelle
nostre strade non conoscono gli scritti originali delle loro fedi ….nè tantomeno le loro
interpretazioni attraverso i nostri linguaggi……Può darsi però che rispondano con
immediatezza alla suggestioni ed al potere evocativo delle immagini…
Le carrette del mare …L’africa sbarca sulle coste
Ora quella medesima Africa, di cui Jung parlava nei diari di viaggio delle già citate lettere alla
moglie, sbarca direttamente sulle nostre coste….
Attraverso l’incontro con folle di migranti, che affiorano sempre più numerose nella sanità,
nelle scuole, nelle strutture psichiatriche, nelle comunità e nei servizi socio‐assistenziali ed
educativi, i giovani psicologi si trovano sempre più frequentemente a confrontarsi con nuovi
interrogativi ed incognite profondamente inquietanti. Le voci dei migranti sussurrano in
idiomi spesso incomprensibili storie impresse sui loro corpi e sui loro volti … parlano di
miseria, di stupri, di fame, precarietà, sottosviluppo, sfruttamento, guerre, massacri, pulizie
etniche, rappresaglie...
I “balbetti dell’Africa” di cui Jung parlava nella lettera alla moglie ricordata da Papadopulos
nel recente convegno AIPA CIPA dello scorso anno,… sono ora qui ,… sulla porta di casa nostra
e mostrano “piaghe sconcertanti”, che aprono a tragici interrogativi senza risposta. ….Dove e
di chi le responsabilità? Un colonialismo nei nostri cuori?…. una delega di responsabilità mal
gestite … dal patrimonio economico alle risorse del pianeta.?
Certo fame, miseria, guerre, stupri, crudeltà e carestie non sono mai mancate nella storia, ma
ora la rapidità delle comunicazioni ci sbatte in faccia in tempo reale bombe al fosforo che
tracciando il cielo come fuochi di artificio devastano case e villaggi, massacrando popolazioni
inermi … ed è più difficile stare a guardare ….Ma intervenire significa dove, come, a favore di
chi?
L’aiuto o l’intervento in cosa si materializza?...., Sostegno armato, istruzione a tecniche di
guerra ….? A Favore di chi? L’idea di rifornimenti di armi …. può essere un’ ingannevole
metafora per celare interessi commerciali privi di scrupoli … e si lascia uno sgradevole
retrogusto di colonizzazione e sfruttamento ….
Nello stesso tempo folle di migranti … in viaggio da paesi anche lontanissimi …. approdano
sulle nostre coste, ammassate su sempre più malandate carrette del mare, gommoni, mezzi di
fortuna attratte dal miraggio di un occidente la cui ricchezza ha sempre più l’aspetto di uno
sberluccicante rivestimento di carte stagnola incollato su gusci vuoti di disoccupazione,
miseria, inquietudine verso il futuro, .sempre più inquietanti baratri di vuoto … Arrivano da
quelle stesse martoriate sponde del mediterraneo, che da sempre sono state culla di civiltà,
scambi, commerci ponti culturali non meno di rivalità, lotte sanguinose, massacri.
Qualche sguardo nella realtà nostrana …all’interno delle case…gravate da mutui da
pagare e abitate da speranze disilluse…. e negli studi degli analisti
Nello stesso tempo la fantasticata “terra promessa” non è più “terra di ricchezza” neanche per
chi ci vive e gli stessi Psicologi di ultima generazione si confrontano nella loro quotidianità,
anche se certo in condizioni migliori, con lavori precari, frequentemente sottopagati e
scarsamente riconosciuti …. con la difficoltà concreta di mantenere le spese di una formazione
lunga e costosa, non sempre in grado di garantire o aprire le porte agli sbocchi sperati …
Inoltre la precarietà del lavoro, l’allargarsi della forbice sociale, la competitività esasperata e
compulsiva legata al mercato, rischiano di compromettere dolorosamente in ogni ambito la
solidarietà sociale, mettendo sempre più a dura prova lo sviluppo e la salvaguardia di un
senso etico. Difficile dire come affrontiamo questi temi nella nostra professione, se non
attraverso l’apertura alla continua riflessione ed attraverso la coesistenza col dubbio ….Di
certo è aumentata, per me anche in rapporto all’età, la richiesta di professionisti già affermati
piuttosto che di giovani psicologi in formazione. Per questi ultimi, si tratta di accompagnare
percorsi ed aspettative diverse nei confronti della professione,…. tempi più lunghi,
adattamento a professionalità meno riconosciute senza rinunciare ad orientarsi verso un
progressivo miglioramento.
Sono aumentate le richieste di una seduta settimanale piuttosto che due,… aumentate le
supervisioni ogni due settimane o a cadenza mensile … da parte di psicologi che lavorano
individualmente o con i gruppi . Spesso trovo utile progettare con i pazienti“trance di terapia”
programmate per ottimizzare i tempi … Nel complesso utilizzo una flessibilità, che come ex
Psichiatra nei Servizi pubblici ho sempre utilizzato, adattandomi di volta in volta a differenti
richieste relativamente ai contenuti ed alle cadenze temporali …. Da tempo non lavoro più
con pazienti gravi come Medico Psichiatra, ma, come da sempre, nella formazione di
professionisti e di operatori dei servizi. In ambito internazionale, e nazionale lavoro molto con
gruppi e seminari di formazione alla conduzione di gruppi …. La formazione è rivolta
soprattutto ad operatori impegnati in prima linea nell’ interfaccia con reatà più “critiche….”e
complesse.
I gruppi, alla ricerca di strumenti e di tracce metodologiche
Certamente il lavoro analitico con i gruppi può, soprattutto in questi tempi, offrire nuove
prospettive e nuove aperture, attraverso un’ approfondita riflessione sul metodo, sui
linguaggi, sulla ricerca di riferimenti teorici. L’analisi di gruppo, affiancata o meno da incontri
individuali, può agevolmente non solo ridurre i costi in contesti pubblici e/o privati, ma
anche e soprattutto aprire a nuove modalità relazionali più flessibili, facilitando la
ricostruzione di reti familiari e sociali sempre più frammentate nel mondo contemporaneo …
La formazione nella conduzione di gruppo può inoltre essere di notevole aiuto nella la
gestione dei conflitti, al fine di arginarne derive distruttive (o per lo meno tentarci), nelle
equipe di lavoro, nei contesti di reti relazionali, familiari e sociali non meno che nelle
istituzioni.
Ma quali gli strumenti? E come nei contesti transculturali del mondo
contemporaneo?L’uso dei midium come mezzi di comunicazione
Torniamo ancora ad Italo Calvino, alle sue “città invisibili ed ai colloqui tra Marco Polo e
Kubla Kan…
“……Nuovo arrivato e affatto ignaro delle lingue del levante, Marco Polo non poteva esprimersi
altrimenti che estraendo oggetti dalle sue valigie:tamburi, pesci salati, collane di denti di
facocero, e indicandoli con gesti, salti,grida di meraviglia o d’orrore, o imitando il latrato dello
sciacallo o il chiurlio del barbagianni. Non sempre le connessioni tra un elemento e l’altro del
racconto risultavano evidenti … gli oggetti potevano voler dire cose diverse …
..col passare del tempo nei racconti di Marco, le parole andarono sostituendosi agli oggetti e ai
gesti: dapprima esclamazioni, nomi isolati, secchi verbi, poi giri di frase, discorsi ramificati e
frondosi, metafore e traslati …….
Senza dubbio i linguaggi artistici, poetici e creativi, espressi in ogni forma di arte, proprio
perché più morbidi e flessibili, possono più facilmente creare ponti e connessioni attraverso la
creazione di nuovi linguaggi in grado di far nascere comunicazioni di anime prima che di
intelletti … Laddove la ragione si intoppa, non trovando parole con cui poter mediare, i
linguaggi per immagini e metafore,che non hanno la pretesa di comprendere e controllare in
modo unicamente razionale la relazione, ma solo il desiderio di facilitare ponti …. hanno la
possibilità di offrire moltissimo ….Possono essere preziosi veicoli per introdurre ad un
linguaggio che può o meno seguire ed approfondirsi sotto altre forme …“ inventano” spazi di
espressione e comunicazioni possibili che facilitano dapprima, la curiosità e successivamente
l’incontro …. In questo modo sono in grado di creare “ponti” o per lo meno “teste di ponte”
per una possibile relazione Su queste basi è più facile che la relazione prenda forma trovando
parole che diventano comprensibili anche attraverso la differenza di linguaggi.
Il lavoro, con maschere e burattini, lo Psicodramma, la comunicazione col corpo attraverso il
mimo, il movimento, la danza, la Sand Play, la musica,l’espressione artistica, il Social Dreaming
… ecc….offrono altrettanti spazi vitali aperti all’ esperienza creativa condivisa … Questa trova
espressione attraverso continui dialoghi tra conscio‐inconscio, io‐ altro, individuo‐ gruppo …
che continuamente si intrecciano … Ne nasce e prende forma lo spazio per l’emergere di
un’identità non rigida, che continuamente si plasma nel contesto … La stessa identità .nel
gruppo può offrire appartenenze temporanee altrettanto flessibili, che di volta in volta si
trasformano in relazione alla scansione ed alla ritualità della cornice “spazio‐temporale”
condivisa.
Certamente la Psicologia Analitica, radicata sul concetto di poliedricità della psiche e della
coesistenza di opposti talvolta laceranti, può aiutare anche su queste basi e con questi
linguaggi, nella ricostruzione di trame narrative. Queste possono a loro volta permettere di
intravedere nuove identità più flessibili individuali e di gruppo, in grado di adattarsi a realtà e
situazioni nuove senza perdere identità e speranze nel futuro….Su questa fiducia si basa, per
me , la proposta di ogni lavoro di gruppo .
Corpi d’acqua Omaggio a James Hillman
Nel viaggio di ritorno, la linea del primo traghetto che porta in stazione segue un altro
percorso più insolito: un canale più ampio, tra l’isola della Giudecca e il quartiere “Dorsoduro”.
La strada è più lunga, ma più “veneziana” ... si lascia alle spalle i palazzi sontuosi, il Ponte di
Rialto ed i fasti della Venezia turistica ….Attraversa luoghi più insoliti, più modesti e dimessi,
ma certo più autentici. E’ mattina: le persone che si imbarcano agli attracchi si recano al
lavoro,e, sebbene in un contesto di lavoratori multietnici parlano a gruppi,quasi
esclusivamente il dialetto….Si inoltrano nelle strutture turistiche, nei cantieri navali….
Al porto….navi di tutte e dimensioni sonnecchiano nei docks, in attesa di, riparazioni,
partenze,….le più malandate di demolizione ….Un gruppo di gondolieri esibiscono
vistosamente striscioni di protesta contro la tumultuosa attuazione di piani e progetti turistici
che sembrano poco o nulla rispettosi dell’ambiente, del contesto ecologico, delle loro
necessità ed esigenze ….A Venezia anche i negozi di souvenir sembrano non essere più gestiti
dai veneziani…Una mia ricerca di murrine sfuse non ha dato alcun esito: solo oggetti e gioielli
pre confezionati….Forse è questo anche un rischio onnipresente nella terapia e
dell’analisi…scivolare impercettibilmente verso l’offerta di impostazioni teoriche irrigidite,
cornici preconfezionate che possono impoverire o addirittura soffocare la creatività, e limitare
lo spazio per l’espressione del linguaggio poetico con cui la psiche si esprime …..
Tornerò per cercarle direttamente dagli artigiani di Murano …sperando che esistano ancora
….e non siano stati ancora fagocitati da una multi nazionale…
“Venezia che muore…Venezia appoggiata sul mare….la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni
tristi Venezia la vende ai turisti… che cercano in mezzo alla gente l’Europa o l’Oriente, che
guardano alzarsi alla sera …il fumo o la rabbia di Porto Marghera…(Francesco Guccini: Venezia)
Intorno acqua…acqua ancora acqua….stormire di gabbiani e leggeri scrosci d’acqua spostata
dal procedere del traghetto….
“Entrare nelle acque fa allentare la presa sulle cose, ci consente di mollare là dove ci si teneva
aggrappati.
Nei sogni di acqua, l’emozione è generalmente situata nell’arida “anima io”, nell’atto in cui si
scioglie, e non nelle acque, che spesso sono semplicemente lì, fredde,impassibili, accoglienti.
Il piacere dell’”anima immagine” è dunque il terrore dell’ “anima io”. Nei sogni quest’ultima
teme di affogare in un torrente, in un vortice,in un ‘onda, cosa che ancora una volta gli interpreti
traducono come il rischio di essere travolti da una psicosi emozionale…
Eraclito, come la Psicologia alchemica, vede la morte nell’acqua come la via attraverso cui un
tipo di terra si dissolve mentre un altro viene ad essere …
…..L’acqua e l’elemento specifico del fantasticare,l’elemento delle immagini riflessive e del loro
incessante ed inaccessibile fluire. (James Hillman da I sogni e il mondo infero”).
WORKSHOP N. 2
VOLATILITA', DESTABILIZZAZIONE CRONICA E NUOVE ISTANZE TERAPEUTICHE
Chairperson: Angiola Iapoce
Relatori: Luigi Aversa
Franco Bellotti
Mara Forghieri, Mia Wuehl, Laura Bottari, Paolo Gallotti, Umberto Visentin
Paola Terrile
L'ESPERIENZA PSICHICA COME RICERCA DI SENSO
Luigi Aversa
Sarà opportuno considerare l’enorme differenza che vige tra i modelli teorici che stanno alla
base delle varie psicoterapie, cognitiviste, comportamentali, relazionali, ecc. e invece
l’esperienza psicoanalitica che, a partire da S. Freud e, in modo più significativo, con Jung si
basa sul concetto d’inconscio.
Tale differenza si esprime e particolarmente si evidenzia soprattutto nella “necessità” che
colui che intende “prendersi cura” dell’altro debba prima “prendersi cura di sé”, ovvero fare la
stessa esperienza, essere a sua volta paziente, cioè fare esperienza del “patire”.
Ma di cosa ci prendiamo cura e cosa “patiamo”?
Cosa sopportiamo?
Evidentemente c’è qualcosa che “eccede”, è “un di più”, qualcosa che va “oltre” la coscienza
dell’io.
Questo qualcosa è ciò che, a partire da S. Freud nominiamo con la parola”inconscio”.
L’inconscio, sia esso interpretato, come voleva Freud, come “rimosso” oppure visto anche,
secondo l’ottica junghiana, nella sua valenza teleologica ‐ progettuale comunque rappresenta
un “qualcosa” che eccede e che la coscienza sopporta. Si può non sopportare tutto il peso del
passato oppure la tensione, anche essa eccessiva data dall’inseguire il “non ancora” del
desiderio e del progetto futuro.
E’ proprio questa dimensione specifica, particolare, che segna la differenza determinante tra
la theoria psicoanalitica che, a partire da Freud si sviluppa e che in modo più completo e
radicale si esprime in Jung, e le altre psicologie che, non contemplando l’esperienza
dell’inconscio, rimangono inevitabilmente appiattite e chiuse nell’unico registro
dell’adattamento e non si aprono a quel polo di riferimento che Jung ha, in modo appropriato,
definito “individuazione”.
Tale differenza comporta alcune conseguenze: una è di tipo epistemologico: ovvero se
l’inconscio ci “eccede” e ci costringe a patire non possiamo organizzarlo e “controllarlo” con
un modello ma piuttosto acquisire la consapevolezza di essere all’interno di una “theoria”, nel
senso greco, ospiti cioè di una visione che ci vede contemporaneamente autori ma anche
personaggi, dobbiamo quindi, pur non rinunciando alla teoria, avere una visione del mondo,
una Weltanschauung.
La seconda conseguenza è di tipo esperienziale: l’esperienza dell’inconscio, in quanto
“eccedenza” ci costringe a vivere continuamente sul “filo della metafora”, in una continua
ricerca cioè di ciò che”ci porta fuori”, come direbbe Jung di “trascendere” ciò che acquisiamo e
questo ci induce a concepire l’esperienza psichica come continua ricerca di ciò che può avere
un senso.
Il senso infatti non è mai qualcosa di acquisito in modo definitivo, non è infatti un significato
ma, come direbbe B.Pascal, contiene sempre in sé l’inquietudine del varco sul non‐ definito
che continuamente ci pro‐ voca.
E’ proprio questa pro‐vocazione, il senso di questa domanda che diviene il filo d’Arianna su
cui si snoda il discorso e l’esperienza psicoanalitica che, come ben dice J.Lacan, è soprattutto
tematizzazione e senso della domanda. La terapia psicoanalitica è soprattutto comprensione
dell’esperienza del domandare, diversa quindi da quelle modalità terapeutiche soprattutto
preoccupate di fornire risposte.
La domanda infatti pone il problema di chi sia il soggetto del domandare che è proprio quello
che ci caratterizza nella nostra specifica e unica soggettività.
IL TEMPO DELLA VITA COME UN ADEMPIMENTO
Franco Bellotti Interrogarsi su come è cambiata, nella attuale fase storica, la nostra relazione nei
confronti della temporalizzazione, può forse darci un aiuto a capire anche come si è
modificata la domanda terapeutica.
L’essenza della temporalità che caratterizza i nostri tempi, diversamente da quella del secolo
scorso, legata alle idee di progresso e di sviluppo, è, o sembra essere, quella di un tempo
transitorio ed effimero. Un tempo privo di tradizione, in cui il passato si volatilizza in un
presente dato da un continuum senza soluzione di continuità; un tempo che mortifica
soprattutto la temporalità discontinua dell’esperienza individuale, consegnandola così alla
sola dimensione del contingente.
Un presente contingente che non lascia spazio alla necessaria dialettica fra la figura della
Persona e la propria individualità, dialettica nella quale Jung inscriveva quel processo che
dura tutta la vita e attraverso il quale costruiamo un senso immanente al nostro vivere.
L’individualità sembra, perciò, essere rinchiusa solo in un presente in cui l’unica figura che
viene riconosciuta è quella sociale. Una figura sempre più chiusa in un vissuto temporale
anonimo e meccanico, calcolante e ripetitivo, omogeneo e vuoto. Una figura legata, dunque, ad
una temporalità opposta al movimento dialettico fra la propria unicità scandita da un tempo
discontinuo e il tempo cronologico.
L’analisi junghiana, a fronte di un simile temporalizzazione in cui sembra racchiusa la vita
presente, può proporre, diversamente forse dalle altre psicoterapie, il pensiero che gli è
proprio, un pensiero polare così come ce l’ha proposto Jung. Un pensiero che non tende ad
una sintesi, come richiede il tempo omogeneo, ma un modo di guardare alla vita in cui gli
estremi persistono in una tensione tale per cui ciò che è originario viene sempre riattualizzato
dialetticamente nel divenire.
Un pensiero che, diversamente da quello obiettivante, che riduce la vita psichica a un già
previsto, o che crede di rappresentare la realtà specularmente, si nutre invece delle disattese,
delle interruzioni, della discontinuità attraverso cui prende forma, appunto, la vita. In altre
parole, un pensiero che non cerca conferme in un già dato, quanto piuttosto è attento alle
smentite che la realtà e gli altri possono offrire; smentite che rompono la continuità del tempo
omogeneo e la linearità in cui si pretende inscrivere il corso della vita.
La destabilizzazione, se così possiamo dire, che vivono i nostri pazienti dipende
probabilmente proprio dalla mancanza dello scambio dialettico fra ciò che di loro è più
proprio con ciò che è collettivo, con la conseguenza di identificarsi in quest’ultimo
mortificando il primo.
Intendere la vita come un “adempimento” significa perciò rompere il continuum del tempo
omogeneo che inchioda l’individualità a un destino, attraverso un processo che fa della
discontinuità della vita il suo punto di partenza. Liberare l’individuo da un destino in cui
l’originario si presenta più come una condanna che come una risorsa, un destino che obbliga
l’espressione della sola dimensione psichica, quella della Persona, che il palcoscenico sociale
gli permette.
Considerare la vita come un adempimento vuol dire, perciò, riattualizzare nel tempo presente
l’originario sincronicamente al tempo futuro, in modo da aprire a dimensioni psichiche
altrimenti chiuse alla sola dimensione collettiva.
“L’origine è la meta”, scriveva non a caso Karl Kraus agli inizi del novecento, proprio perché
alla crisi del sistema classico e contro un’ideologia borghese appiattita sul presente, si
cercavano anche allora risposte fondative per un futuro che non perdesse il legame con la
tradizione.
E’ stato Walter Benjamin, anche lui, non a caso, all’inizio del secolo scorso, a mostrarci come
l’originario che non si redime in un futuro si presenta come arcaismo complementare al
tempo continuo del progresso. Arcaismi complementari a un pensiero unilateralmente
appiattito solo su quello rappresentativo‐produttivo, tanto da lasciare sempre più spazio al
loro emergere in molteplici aspetti della vita. Jung avrebbe detto parti d’ombra compensatorie
al pensiero indirizzato.
Una dimensione, quella arcaica, che emerge tanto più viene meno il rapporto con la tradizione,
dove il vissuto presente è senza un passato e senza un futuro, dove gli individui vivono
nell’interesse privato più angusto e contemporaneamente sempre più determinati e aderenti
ad un istinto di massa.
Una tradizione da recuperare, dunque, ma non nel modo che ci ha proposto Hegel e i vari
pensieri storicistici, i quali la inscrivono in un tempo progressivo dello spirito, o peggio
ancora, come chi la propone come restaurazione di un tempo passato da trasmettere alle
generazioni future; questa tradizione guarda al passato per la sua conservazione,
proiettandolo in una dimensione solo collettiva.
La tradizione di cui parla Benjamin non va recuperata attraverso la restaurazione di qualcosa
che è già stato, essa emerge nella discontinuità della vita presente, come un sintomo, come
disconferma delle attese del tempo omogeneo. Una tradizione, perciò, che non è legata ai
ricordi, quanto a un riconoscere nell’estraneità di ciò che emerge, ciò che invece è familiare.
Una tradizione che per essere riconosciuta richiede un’attenzione del tutto particolare,
un’attenzione passiva e non diretta intenzionalmente ad uno scopo, un’attenzione legata,
dunque, ad un sentire che viene da fuori e richiama un interno. Un’attenzione di competenza
della corporeità e delle sue sinestesie e non di una rappresentazione mentale; William James
la chiamava “attenzione passiva involontaria”.
Una attenzione che nell’incontro terapeutico si concretizza in un atteggiamento “attenzionale”
diverso dalla freudiana attenzione fluttuante, essa non si riferisce ad un’attività mentale, ma
ad un stato che la precede, un stato “affetto” da un movimento inverso a quello di una mente
che riflette tutta sola sui propri stati mentali.
E’ vero che lo psicoanalista utilizza il proprio apparato psichico come strumento conoscitivo,
ma questo non è riconducibile ad una relazione di tipo epistemico rappresentativo, non può
essere tradotto in una rappresentazione dello stato della coscienza, tipico dell’empirismo
sensualistico, e tanto meno la coscienza di uno stato, che caratterizza il mentalismo. La
rappresentazione riguarda, dunque, un’attività della mente, mentre la psiche si esprime per
immagini che risvegliano stati emotivi, la cui descrizione è simile a quella di un testimone che
racconta una situazione in cui è implicato.
Alle rappresentazioni mentali non corrispondono specularmente eventi, realtà interne o
dell’altro, come crede il pensiero obiettivante, l’esperienza di uno stato interno è l’esperienza
della parola che lo esprime e lo comunica, ciò che viviamo è l’esperienza dell’espressione
simbolica.
La referenza della rappresentazione è solo traslata, non accede in modo diretto ai propri
sentimenti, emozioni e intenzioni, assolve solo al compito di indicare una determinata
interpretazione e non rimanda mai all’osservazione, questa sì diretta, della percezione
sensibile e alla sua possibilità di dare corpo a ciò che si mostra; “il visibile è ricavato dal
tangibile”, scriveva Merleau‐Ponty nella sua ultima opera.
L’originario è, perciò, temporalmente modulato nei processi psichici che prendono forma nel
flusso della relazione analitica, nel qui ed ora dello scambio linguistico fra paziente e analista.
I sentimenti, le emozioni e le idee vengono riconosciute quando vengono dette, quando
emergono nel dialogo terapeutico che si nutre di una temporalità in cui non è possibile
prevedere e sapere in anticipo cosa si dirà. L’esperienza che viene espressa dal e nel
linguaggio ordinario, attraverso il quale avviene dialogo analitico, proprio perché è la lingua di
tutti non rimanda solo a un vissuto personale e privato, ma, se pur in modo impreciso e
confuso, sempre alla ricerca della parola giusta, richiama una forma pubblica di condividere
l’esperienza umana. La sua referenza è la vita con le sue passioni e le sue sofferenze, essa
traccia di ciò che non è linguistico, ma il cui senso si offre all’intuizione nel presente della
relazione. La referenza del linguaggio ordinario si nutre di una intimità più profonda della
rappresentazione teorica, perché la vita reale, per quanto scandita da un tempo cronologico,
non scorre su un piano lineare, ma sulla coappartenenza di un tempo passato e di un tempo
futuro; il soggetto, nella temporalità, è costantemente altro da sé.
“Noi – scriveva sempre Merleau‐Ponty ‐ non comunichiamo con la logica delle parole o col
chiuso del nesso linguistico fra significante e significato: comunichiamo con quanto nelle
parole vi é di gesto, di atto vivo e presente che sventa il sillogismo aristotelico e, solo, 'dice' il
nostro indicibile tempo".
La sensibilità nella relazione analitica verso questo atteggiamento che abbiamo chiamato
“attenzionale” si propone come nuova istanza terapeutica proprio perché non è riducibile ad
una tecnica, anzi è un modo di pensare opposto al pensiero tecnico‐riproduttivo. Per
l’atteggiamento attenzionale conoscere è un “ri‐conoscere” e un “ri‐spondere” alla domanda
che ci viene dall’altro, nel senso etico ed etimologico che la parola responsabilità significa.
Il riconoscere non dipende, perciò, da una identificazione sul presunto funzionamento della
mente dell’altro attraverso una impossibile dissoluzione di ciò che è proprio, né tanto meno è
riconducibile ad una supposta capacità introspettiva che presuppone la possibilità di riflettere
specularmente su un vissuto come se fosse un oggetto.
Queste forme del pensiero, tutte mentali, si precludono di cogliere il modo di darsi dei vissuti,
compresa l’espressione del modo d’essere di colui a cui appartengono quei vissuti. L’incontro
con l’altro, soprattutto in analisi, non è riducibile, l’abbiamo già detto, ad una conoscenza
epistemica, quanto piuttosto ad una conoscenza che si acquisisce, scrive Wittgenstein,
attraverso la partecipazione ad una forma di vita. Una conoscenza che non cerca certezze
conoscitive, ma una visione di ciò che è apparentemente invisibile data una “fondamentale”
predisposizione “attenzionale” radicata nella propria sensorialità.
L'INVIDIA
Mara Forghieri, Mia Wuehl, Laura Bottari, Paolo Gallotti, Umberto Visentin
Abbiamo pensato fosse un buon contributo‐stimolo trattare l'invidia in questa sede, cioè una
sede di confronto, e porto due “nodi” dell'invidiare.
Il 1° nodo l'abbiamo denominato: l'invidia dell'asino.
Il 2° nodo: l'invidia del pezzo.
Questi nodi si integrano.
Oggi i pazienti che vengono a bussare alla nostra porta, chiedono uno “smaltimento” dei
sintomi, per potersi meglio adattare, alle regole della società e la domanda di cura, spesso è
legata alla necessità di guarire nel senso di sgombrare la vita, da ciò che fa soffrire, senza
passare dalla comprensione e dalla fatica. Sofferenza psichica considerata come un virus, che
aggredisce.
Uomini sempre più soli e confusi, che licenziano la parte più viva di sé, per aderire alla
coscienza collettiva.
1° nodo. L'invidia dell'asino è riassumibile nel contrario di quello che succede nella favola di
Pinocchio.
Pinocchio, per passare dal legno alla carne, per diventare un bambino vero, per non diventare
un asino, deve lottare, lavorare, riflettere, sacrificare, piangere, rinunciare...Solo così può
diventare di carne.
Ma se un paziente ti chiede di diventare un asino?
Il paese dei balocchi è la sua meta, il Grillo‐coscienza viene preso a martellate e l'asino non fa
paura, ma è ammirato e invidiato. Ha potere, ricchezza e riconoscimento sociale. Ha ciò che
conta.
Se l'invidia è il tormento dell'impotenza, invidiare gli asini, cosa può significare?
Quale cura possiamo offrire? E non solo, può essere invidiata la capacità di fare del Male?
Stiamo assistendo ad una ricategorizzazione del Male e dell'Ombra: viene invidiato chi ruba e
chi la fa franca.
C'è invidia per la disonestà che crea potere.
2° nodo. Oggi viviamo nella mostruosa società “del pezzo”!
Pezzi di corpo mostrati e invidiati, pezzi di vita, oggetti che stanno al posto delle relazioni.
Ciò che viene ambito può essere veramente di tutto: oggetti, titoli di studio, soldi, fidanzati,
parti del corpo...
A volte assieme all'ostilità per il soggetto che possiede, coabita l'ammirazione, per ciò che
viene posseduto dallo stesso.
“Provo odio per quel politico, ma sono ammirato dalla sua capacità di truffare”.
“E' sgradevole quella ragazza ma ammiro il suo look”.
“Detesto la velina, ma ammiro il suo corpo”.
Risulta arduo il compito di mettere assieme sentimenti malevoli con sentimenti di
ammirazione?
Sembrano contrari: disprezzabile, spregevole e il suo contrario apprezzabile, ammirevole.
Odio lì e ammiro là...come se non facessero parte del tutto.
Invidio un pezzo, una parte.
Si configura una frammentazione, dove conformità e individuazione situati agli antipodi, non
generano ponti possibili.
La soluzione è complessa: intersoggettiva, sociale e perfino politica.
Noi come terapeuti abbiamo il compito di stimolare i contenuti muti, una sorta di sfida al
vuoto e all'impotenza generati dall'invidia, e far emergere quella possibile energia creativa in
grado di configurare altre vie possibili, altri modi di vivere.
E' sempre “il tormento dell'impotenza” che oggi più che mai, viene superato con la ricerca a
volte esasperata e patologica, della potenza. Calpestando tutto e tutti e sé stessi. Calpestando il
vero Sè che abdica al falso Sè.
Tutto si consuma nella coscienza collettiva, abbracciata allo stereotipo. La necessità è quella di
andare fuori dai luoghi comuni e dai modelli precostituiti della contemporanea società dei
consumi.
Se tu invidi la “velina rifatta”, sicuramente dietro c'è una bambina piccola e impotente che
vede in quella potenza, la soluzione ad ogni suo problema.
Il tentativo è sempre quello di recuperare il potere perso, come la società insegna, attraverso
un corpo o un pezzo di corpo, rifatto a regola d'arte.
Aiutare quella bambina sola e impotente a de‐invidiare vorrebbe dire aiutarla a smascherare
oggetti‐parti‐pezzi... a smascherarsi per far fluire il Sè.
Questo è il compito analitico.
MODELLI RELAZIONALI IN PSICOTERAPIA: LA BELLEZZA
DEL RAGIONARE NELL’ETICA
Paola Terrile
Aprirò la mia riflessione sulla dimensione etica nel lavoro terapeutico con due pensieri di
Zygmunt Bauman, tratti da un saggio di alcuni anni fa sull’etica nella società postmoderna (“Le
sfide dell’etica”, Feltrinelli, Milano 2010). Il sociologo vede nel “vagabondo” e nel “turista” due
metafore tipizzate che ben rappresentano l’uomo postmoderno: il primo è “un pellegrino
senza meta, un nomade senza itinerario”, che viaggia attraverso uno spazio non strutturato e
che lui stesso struttura quando gli capita di occuparlo,ma sempre temporaneamente, e
distruggendolo quando se ne va. “Ciò che lo spinge a spostarsi è la disillusione subìta
nell’ultimo luogo in cui ha sostato e la speranza sempre viva che il prossimo, in cui non è
ancora stato, possa essere privo dei difetti che lo hanno respinto nei luoghi già
visitati”.(p.245) Il girovago è attratto da una speranza che non si è ancora avverata, spinto da
una speranza frustrata …
Il turista sa che non rimarrà a lungo nel luogo in cui è arrivato. Come il vagabondo, egli vive in
una dimensione extraterritoriale, ma a differenza sua possiede una capacità estetica, una
”curiosità, bisogno di divertimento e l’attitudine a vivere nuove e piacevoli esperienze” che dà
al turista una” libertà quasi totale di costruire lo spazio del suo mondo di vita”(245).Vive il suo
essere extraterritoriale come privilegio, diritto di essere libero di scegliere. Il girovago e il
turista attraversano spazi in cui vivono altre persone, ma hanno con loro incontri brevissimi e
superficiali.
“Una cosa che le vite del vagabondo e del turista non comportano, e sono spesso dispensate
dal comportare, è l’ingombrante, paralizzante, deprimente, angosciante fardello della
responsabilità morale.”(247) Infatti, nella spersonalizzazione cui il suo ruolo lo spinge, nel
fare( vale soprattutto per il turista) ciò che tutti fanno, non c’è spazio per la “prossimità, la
responsabilità e l’unicità” che costituiscono il soggetto morale (247). I tipi umani del
vagabondo e del turista si muovono per il mondo non come persone marginali, ma come
modelli, come criteri generali di felicità e di successo”.
In questo quadro, ed è questo il secondo dei pensieri di Bauman dal quale mi sembra
importante prendere le mosse, che ne è dell’ io morale? Di “quell’impulso non razionale,non
spiegabile, privo di giustificazioni e non calcolabile a protendersi verso l’altro, accarezzarlo,
essere per, vivere per, qualunque cosa ciò comporti”?
Secondo Bauman la responsabilità morale (“essere per l’Altro prima di poter essere con
l’Altro”) è la prima realtà dell’Io, un punto di partenza che precede ogni coinvolgimento con
l’altro. Con la sua ambivalenza intrinseca, la responsabilità morale precede qualsiasi codice
etico che abbia pretese di universalità, e rappresenta “la più personale e inalienabile delle
proprietà umane, e il più prezioso dei diritti umani”.
Mi sposterò ora nello studio psicoterapeutico, cui approdano oggi molti girovaghi vagabondi
e molti turisti che si muovono veloci e leggeri in un mondo pieno di promesse piacevoli,
finché qualcosa di indefinito li rende pesanti e li costringe dolorosamente a fermarsi.
Un sogno scelto tra molti rappresenta una limpida metafora della complessità della relazione
terapeutica nei tempi odierni. Si tratta di un sogno in due tempi, costituito cioè di due parti,
sognate in due notti consecutive. Il sognatore è un uomo di mezza età, in analisi da qualche
anno.
Parte prima: “Mi trovavo in Val…(una vallata del torinese), decidevo con un amico di recarmi a
piedi da un paese all’altro, lungo la strada statale. Mi accorgo dopo un po’ che il traffico è
intenso e che non è una passeggiata piacevole, decido perciò di tornare indietro, recuperare
l’auto e andare a …(un paese di una vallata contigua, in cui il sognatore ha trascorso molte
estati piacevoli durante la sua infanzia). Si sta facendo sera, per cui accelero il passo.
Provo a fare autostop, senza successo. Fermo un pullman, ma sono lontano dalla fermata e
passa oltre.
Continuo a camminare velocemente, sempre più deciso a raggiungere la mia meta. Ad un certo
punto vedo un gabbiotto che vende biglietti, mi fermo ad acquistarne uno per poter salire sul
prossimo pullman”.
Parte seconda: “Sto raccontando questo sogno (quello appena descritto) all’analista: entrambi
siamo in bici in mezzo al traffico intenso di un corso cittadino, c’è molto rumore, suoni di
clacson, odori di gas di scarico. La situazione è pericolosa, non si può pedalare affiancati. Per
farmi sentire devo parlare a voce molto alta, tanto forti sono i rumori. Continuo, comunque, a
raccontare il mio sogno.
Ad un certo punto ci fermiamo ad un semaforo rosso, ora posso affiancare la mia bici a quella
dell’analista: ma i rumori del traffico intenso continuano ad essere egualmente disturbanti,
devo quasi urlare per farmi sentire. Ne sono molto infastidito”.
Proviamo a prendere in considerazione il modello di relazione che ricorre nelle immagini di
questo sogno, considerandolo un racconto: prendiamo le mosse dalla parte seconda ed
andiamo a ritroso.
Il protagonista vuole raccontare un suo sogno all’analista, ma le circostanze non sono
propizie. Il mondo esterno, nel quale entrambi si muovono pedalando in bicicletta in mezzo al
traffico veloce delle automobili, disturba e rende faticoso il compito di raccontare il sogno, con
l’intrusione di rumori, odori sgradevoli, velocità di mezzi a motore che rendono pericoloso il
muoversi della coppia analizzando‐analista . Eppure il racconto riesce a proseguire, grazie alla
tenacia del paziente che forza la sua voce per farsi intendere, e dell’analista che lo ascolta.
Che cosa c’è di importante nel sogno che il paziente vuole a tutti i costi condividere? Anche
nella parte prima c’è un muoversi, c’è il disturbo del traffico, c’è una meta da raggiungere che
diventa man mano sempre più chiara, e che riguarda il rapporto con un passato di vitale e
significativa importanza, nel quale il paziente potrebbe ritrovare il contatto con un’energia
vitale che a lungo gli è mancata. Appena gli diviene chiaro qual è la sua meta, il sognatore
cambia direzione e il suo muoversi diventa progressivamente più mirato. Il sogno termina che
il cammino sembra avviato, il sognatore sa dove vuole dirigersi e sta cercando i mezzi per
arrivarci.
Ma il rumore del mondo è in agguato, e ritorna nella parte seconda in forma di invadenza
pericolosa, che costringe la coppia analitica, che procede su un mezzo fragile, precario ed
esposto ai rischi, a muoversi nel rumore e nella fretta, rischiando ad ogni istante la vita e di
non riuscire ad afferrare la meta, cioè il sogno, la parola simbolica che crea il ponte tra noi e
noi, che acqueta il dolore e allontana dall’angoscia. Resta però in primo piano fino al termine
del sogno una tensione verso il racconto, cioè verso la relazione con la dimensione profonda
(qui sorge la domanda: la tensione verso il raccontare il sogno, cioè verso la relazione
profonda, contiene già una valenza morale?).
L’immagine finale di questo sogno mi riporta col pensiero a tante situazioni che
quotidianamente tornano nel lavoro con i pazienti “figli del nostro tempo frammentato ed
incerto”: sofferenti, ma al tempo stesso incapaci di dare voce e di entrare in relazione con la
propria sofferenza. Il rumore che impedisce di ascoltarsi e di farsi ascoltare, e che sembra
davvero difficile da tacitare, è prima di tutto dentro di loro.
Al tempo stesso, l’impulso che muove il protagonista del sogno sopra citato sembra anch’esso
difficile da tacitare: la lotta contro il tempo per arrivare prima del buio al paese della sua
infanzia (un luogo frequentato prima che l’ansia e la depressione s’impadronissero
stabilmente di lui), lo sforzo per continuare a narrare anche quando intorno tutto congiura
contro. Questa tenacia acquisisce nella scena delle biciclette una sua plasticità: le persone
sono due, e una delle due si sforza per fare arrivare la sua voce, una voce che parla di
qualcosa di importante, all’altra.
Ma che cosa rende così arduo, frammentario e dall’esito incerto, il compito di comunicare con
un’altra persona, anche quando in apparenza lo si desidera?
L’analisi, nata come cura attraverso la parola e quindi attraverso la relazione, si scontra al
giorno d’oggi con l’incapacità di molti pazienti di entrare in relazione con sé stessi e con
l’altro, in una relazione che non sia di mero stampo utilitaristico. Frammentati, passivi,
questo tipo di pazienti si presenta a noi in forma di individui persi nella ripetizione di sintomi
che sembrano difficili da sradicare, in quanto la loro stessa identità appare fondata su di essi.
Inoltre, non immaginano neppure di poter avere un ruolo nella riconquista di un equilibrio
psichico; si presentano al terapeuta seduta dopo seduta, come esseri umani molto sofferenti,
con i quali nonostante i nostri strumenti terapeutici risulta molto difficile raggiungere
un’autentica comunicazione.
Spesso le sedute con i pazienti sono piene di mondo e vuote di soggettività. Il mondo del
lavoro li costringe e li schiaccia in relazioni fredde e prive di senso, senza che essi riescano ad
immaginare un’alternativa; il mondo di relazioni umane in cui vivono, costruito su ruoli di
superficie e su dinamiche utilitaristiche, spesso subìto senza protestare, ci viene registrato da
racconti privi di emozione, sempre uguali. Senza poter fare altro, dato che interpretare è
impossibile, il terapeuta sta con il paziente ed ascolta, accogliendo i racconti ripetitivi e la
sofferenza apparentemente senza senso né via d’uscita della persona che gli siede di fronte.
Eppure ciò che prende forma e corpo nel corso di sedute apparentemente tutte uguali è un
modo di relazionarsi. Infatti, poiché le teorie di riferimento si rivelano parzialmente
inadeguate a leggere la natura del malessere contemporaneo, poiché ci troviamo di fronte a
persone lontanissime dalla dimensione simbolica, anche intesa unicamente come riflessione
cosciente su di sé, accade che il terapeuta si ponga davanti al paziente semplicemente come
essere umano, limitandosi appunto a stare con lui.
Questo “stare con” ha tuttavia caratteristiche particolari: l’analista accoglie empaticamente le
parole del paziente, si mette comunque in relazione con esse, reagisce ad esse, commenta.
In tutto ciò non c’è in prima istanza una comprensione del malessere del paziente, che
peraltro non ci chiede di aiutarlo a capire perché spesso la comprensione cognitiva ce l’ha già
e sa quanto sia inutile a dare sollievo: c’è però un modello umano antico e nuovissimo per chi
è nato nell’era del virtuale. E’ il modello dell’esserci in carne ed ossa, uno di fronte all’altro, in
modo gratuito, e del sentirsi ascoltato ed accolto in quanto persona: potremmo definire
questo modello il dono del saper stare.
Questo modello contiene in nuce una dimensione etica in quanto l’analista, con la sua
presenza e la qualità del suo ascolto, propone concretamente un modello di relazione fondato
sull’autenticità, sul rispetto per l’ altro, sul cercare un senso alla sofferenza.
Inoltre l’analista, nell’attingere alla propria esperienza umana più che alle teorie di
riferimento, trasmette al paziente mediante il legame analitico emozioni connesse al suo
esserci nel campo terapeutico, come la sollecitudine, la speranza, la curiosità, il coraggio, il
tendere verso un fine, il sopportare la perdita ed altre ancora.
Queste emozioni costituiscono un vero assetto valoriale che ha un effetto maieutico, aiuta
cioè il paziente a recuperare la funzione del sentimento come organizzatrice della
trasformazione profonda del proprio stare al mondo (v. Sandra Buechler, “Valori clinici,
Milano, Cortina 2012).
Quella che Carl Gustav Jung chiamava “equazione personale”, cioè l’impronta che l’analista
conferisce al lavoro terapeutico, con il proprio personale modo di condurre la terapia ma
anche con la propria personalità, assume quindi un ruolo centrale e determinante nella
relazione, e quindi nel favorire l’emergere della coscienza morale del paziente.
Un altro importante aspetto della dimensione etica del legame è il prevalere della dimensione
affettiva all’interno del setting: l’analista sente il vissuto del paziente e cerca di entrare in
dialogo con esso. In alcuni casi resta a lungo un dialogo tra sordi, poiché il paziente non ha
invece alcuna percezione di sè e quindi del proprio sentire.
Nondimeno, nell’esperienza dello stare in due all’interno della stanza d’analisi, per lungo
tempo, nella pesantezza del sintomo e nell’assenza di qualunque percepibile dimensione
simbolica, è già presente un altro aspetto della dimensione etica (vedi il sogno della bici):
la tenacia di un essere umano che lotta per stare meglio, per trovare un senso al proprio
essere al mondo. E che dalla tenacia di un altro essere umano, che sta con lui lottando a sua
volta per la sua salvezza, trae esempio e stimolo.
Nel malessere del paziente, quindi, è già implicita una forte tensione verso l’acquisizione di
valori, che arriva ad esplicitarsi proprio nel prendere forma di un modo di relazionarsi in cui
la domanda: ”Che cosa è un valore per me? Che cosa ha senso?, diventa il cardine intorno al
quale nasce, si sviluppa e si organizza la coscienza. Il modello relazionale che emerge nella
relazione terapeutica contiene quindi un’impronta etica in quanto, attraverso l’esperienza del
prendersi cura, conduce il paziente a scoprire il valore fondante della coscienza morale
nell’equilibrio di ogni essere umano.
(Lo “stare con”, aiutando l’altro a smascherarsi, costituisce a mio parere un modello di
relazione valido anche nel processo educativo: lo stare con il bambino gli permette di non
mascherarsi, attraverso la negazione dei propri atti o mediante l’idealizzazione di sé come il
bambino migliore).
Il primo aspetto già presente all’interno di questa lotta per il proprio senso, che si scopre
all’improvviso alla coscienza del paziente, è la bellezza e l’aspetto dirompente della relazione
autentica.
Una vignetta clinica ci aiuterà a comprendere questo passaggio trasformativo.
Anita viene in analisi da diversi anni. Quando inizia l’analisi è una donna che ha superato la
trentina, ma si vive come più giovane, come un’eterna ragazza inadeguata alla vita. Ha un
ruolo di responsabilità in una grande azienda, vive sola, tende a sentirsi diversa ed inferiore
anche rispetto alle altre donne; in particolare, pur non avendo difficoltà nell’intraprendere
contatti con essi, ha difficoltà a relazionarsi in modo stabile con gli uomini.
Negli anni l’analisi la aiuta a conquistare maggiore autonomia rispetto ad una famiglia molto
invasiva, ad assumere maggior iniziativa nell’ambiente di lavoro, e da due anni è finalmente
riuscita ad intraprendere una relazione stabile con un coetaneo. L’analisi è però insidiata e
bloccata, in un modo ricorrente negli anni e che sopravvive alle trasformazioni avvenute nel
modo di stare al mondo della paziente, da uno schema di relazione con gli altri e con sé al
quale la paziente appare pervicacemente attaccata; uno schema che torna a manifestarsi in
maniera massiccia ogni volta che Anita si trova in difficoltà, di fronte ad un dubbio, alla
necessità di fare una scelta. In queste occasioni la paziente assume un atteggiamento
vittimistico e deresponsabilizzato, che pare inattaccabile da qualunque parola o
interpretazione e che si manifesta già nell’espressione del volto allorché giunge in seduta. Un
volto immobile ed inespressivo che si muove solo per dar voce a parole di autoaccusa sempre
uguali a sé stesse, o per fare sgorgare lacrime non liberatorie, ma semplicemente
corroboranti l’impotenza e un’identità negativa che in quei momenti sembra alla paziente
l’unica possibile per lei.
Di fronte a quello che assomiglia ad un vero nucleo scisso, l’analista non ha scelta se non
operare un contenimento: quando ricompare lo schema della vittima e la paziente se ne lascia
travolgere, inondando l’ora della seduta di lamentele che tolgono qualsiasi spazio alla
relazione, l’analista, senza interpretare ma anche senza nascondere la propria stanchezza di
fronte all’ennesimo manifestarsi dello schema, riporta la paziente al “qui ed ora”, a volte in
modo molto diretto, alla relatività di quel dato malessere ed alla possibilità di alleggerirlo con
una scelta di campo, prendendosene dunque carico. Ciò che avviene a questo punto è un
veloce riprendersi della paziente, che appare alleggerita e rinfrancata, ritrova la spinta vitale
ad occuparsi del problema anziché continuare a subirlo.
Il senso dell’intervento analitico è dunque quello di riportare la paziente a percepire il proprio
nucleo autentico (tu esisti ed hai un valore), e questo rimando apre spazi imprevisti di libertà
che alimentano nella paziente emozioni positive e si concretizzano nel suo riprendere in
mano la responsabilità della propria vita.
In queste sedute, nel saluto finale in cui Anita prende la mano dell’analista e pronuncia con
volto sorridente ed aperto la frase commossa ”grazie di tutto”, si legge in lei un’apertura piena
di stupore alla bellezza della scelta pregna di senso. Riprendere contatto con la propria
coscienza, in una parola, aiuta l’io morale ad emergere dalle pastoie di identità vuote e lo
riporta al mondo. Lo stupore di Anita nel ritrovare la propria energia e la capacità, per quanto
ancora fragile ed insidiata, di dare un senso al proprio vivere, ci dà la misura esatta
dell’essenzialità di questo passaggio, oltre a mettere in evidenza l’aspetto centrale e fondante
della dimensione etica nel ritrovare un centro identitario.
La consolazione del prendersi cura, inoltre, riavvicina al nucleo profondo della odierna
condizione umana che tutti in certo modo ci accomuna.
Una condizione precaria, incerta, gettata in un tempo incomprensibile, senza prospettive e
dominato da meccanismi freddi e veloci che fanno sentire inadeguati: in un simile scenario, lo
scoprire che in quella stanza un altro essere umano “sente” il nostro smarrimento, diventa un
mutamento di prospettiva essenziale nella costruzione di un altro modo di vivere, condividere
e combattere il dolore.
Il cercare la verità individuale come elemento centrale e pregnante del percorso analitico,
assumendo la forma di una ricerca che si compie in due, contribuisce a pacificare il paziente
col proprio bisogno dell’altro, che viene vissuto non più come portatore di sofferenza, ma
come qualcuno con cui sperimentare il dolore e la gioia.
Percorrendo un modello relazionale come quello fin qui tracciato, ci si trova ad un certo punto
dell’esperienza analitica a “ragionare nell’etica”: in altri termini, a sostare e dialogare nella
parola autentica, che è esperienza che stupisce, bella e capace di provocare sentimenti
condivisi. Anche quando si sta ancora in due al buio e nel dolore, l’emergere dell’etica della
condivisione e del prendersi cura è nondimeno già percepibile, in silenzio: si legge negli
sguardi che cambiano, nelle posture, nei saluti.
Mi sembra che nell’emergere della dimensione simbolica, forse anche come elemento
compensatorio rispetto all’anestesia morale in cui è immersa la dimensione collettiva in cui
viviamo, l’aspetto etico si situi oggi in modo più evidente che in passato al centro del processo
trasformativo, e che il suo mostrarsi si accompagni ad immediato sollievo, confermando la
centralità dell’io morale e del senso di responsabilità nella relazione autentica con sé e con
l’altro. La più importante e complessa sfida della moderna psicoterapia è secondo la mia
esperienza proprio quella di imparare a leggere la presenza dell’autenticità dell’ essere
umano in tracce minime, quasi invisibili, frammentate; le quali probabilmente non
arriveranno mai a tradursi in un edificio compiuto, perché nella complessità dell’era
contemporanea tutto muta così velocemente che anche concetti come coscienza, salute,
malattia, in breve tempo non sono più gli stessi.
Ma nel seguire la traccia flebile dell’umano bisogno di relazione, presente, spesso in modo del
tutto inconsapevole nel frequentare i nostri studi da parte dei pazienti; e nel percorrere i
modi individuali in cui questo bisogno man mano si declina e si fa man mano più consapevole,
noi psicoterapeuti, così come tutti gli operatori di professioni d’aiuto che a vario titolo hanno
a che fare sempre più spesso con esseri umani smarriti e sofferenti, abbiamo una opportunità
fondamentale.
Quella di ritrovare il senso antico del nostro lavoro cercando, attraverso la relazione con i
nostri pazienti, un nutrimento in un nucleo esperienziale caldo che, anche quando non è del
tutto compreso e quando non è possibile concettualizzarlo (perché la coscienza del paziente
non è attrezzata o perché gli strumenti del terapeuta sono insufficienti a cogliere il nuovo), fa
sentire i suoi effetti trasformativi mediante il contatto con un’energia psichica sana, che si
traduce poi in una nuova percezione di sé.
Un Sé minimo (piccolezza, mutevolezza, lentezza del costruirsi sono le sue caratteristiche),
ormai privo di pretese di onnipotenza e di comprensione e controllo razionale della realtà:
ma che, sollevato dall’abbandono di queste pretese, e contemporaneamente vivificato dalla
scoperta dell’armonia che la scoperta della dimensione valoriale porta con sé, si riconosce
finalmente in grado di relazionarsi con il mondo.
Mi sembra, in conclusione, di avere evidenziato come le professioni d’aiuto, quando il loro
operato si fonda sul guidare l’individuo a prendere contatto con l’Io morale e sul portare in
primo piano i bisogni legati alla dimensione etica, liberandoli da ogni banalizzazione e
scoprendone il valore fondante nell’equilibrio dell’essere umano, possano oggi dare un
fondamentale contributo nel rivitalizzare non soltanto la dimensione individuale, ma anche
(e forse soprattutto) quella collettiva.
WORKSHOP N. 3
ADOLESCENZA: NUOVI STILI E NUOVI CANALI RELAZIONALI
Chairperson: Susanna Chiesa
Relatori: Caterina Aiassa
Rossella Andreoli
Bianca Gallerano
Elisabetta Trebec
TESTE BEN FATTE...
Caterina Aiassa
Quando mi è stato proposto il tema di oggi, mi è balenato in mente questo pensiero: ‘Oddio,
devo spiegare come facciano i miei allievi a copiare i compiti…e non lo so!’
Va bene. A scuola il rapporto con gli strumenti tecnologici ormai è cosa quotidiana. I ragazzi
sono bravissimi nel loro utilizzo, noi molto meno, anzi, molto molto meno. Io sono una
Gutenberghiana.
E’ che essi ci convivono, non possono esistere senza la tecnologia, dal cellulare al pc. In
classe, sappiamo che la lotta contro Iphone acceso è persa in partenza. E’ come se essi
esistessero soltanto in questa dimensione, non più in quella del gruppo dei pari fuori casa, a
giocare o a svolgere attività insieme: tutto ciò coesiste ma si smorza, mentre trionfa lo stare
insieme sul web. Così è più facile sembrare ciò che non si è. Miriam ha 16 anni, frequenta la III
liceo; ha una sorella maggiore diciottenne, sempre fuori casa, i genitori lavorano. Lei trascorre
i pomeriggi a studiare, ma sempre connessa con gli amici sul web, ‘per non sentirmi troppo
sola.’ Quando trattiamo dei suoi rapporti con i ragazzi che le piacciono, afferma: ‘Ci parliamo,
ma su Facebook, o via sms.'; a scuola no, non si salutano nemmeno, come non si conoscessero;
le cose importanti, intime, vengono comunicate via web, o al cellulare. Mai direttamente. Le
parole sono scritte, non sono pronunciate, dunque udite, sentite. Lo scarto emotivo è enorme.
Poi si vedono nei locali con tanta gente, come negli intervalli a scuola, e lì si scambiano
sguardi, mezzi discorsi, cenni, niente più.
Luca trascorre le notti sul web, poi al mattino, verso le 5, va a dormire. Spesso salta la scuola.
Perde un anno; l’anno successivo, il padre non sa che fare: solo ad Aprile decide di chiudere il
collegamento Internet, ma è troppo tardi. La scuola non lo interessa, ha bisogno di qualcosa di
diverso. Con i compagni in classe ride, ma non segue. Non riesce a concentrarsi. Solo con
mappe colorate, frasi icastiche che si muovono e si dissolvono sullo schermo, grazie all'aiuto
dei giochi 'inserisci immagine' di Power Point sta attento.
Gli allievi, in generale, ormai, usano fare ricerche esclusivamente sul web. Niente materiale
cartaceo. Le fonti sono ritenute sicure e inconfutabili: Wiki è tutto, su Wikipedia c'è
informazione su tutto, non importa se sia attendibile o no. E' la nuova Bibbia. Gli insegnanti
stessi ricercano materiale ed informazioni, colloquiano serenamente con i loro studenti via
web, inviano compiti, li correggono, un po’ alla maniera raccontata da Al Huxley ne ‘Il mondo
nuovo’. Può capitare che in un consiglio di classe un’insegnante riferisca ai genitori ed ai
colleghi, allibiti, cosa si dicono gli allievi su Facebook, perché lei ha la loro amicizia. Un bel
villaggio globale virtuale, dove ruoli e funzioni si perdono via etere. E il rispetto per la
privacy? Nonostante le leggi.
Ma c’è un argomento che vorrei affrontare in questa sede e a questo riguardo: sto
frequentando un Master sui DSA, uno dei problemi (forse uno dei business) più importanti del
momento, nella scuola. Certe differenze nei processi di apprendimento ci sono sempre state,
ma adesso si presentano frequentemente; in Italia, sono certificati con agilità, secondo i
dettami della legge 170/2010. Per i dislessici, disgrafici, disortografici e discalculici, la
memoria a breve termine, nonché quella di lavoro è flebile; gli automatismi della scrittura,
l'abitudine all'attenzione ed alla concentrazione, l'allenamento alla creazione, alla creazione
immaginativa appresi a scuola, sono per loro difficili. Qualcuno azzarda che sì, molti risentono
di troppa TV, di troppa tecnologia, fin da piccolissimi. Quale la soluzione prospettata? L'uso
delle tecnologie: direi una cura 'omeopatica'. Non si riconoscono più differenze tra le capacità
e le performances fornite grazie all'uso degli strumenti tecnologici. Si impone il tema della fine
della processazione analitico‐sequenziale, si impone il modello di apprendimento olistico‐
simultaneo, dunque.
Forse la paura è nostra, della generazione 'senex' che ha visto nascere queste tecnologie ed ha
permesso che le sfuggissero di mano. Qualcuno azzarda una mutazione antropologica. Un
collega mi suggerisce che già Pasolini lo aveva teorizzato. Anche in questo caso, aveva avuto
ragione. Ma cosa diversa è pensare a questa trasformazione, altra cosa è viverla, ogni giorno,
nel proprio lavoro, in questa maniera, in questa dimensione: ogni giorno accorgersi che il
pensiero scompare, lasciando il campo all'azione; ogni giorno accorgersi che per loro non c'è
differenza tra ciò che è virtuale e reale; ogni giorno accorgersi che l'incontro con il reale
produce sconcerto, sorpresa, ansia e voglia di fuga; ogni giorno obbedire alla logica
dell'inclusività, ovvero dell'accettazione di ogni modalità espressiva, di ogni modello
apprenditivo. Molto saggio, molto bello: quale la direzione? Dove, quando, come, per questi
ragazzi, incontrarsi in un progetto qualitativamente congruente? Sul web, ognuno barricato
nella propria stanza, protetto da emozioni, terrorizzato dal silenzio, assetato di immagini,
cieco dinanzi alla parola scritta. Quale il contatto con l'altro e, quindi, con se stessi? Perché è
necessaria tanta distanza dall'altro? Il conflitto è incomprensibile, dunque inaccettabile.
Poi: è giusto considerare la nostra tradizione come quella eletta, e/o considerare quella dell’
homo videns come l’ultima possibile? Mi domando cos'abbiano pensato, nel '400, Valla e gli
altri, dinanzi ad Aldo Manuzio. Sarà l’homo videns il detentore del progresso processuale
velocizzato, a scapito della correttezza, o qualcosa resterà dei nostri lenti processi? Eppure la
velocità non serve, la correttezza sì.
Noi conserviamo l'abitudine ad ascoltare il rumore tumultuoso del silenzio che ci
accompagna, una dimensione psichica forse travagliata ma sorretta dal quotidiano esercizio
del pensiero, una conoscenza del potere dell'emozione e del sentimento cui, per fortuna,
abbiamo potuto ed appreso a dare un nome, a figurarcene la forza: a colloquiare con loro. Il
dolore e la gioia ci spaventano di meno, sappiamo, chi più, chi meno, che la risoluzione di
problemi non si produce con un clic. Abbiamo delle expertise a livello metacognitivo, un po'
conosciamo i nostri limiti, le nostre peculiarità. Ai ragazzi, invece, manca questa terra ferma;
essi poggiano sul web. Siamo sicuri di aver inculcato loro quella consapevolezza
metacognitiva che potrà preservarli, come alla nostra generazione ancora succede,
dall'illusione della facile onnipotenza tecnologica?
Oggi, a scuola, con la didattica delle competenze, vorremmo 'plasmare' ''Teste ben fatte, non
teste ben piene.'' come si augurava M. de Montaigne. La tecnologia ci sta aiutando in questo
progetto?
APPUNTI DA UN CASO
Rossella Andreoli
La luce in strada è accecante. Rumori. Troppi. Da quanto tempo non esco di casa? Non me lo
ricordo, non lo so. Lo sguardo della gente brucia la pelle. La strada è lunga. Troppo. Alla fine ci
vado e loro la smetteranno di bussare alla mia porta. Mi lasceranno in pace finalmente. Ci
vado dalla dottoressa del cazzo. Ci vado da quella là. Ci vado. Ci vado e non ci penso più.
Coraggio, respira, respira piano, cinque minuti ancora, forse dieci. Un secolo. Non so più
quando sono partito e quanto ancora dovrò camminare. Non so cosa mi aspetterà. Là.
Lei apre una piccola porta e mi accompagna nella stanza bianca. E’ una stanza troppo bianca.
Lei non può sapere quanto terrore c’è in un viaggio di venti minuti in mezzo alla gente che ti
guarda e ai rumori che non riesci a spegnere. Non sa che sono sfinito. Che non ho parole. Che
le parole sono finite. Lei che mi invita tranquillamente a dire.
Niente. Non c’è niente da dire. E’ che stamattina era di nuovo mattina. Un’altra mattina. La
sveglia suonava ma la testa non ne voleva sapere e rimaneva lontana. La dub nelle orecchie
come un massaggio alla pancia. Forte. La melodia ti prende e poi, quando non te l’aspetti, lo
strappo. E allora sì che mi lascio andare. Finalmente in pace senza il rumore dei miei pensieri.
Lo sai dott. che mi calma? Se vuoi, te la faccio sentire.
Niente. E’ che c’era ancora la voce della mamma. C’era ancora la scuola. Non voglio. Forse sì
voglio. Cazzo…non posso. Il cuore mi buca il petto, la gola si stringe. Vattene. Vattene via
prima che ti prenda a calci. La odio. Non la sopporto più con quella vocetta finta. Perché non
mi lasciano in pace? Anche mio padre, quello stronzo. Figlio di puttana. L’altro giorno c’è
mancato poco. Avrei proprio voluto fargliela vedere io. Dargliele di santa ragione finché quel
suo ghigno non spariva dalla sua faccia di merda. Mi sono fermato. La stronza piangeva.
Niente. Non c’è niente da dire. Lasciatemi in pace. Non oggi. Forse domani. Si domani ci vado.
Sicuro. Domani.
Lo schermo mi guarda. E’ un attimo. Ci scivolo senza fatica. Finalmente sicuro. So cosa fare lì
dentro. Due mosse e li frego tutti. Hackerare meglio ancora di giocare. La musica nelle
orecchie. Adesso sì. Adesso sì che va. Dietro la porta ben chiusa. Fuori, tutto come sempre. La
casa vuota. Il silenzio del lavoro degli altri. Finalmente solo. Solo finalmente. E così per
l’eternità. Un’ora dopo l’altra. Un giorno dopo l’altro. Non c’è un tempo. Non c’è tempo. Buio
luce ancora buio ancora luce.
Niente. Non c’è niente da dire. E’ che di nuovo bussano. Di nuovo chiedono. Di nuovo
supplicano. La scuola? Domani. Sicuro domani. Musica forte nelle orecchie. Ancora più forte.
Sono un eroe e nelle vene mi scorre sangue di drago. Come quella volta che ho provato quella
roba. Forse funziona anche per la scuola.
Niente. Non c’è niente da dire. A chi lo dico poi? Chi ascolta questo niente?
Niente. Non c’è niente da dire. Ho freddo. Ho fame. Ho paura.
Lei lo guardava stupita. Era entrato grande e grosso. Un colosso. Per un attimo aveva anche
temuto. E poi, l’inverosimile di una metamorfosi sorprendente. Lui, il gigante, era diventato
piccolo. Piccolo come Pollicino e come Pollicino gettava in qua e in là i suoi sassolini bianchi.
Ne aveva manciate nelle tasche. Chissà come faceva a camminare con tutto quel peso. E aveva
camminato tanto per arrivare fin lì, lo si vedeva dalle scarpe consumate. Allora lei si era
chinata, e, senza farsi troppo notare, a uno a uno aveva cominciato a raccoglierli. Ne era nato
un gioco. Uno scambio. Una briciola di pane per ogni sassolino ritrovato.
Hai ragione, piccolo. Non c’è niente da dire. Facciamo silenzio. Facciamo silenzio insieme.
Vuoi?
Questioni (Spunti per pensare)
“La rete sta creando un ambiente nuovo, uno stato di natura digitale in cui la mente diventa un
pannello di controllo che funziona a un ritmo vorticoso” (Internazionale, 19/25 ottobre 2012).
La comunicazione virtuale, per le sue caratteristiche e per il suo funzionamento intrinseco,
contribuisce a creare l’aspettativa che i desideri si realizzino istantaneamente, proprio
come accade nel mondo virtuale. Ciò avrebbe come esito una pesante compromissione
della dialettica simbolica, nella struttura triadica che le è propria di soggetto che
desidera/oggetto del desiderio/oggetto simbolico – simbolo. Tale dialettica, infatti, è
avviata da una mancanza e si sviluppa in un tempo. La capacità di sostenere un tempo e
sopportare il dolore della mancanza sono le precondizioni per il formarsi del pensiero e
sono vitali per la mente. La globalizzazione della comunicazione virtuale, per contro, nella
sua peculiarità di realizzazione istantanea, finirebbe per sostituire tale processo con il
funzionamento bidimensionale dello schema riflesso stimolo/azione.
I videogiochi sono fondati sulla ripetizione costante di una struttura semplice a livelli sempre
più rapidi e complessi. Basandosi sulla prontezza dei riflessi, questi finiscono per
produrre nel giocatore una vera e propria alterazione della coscienza, mantenuta grazie
al feedback in virtù del quale l’attenzione viene costantemente sollecitata. In tal modo i
videogiocatori si abituerebbero a un livello di eccitazione nervosa più elevato del
normale, che li porterebbe ad annoiarsi facilmente di fronte a qualunque situazione che
non esiga la medesima soglia di attenzione‐eccitazione nervosa: deve sempre accadere
qualcosa. In queste condizioni diventa difficile seguire una trama, interessarsi a una
storia quando l’attenzione richiesta non raggiunge l’ abituale soglia di eccitazione delle
sinapsi. Gli insegnanti, gli educatori in genere, ma anche tutti gli operatori ψ, si
troverebbero così costretti a competere con questo tipo di funzionamento e a cercare i
modi di comunicare più efficaci per mantenere la medesima soglia di eccitazione
neuronale cui i soggetti digitalizzati sono abituati quando non dipendenti. Un tentativo
certamente destinato a fallire, poiché sappiamo bene che l’ apprendimento, unitamente ai
processi di pensiero e di esperienze emotive a esso sottesi, non può ridursi a una pura
azione riflessa. La “disponibilità ad apprendere” si realizza attraverso l’imprescindibile
modulazione di apertura e ricettività tra sé e l’altro da sé, all’interno di un contenitore
relazionale vivo, stratificato sia in senso orizzontale – la gruppalità dei pari – sia in senso
verticale – la relazione con l’Autorità e il corpo docente, in un continuo passaggio da
singolare a plurale, da duale a gruppale.
La globalizzazione della comunicazione virtuale, sollecitando l’illusione di far parte
continuamente di una comunità allargata e dai confini sempre più estesi, invisibile ma
percepibile, fisicamente assente eppure massicciamente presente, prevede la
radicalizzazione di una dimensione solitaria quando non francamente autistica ‐ lo
scambio è tra il soggetto incarnato e il corpo molteplice ed etereo del web. Tale modalità
comunicativa favorirebbe inoltre lo sviluppo massiccio di una mentalità di gruppo
funzionante secondo gli assunti di base, a discapito dell’emergenza della soggettività e del
pensiero personale. I soggetti digitalizzati si sposterebbero sempre più dal
pensare/elaborare verso l’agire/evacuare. In tal senso, la realtà virtuale finirebbe per
determinare una relazione completamente diversa con il principio del piacere/dispiacere,
contribuendo alla costruzione di un’immagine del tutto illusoria del reale e
compromettendo pesantemente la necessità, vitale per l’animale uomo che è animale di
senso, di elaborare mentalmente i legami e le trasformazioni che si realizzano
nell’interscambio osmotico tra il mondo interno e la realtà esterna.
Vaporizzazione dei limiti, della funzione paterna, del pensare. Più radicalmente, del pensare il
dolore. In un processo che, come la psicoanalisi da cent’anni ci indica, procede dall’opacità
del corpo e del bisogno, per le vie impervie del fare la fatica di fare fatica, al mondo
stupefacente del significato, del senso condiviso. Se tutto questo salta, cosa accadrà? Cosa
ne sarà delle nuove menti?
E nella stanza di analisi?
“Ti interessa capire?” “No.” Risponde Furio. E dunque come muoversi in questa dimensione?
La domanda ci riguarda tutti, tutti noi che abbiamo a che fare con la crescita e usiamo le
parole per farlo. Se la digitalizzazione massiccia spinge i cyborg soggetti a modificare
progressivamente e irreversibilmente il modo di usare la mente – si tratterà tutt’al più di un
paio di generazioni, come ha sostenuto la collega francese Guignard in una recente
comunicazione al Centro bolognese di Psicoanalisi ‐ come possiamo noi attrezzare strumenti
idonei e meglio adeguati, ma prima e accanto a quelli, uno sguardo nuovo nell’incontrarli?
Cosa dell’assetto psicoanalitico ‐ che fa della parola la dimensione elettiva dello scambio e
dell’incontro ‐ e, in particolare dell’approccio junghiano ‐ che vede nel sogno e più in
generale nel dialogo con le immagini lo strumento trasformativo per eccellenza ‐ cosa può
essere conservato e cosa trasformato? In che modo il lavoro con l’inconscio può raggiungere i
bambini e gli adolescenti tecnologici e orientare le pratiche educative, oltre che quelle
terapeutiche?
La digitalizzazione della comunicazione determinerebbe sia lo spostamento dei processi
mentali dalla dimensione rappresentativa alla dimensione percettiva, e in particolare alla
percezione visiva, che un cambiamento profondo del ruolo della comunicazione e del
linguaggio nella strutturazione della mente/pensiero. Se è vero che I cyborg si nutrono di
immagini e sono alla ricerca costante di soluzioni semplici e immediate a domande e
problemi complessi, quelle che essi trovano nel web offerte dall’immediatezza del touch
screen sono immagini pre‐digerite, pre‐formate, immagini che non scaturiscono dall’ascolto e
dal dialogo con i propri oggetti interni. Non sono immagini d’Anima. La realizzazione
immediata del desiderio, unitamente all’evacuazione facilitata del dolore, produce inoltre
modificazioni sostanziali nell’assetto difensivo del soggetto. Dalle difese edipiche più evolute
si assiste all’emergere sempre più di difese arcaiche, difese del Sé: dalla negazione/rimozione,
verso la scissione che, qualora diventi dominante, contribuisce alla manifestazione di
patologie cosiddette di confine, oggi estremamente diffuse. Sono sempre più i soggetti
borderline, psicosomatici, dipendenti, dalle tecnologie come dalle sostanze, i soggetti vuoti,
identificati con la solidità del proprio sintomo, e sempre meno i nevrotici di un tempo a
frequentare i nostri studi. In queste situazioni è il terapeuta che deve potere attingere alla
propria risorsa immaginale, alla propria vis poetica, nel tentativo di portare vita a soggetti che
appaiono deanimati.
In questo quadro ci sembra che la cura non possa limitarsi alla decifrazione simbolica del
sintomo, o all’analisi del sogno come terreno elettivo dello scambio della coppia analitica, ma
debba tentare di ripristinare il funzionamento mentale compromesso ,” talvolta ‘costruire’ da
pochi mattoni rimasti l’edificio di una mente complessa” , come scrive Panizza, in un recente
libro. E ciò può accadere attraverso quella fondamentale operazione che Bion nomina rêverie,
e che Ogden descrive come sognare i sogni non sognati. Solo così, grazie a questo modo di
usare la mente da parte dell’Analista, è possibile che la cronaca del mondo esterno, attraverso
una indispensabile azione metaforizzante, divenga metafora del mondo interno e la
conversazione psicoanalitica un’esperienza onirizzante. Solo così può entrare in scena il terzo
analitico, quel personaggio virtuale ma effettuale, che non è l’analista, non è il paziente, ma
una creazione nuova, costituita dalla diade, dagli inconsci dei due partner che interagiscono.
Uso le parole di Panizza per dirlo. “Come l’acqua emerge dissimile da idrogeno e ossigeno, così
da ‘genitori psicoanalitici’ diversi – l’analista e il paziente – nasce qualcosa di originale “. Solo
così noi psicoanalisti, in un tempo di crisi e di perdita del senso e del valore della relazione,
solo così possiamo assolvere al nostro compito nella sua dimensione più alta, che io non
riesco a non sentire scaturire da un’ attitudine vocazionale. Uso una parola un po’ antica, che
tuttavia sento sempre più viva nella mia pratica. Il compito che è accompagnare i nostri
pazienti, le persone che i nostri pazienti sono, a incontrare l’Altro.
I COSIDDETTI 'NUOVI STILI ANALITICI' E LA TIPICASPECIFICA SOFFERENZA PATOLOGICA IN ADOLESCENZA
Bianca Gallerano
In questo mio contributo prenderò l’avvio da due espressioni che sono presenti nel
titolo, in particolare nel sottotitolo, della tavola rotonda. Mi riferisco ai cosiddetti “nuovi
stili terapeutici e analitici” che vengono correlati alla contemporaneità. Quest’ultima
sembra rendere completamente nuova la comunicazione, quindi la relazione umana.
Gli adolescenti, naturalmente figli di questa epoca, vengono, così, definiti i cosiddetti
‘nativi digitali’. Di fronte alla contemporaneità noi adulti‐analisti, sembriamo degli
analfabeti digitali costretti a rincorrere gli adolescenti ed adeguarci ai loro stili
comunicativi per poter dialogare e stabilire una relazione terapeutica con loro. Le
riflessioni che seguono prendo spunto proprio da queste considerazioni. L’adolescenza,
pur contenendo elementi paradigmatici della contemporaneità, non ritengo che possa
essere utilizzata per una comprensione del presente, ne tanto meno, credo sia
necessario attivare, per necessità, nuovi stili terapeuti e analitici. L’adolescenza è
sempre stata, in tutte le epoche storiche, momento di crisi, incertezza, di rischio e
possibilità. Il rischio contiene in sé possibilità di cambiamento non certo. L’adolescenza
è tempo di attesa e di speranza, epoca di transizione, luogo di indefinitezza per
eccellenza, luogo di confine, di passaggio. E’ un periodo della vita in cui ci si sente soli‐
isolati. Per la prima volta, si contatta il tempo interiore, il pensiero autoriflessivo,
l’esplosività delle emozioni e delle pulsioni, con le inevitabili paure che tutto ciò
comporta. In quest’epoca della vita, dalla paura‐terrore di attraversare la terra di
confine,( cioè la separazione‐morte dell’infanzia e l’accesso all’età adulta) ci si difende
prevalentemente con modalità estreme ed opposte: l’illusoria autosufficienza,
l’apparente indifferenza emozionale, l’inerzia psichica; o l’onnipotenza e la grandiosità.
“Ci sono adolescenze nelle quali, al di fuori di una patologia, ci si confronta con la morte
temendola e desiderandola, banalizzandola e negandola, sfidandola e giocando con essa
come ad una roulette russa: sulla scia di una indifferenza emozionale che non può non
nascondere in sé schegge di angoscia solo apparentemente rimosse.” 33
33
Borgna, L’attesa e la speranza, 2005, p. 143.
Nelle cosiddette società arcaiche il passaggio dall’infanzia all’adolescenza avveniva in
tempi brevissimi, codificati e regolamentati dai Riti di Passaggio. Nelle società più
complesse, come la nostra, i riti non sono più istituzionalizzati, quindi, non sono resi
possibili dalla presenza dell’adulto che li gestisce in pieno. Ma, oggi, come sempre dalla
nascita della civiltà industriale, i riti, per gli adolescenti, avvengono ugualmente. Ciò che
caratterizza la nostra epoca è, come sostiene Bhauman, l’incertezza, la fluidità, lo
smarrimento, la mancanza di senso di appartenenza e di conseguenza la mancanza di
solidarietà. Il malessere che esprime la società non è, pero, in modo diretto, la causa
dell’inquietudine dell’adolescenza, anche se la società definisce le modalità attraverso
cui si esprime il disagio psichico. La società fornisce solo la forma attraverso cui si
manifesta la sofferenza, non ne definisce il contenuto, da ciò ne consegue che ogni epoca
storica fornisce soltanto i modi e le forme attraverso cui si esprime il malessere in
adolescenza.
Se siamo indotti a pensare che la contemporaneità, con le sue nuove tecnologie,
stravolge e snatura del tutto i modi di sentire, di pensare, di agire, di comportarsi, e
quindi di patire, rischiamo di scimmiottare e di banalizzare le tesi che facevano da
sfondo all’Antipsichiatria degli anni ’70. La sofferenza era esclusivamente un prodotto
della società e della sua divisione in classi. Oggi mi sembra di poter dire che il termine
complessità possa descrivere in maniera più adeguata il rapporto fra patologia e società.
Ci sono modi e percorsi estremamente complessi per cercare di comprendere, anche se
sempre solo parzialmente, i legami causali tra queste due realtà. Queste considerazioni
vogliono rappresentare lo sfondo da cui nascono e si dipanano le mie riflessioni.
Considerazioni che, invece, prendono forma all’interno di un luogo di elezione che è la
stanza d’analisi. Sono quindi il frutto dell’incontro della mente dell’analista al lavoro con
la sofferenza, nell’adolescenza, declinata in senso patologico. Le mie valutazioni, quindi,
non si poggiano su concetti normativi‐sociologici né psicopatologici. Piuttosto sono
rivolte a descrivere, in senso fenomenico, le modalità degli esseri umani di patire nei
momenti di passaggio della vita, ed inoltre sono rivolte a porre l’attenzione sulle
modalità con cui i singoli esseri umani reagiscono e si difendono dagli inevitabili urti
che la vita pone di fronte. In questo senso opero una distinzione tra sofferenza
consustanziale all’umano e sofferenza declinata in senso patologica. Seguendo una
visione junghiana possiamo parlare di sofferenza declinata in senso patologico quando
un nucleo di dolore tende a impossessarsi, cronicamente, della naturale plasticità della
psiche, di conseguenza l’assetto difensivo tende, sempre più, ad irrigidirsi e,
iinevitabilmente la personalità si impoverirsi. Tutti i momenti di passaggio, di
separazione (dall’infanzia sino al confronto con la morte) a cui si è inevitabilmente
esposti, in quanto elementi ineluttabili della vita, sono complessi e difficili da affrontare.
Poiché risvegliamo uno stato mentale ed effettivo: la solitudine‐isolamento, che
compenetra e colora di sé l’esperienza della separazione, tema centrale in adolescenza.
In quanto la separazione è connaturata alla transizione da una condizione esistenziale
ad un’altra. In questi momenti, critici, in modo particolare nell’adolescenza, sembra
porsi in modo evidente la distinzione tra sofferenza consustanziale all’umano e
sofferenza declinata in senso patologico. Ovviamente non mi riferisco alle patologie
strutturate sin dall’infanzia. Nei momenti di passaggio, il confine tra queste due forme di
patire, soprattutto in adolescenza, tende a divenire più labile, più incerto, più sottile.
Poiché questa linea fragile e ineffabile, sembra abbandonare l’essere umano proprio
negli inevitabili momenti di separazione. L’adolescente può viversi, così, come fragile,
esposto, abbandonato, solo, senza speranza o al contrario, e in modo alterno, capace di
tutto, di dominare se stesso, i propri comportamenti, il proprio mondo interno e,
soprattutto la realtà esterna. E’ di fronte a tale disorientamento, che, a volte, si può
presentare con un risvolto drammatico, che la figura dell’analista acquista senso e
valore. La stanza d’analisi diviene, così, un luogo privilegiato poiché solo in quel
contesto, nella nostra mente, nascono pensieri vivi, utili e proficui, o, al contrario,
pensieri ossificati e pietrificati. Questi ultimi spesso vengono, inconsapevolmente ,
affidati, in senso proiettivo, a quel singolo adolescente, che sta vivendo, la sua unica e
specifica crisi esistenziale legata al difficile accesso al mondo adulto. Il compito di noi
analisti dovrebbe essere quello di prendersi cura, nella stanza d’analisi, della sofferenza
declinata in senso patologico. Per cui, paradossalmente, possiamo ritenere che nei nostri
studi non vediamo l’adolescenza, ma piuttosto l’impossibilità di accedere ad essa. Anche
se non è scontato rendersi conto di quanto una sintomatologia, espressa in forma
esplosiva può ridimensionarsi e permettere, così, il normale fluire della vita o
rappresentare i prodromi della insorgenza di una patologia strutturata. In ogni modo il
nostro compito dovrebbe essere quello di aiutare i nostri pazienti, là dov’è possibile, a
divenire adolescenti e rientrare nel flusso della vita nonostante i cosiddetti legami
affettivi danneggiati. Tutto questo non contiene in se l’idea radicale che la realtà
esterna, non entra nella stanza d’analisi e quindi non ci riguarda. Non sto proponendo
una figura professionale distante dalla realtà e fedele all’immagine idealizzata
dell’analista supposto‐sapere, o all’immagine dell’analisi pura e sganciata dal mondo
esterno, visione accompagnata da una venatura di romanticismo e da un atteggiamento
nostalgico e regressivo. Ritengo, però, che la realtà esterna, la cosiddetta
contemporaneità, fornisce soltanto i modi e le forme attraverso le quali si esprime la
sofferenza, non ne rappresenta la causa. In tal senso sono in disaccordo con le teorie, a
mio avviso di stampo sociologico, di molti autori che si occupano, oggi, di adolescenza.34
Sposando una lettura sociologica rischiamo di perdere di vista il nostro specifico vertice
d’ascolto e rischiamo di diventare stranieri nel nostro luogo di elezione, nella nostra
fucina. La stanza d’analisi è, invece, il luogo principe in cui può prendere avvio il
cosiddetto percorso e processo terapeutico. L’analisi è un metodo di cura con la parola.
Cura che si fonda su due dimensioni specificatamente umane: l’ascolto e il dialogo.
L’ascolto autentico dell’altro da sé rimanda ad una qualità umana : il sentire l’altro
come un essere simile a me che patisce e gioisce in modo specificatamente umano.
Trame affettive queste ultime, il gioire e il patire, che tessono una rete di relazione tra i
singoli esseri, e permettono di coltivare il sentimento di appartenenza tra gli individui.
L’ascolto, però, non è una qualità stabile, e acquisita una volta per tutti, poiché richiede
una particolare attitudine che è, come sostiene la De Monticelli, l’attenzione. “La più
modesta e quotidiana della virtù: eppure anche la più difficile. L’attenzione è la capacità
di accogliere veramente la realtà nella sua individualità e nelle sue esigenze. Presuppone
evidentemente rispetto e umiltà, senso dell’evidenza, capacità di ritirarsi, fiducia in ciò
che è offerto, e fedeltà a quanto ciascuna cosa è.”35 Da ciò ne consegue che il cosiddetto
dialogo autentico comporta l’inevitabile necessità di riconoscere l’altro nella sua radicale
specificità, proprio nel senso propostoci da Jung. Il dialogo inoltre pone all’analista una
questione di natura etica poiché , le correnti emozionali, che attraversano la sua mente,
possono invadere la sua autenticità e contagiare la pensabilità cosciente. Poiché l’io non
è l’arbitro delle nostre emozioni , queste ultime possono condizionare sia il modo in cui
ascoltiamo e di conseguenza la modalità con cui dialoghiamo. Di fatto noi analisti non
sappiamo, fino infondo, su cosa fondare l’efficacia delle nostre azioni terapeutiche. Io ho,
invece, l’impressione che, attualmente, in molta letteratura, che si occupa della cura
della sofferenza in adolescenza, le espressione ascolto rispettoso e dialogo autentico
vengono proposte, in modo semplicistico, gli adolescenti non sono ascoltati ma
interpretati. Come sperimentiamo nella pratica clinica, il cosiddetto dialogo con
34 di autori come Benasseguet, Pietropolli e Galimberti 35 De Monticelli, R. (2007), Alla presenza delle cose stesse. Saggio sull’attenzione fenomenologia. Atque, 3-4 p.234 -
235
l’adolescente non è né semplice né scontato da realizzare. Data la personalità
dell’adolescente, ancora non definita né organizzata in senso relativamente stabile, gli
interventi dell’analista, possono trascinarlo in uno stato d’animo segnato dal timore:
può sentirsi indottrinato, invaso, controllato o, al contrario, sedotto. Reazioni emotive
che possono ingenerare chiusura, diffidenza, e sfiducia . Per quanto riguarda noi
analisti, sappiamo che è molto difficile mantenere una giusta e buona distanza
relazionale, in quanto inevitabilmente contagiati dai nostri vissuti controtrasferali
rischiamo, spesso, di incarnare il ruolo del genitore ideale o il sostituto di quello reale in
carne ed ossa. Oppure, al contrario, rischiamo di identificarci, inconsciamente, con la
nostra adolescenza, ormai perduta, e incarniamo, in tal modo, il ruolo dell’amico‐
adolescente complice nei confronti del mondo degli adulti vissuto come estraneo,
distante e a volte persecutorio. In ogni caso impediamo all’adolescente la possibilità di
accedere a quella esperienza dolorosa, necessaria e inevitabile, che è racchiusa
nell’espressione: separazione‐individuazione. Unica condizione esistenziale che può
aiutarlo a fidarsi delle sue potenzialità e cominciare a viversi come un individuo
separato che rimane comunque in relazione con i suoi bisogni di dipendenza e di
appartenenza, senza temere che la percezione di tali bisogni non lo ricacci nuovamente
nel regno dell’infanzia. L’adolescente, quindi, non ha bisogno di essere sedotto da un
analista compiacente che aderisce ai suoi modo di esprimersi e di comunicare.
Il dialogo con e insieme all’adolescente è di per sé perturbante. Come ritiene Winnicott
gli adolescenti non vogliono essere capiti e chiunque fa domande deve aspettarsi che gli
vengono date risposte false. Non sta a noi sedurli con un atteggiamento Puer,
giovanilista e di falsa vicinanza. Il nostro compito dovrebbe essere quello di aiutarli,
quando ne hanno la potenzialità, a radicarsi nella vita e nella propria storia. Questo può
accadere soltanto se prima di tutto riusciamo noi analisti a radicarci nella nostra vita,
nella nostra storia e nella nostra funzione analitica. Come analisti possiamo tentare di
avvicinarci con cautela sia all’ascolto che al dialogo con l’adolescente tenendo conto di
una loro modalità tipica e specifica di esprimere la sofferenza. Modalità elettiva che si
sostanzia con l’agire, con una messa in scena visibile al mondo esterno ma non resa
mentale a se stessi. In questo periodo della vita la sofferenza psichica si esprime in
modo concreto, tanto più è visibile all’occhio dell’adulto tanto più l’adolescente tende ad
allontanarlo, a vanificare la relazione, che comporta, inevitabilmente, vicinanza affettiva.
Chiedono aiuto attraverso il sintomo e al contempo lo rifiutano. Il nostro arduo compito
dovrebbe essere quello di aiutarli a tentare di rendere psichici i contenuti del loro agire.
Queste convinzioni rappresentano lo sfondo dal quale nascono le riflessioni sulla
difficile costituzione e gestione del setting nel lavoro clinico con gli adolescenti, e l’uso,
all’interno della relazione terapeutica, dei cosiddetti strumenti digitali. Con questa fascia
d’età la funzione del setting è legata, in modo particolare, alla costituzione di un luogo
fisico, una sorta di spazio‐transizionale, che possa aiutare l’adolescente a divenire
consapevole della sua sofferenza, imparare a sentirla e governarla, passando così dal
registro dell’agito al registro della riflessione e quindi del contenimento dei propri stati
mentali e affettivi. Dovremmo essere, paradossalmente, più analisti degli analisti, più
realisti del re. Questo non vuol dire che dobbiamo far si che l’adolescente si adatti alla
visione classica dell’analisi o che debba rispettare le regole che sostanziano il nostro
lavoro. Ma nel nostro essere di fronte all’adolescente, nella stanza d’analisi, ogni nostro
comportamento andrebbe reso psichico. Tra gli strumenti che gli adolescenti utilizzano
per comunicare, l’oggetto di elezione è il cellulare, in particolare la comunicazione
attraverso i messaggi, che permettono, a volte in maniera evacuativa di uscire da
situazioni conflittuali. Quando si scrive un messaggio non è presente ne il viso ne la voce.
Quando un adolescente ha il bisogno‐necessità di saltare una seduta tende a comunicare
con i suoi soliti strumenti che sono rapidi, comuni e soprattutto riguardano la vita
concreta, reale e ordinaria. Di fronte ai loro comportamenti, ovviamente, noi analisti non
possiamo procrastinare il nostro intervento. Però se noi ci adeguiamo al loro stile
comunicativo non li aiutiamo a percepire il loro mondo interno ma rinforziamo la
naturale tendenza ad agire in modo impulsivo, senza ne riflettere ne sentire. Queste
peculiarità umane necessitano di una pausa, unica dimensione che può fare incontrare
un conflitto interno. Nel lavoro clinico siamo costretti a prendere decisioni immediate,
ma, nonostante la scomoda situazione, dovremmo tentare di mantenere viva l’intenzione
di non colludere con i loro comportamenti manipolativi pena il rischio di precipitare in
uno stallo del processo terapeutico. E’ profondamente diverso se l’adolescente sa che in
terapia può sperimenta un modo unico e completamente altro rispetto al solito stile
comunicativo che lo accompagna nel quotidiano. Dipende, quindi, dalla capacità della
mente dell’ analista di non colludere con quella del paziente, e tentare, ogni volta, di
rendere materiale psichico un fatto concreto e non lasciarlo cadere come un semplice
fatto. Dovremmo, quindi, aiutare l’adolescente a poter sviluppare la capacità
introspettiva in modo che possa gradualmente svilupparsi il momento della riflessione
che permette l’interiorizzazione degli eventi affinché possano essere assorbiti come fatti
psichici. In tal modo l’adolescente non è più completamente agito dal fascino coatto
della sua condizione esistenziale. Tutte le forme nuove di comunicazione che
riguardano la vita ordinaria trasportate nel contesto analitico e usate come strumenti
per stabilire con l’adolescente il cosiddetto dialogo, rischiano di alimentare, il suo
isolamento, la grandiosità, l’onnipontenza e la mancanza di assunzione di responsabilità
nei confronti della propria vita mentale ed affettiva. Il nostro compito specifico, nel
lavoro con gli adolescenti, credo consista nel riuscire ad incarnare una figura che li aiuti
a sostare nella terra di nessuno, nel luogo di confine, nel non più e il non ancora, senza che
l’angoscia li travolga. Dovremmo rappresentare un tramite, una possibilità che
permetta loro di poter vivere la separazione che, inevitabilmente, li trascina nel luogo
della solitudine. Sta a noi far si che la loro solitudine non si strutturi come isolamento
da se stessi e dal mondo esterno, ma piuttosto possa trasformarsi in solitudine interiore,
viva e creativa nella quale “…si continua ad essere aperti al mondo delle persone e delle
cose, e al desiderio di mantenersi in una relazione significativa con gli altri”36. Aiutarli,
quindi, ad acquisire, quando è possibile, la capacità di sentirsi vivi trovando il coraggio
dentro se stessi di percorrere la bellezza e pienezza della vita nonostante i legami
danneggiati. Credo che se noi analisti ci appropriamo in modo acritico dei nuovi canali
relazionali e dei nuovi stili terapeutici, rischiamo di snaturale e svilire il nostro sapere,
che non va negato né tanto meno reso attuale, ritenendo che sia sufficiente aggiungervi
un pizzico di neuroscenze, un granello di cognitivismo e un buon uso degli strumenti
digitali. Tutto questo per non sentirci “ obsoleti non nativi digitali”.
Volevo chiudere il mio intervento con un breve brano di Jung che Borgna,37 nel suo
ultimo definisce di drastica chiarezza e di palpitante attualità. “… al di là del substrato
anatomico v’è ciò che per noi è importante, vale a dire l’anima, entità da sempre
indefinibile, e che continua a sfuggire anche ai più abili tentativi di afferrarla” 38.
36 Borgna, E.,( 2011) La solitudine dell’anima, Feltrinelli, Milano, p. p.21 37 Borgna, E., (2012) Di armonia risuona e di follia, Feltrinelli, Milano, p.147 38 C. G: Jung, Psicogenesi delle malattie mentali, Opere, Vol.III, Boringhieri, Torino,1971
NATIVI DIGITALI
Elisabetta Trebec
Nativi digitali è il nome dato agli under 18, ragazzi nati e cresciuti nell’era del digitale, che
sono tra i maggiori fruitori del web e delle nuove tecnologie mobili.
L’esperienza coi nativi digitali nasce dalla mia attività come terapeuta e come psicologa
scolastica. Ed è soprattutto in riferimento al lavoro svolto in ambito scolastico che mi piace
condividere riflessioni e offrire spunti di discussione non solo e non tanto su nicchie
patologiche quanto su adolescenti “normali”.
L’attività digitale inizia molto presto. Nell'Istituto comprensivo (materna, elementari e media)
dove mi occupo di prevenzione del disagio e dell'abbandono scolastico hanno allestito un'aula
computer nel ciclo della primaria, a cui hanno accesso i bambini fin dalla prima elementare
per svolgere attività didattiche di vario tipo. A 11 anni tutti sanno già navigare su Internet e la
maggior parte ha aperto un profilo su Facebook.( il social network più diffuso nel mondo:
l'11% della popolazione mondiale hanno un profilo su Facebook, in Italia 20 milioni di
persone hanno aperto un account e quest’anno Facebook ha superato Google come numero di
visite ).
Non ho dati statistici veri e propri ma ogni anno incontro individualmente dai 30 ai 40
ragazzi, dell’età compresa tra gli undici e i tredici anni, oltre ad entrare in contatto con intere
classi, qualora si rendano necessari interventi di osservazione delle dinamiche di gruppo e di
facilitazione dell’interazione alunni e docenti.
Per questi ragazzi il digitale costituisce la lingua naturale.
E’ il linguaggio attraverso cui esprimere se stessi. La connettività è al vertice dei loro
interessi, ma non è il primo interesse. Il primo è esattamente quello che era l’interesse
prioritario delle generazioni precedenti e cioè incontrare gli amici, stare con loro, senza scopi
precisi, parlare e Facebook costituisce lo strumento attraverso cui mantenere sempre vivo il
contatto con tutto il gruppo degli amici.
Non il cellulare, questo serve solo per inviare sms, “messaggi di servizio”, non il telefono,
usato quasi mai. Il canale privilegiato di contatto è Facebook che, in questo senso, rappresenta
ciò che era il telefono per le generazioni precedenti.
Naturalmente con delle differenze: il telefono implica una conversazione a due e consente un
livello di comunicazione intimo e profondo che con Facebook non è possibile. La
contemporaneità, la simultaneità e la velocità di risposta mantengono la comunicazione a
livelli superficiali. Del resto Facebook è nato con questo scopo, come luogo virtuale di svago e
di intrattenimento, per relazioni “amicali” percepite come leggere e conviviali. Il linguaggio
testuale è breve, abbreviato, sintatticamente povero. Spesso con delle ricadute nella vita reale,
nella lingua parlata e scritta ( temi pieni di X’ di ti Kiedo, ke cosa ). E’ forse questa la sintassi di
un nuovo funzionamento mentale? A questo proposito il dibattito è aperto e nuove ricerche
(Gary Small) sostengono che non solo l’abuso ma il semplice uso della rete modifica i circuiti
neuronali ( basterebbero 5 ore di esposizione alla settimana).Anche solo facendo cose molto
semplici come inviare sms o fare ricerche in rete, il nostro cervello diventa più avvezzo a
filtrare informazioni e a prendere decisioni istantanee, in qualche modo si specializza,
vengono cioè rafforzati i circuiti ripetutamente attivati a scapito di altri funzionamenti come
quello affettivo e relazionale. In altre parole, Internet starebbe creando uno stato di natura
digitale. Una mutazione, così come in passato mutazioni sono state influenzate
dall’acquisizione della scrittura e poi dall’invenzione della stampa.
Tornando a Facebook, la sua particolarità è che ci si iscrive col proprio nome e cognome, più
spesso gli adolescenti si iscrivono con un nickname ma si rendono sempre riconoscibili in
quanto il loro scopo è quello di presentarsi come se stessi e costruire un senso di
appartenenza.
Attraverso la condivisione di immagini, di video, di esperienze, attraverso lo scambio di
informazioni tra amici, gli adolescenti mettono in comune il proprio mondo interiore e
qualcosa di importante di sé. Facebook diventa così uno strumento significativo nella
costruzione di un’identità riconosciuta dal gruppo.
Per questi adolescenti lo scopo non è tanto cercare nuovi contatti. Poi è vero che si chiede
l’amicizia all'amico dell'amico e in questo modo si raggiunge un numero sproporzionato di
amici che nella vita reale difficilmente si riuscirebbe a gestire, ma questo fa parte della
dinamica del social network dove si è tanto più attraenti quanto più si è richiesti. In realtà lo
scopo vero è quello di mantenere aperta la comunicazione con gli amici reali, in quanto
necessità psichica; gli amici costituiscono infatti un sostegno emotivo e un confronto sociale
nel processo di differenziazione dalla famiglia.
In questi termini Facebook può essere una vera e propria risorsa per quei ragazzi che
soffrono di inibizioni sociali, ragazzi chiusi, con difficoltà di comunicazione e di relazione, a cui
lo schermo garantisce una protezione che li rassicura e consente loro di esporsi e di entrare in
contatto con i coetanei, almeno come primo approccio.
Mi è poi capitato di recente di incontrare genitori che hanno chiesto ai propri figli l'amicizia su
Facebook. La motivazione è il controllo, ma credo anche quella di poterli conoscere meglio,
poiché a quest'età si corre il rischio di perderli di vista, o forse perché mai visti. La cosa
interessante è che i figli accettano l'amicizia dei genitori, probabilmente per lo stesso motivo
per cui, in passato, si lasciava in giro il diario segreto, o anche per quella dinamica in base alla
quale sempre più spesso i genitori abdicano al proprio ruolo e fanno gli amici dei figli.
L’ altro sito Internet maggiormente cliccato dagli adolescenti è YouTube.
YouTube permette ai ragazzi di rivedere le serie televisive preferite, di vedere le puntate
perse, di ascoltare brani musicali e guardare i video dei cantanti.
YouTube consente dunque di coltivare la seconda grande passione degli adolescenti: la
musica. La medesima delle generazioni precedenti.
Un altro fenomeno interessante è quello dei giochi di ruolo, chat multimediali attraverso cui
gli adolescenti, in ambientazioni che simulano la realtà, interagiscono tra loro, attraverso dei
personaggi, gli avatar, icone rappresentanti figure umane, animali, oggetti, segni astratti, cui
viene dato un nome di fantasia. Questo garantisce loro l’anonimato e la possibilità di giocare
ruoli diversi, simulare identità diverse. In realtà gli avatar, pur mantenendo l’anonimato ci
parlano di chi è in chat, perché metafore di diversi aspetti della personalità del ragazzo, reali o
desiderati.
Un gioco di ruolo che sta prendendo piede è il Palazzo, la cui peculiarità è la convivenza
stretta tra adolescenti “avatar” e adulti “wizard”, che interagiscono tra loro, in modo
prolungato e intenso. Gli avatar mettono in atto una serie di comportamenti di sfida nei
confronti dei wizard, comportamenti aggressivi, a volte anche molto violenti, provocatori al
punto da scegliere il suicidio. Lo scopo è quello di ottenere risposte normative, anche
repressive, da parte dei wizard. Gli adulti trovandosi nella necessità di mantenere l'ordine e
difendere la sopravvivenza stessa della loro comunità sono costretti ad assumersi il ruolo
normativo in prima persona, offrendo così un'opportunità di scontro/incontro, quindi
un'opportunità di rapporto e crescita più concrete di quelle che gli adolescenti, nella società
contemporanea, possono trovare in famiglia.
Sempre più spesso, infatti, gli adulti non riescono ad assumere un ruolo genitoriale
autorevole, perché non reggono il conflitto, non reggono la tensione che deriva dall’essere
normativi di fronte a un figlio adolescente, così preferiscono evitare lo scontro e
accondiscendere a tutte le richieste del figlio anche le più improbabili, alimentando il suo
senso di onnipotenza. In questo modo impediscono al figlio lo scontro e dunque l'incontro con
quella funzione psichica chiamata padre che è fondamento del processo di individuazione e
che si esprime in forza d’animo e senso di responsabilità.
Internet diventa allora il terreno di rappresentazione di necessità psichiche inevase.
Ciò è vero anche nella relazione morbosa con il Web.
Riporto il caso di un ragazzo tredicenne, di terza media, portato in terapia a causa di una
importante inibizione sociale che gli aveva fatto abbandonare la scuola: soffriva di un potente
sentimento di vergogna e di paura del giudizio, degli insegnanti, ma, soprattutto, dei coetanei.
Si rifiutava di uscire di casa, così passava intere giornate chiuso in camera sua, davanti al
computer a giocare ai videogiochi.
Al di sotto del sintomo, c’era una profonda difficoltà individuativa: la paura a separarsi dalla
propria infanzia, alimentata dalla resistenza della madre alla sua crescita, in quanto il figlio
costituiva per lei un oggetto sé e l'impossibilità a confrontarsi con un padre capace di
traghettarlo nella vita adulta. Il padre era un border gravissimo, con un'obesità invalidante la
vita personale, sociale, lavorativa.
Ora il ragazzo ha diciott'anni, ha terminato la terapia da un mese, in concomitanza dell’
iscrizione all'ultimo anno di un istituto tecnico. L’anno prossimo sarà un tecnico informatico.
In sintesi, il digitale costituisce un linguaggio nuovo attraverso cui gli adolescenti parlano dei
temi di sempre. Internet è il luogo di proiezione di dinamiche interne, nel bene e nel male,
espressione di comportamenti tipici e di patologia.
Potente agente di cambiamento che ha rivoluzionato l'esistenza di tutti noi, agevolando la vita
pratica, velocizzando la comunicazione e il reperimento di informazioni, il web potrebbe
essere il volano di comportamenti atipici ma l’esperienza con gli adolescenti mi insegna che
all’origine è sempre lo sguardo assente, l’incontro mancato ad impedire di diventare se stessi.
SINTESI DEI LAVORI ALL'INTERNO DEI WORKSHOP
Francesco La Rosa
Angiola Iapoce
Susanna Chiesa
WORKSHOP N. 1
Relazione conclusiva: Franco La Rosa
Non si può certo negare quanto il momento storico che stiamo vivendo porti inevitabilmente a
dover fare i conti con una crisi veramente profonda per quanto attiene alla vita sociale, alla
realtà politica, alle istituzioni, al senso dell’etica…, e per quanto ci riguarda alla nostra
identità di analisti e alle nostre prassi professionali.
Il nostro lavoro nel pubblico, il nostro lavoro nel privato, la nostra professione di formatori e
supervisori all’interno delle società scientifiche…! Non c’è area in cui non sia invero necessaria
una rivisitazione delle nostre posizioni, delle nostre ideologie, delle nostre modalità di
intendere il nostro lavoro – oggi in tempi moderni .
E’ pur vero che spesso, se ci lasciamo rapire da un certo passatismo, possiamo finire pure per
indugiare su posizioni magari “romantiche”…, quando l’analista poteva vivere le sue
gratificazioni di “curatore d’anima”, di evocatore di mille figure dell’inconscio, di attivatore di
infinite simbologie nella psiche del paziente, col suo tempo – lungo ‐, col suo setting – protetto
‐, col suo onorario, ‐ alto ‐, e al riparo da certe contaminazioni esterne o da variabili
impreviste disturbanti tra snobismi blasé e auto conferme narcisistiche.
Ma le realtà istituzionali e i tempi di crisi che viviamo ci richiamano a ben altre realtà: i
parametri ben noti di costo‐beneficio, di validazione degli interventi, di osservanze
pedisseque di rigide linee‐guida da rispettare senza meno…, per quanto attiene al lavoro nelle
istituzioni e, ben al riparo da ogni fantasia creativa rispetto a eventuali nuove esperienze da
poter tentare sul piano terapeutico nelle istituzioni…, così come la crisi economica che ci
attanaglia, per quanto riguarda il privato, con le aspettative le più varie dei pazienti rispetto ai
nostri interventi, le sempre meno numerose richieste di analisi del profondo da parte di chi
vuole invece risolvere subito il sintomo, la patologia – quella nosograficamente definita nei
vari manuali diagnostici o DSM di matrice anglosassone … Ecco, tutto questo ci manda
davvero in tilt, noi che abbiamo scelto una formazione umanistica mitteleuropea centrata su
vissuti, emozioni, dinamiche profonde, participation mystique.
Forse siamo superati o forse no… Beh, diciamola tutta. Certo, non si possono negare,
recuperando un certo ottimismo, la nostra vocazione, la nostra estrazione, la nostra mission –
ovunque operiamo – circa la possibilità di immaginare una psicologia come logos di psiche, di
logos, cioè, che prende forma da un pensiero d’anima intriso di passione e di immaginazione,
capace di muovere le infinite figure del teatro dell’anima, in grado di tradursi come intelletto
d’amore… pronto ad animare – in una parola ‐ “mente‐cuore”, quel disegno interiore più eletto
e numinoso che fa della terapia, per ognuno di noi, quella reale ars curandi che non potrà mai
essere imbrigliata in procedure e protocolli da nessuna Azienda Sanitaria, né condizionata da
esasperate nosografie tassonomiche causalistiche, asfittiche, rigide, “scientificamente”
derivabili.
Questa la somma delle riflessioni del nostro gruppo.
E ancora, non possiamo certo negare il nostro massimo investimento su quella che è e deve
essere la cura attenta e sempre vigile della nostra equazione personale, della questione etica
dell’analisi, della tensione costante alla dimensione emozionale e affettiva – ancorché
epistemologica e razionale – con chi a noi si affida, con chi da noi si aspetta se non altro un
accoglimento, un contenimento, un accompagnamento – con i propri strumenti ovviamente –
nella direzione personale, o verso il proprio progetto individuativo, nel linguaggio di Jung.
E qui non c’è crisi economica che tenga, né può esserci crisi di identità alcuna, se il terapeuta
con la persona sofferente costruirà, per dirla con Anna Benvenuti, una relazione – pur fuori
dalle righe – che implicherà quel coinvolgimento profondo capace in ogni caso di esporlo alle
ferite dell’altro senza troppe difese.
Quando si è entrati “nella posizione dell’altro” – continua Anna citando Hilmann – “l’altro non
è più solo”… rimandando a Ricoeur a proposito di empatia tra immedesimatezza e ipseità,
rimandando a Giovanni Paolo II quando, come Lino Ancona sottolinea, “si nega la solitudine
individuale se si attiva una vera cumsolatio” tra gli uomini, come presenza, ascolto, solidarietà.
E allora sì che il mito dell’analisi potrà perpetuarsi, pure in epoche così incerte e difficili, pur
tra le note ambivalenze che certi particolari tipi di pazienti ci attivano, oggi, che diminuiti i
pazienti “a reddito per l’analista”, “pro capite” secondo Corrado Guglieri, si dovrà dare spazio,
anche nel privato “ormai più magro”, a soggetti che una volta erano magari delegati alla
psichiatria istituzionale.
“Diminuiscono i pazienti in analisi, ma non diminuiscono i pazienti da analisi! E’ una
questione di mercato?” Si interroga Corrado, o è anche un problema di “crisi tecnica”…? Come
dire che è un limite della nostra metodologia di intervento, e/o della mancanza di una vera e
propria tecnica junghiana!
E’ forse questa, invece – a volerci ben pensare – la grande originalità del metodo junghiano, si
è detto nel gruppo; è proprio la non sistematicità di un metodo la possibilità, quando
opportuno, di poter affidare alla creatività dell’intervento, pur tra mille pericoli –
improvvisazioni, misticismi, facili new age – la più bella opportunità di curare facendo anima,
attraverso gli affetti che orientino la tecnica…, attraverso una particolare poiesis sotto l’egida
di Euterpe o di Brigit, la santa protettrice dei guerrieri, dei fabbri, degli ulivi, dei poeti.
Epoca di malessere la nostra, epoca in cui un’informazione massiccia e onnivora ha
drammaticamente soppiantato la grande cultura sapienziale, epoca in cui un inconsapevole
desiderio di sacro si traduce in maniera drammatica ed enantiodromica in conati impropri, in
rigurgiti d’ombra, in espressioni patologiche sempre più incentrate su compulsioni, violenze
esplosive o sottili, addiction di qualsiasi tipo, crimini di genere che in ogni caso e a certi livelli,
nella lettura che ne fa Kalsched, sottointende spesso un trauma.
E’ quel trauma, dice ancora Anna Benvenuti, che magari può restare in una zona isolata della
psiche a minare comunque le energie mentali dell’individuo.
E’ un trauma più complesso, che coinvolge tutta la sfera psichica e lo sviluppo del soggetto,
precisa Francesca Picone, che ispirando il suo pensiero a Fonagy e Target ci avverte quanto il
maltrattamento danneggi le capacità riflessive del bambino o dell’adulto e il suo senso del Sé.
Nelle relazioni di attaccamento traumatico, sottolinea ancora Francesca, il soggetto non
sperimenta più quel senso di sicurezza definito da Winnicott come fiducia in qualcosa che sia
buono e su cui si possa contare. Il funzionamento di modelli operativi dissociati si situa
all’interno di un attaccamento traumatico. Si verrebbe così a formare un sistema perverso ove
i modelli operativi interni danneggerebbero il funzionamento mentale e relazionale.
Dalle teorie di Jung sul trauma e dalle molte interpretazioni classiche della teoria junghiana –
questo si è derivato dalle riflessioni del gruppo alle sollecitazioni di Francesca – oggi, non ci si
può non soffermare sul mondo delle immagini oniriche e delle fantasie del paziente
traumatizzato, nei cui sogni e nella cui psiche inconscia, si può rintracciare tutto il materiale
primitivo relativo alla sua difesa.
Basandosi su ciò che Fordham definì le difese del Sé, c’è comunque speranza – riferendosi
Francesca alle sue esperienze cliniche suffragate da quelle portate da Corrado Guglieri e Anna
Benvenuti – che ci sia una sorta di sapienza intrinseca, nella psiche, ad assicurare la
sopravvivenza di uno spirito personale imperituro, di essenza della persona, di resilienza…, le
stesse che devono animare e soccorrere quelle donne, o quel femminile spesso oggetto di
attacchi, di violenza di ogni genere, fino alle estreme conseguenze, in questi tempi, come ha
ben sottolineato Wilma Scategni, intrecciando di pathos il suo racconto tra suggestioni,
evocazioni, ricordi.
Il suo migrare – parliamo di Wilma – i suoi viaggi, i suoi continui spostamenti, hanno aperto a
riflessioni sui metodi, sui linguaggi, sulla ricerca di riferimenti teorici per quella che si
potrebbe definire la etnopsichiatria, con quelle smisurate messi di esperienze che hanno
attivato il suo lavoro massimamente in senso gruppale. Wilma ha certamente coinvolto tutti
noi per quanto riguarda tematiche inerenti la storia dei soggetti in terapia, le loro voci, i loro
volti, le loro esperienze scolpite nei “corpi”…, con tutto ciò, che soprattutto in certi paesi
implica il complesso culturale di cui ha parlato Chiara Sebastiani –, il welfare, assistenza, il
lavoro, i setting.
Il setting, anche questo straordinario strumento dell’analisi è stato trattato dal gruppo…, il
setting come necessità, difesa o luogo sacrale che circoscrive e anima alla stessa maniera quel
luogo reale e simbolico che compone e scompone esigenze, progetti, confini e speranze per
l’individuo in analisi.
Il setting è un rito della mente, dice Francesca Picone, che in quell’area circoscritta e
immaginale nello stesso tempo, narra, ricostruisce, ripara il trauma.
Il setting, quando adeguato, quando veramente terapeutico ed etico nel senso più eletto del
termine, elicita nella impagabile figura dell’analista che lo governa e nel paziente che lo
avverte, quell’esperienza che si potrebbe riferire all’epoca della sua infanzia quando – se gli è
andata bene – la presenza di figure di attaccamento positivo sono state capaci di dargli
sostegno emotivo, contenimento, “presenza” di grande spessore con un effetto benefico sul
senso di autostima, fiducia, reciprocità, aumentandone le difese e attivando i più sani processi
di mentalizzazione.
Solo riflettendo, ma forse anche commuovendoci – prendo alla lettera una bellissima
osservazione di Luigi Aversa sul tema di flerere piangere – … solo riflettendo, ma in maniera
critica e costruttiva sul nostro lavoro, sul tempo che viviamo, sui nostri limiti ma anche sulle
nostre responsabilità di tecnici del cuore e della mente, solo mettendo a disposizione le nostre
risorse in virtù dei nostri pazienti ma anche del collettivo sofferente, possiamo scongiurare il
grande pericolo che tutti si corre – e questo è innegabile – e cioè quello di vivere senza gioia,
senza grazia e senza speranza.
WORKSHOP N. 2
Relazione conclusiva: Angiola Iapoce
Queste poche righe di sintesi di una mattinata non vogliono avere il carattere di un saggio
compiuto, connesso e articolato in tutti i suoi passaggi concettuali. Si tratta di un “semplice”
resoconto di un workshop che ha visto la partecipazione di un nutrito numero di colleghi (più di
una ventina), nessuno dei quali ha assistito passivamente alle relazioni introduttive già
precedentemente strutturate, al contrario, ognuno ha attivamente partecipato con commenti,
osservazioni e riflessioni. Dare conto di tutta la ricchezza di una mattinata è impossibile, ma
questo resoconto, pur nella sua colpevole riduttività e nella sua limitatezza e imperfezione, vuole
comunque testimoniare un incontro, un incontro proficuo che ha ha spostato un po’ più avanti la
soglia dell’esperienza e della conoscenza. Molti sono gli omissis, in questo resoconto, non per
scelta ma per limiti mnemonici; i lettori potranno notare che non sono presenti nomi e questa,
contrariamente alle parti non presenti, è stata una mia precisa scelta; ho voluto sottolineare il
carattere “corale” di questo incontro, piuttosto che l’attribuzione esatta delle parole a chi le
aveva pronunciate. Ho preferito la dimensione bioniana di “pensieri senza pensatore”, perché
proprio in questa dimensione aperta e “volatile” che ha caratterizzato l’incontro, io ne ho potuto
scorgere il suo insostituibile valore, un aspetto della nosta vita associativa che “doveva essere
così” e pertanto preservato ed espresso come tale.
La volatilità, la destabilizzazione e le nuove istanze terapeutiche si sono sostanziate, in questo
workshop, in tre contenuti: i sentimenti umani, la dimensione temporale e la facoltà
dell’immaginazione. Si tratta, a ben vedere di tre punti che offrono particolari difficoltà nella
società di oggi e quindi sono i punti che più emergono durante l’analisi; ma si tratta anche di
tematiche che Jung ha ripetutamente affrontato e approfondito nel corso del suo lungo lavoro
teorico, una testimonianza che vi sono sì patologie specifiche, storicamente contestualizzate, ma
anche che queste vannoquasi sempre a creare contiguità con aspetti generali dell’essere umano,
presenti da sempre e che riguardano il dato più elementare dell’esistenza.
Il dibattito seminariale ha preso le mosse da alcune considerazioni intorno al sentimento
dell’invidia, che è stato portato come sentimento particolarmente presente tra i pazienti della
nostra epoca che accedono alla stanza d’analisi.
Si tratta di un sentimento oggi molto diffuso anche al livello sociale e ci si può trovare di
fronte alla circostanza di invidiare anche ciò che risulta essere moralmente riprovevole. Due
punti sono stati messi in luce in modo più particolareggiato: innanzitutto si è sottolineato che
occorre considerare il sentimento dell’invidia non solo nel suo versante distruttivo, voler
togliere all’altro per poter possedere, ma anche nel suo lato “costruttivo”, un sentimento che,
mettendoci nelle condizioni di volere ciò che non si ha ma un altro possiede, ci spinge a
migliorare noi stessi.
L’altro punto toccato è stato quello dell’invidia del terapeuta verso il paziente, tematica non
banale poiché consente di toccare il tema dell’ “ombra” del terapeuta, la necessità di
considerare la propria ombra e pertanto la necessità di fare i conti con i limiti del terapeuta e
della stessa terapia: parlare di consapevolezza di limiti sposta l’accento sull’atteggiamento
dell’“umiltà” che deve accompagnare il lavoro dell’analista.
Il senso del limite che un sentimento come l’invidia propone sulla scena analitica si riverbera
anche sul vissuto della temporalità. Se il senso di destabilizzazione, oggi particolarmente
sentito, si può anche far derivare in una mancanza di scambio tra l’individuale, ciò che è
proprio e il collettivo, risulta evidente che lo stesso senso del limite si va ad intrecciare con il
vissuto della temporalità; un tempo esterno che privilegia una diacronicità scandita e un
tempo interno che richiede un respiro che non sembra potersi dare nelle continue e costanti
interruzioni di un percorso temporale lineare.
Uno dei mali moderni risiede proprio nell’interruzione del transito tra il passato e il futuro,
nell’illusione che un presente perenne ma vuoto possa sostenere il peso di ogni esistente.
Responsabilità etica è non bloccare transiti e passaggi, laddove, viceversa, la possibilità
terapeutica si trova proprio nel riannodare i fili con un passato significativo afinché possa
aprirsi la possibilità di un futuro. I giovani oggi non hanno futuro perché non riescono a
immaginarlo.
Il ruolo fondamentale giocato dall’immaginazione e il suo valore è stato implicitamente
espresso dal racconto di un sogno di una paziente, racconto che ha permesso di discutere di
una situazione analitica caratterizzata dalla difficoltà di comunicazione tra analista e paziente,
ma, contemporaneamente, della necessità e del valore, da parte del terapeuta, di “starci”,
essere presente e affiancare silenziosamente, con la sua semplice presenza, i momenti di
blocco nello sviluppo analitico. Un atteggiamento e un comportamento che richiama la
dimensione etica della non‐risposta che già era stato messo in luce nella relazione
introduttiva del venerdì.
La dimensione etica, così fondamentale per il lavoro dell’analista, trova il suo respiro più
ampio nell’attenzione da dare al linguaggio, sia dell’analista, sia del paziente. Il linguaggio che
rappresenta la risposta umana a ciò che può essere definito “la tremenda inquietudine delle
cose”. In questo senso, il linguaggio non può essere considerato un possesso da parte
dell’uomo, ma poiché si innesta nello scuotimento emotivo del senso della discontinuità
psichica, ne siamo condizionati, o meglio, lo ospitiamo. Se teoria è visione, secondo
l’etimologia originaria, anche la teoria ci ospita, siamo ospitati da una teoria che ci
sopravanza.
Cosa differente è il modello, che rappresenta, viceversa, il momento in cui diamo forma a ciò
che è già conosciuto e noto, sia pure per riorganizzarlo.
Traendo sommariamente e in modo molto limitato alcune linee conclusive ad una mattinata
che è stata ricca di sollecitazioni, di domande e di spunti riflessivi, formulo i seguenti punti:
I tratti più patologici di evanescenza che gli analisti notano nei pazienti oggi, che a loro
volta rispecchiano una condizione di vita generalizzata e diffusa, invitano ad una prassi
terapeutica che riscopra quegli elementi già individuati da Jung che sono condensabili
nel “non avere fretta”, non precipitarsi a dare risposte definitorie: ci si confronta con
l’evanescenza con un altrettanto di sfumature e di indefinito.
Sembra essere fortemente stringente, oltre che un valore da riscoprire, adoperarsi, nella
pratica clinica, a tenere sempre aperti i passaggi, il transito tra ciò che si è e ciò che non
si è, tra l’umano e il non‐umano, tra le varie parti della vita psichica, tra il passato e il
presente, affinché lo scambio sia continuo e non ci siano blocchi che immobilizzino e
arrestino la fluidità di un processo.
La prassi psicoterapeutica tratta tutti quei vissuti e dimensioni psichiche che sono in
relazione con ciò che precede la costituzione dell’Io, con le sfere della passività,
ricordando la medesima radice semantica sia di passivo, sia di patologico.
Per offrire una cura alla sofferenza dobbiamo “darci tempo”, attendere, avere
un’attenzione affettiva e, attraverso ciò, avvicinare i vissuti dolorosi perché scaturiti da
situazione e contesti di impotenza, qualcosa che si è passivamente subito.
Sembra, d’altra parte, che tutto ciò che i paziente non sono stati in grado di affrontare
reattivamente, o perché troppo piccoli o per situazioni la cui potenza sopravanzava,
presenta somiglianze non casuali con il contesto sociale del momento storico che si sta
vivendo.
Sembra, pertanto, che oggi si può individuare il luogo della terapia proprio
nell’intreccio tra il personale e il collettivo.
Infine, non si poteva affrontare il tema della permanente destabilizzazione della psiche che
riscontriamo maggiormente in quest’epoca, senza aprirsi a uno dei punti cardine del
pensiero junghiano: la facoltà e capacità di immaginare, il potere dell’immaginare.
La crisi della contemporaneità è anche una crisi che esibisce una caduta verticale della
capacità immaginativa, della leopardiana capacità di “fingere”, capacità di costruire
nella propria psiche qualcosa che definirei “un affresco di ciò che non c’è”, la
composizione dell’assente: i giovani oggi non hanno futuro anche perché non hanno la
capacità di immaginarlo, e questa mancanza è da attribuire non esclusivamente a
deficit individuali. La terapia oggi, ogni terapia, a maggior ragione, è costretta a
dirigersi proprio verso il recupero della funzione dell’immaginare, per creare ponti e
tessiture tra ciò che è sotto i nostri occhi e ciò che non è visibile, tra la presenza e
l’assenza, ma è comunque presente come inquetudine e disagio.
WORKSHOP N. 3
Relazione conclusiva: Susanna Chiesa
Il workshop si apre con le immagini del video di Bill Viola “The Innocents” ‐ della serie
Transfiguration ‐2007
Due figure dai contorni sfumati affiorano lentamente da uno sfondo grigio e prendono forma:
un ragazzo e una ragazza ‐ i corpi ancora acerbi – ci vengono incontro e s'identificano nel
passaggio attraverso una cascata d'acqua.
L'acqua svela i colori, evidenzia le forme, rivela l'espressione del volto.
Come in un rito di iniziazione, i due adolescenti nascono al mondo, il loro sguardo ci scopre...
Adolescenza come nascita, aprirsi al mondo nel faticoso percorso del divenire adulti.
Le prime due relazioni hanno affrontato problematiche adolescenziali dal vertice di
osservazione della scuola.
Elisabetta Trebec ha parlato della sua esperienza di responsabile di un servizio di psicologia
scolastica in un istituto comprensivo dell'hinterland milanese (materna, elementare, media)
per la prevenzione del disagio minorile e dell'abbandono scolastico.
Si tratta di adolescenti utilizzatori del web che usano il digitale come linguaggio comune: a
undici anni sanno navigare in rete, hanno il proprio profilo facebook.
Lo scopo di questi ragazzi è comunque quello di mantenere sempre la possibilità di accedere
al gruppo di amici.
Vogliono rimanere connessi, scambiare musica, informazioni, mostrare immagini.
La rete diventa il luogo di incontro virtualmente sempre disponibile, spazio in cui si
inseriscono anche i genitori – sempre con l' autorizzazione dei figli medesimi ‐ aprendo vie di
comunicazione trasversali e non sempre chiare.
L'aggressività nei rapporti genitori figli si sposta e mette in scena per esempio, in giochi di
ruolo tra Avatar che rappresentano i giovani e Wizard ‐ gli adulti.
Il linguaggio cambia, si contrae,e struttura in forme tronche, come sottolinea Caterina Aiassa,
oltre che analista, insegnante in una scuola secondaria che partecipa ad un progetto ponte tra
la scuola e l'Ospedale “Regina Margherita” in cui sono seguiti in parallelo scuola/ospedale,
adolescenti con gravi patologie.
Si sottolinea come la continua connessione alla rete crei un contatto diffuso e continuo che
spesso arriva ad alterare i parametri spazio/temporali.
La notte può trascorrere collegati al computer fino alle prime luci dell'alba, e la mattina non
c'è modo di alzarsi per andare a scuola.
Nell'ambito di un'apparente diffusa “orizzontalità”, anche gli insegnanti chiedono l'amicizia
su facebook o i ragazzi a loro, come può talvolta accadere anche tra pazienti e terapeuti.
“Tutti amici” dunque, ma in realtà a queste comunicazioni via web non corrisponde un reale
incremento di contatti e amicizie: persone che hanno “chattato” tutta la notte – sottolinea
Aiassa ‐ possono incontrarsi la mattina dopo e ignorarsi, con una grande differenza dalle
comunicazioni telefoniche degli adolescenti di una volta.
Si evidenzia così la crescente diffusione di un virtuale che sembra consentire un'apparente
infinita comunicazione, a fronte però di una solitudine generalizzata e di un aumento delle
difficoltà di relazione.
Dalla dimensione più collettiva e generalizzata della scuola, entriamo nella stanza d'analisi,
dove una musica ad altissimo volume, dal ritmo ossessivo accompagna le parole scandite
come battute di un rapper, di Fury 20, l'interessante caso clinico presentato da Rossella
Andreoli.
Fury 20, personaggio /Avatar, alter ego violento e inquietante di Furio 15, in realtà pallido ed
esile ragazzino rinchiuso tra le mura della sua stanza o dentro i circuiti del suo cellulare,
strumento da cui affiorano inquietanti messaggi e scambi di informazioni sull'uso di sostanze.
Parliamo di una rivoluzione tecnologica senza precedenti, con ricadute importanti sul
funzionamento mentale, come attestano disturbi della memoria e dell'attenzione.
“Ci dobbiamo chiedere – sottolinea Andreoli – a quali nuovi assetti economici vanno incontro
alcune antinomie centrali per il processo adolescenziale, come rappresentare/percepire,
pensare/agire, elaborare/evacuare. In che misura possiamo parlare di scacco del simbolico
e/o di nuovi modi del pensare?”
La mente non si apre ad una tridimensionalità ma cortocircuita in una bidimensionalità
ossessiva, come nell'applicazione di un videogioco ‐ struttura costituita da sequenze
relativamente semplici che nella ripetizione aumenta la velocità, con incrementi progressivi
della tensione che possono arrivare a scatenare scariche epilettogene.
Mentre l'adolescente rimane chiuso nella sua stanza, rinunciando anche a frequentare la
scuola, è virtualmente in contatto con tutto il mondo, come il fenomeno degli Hikikomori
giapponesi attesta.
La famiglia resta chiusa fuori dalla porta, davanti a cui pone domande e piatti di cibo, come se
dentro soggiornasse una belva o un gigantesco Gregor Samsa, scarafaggio gigante delle
metamorfosi di Kafka.
In un sistema dove è sempre più facile agire difese arcaiche, con lo sviluppo di patologie
borderline, disturbi del carattere, dipendenze da sostanze, dove rischiano di prevalere
meccanismi di evacuazione sulla capacità di elaborazione, come può muoversi l'analista?
Quali strumenti può utilizzare, quale dialogo può aprire con le immagini?
L'intervento di Bianca Gallerano riflette sull'incontro della mente dell'analista con la
sofferenza patologica dell'adolescente, sottolineando come la società fornisca la forma, i modi
di espressione del disagio, ma non ne sia la causa.
La sofferenza adolescenziale che osserviamo nello studio dell'analista non si limita ad una
sofferenza fisiologica, insita nel processo trasformativo adolescenziale, ma rivela la difficoltà
di accedere all'adolescenza in quanto tale.
La posizione dell'analista non può essere né quella di un genitore ideale, o di un illusorio
amico, rischiando di scivolare in derive pedagogiche o seduttive.
Si tratta per Gallerano, di riconoscere la qualità perturbante dell'incontro con l'adolescente, di
cercare di identificarlo nella sua specificità per permettergli di ritrovare la sua storia e il suo
percorso.
Nella ricca discussione seguita agli interventi, viene sottolineato come di fronte alla crescente
difficoltà di utilizzare il pensiero, di accedere alla possibilità di elaborazione e alla dimensione
simbolica, la funzione analitica deve ribadire la sua funzione di spazio mentale.
Il setting si configura come spazio anche fisico di contenimento, rappresentazione e incontro,
garanzia di accesso ad una possibile verticalità – io e te qui, in uno spazio e in un tempo – a
fronte della diffusa orizzontalità – tutti sempre connessi, al di là dei limiti di spazio e tempo
Nella dimensione analitica l'ascolto e il lavoro sul controtransfert diventano, nell'incontro con
l'adolescente, luogo/spazio privilegiato.
Da questo vertice emergono proposte differenti che hanno in comune una visione fluida della
mente dell'analista al lavoro, mantenendo sempre la chiarezza del rifiuto di facili collusioni,
con l'attivazione delle nostre parti adolescenziali, o con la proiezione all'esterno del negativo,
sui genitori o sugli insegnanti, ponendosi nella posizione di genitore ideale o di pedagogo.
Gli interventi sottolineano anche l'importanza del corpo nella relazione con il paziente
adolescente, un corpo che scompare nella dimensione virtuale ma che deve essere colto nella
sua realtà e pensato.
Già mentre attende l'ingresso in studio del paziente adolescente, l'analista può sentirsi messo
alla prova, costretto a confrontarsi con la novità e il limite, una seduta dopo l'altra.
La terapia dell'adolescente ci pone di fronte alla nostra capacità di scoprire nuove soluzioni
per poter incontrare davvero l'altro.
La fermezza è un assetto mentale, non una rigidità di condotte.
Si può accettare di usare un nuovo strumento – mail, sms ecc o rifiutarlo, suggerire di giocare
il tema del video‐gioco come sogno/video “girato” dal paziente.
Mantenere la curiosità per ciò che il paziente adolescente porta in terapia e cercare insieme di
aprire spazi di trasformazione a partire da ciò che gli adolescenti amano e usano senza averlo
mai pensato e soprattutto senza essersi mai posti il problema di una pensabilità.
Poter credere che gli stimoli – parole, azioni, musica, immagini – usati talvolta
dall'adolescente in un eccitamento continuo per non pensare, possano trasformarsi in aeree
insature e creative di inquietudine.
CONCLUSIONI
Vito Marino De Marinis
E per concludere………
per concludere l’esperienza di questi giorni, nella quale si è percepita, credo da parte di
tutti, una vitalità di pensieri e di partecipazione attenta e rispettosa, vorrei, per prima
cosa, ringraziare i colleghi che con generosità hanno dedicato il loro tempo e il loro
impegno mentale alla realizzazione di questo incontro. In tal modo hanno resa operativa
la dimensione della solidarietà, parola che non ci interessa quando è solo formale
appartenenza al politicamente corretto, ma è di estremo valore quando diviene azione,
impegno, sforzo condiviso. Un ringraziamento, anche, a coloro che hanno portato
pensieri, riflessioni, che hanno reso comunicabili e fruibili, per noi, esperienze personali
trasformate in conoscenza condivisibile. E’ partendo da questi fatti che l’idea di comunità
diviene esperienza concreta, pratica esistenziale.
Il nostro incontro che si conclude ora ci ha consegnato, infatti, una densità di immagini,
emozioni, pensieri e riflessioni che non intendono concludere, chiudere il discorso, ma
essere fonte, origine, chiave di apertura. Apertura verso nuovi Pensieri e riflessioni che
possono nascere nelle nostre menti, quando, una volta tornati a casa, nell’incontro con
l’altro, nella figura del paziente, ci tornerà in mente quel plesso cognitivo, quella
comprensione che un collega ha realizzato, quel modo attraverso il quale ha risolto un
groviglio affettivo. Perché la nostra disciplina non è al servizio di una dimensione estetica
o di una necessità narcisistica. Nel nostro contesto culturale il bisogno di accogliere i
nuovi pensieri, nuove teorie e nuove riflessioni deve avere un ancoraggio forte alla
dimensione etica. Non pensiamo, scriviamo per realizzare esercizi di stile o per essere sul
palco, o per essere nei salotti, o al servizio della new age, che promette pillole di felicità a
poco prezzo, ma al servizio della compassione verso la sofferenza e nel tentativo di fare
di quest’ultima, come scrive Jung in più parti , occasione per la maturazione
dell’individuo.
Infatti Nel nostro incontro innumerevoli colleghi con passione e interesse hanno portato
il loro impegno, nel districarsi fra concetti, e nello sciogliere nodi teorici, concettuali,
oppure sciogliere nodi affettivi nella stanza di analisi. E’Partendo dalla loro esperienza
che hanno cercato di portare avanti il pensare analitico, un pensare che nasce
dall’urgenza di affrontare, giorno dopo giorno, le difficoltà nell’aiutare i pazienti a
superare , mitigare e sanare aree di sofferenza ormai croniche , che noi definiamo
patologia. Partendo quindi da quello che, a mio avviso, è il vero sfondo dal quale il nostro
pensare origina e trova il suo valore e fondamento. Il resto è rumore del mondo, esercizio
di stile nel migliore dei casi.
Perché Essere analisti significa, a mio avviso, aderire ad un’operatività esistenziale che
costringe a rivedere costantemente, come frutto dell’incontro con l’altro, i nostri modi di
pensare e di organizzare il mondo. Rinunciando, quindi, parzialmente al valore identitario
delle teorie per entrare in un vero dialogo con il mondo che, oggi, in questo contesto
assume la figura dei colleghi. E’ il modo nel quale, nel nostro incontro, abbiamo cercato
attivamente , usando le parole di natoli, di “incentivare la prossimità”.
La prossimità è l’avvicinamento all’altro non per sottometterlo ai nostri bisogni, non per
cercare di renderlo specchio narcisisticamente orientato, ma per attivare quella
dimensione emotiva che determina il suo riconoscimento come simile, compagno di
viaggio di quell’avventura che è la vita, nel nostro caso specifico, quell’avventura iniziata
più di cento anni fa con la nascita della psicoanalisi.
Il considerare l’appartenenza, e il suo fondarsi nella solidarietà, come valore primario, è
una delle possibile risposte alla diffusa impressione di crisi, crisi senza soluzioni
definitive che sembra essere metafora della condizione dell’uomo nella post‐modernità.
Condizione che si caratterizza come specifica relazione con il tempo, come incapacità di
pensare il futuro, il nostro è ‘Tempo senza promesse’ per dirlo con Levinas. La
trascendenza ha abbandonato l’uomo e il mondo e il futuro diviene angosciosamente
incerto: viviamo nel tempo dell’ incertezza. Incertezza che ci rende spaventati e
impotenti; ma se la paura non predomina nelle nostre menti, se il senso di impotenza non
scivola nell’amarezza, possiamo accogliere la crisi come occasione, occasione di
cambiamento, di apertura, di possibilità. Certo ormai sappiamo che l’azione è senza
garanzie e questo si riflette sulle nostre convinzioni teoriche ma ancor più nel nostro
operare analitico. Lo stato di incertezza, l’azione senza garanzie può produrre nella
mente angoscia e spaesamento ma credo possa renderla più libera nell’incontrare
realmente l’altro nella sua individualita’. e in tal modo promuovere maggiore libertà di
pensare, di conoscere, di vivere e trasformarsi. Certo siamo diventati più vulnerabili ma
veniamo anche consegnati all’unica possibilità e responsabilità di un incontro individuale
con la realtà.
Infine un ultimo pensiero circa questo luogo che per molti, certamente i più vecchi….,
attraverso i ricordi, provoca un turbamento che sembra rimandarci a più di cento anni fa
, quando ,in un luogo simile a questo, il burgholzli, Carl Gustav Jung iniziava ad ascoltare,
invece che recludere concretamente o recludere metaforicamente nella figura del folle
delle persone, i malati di mente.
E’ da questo gesto iniziale, credo, sia nata la psicologia analitica.
Oggi dopo più un secolo , possiamo pensare, che questo luogo ci riporta al senso ultimo
del nostro operare nel mondo: all’etica dell’ascolto. un ascolto, quindi, che non debba
‘recludere’ l’altro all’interno delle nostre teorie o dei nostri saperi convenzionali o
all’interno dei nostri bisogni identitari , ma un ascolto attento, sempre affettivamente
aperto al nuovo che l’altro rappresenta nel suo specifico essere nel mondo.
Certo la follia nel corso della storia ha cambiato le sue maschere. A quei tempi
predominava L’isteria, oggi le figure più diffuse sono le dipendenze o gli attacchi di
panico, ieri la figura del narcisismo. Piccoli cenni a cassificazioni che si fanno sempre più
complesse e che tentano di afferrare, di chidere ciò che inevitabilmente sfugge: la
complessità di esistenze che cercano individualmente di vivere, di sopravvivere al dolore
estremo. Perché la follia rimane, alla fine, nella sua essenza, deragliamento, terrore e
dolore estremo. Maschera che compare, come nel trauma, quando una mente supera i
limiti delle sue possibilità di tollerare il dolore e si frattura, si destruttura o si amputa, un
volto che si fa deforme. ed è lì dove il volto si fa smorfia cronica, maschera folle, che per
noi è necessario ripetere quel gesto iniziale, riiniziare ad ascoltare l’altro, incontrandolo
dove l’umano sembra apparentemente caduto.