Vulcano 60

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MARTINA CAIRONI CORRERE SEMPRE Paralimpiadi di Londra 100m T42 medaglia d’oro

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Ecco l'ultimo numero del trimestrale della Statale!

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MARTINA CAIRONI

CORRERE SEMPREParalimpiadi di Londra 100m T42

medaglia d’oro

inchiesteRun: intervista a Martina Caironia cura di Ludovica de GirolamoUniVeRsitÀ5 biblioteche in unaIrene NavacULtURAVulcano intervista Alberto Notarbartoloa cura di Maria Mancuso L’economia a 32 dentiLorenzo Porta19°22’S, 159°93’EAlessandro MassoneSoltantoMatteo Terzi si racconta — Ludovica LeoneMemorie di una città di morti Tito Grey de CristoforisFinalmente! Ruote per criceti per umani — Alessandro MassoneRUBRicheDa rileggere: La PresidentessaLidia Zanetti DominguesNon chiederci la parola EDitoRiALE Gemma Ghiglia

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in copertina:rielaborazione da Adrian s Jones

Sommario Vulcano numero 60, 2013/1il trimestrale della statale di Milano

“Ma voi sapete che significato abbia l’espressione populista?”. Sul blog di Grillo proprio Dario Fo, l’intellettuale del popolo cinque stelle, s’è preso la briga di rispondere a questa domanda per chiarire una volta per tutte la propria posizione riguardo accuse mosse in questi giorni al comico genovese.Populista è colui che intende migliorare le condizioni del popolo permettendogli di sfuggire alle violenze della classe dominante – dice il dizionario. Basterebbe scendere con lo sguardo di qualche riga su quello stesso dizionario—se sufficientemente aggiornato—per trovare la connotazione negativa del termine giunta fino a noi, poveri illetterati, grazie al fenomeno di estensione, ben noto a linguisti, filosofi e semiologi degli ultimi cent’anni.Basterebbe anche aver letto mezza volta un qualche scritto di Wittgenstein (cosa buona e giusta per un Nobel, oltre che rivoluzionaria realmente) per sapere che il significato di una parola coincide con l’uso della stessa, con la sua applicazione paradigmatica.Sia chiaro: non si vuole qui smontare la credibilità di nessuno, a maggior ragione se quel nessuno è uno dei massimi esponenti della vita culturale del nostro paese contrariamente a chi scrive; si vorrebbero solo evitare le lezioncine di semantica -antica arma dei reazionari di tutto il mondo-, visto che, come noto, ogni cittadino, anche quello colluso con i partiti tradizionali, comprende la propria lingua. A chi vuole invece ballare il Tip Tap sul piano inclinato delle definizioni ufficiali la guerra è aperta.Non siete ancora convinti? Io domando: - Ma voi sapete che significato abbia l’espressione buffone?-.Vi prego, niente dizionari. Francesco Floris

Noi siamo i buffi

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Sommario Vulcano numero 60, 2013/1il trimestrale della statale di Milano

Intervistaa Martina CaironiParalimpiadi di Londra 100m T42medaglia d’oroa cura diLudovica de Girolamo

M artina Caironi, 23 anni, studentessa di Mediazione Linguistica e Interculturale all’Università degli Studi di Milano, ha incominciato a correre in seguito ad un incidente stradale in cui ha perso una gamba.

Nel giro di poco tempo è diventata un’ atleta di grande rilievo, battendo per tre volte, l’ultima delle quali alle Paralimpiadi di Londra, il record del mondo nei 100 metri. Prima di tutto volevo chiederti com’è successo l’incidente. È successo a novembre del 2007, ero in motorino di sera, mio fratello guidava. Un pirata della strada ha invaso la nostra corsia, schiacciandomi la gamba. Hanno provato a salvarla ma non c’è stato molto da fare e dopo qualche giorno hanno dovuto amputarla. Mi sono risvegliata a fatto già avvenuto e non ho potuto fare altro che accettare. Uscita dall’ospedale, dopo tante operazioni di chiusura, ho cominciato la riabilitazione in vista della protesizzazione. La prima, a Budrio, non è andata bene, così sono andata in Austria, dove mi hanno fatto quella che indosso tutt’ora. Da lì la vita è tornata a girare. Ad ogni passo che facevo, risalivo dal fondo a cui ero arrivata: in ospedale non riuscivo nemmeno a lavarmi da sola. Tornata a casa mi sono ritrovata a fare di nuovo tutte le attività di prima, però in un modo diverso: senza gamba è un’altra cosa. Mi sono ingegnata per fare tutto, sono anche andata a ballare una volta! Quando mi è arrivata la protesi è stato tornare a vivere davvero.

Come ti è venuta l’idea della corsa? Correvi già prima?No, quando ho avuto l’incidente giocavo a pallavolo, stavo anche salendo di grado, mi piaceva un sacco. Ci sono poi voluti due anni per sistemarmi da tutte le operazioni. Una volta a posto ho sentito la necessità di fare qualcosa di più. Perchè sì, prima impari a camminare

e tutto, però non mi è più bastato,

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sono sempre stata sportiva. Lì dove ho fatto la prima protesizzazione ho visto delle foto di campioni che gareggiavano con le protesi. Tramite queste immagini ho preso coscienza dello sport paraolimpico. Mi sono informata, e poi mi è stata data questa protesi sponsorizzata dall’INAIL: cosa rara, di solito non regalano nulla. Per me è stata un’eccezione, mi hanno visto motivata, giovane e con un fi sico atletico, quindi hanno deciso di investire su di me. Ma l’atletica a livello agonistico non l’avevo mai praticata, le gare le facevo con la scuola, non era una passione. Piano piano, cominciando ad allenarmi ho scoperto il piacere di correre.

A questo proposito, cosa senti quando corri? Quando corro sento di essere padrona di me stessa, del mio corpo. Questa padronanza l’ho acquisita in un paio di anni. All’inizio è più un saltellare. Non è facile imparare, ti devi fi dare molto. Alle prime cadute mi sono resa conto che era il risultato di fi darmi. Ormai sapevo che se avessi fatto quel movimento sarei caduta. Ma fi nchè non ti succede resti frenato. A quel punto ho potuto sperimentare sempre di più l’angolazione, la spinta. Poi quando corro che vado veloce mi sento bene, mi sento quasi come prima. Dico quasi perchè comunque il movimento è diverso. Non ho l’articolazione quindi devo affi darmi ad un ginocchio artifi ciale che si piega in base alla spinta che do, alla posizione del baricentro, e anche a questa lamina che fornisce la risposta elastica. E’ tutta biomeccanica, ma più usi la protesi più diventa naturale. Per me lo è adesso.

E le prime gare che hai fatto? Ancora prima di avere la protesi da corsa mi han fatto fare lancio del peso per inserirmi nell’ambiente. Invece alla prima gara di corsa, ad Imola, ho stabilito il record italiano, ma sentivo di non aver fatto niente: tutt’ora a livello italiano non sento il brivido della gara perchè non ho avversarie della mia categoria. L’impatto col mondo dei disabili invece è stato fortissimo: le disabilità sono ancora più a nudo. Indossando dei jeans lunghi si può anche non notare, ma quando sei in pista hai i pantaloncini corti e una protesi che non ha una forma naturale, è una lamina. Devi abituarti a vedere sia gli altri che te stesso con questi ausili. Ho conosciuto persone con varie disabilità e questo mi ha aperto una nuova prospettiva. Da normodotata ho fatto un incidente e sono diventata disabile. Non è stato

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facile accettare non solo il fatto in sè, ma proprio la parola. Per esempio quando mia mamma mi aveva detto di farci dare il cartellino per la macchina, all’inizio ho risposto di lasciarlo agli anziani. Ho capito poi che certe agevolazioni come quella nella vita possono servire, bisogna prenderle senza aver paura della parola o di rientrare nella categoria. Alla fi ne uno può chiamarmi come vuole, ma di fatto la disabilità c’è. E confrontarmi con tutti questi atleti mi ha aiutato molto.

Per quanto riguarda le gare internazionali invece?La prima l’ho fatta nel 2010 ad Olomouc, in Repubblica Ceca. Mi hanno mandato il borsone con la divisa della nazionale, e ho odiato questo fatto: non ero lì per portare i valori italiani o tenere alta la bandiera, erano 3-4 mesi che mi allenavo, ero lì per correre. Mi hanno fatto fare ancora lancio del peso, ho gareggiato con delle nane perchè in certi casi accorpano le categorie e danno punteggi diversi in base alla disabilità. Gareggiare con loro è stato strano, ma anche bello. Prima magari vedendo passare un nano sentivo che un pò mi dispiaceva. Una volta lì però li vedi come atleti, come persone. Sempre ad Olomouc nei 100 metri sono caduta, non sapevo che stavo giocando per la qualifi cazione ai mondiali. Quelli erano mondiali giovanili, e se avessi fatto un buon tempo sarei andata a quelli assoluti, ma non ne avevo idea. Per me era semplicemente una gara, e dopo la caduta mi sono rialzta e ho fi nito il percorso. Ho fatto anche salto in lungo che avevo provato qualche giorno prima, è andato bene e ho preso un bronzo.

E poi nel 2012 record del mondo nei 100 metri. La sensazione?Sì, quest’ultimo è stato l’anno della rimonta, con una serie di gare, fi no alle Olimpiadi di Londra, che sono state un exploit. A Dicembre 2011 negli Emirati Arabi ho fatto 16"67, che non era record, ma un buon tempo. A Manchester questo maggio ho fatto il record del mondo per un centesimo, 16"25. Arrivata al traguardo ero convinta che il record di prima fosse di 16"24, e quindi di averlo mancato per pochissimo. Infatti quando sono andata a segnalare il mio tempo era per registrare il record europeo. Mi hanno detto loro, con mia esultanza, che in verità era mondiale! In giugno a Stadskanaal l’ho migliorato ancora, 15"89. La sensazione è quella di prendere sempre più coscienza delle mie potenzialità imparando a correre come si deve.

5foto dan Mumford

Perchè se si vedono filmati di un anno e mezzo fa, è una corsa sofferta. Invece le ultime sono corse grintose, in cui uso la gamba per spingere, anzi le uso entrambe. Adesso è un movimento più armonico, e c’è ancora da migliorare.

Parlando delle olimpiadi di Londra, le gare sono state un successo. Adrenalina pura! Non ho vinto il bronzo nel salto in lungo, come è scritto ovunque: ci si confonde con i tre che ho vinto ad Olomouc, La Sharjia e a Stadskanaal. A Londra per il salto in lungo c’erano le categorie accorpate, eravamo in 18 a fare la gara. Era la prima in assoluto che facevo alle Olimpiadi e l’emozione ha avuto il sopravvento. Ma è stato meglio, perchè se fosse stata quella dei 100 metri magari sarebbe andata peggio. Comunque il salto in lungo è andato male, ho fatto salti inferiori alle mie capacità. Poi mi sono rifatta con i 100 metri: ho battuto per la terza volta nell’anno il record del mondo con 15"87.

E l’atmosfera dell’olimpiade?Il villaggio olimpico è fantastico! E’ come una piccola città, atleti da tutto il mondo, bandiere sui vari terrazzi per indicare gli appartamenti delle nazioni. Ho conosciuto un sacco di persone. In fondo sei lì per fare una cosa che ti piace e che hai in comune con tutti loro: sei predisposto a parlare, nonostante la concentrazione è comunque anche un’esperienza personale. Poi ci si può confrontare in pista durante l’allenamento. Per esempio ho visto un ragazzo che aveva la mia stessa amputazione e faceva la partenza dai blocchi, che io ancora non riesco a fare e mi sono fatta spiegare. O magari incontri quello che ti parla della situazione politica del suo paese, o chi ti racconta la sua storia, di come è diventato disabile. C’era poi un’officina gratuita della Otto Bock, praticamente come una per le macchine, solo che per carrozzine e protesi. L’idea è che qualsiasi cosa succeda loro ci sono, ed è un notevole supporto.

E’ stata più vissuta la cerimonia di apertura o di chiusura? Credo ci fossero in gioco emozioni molto diverse. Sì certo. La sensazione della cerimonia di apertura è stata quella di iniziare davvero. Com’è che si dice, “quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare”. La cerimonia di chiusura è stata bella, piena di rimandi a Rio, dove ci sarà la prossima Olimpiade. Comunque quando hai finito c’è una sensazione di nostalgia. Sai però che ce ne sarà un’altra. E quindi Rio!

Quale è stato l’elemento che ti ha più colpito?Direi il pubblico. Perché senza non sarebbe la stessa cosa. Questo boato, questo pienone mi hanno fatto sentire importante. Non sono le telecamere, è proprio il contatto umano, la gente. Sentire che loro c’erano, partecipi, che a qualsiasi ora gli spalti erano pieni. Tu entravi in questo stadio gremito, che se non hai visto non puoi capire. Anche i giorni dopo le mie gare andavo a vedere le altre. E’ stata come una droga, non riuscivo più a staccarmene. Anche dopo l’ultima gara, quando vedevo che lo stadio si stava svuotando, non volevo andarmene via. Era bello stare lì e sentire gli applausi.

Ludovica de Girolamo@Ludovica_dg

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Per chi sia abituato a studiare o a prendere in prestito qualche volume nelle biblioteche della sede di San Alessandro, dove si trova il polo di Lingue e Letterature straniere della nostra Università, si preparano alcune novità non indifferenti. Già da qualche

mese forse qualcuno ha notato che il numero massimo dei libri che è possibile chiedere in prestito è passato da tre per biblioteca a dieci in tutte quelle del polo. Questa però è solo una conseguenza di un progetto molto più grande in atto: infatti nel maggio del 2012 è nata un’unica Biblioteca di Lingue e Letterature straniere, invece delle cinque precedenti, ognuna afferente a un’area linguistica. Dalle biblioteche dei Dipartimenti di Scienze del Linguaggio e Letterature straniere comparate (Anglistica, Francesistica, Iberistica) e di Studi linguistici, letterari e filologici (Germanistica e Slavistica), è stata creata una biblioteca sola, con un patrimonio attuale di oltre 130.000 monografie e 598 titoli periodici. Al momento le sale di lettura sono ancora cinque separate, cioè quelle dei cinque Istituti di Lingue che, in seguito all’istituzione, nel 1957, del corso di laurea in Lingue e Letterature straniere e al suo trasferimento, nel 1995, nella sede di Piazza San Alessandro, si erano dotate di personale e catalogazione propri, indipendenti dalla Biblioteca Centrale (quella di via Festa del Perdono, per intenderci). Ovviamente in occasione di tale trasferimento anche i libri avevano “traslocato”, e ognuna delle cinque biblioteche ne ha finora gestito separatamente il servizio di prestito e consultazione. Il progetto della creazione di una biblioteca unica risale al 2010, e sfrutta la riforma dell’Università allora in corso. Con il nuovo Statuto i Dipartimenti sono diventati meno numerosi ma al centro della struttura organizzativa. Anche i Dipartimenti della Facoltà di Lingue sono stati accorpati: così le cinque biblioteche si sono unite in un’unica. Al momento, per via di questioni burocratiche indipendenti dalla volontà degli ideatori del progetto, non sono ancora iniziati i lavori per la creazione di un’unica sala di lettura, che dovrebbe situarsi nell’ala ovest, cioè, per chi avesse familiarità con la sede, quella in cui attualmente ci sono le sale di Francesistica e Slavistica. Questo porterà a una migliore gestione degli spazi, dato che ora per passare da una biblioteca all’altra è necessario, in qualche caso, attraversare il cortile interno dell’edificio e passare dall’altro lato del palazzo; inoltre gli studenti avranno un unico punto in cui sarà gestito il sevizio di prestito. Le sale attuali diventeranno sale di rappresentanza o altro, comunque nell’ambito delle attività dei cinque Istituti.Anche online è stato creato un nuovo spazio per la Biblioteca di Lingue, in cui si possono trovare indicazioni sulle sale e gli orari di apertura, avvisi in caso di chiusure eccezionali o per festività, ulteriori cenni storici rispetto a quelli qui riportati. Inoltre potrete trovare link ai principali cataloghi per fare una ricerca bibliografica e l’inventario dei fondi posseduti dalla biblioteca, cioè le donazioni collezionate nel corso degli anni. Vi si accede dalla sezione Biblioteche della pagina del Sistema bibliotecario di Ateneo.

Irene Nava @irenena89

5 biblioteche in una

foto ell Brown

Vulcano intervistaAlberto notarbartolo

a cura di Maria C. Mancuso

il mestiere del giornalista,con il vicedirettore di

Alberto, di cosa ti occupi ad Internazionale?In questo momento sono vicedirettore, quindi partecipo con il direttore e gli altri vicedirettori all’impostazione della linea editoriale del giornale.

Mi occupo inoltre della gestione e revisione delle pagine di recensione di musica e delle pagine “Pop”, gli articoli più di lettura, che gestisco completamente io leggendo molto e ricevendo segnalazioni dai colleghi.

Come sei entrato nel giornale?Entro come persona che sa qualcosa di cultura, ero uno che leggeva molto bene in inglese, sa leggere il francese, mi stavo laureando in cinema e scrivevo bene.

Raccontaci com’è nato Internazionale.Internazionale nasce dal fondatore e direttore di sempre: Giovanni De Mauro. Allora giovane giornalista de L’Unità che vide trovandosi a Parigi nel 1991 , Courrier International.Cercò qualcuno che gli desse i soldi e dopo due anni lo trovò. E mise su una redazione con i suoi amici Jacopo Zanchini, Elena Boille e Chiara Nielsen.Jacopo ed Elena già li conoscevo tramite degli amici di Pavia, dove ero andato a studiare Storia e critica del cinema per poi fare il giornalista.Avevo lavorato per Capital, un mensile di vita e investimenti, molto “Milano Ramazzotti anni ‘80”. E niente, a Roma gli serviva qualcun altro e cercarono uno che conoscevano, che gli stava simpatico e su cui pensavano di poter contare.Io ho detto “Bello, vado sei mesi a Roma, imparo ad usare un computer, mi sottraggo al fatto che sono uno studente fuoricorso facendo qualcosa di più istruttivo di aspettare tre mesi per dare “italiano II””. Era una cosa che se mi andava bene durava sei mesi, se mi andava male durava due.Mi sono messo a fare il responsabile della cultura, ma ci occupavamo tutti di tutto.Avevamo dei referenti, persone che, non completamente gratis ma quasi, ci facevano da consulenti.Sostanzialmente ci siamo costruiti la nostra professionalità così. Nasciamo leggendo vagonate di cose.

Quanto può aver influito il fatto che Giovanni fosse figlio di tullio De Mauro?Può averlo aiutato nell’ottenere appuntamenti, non è che lui andasse a dire in giro di essere figlio di Tullio De Mauro. Anche perché le possibilità, mentre chiedevi i soldi a uno, che non sapesse chi fosse Tullio de Mauro in quegli anni, erano altine. Non era ancora stato ministro.

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Vulcano intervistaAlberto notarbartolo

E poi la svolta è arrivata, nel 2001. Raccontaci cos’è cambiato.Il massimo momento di difficoltà del giornale era il primo anno, perché si era capito che non avrebbe venduto 15.000 copie. Era fatto con una struttura che era quella di giornali tipo “Uomini e business”, contenitori di pubblicità, che se pigliavi il volo Alitalia te lo davano gratis.Poi cambiò l’amministratore delegato, il progetto grafico, cambiò il carattere, la carta, molto più povera: tutto costava meno della metà ed il contenuto era lo stesso. Ci furono aggiustamenti, ma l’idea era sempre quella. A quel punto il giornale campò, crescendo pian pianino; mi sento di dire che nel 2000 vendevamo 10.000, 11.000 copie tra abbonamenti ed edicola. Adesso Internazionale vende tutto insieme 120.000 copie più o meno. E’ il settimanale di informazione che vende di più dopo L’Espresso e Panorama. La curva che ci ha portato da 10.000 a 120.000 comincia nel 2001.Prima ci fu Genova: mettemmo sulla copertina una fotografia di Giuliani morto. Il numero dopo era quello estivo, che si chiama Viaggi: grandi reportage, un numero che prepariamo in cinque mesi. Ci siamo trovati venerdì in redazione per andare in vacanza e il numero Viaggi era in tipografia. Solo che quello che successe durante il G8, che successe alla Diaz, della polizia che entra e massacra persone che erano lì a dormire nel sacco a pelo, di quelli che furono arrestati e detenuti alla bolzaneto, era un tipo di cosa che in Europa non si era vista mai.Tantissimi ragazzi che erano lì erano stranieri, ed erano spariti in carcere da cinque giorni. Questo causò un’esplosione della copertura dell’informazione sui giornali stranieri, tantissima, durissima.Tant’è, era venerdì e abbiamo detto: “cosa facciamo?” Perché noi saremmo usciti in edicola il venerdì dopo con il numero Viaggi e tutti i giornali del mondo avrebbero avuto in primissima pagina Genova. Abbiamo detto “va bene, chi ha l’aereo parte” e fatto un giornale in cinque, da zero; abbiamo lavorato ininterrottamente fino a mercoledì, quando abbiamo chiuso il numero, che fece l’esaurito tecnico: Internazionale finì tutte le copie distribuite, e lo fece rapidamente.Il rodaggio di quel numero ci permise un mese dopo di fare la stessa cosa per l’11 settembre. Martedì pomeriggio eravamo davanti alla tv, erano le 16. Alle 20.30 abbiamo preso il nostro numero del giornale, metà finito, l’abbiamo buttato nella spazzatura e abbiamo fatto da zero un numero nuovo, in ventiquattr’ore. Fu un numero che andò anche straordinariamente bene.

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A quel punto ci fu una botta di abbonamenti e da allora la curva di vendite, sia in edicola, sia di abbonamenti è regolarmente in crescita.

Di che tipo è il vostro pubblico?È difficile dirlo, perché siamo un giornale con un’identità abbastanza sfuggente. E’ comunque un giornale che ha sempre attirato di più i lettori giovani, indipendentemente dal loro mestiere.

Hai mai pensato di andartene?No.

Sui giornali si dice la verità?Esiste la verità? Si dicono delle cose su delle basi solide? Dipende dai giornali. La verità assoluta? Non c’è. La risposta a “si dice la verità?” è: sì, sostanzialmente in tutti i giornali; e da capo: quando un giornale dice “la festa di Berlusconi era un momento di amicizia” è la verità? No. Quando un altro giornale dice che la festa di Berlusconi era un casino, dice la verità? Forse sì, è il parere mio, non un fatto. Il fatto, in una logica anglosassone di informazione sulla verifica delle fonti certe, è:“ Berlusconi faceva delle feste a casa sua dove c’erano a, b e c.” fine.

Ci sono giornali che si limitano a questo?In Italia no. Non è il caso di cercare la verità sui giornali, è il caso di cercare l’informazione.

in tanti leggono un giornale perché voglio leggervi la propria idea, vogliono sentirsi dire di aver ragione. Ma non è questo lo scopo di un giornale, o no?Questo è uno degli enormi punti di forza di Internazionale, perché non sai rispondere alla domanda “Internazionale è un giornale di destra o di sinistra?”, “Il Guardian per chi vota?” “Il Guardian vota?” No. Il Guardian, se il primo ministro è un laburista che fa delle cose orrende, lo squarta vivo, come Repubblica non ha mai fatto con il governo Prodi – ho scelto un governo che potrebbe essere affine alla linea di Repubblica. Perché ha come riferimento il suo lettore. Repubblica conta che il suo lettore si fidi più di lui che di Prodi, ma ha plasmato i suoi lettori così: “se voti Prodi leggi me”.Il Guardian no, il lettore del Guardian legge il Guardian, fine.E questo permette a Internazionale di essere una voce altra, non perché abbia delle opinioni straordinariamente controtendenza rispetto al mondo, ma le sue fonti non sono giornali che rientrano mai nella griglia di orientamento che siamo abituati ad applicare ai giornali italiani.

Come mai la scelta di pubblicare un oroscopo?L’oroscopo di Bresny, che venne visto nel 2002/2003, era molto divertente, diverso dal normale e uno che diceva: “Oddio che divertimento!” andava a leggerselo tutte le settimane. Rob Bresny è uno dei nostri grandissimi colpi e sul sito, ogni giovedì, quando esce l’oroscopo, raddoppiamo i contatti. C’è tanta gente che non conosce Internazionale e non lo compra, ma che va sul sito ogni santo giovedì per vedere l’oroscopo di Rob.

internet ha soppiantato o soppianterà i quotidiani? Spero di no, penso di sì. La linea è quella, anche perché i giornali quello che possono essere l’hanno sperimentato per 150 anni mentre di ciò che può succedere su Internet ne abbiamo una vaga idea adesso, ma cambierà, perché cambia la tecnologia di base.Il mio giornale di riferimento è il Guardian: se io fossi un

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cittadino britannico, non avrei nemmeno bisogno di una televisione, perché sul loro sito si trovano dei contenuti video di altissima qualità. Perchè guardare la tv e, a maggior ragione, perchè comprare il giornale cartaceo se posso trovare tutto online? La pubblicità online… Eh, anche lì… E’ complicato. È evidente che una grande doppia pagina che è su un giornale rimane impressa di più di un orrendo pop up che mi disturba la lettura dell’articolo. Magari dopo un po’ smetto di odiarlo, come tutti hanno smesso di odiare la pubblicità che interrompe i film - oggetto di aspra polemica negli anni Ottanta. Tutto cambia.

Se avessi la mia età, ora avresti le stesse speranze di diventare giornalista? Secondo me è sbagliato non avere speranze perché il giornale è un medium moribondo. Prima di tutto perché non abbiamo idea dei tempi della sua morte. Quindi se i giornali spariscono dalla faccia della Terra quando hai 103 anni magari hai fatto in tempo ad essere l’ultima grande giornalista. Se uno lavora alla sua formazione, se è capace e si interessa al mondo, le cose capitano. Se io avessi fatto il discorso “è meglio se finisco l’università” nessuno mi avrebbe detto: “sei scemo”. Però sono andato a Roma. E ho avuto fortuna.

Cosa ci vuole per diventare giornalisti quindi? Fortuna?Non ci vuole meno fortuna di una volta, solo che adesso meno persone diventano giornalisti nel senso standard del termine.Sono meno i “giornali 1900” che offrono posti ma sono di più i “giornali 2000” dove si può trovare lavoro.Tu piglia 30 amici e chiedigli “Che quotidiano compri?” Il tuo amico di 21 anni ha bisogno di comprare il giornale? No. Gli serve per sapere cosa succede? No. Accende un computer e ce l’ha. Allora “Ah! Che tristezza il giornale di carta va verso l’estinzione”, però, se voglio sapere se l’Inter sta vincendo o perdendo, accendo il computer e un giornale me lo dice. Andiamo al cinema? Dove vedo l’orario? Su internet. Andiamo a Vienna. Dove compro il biglietto più economico? Online. Mi sono alzato dal mio tavolino e ho fatto una serie di cose per cui il mio amico giornale di carta non mi è servito a niente.E alla fine Informazione è anche quello, non l’analisi “è meglio Civati o è meglio Bersani?” Poi mi serve anche chi mi dice chi è meglio, ma dove lo trovo, su Repubblica o online? Cos’è meglio e cos’è peggio? Cosa è meno schiavo di logiche di mercato oltre che di appartenenza politica, un giornale di carta o un sito fatto dai tuoi amici svegli che di anni ne hanno 24?

Maria C. Mancuso

L’economiaa 32 denti

È proprio con le parole di Kennedy che Nic Marks, figlio della tradizionalissima economia inglese di Cambridge, propone nel 2006 la prima versione dell’ Happy Planet Index (HPI): un indice economico strutturato per dare un’idea del benessere

interno di un determinato Paese.L’indice risulta in un numero che, su una scala da 0 a 100, viene ottenuto come prodotto fra il “benessere sperimentato” (testato dal questionario “Ladder of Life” del Gallup World Poll) e l’aspettativa di vita, divise per l’impronta ecologica calcolata secondo il WWF come la misura del consumo delle risorse naturali.

Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo. Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.

Robert Kennedy18/03/68

discorso all’Università del Kansas

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L’obiettivo dell’ Happy Planet Index e della New Economics Foundation, organizzazione che ricerca dal 1986 nuove teorie economiche per un benessere perseguibile da tutti, è di spingere verso un mondo “felice”, invitando ogni Paese a cercare di raggiungere il valore di 89 nella scala HPI per l’anno 2050. I risultati odierni mostrano che nessuno stato è in grado di offrire un alto valore di benessere che risulti contenuto all’interno di un’impronta ecologica limitata. La scala vede l’Occidente precipitare in fondo, appena sopra i Paesi africani, ultimi classificati, mentre ai posti più alti si trovano gli stati del Sud America, che, anche se in corsa per lo sviluppo, hanno ancora una bassa impronta ecologica.Un indice costruito su tali basi risulta nella nostra società estremamente importante perché la maggior parte degli indici moderni sono una stima del solo incremento delle attività economiche, basate sulla dinamica produzione/consumo, senza tenere assolutamente conto dei fattori sociali, legati ad uno sviluppo “felice”, in accordo con le limitazioni ambientali. L’indice mostra però anche seri limiti: alcuni Paesi che presentano un punteggio HPI elevato in verità sono ancora discriminatori nei confronti delle minoranze che, nell’ambito di una media matematica della popolazione, non vengono prese assolutamente in considerazione.L’HPI non è l’unica creazione della nuova economia inglese a 32 denti: proprio dalla London School of Economics nasce l’applicazione I-phone Mappiness, sviluppata da George Mac Kerron nell’ambito di un progetto di ricerca sul rapporto tra ambiente e soddisfazione personale. Lo studio cerca di capire cosa influenzi maggiormente lo stato d’animo delle persone: scaricando l’applicazione e rispondendo alle domande inviate, vengono raccolte informazioni su cosa stiamo facendo, dove ci troviamo e come questo influenzi la nostra felicità. Lanciato nell’autunno del 2011, il progetto ha coinvolto finora più di 50 mila persone, purtroppo i risultati non sono eclatanti: nessuno si sorprenderà infatti a sapere che la felicità aumenta nei week end, diminuisce drasticamente il lunedì per avere un picco il giorno di Natale. E chi dice che i soldi non comprano la felicità, probabilmente sotto l’albero non troverà quest’anno il nuovo iPhone, in barba al Mappiness.

Lorenzo Porta

foto Michael Foley 13

LIsola che non c’è, c’è.Nel senso, esiste un’isola che non c’è. (Sì.) E non è scomparsa di recente, o sprofondata. Non è uno scherzo, come San Serif. Parliamo della minuscola isola Sandy, vicino alla Patagonia. Se avete in casa un atlante,

interrompete la lettura e andate a cercarla, la troverete. Un piccolo punto in mezzo al blu.Eppure, nel punto dove le mappe segnano la sua presenza, il fondale marino è profondo più di 1300 metri, non può essere sprofondata.

La storia dell’isola di sabbia inizia nel 1774, quando il capitano James Cook segnò una misteriosa Sandy Island, approssimativamente a 19°S, 160°E, ma non vi si avvicinò mai. La mappa di Cook fu pubblicata pochi mesi dopo, ed è tuttora consultabile online nella collezione di David Rumsey. Se a quelle coordinate ci fosse davvero qualcosa, questa storia non sarebbe interessante. Ma—L’isola, non contenta, nel corso del secolo successivo si sposta. Mappe francesi dal 1826 al 1875 la riportano a 19°S, 164°E.Ulteriori riscoperte sono datate 1890 e 1907. Nel 1907 fu azzardata anche una descrizione, come mini–arcipelago di isolotti di sabbia. La scialuppa cacciatrice di balene Velocity dichiarò di aver ormeggiato su uno di questi isolotti.Non dobbiamo sorprenderci di imprecisioni, equipaggi che dichiarano di essere stati in posti che non esistono, descrizioni dal sapore mitologico: la cartografia era un’arte inesatta e in qualche modo misterosa, senza l’ausilio di satelliti e tecnologie contemporanee. Tuttavia, già i Babilonesi attorno al 2500 a.C. si producevano in mappe, almeno locali, discretamente accurate, e tutta l’area del Mediterraneo era stata disegnata in maniera incredibilmente precisa sin dal 1154 sulla Kitāb Rugiārī di Muhammad al–Idrisi.Contro ogni realtà, Sandy Island esisteva ufficialmente, e da allora iniziò ad apparire su tutte le mappe e le carte del mondo, a prescindere dal cartografo, con tanto di precisa collocazione: 19°22’S, 159°93’E

Passa quasi un secolo prima che affiorino dubbi riguardo l’esistenza dell’isola.Aprile 2000. Un gruppo di radioamatori parte per una DX–pedition. Sono spedizioni particolari—si parte verso

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Storia di un’isola che non esiste, di avventurieri radioamatori, e di vie trappola

foto chris Zielecki

una regione, un luogo, privo di altre radio amatoriali, e ci si accampa, raccontando l’avventura, l’esperienza, il mondo sconosciuto a chiunque si voglia sintonizzare. Un gruppo di radioamatori parte per una DX–pedition, destinazione Sandy Island1. Partono, e l’isola non c’è. Una controscoperta, in qualche modo. Il gruppo di radioamatori fa qualche calcolo grossolano della profondità del fondale marino, ma è profondo, e non riescono a ottenere risultati precisi. Ancora più strano: la notizia non esplode, non viene riportata dai giornali. Un’isola sparisce, o non è mai esistita, e non importa a nessuno.“The ocean floor actually didn’t ever get shallower than 1,300 meters below the wave base…” “Il fondo oceanico non emerge mai al di sopra dei 1300 metri al di sotto del livello del mare…” scrivono un gruppo di scienziati a bordo del RV Southern Surveyor. È il 22 Novembre 2012. In viaggio per misurare dettagli della tettonica delle placche della zona, osservano gravi discrepanze tra due mappe contro cui misuravano i dati rilevati. Decidono allora di dirigersi verso l’isola Sandy, che viene ufficialmente, definitivamente, controscoperta.La notizia esplode, rimbalza su tutti i portali e i quotidiani australiani, inglesi, americani. L’epopea dell’isola di sabbia si conclude con l’annuncio di Juan José Valdés, cartografo capo del National Geographic2. Sandy Island non esiste.

Cosa è successo? Come è nata l’Île de Sable?Di isole di sabbia ce ne sono un’infinità. Si chiamano trap street, strade trappola. Sono una sorta di sistema anticopia ante litteram: un errore inserito in una mappa altrimenti corretta, in modo da identificare cartografi pigri. Se l’errore si diffonde, le carte che lo riportano sono chiaramente ritracciate sulla mappa “protetta” e non disegnate in seguito ad osservazione diretta. Una civetta.

E non è una spiegazione che uccide la storia, anzi. Un errore programmato, una trappola, uno scherzo d’autore—del capitano James Cook—ha sconfitto, e irriso la realtà. Dal 1774 al 2012, 19°S, 160°E.

Alessandro Massone@amassone

—1 http://www.theregister.co.uk/2012/11/22/undiscovered_sandy_island/2 http://newswatch.nationalgeographic.com/2012/11/29/sandy-island-ile-de-sable-or-ile-de-sables-the-island-that-never-was/

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Storia di un’isola che non esiste, di avventurieri radioamatori, e di vie trappola

Soltanto Matteo Terzi si racconta

Chi non ha visto in Piazza Cordusio Matteo suonare la sua chitarra a piedi nudi, intonando canzoni dei Coldplay, degli Oasis, o di Damien Rice?Questa è solo una delle parti di un processo, anzi di un sogno, iniziato più o meno tre

anni fa, quando ha deciso di intraprendere un viaggio in Europa e vivere solo della sua musica.Presa la decisione di partire ha concluso entro un anno l’università e i progetti aperti, si è licenziato dal lavoro ed è partito in autostop da Milano, per poi toccare Torino, alcune città francesi tra le quali Lione, arrivando fino a Tenerife in Spagna e mantenendosi suonando. Il viaggio è durato sei mesi, senza mai alcuna pianificazione.Matteo suonava per strada senza amplificatori e vivendo di campeggio selvaggio, organizzato o couchsurfing (comunità online di persone che ti “aprono” il loro divano e ti ospitano).Tornato a Milano, ha deciso di seguire il suo sogno anche nella sua città: si è informato sui permessi da chiedere al Comune e ora paga un piccolo tributo per occupare un metro quadrato e continuare il sogno che da quasi tre anni gli permette di vivere soltanto di questo. Matteo è l’unico che, a Milano, riesce a farlo.Ma la vera domanda è: cosa provoca nella gente questo ragazzo che suona scalzo con una kefiah al collo?Durante il suo viaggio on the road cantava canzoni italiane legate alle sua storia e alla sua vita e, sebbene i testi non venissero capiti, è riuscito comunque a trasmettere forza, intensità, gioia, scatenate dall’urgenza di vivere questa esperienza di libertà e passione che lo ha portato a fare il suo percorso. Il nome “Soltanto” nasce dal primo viaggio dove Matteo ha deciso di chiamarsi “Matteo Supertramp”, tributo al mitico Christopher McCandless, al quale Sean Penn ha dedicato il suo film Into the Wild, un ragazzo che ha abbandonato tutti i beni materiali per mettersi in viaggio verso l’Alaska a contatto con la natura e la purezza. All’inizio c’era quindi un desiderio di essere super, di trascendere, ma durante il viaggio Matteo ha capito che per raggiungere la felicità non è necessario essere super, basta soltanto essere se stessi e non tradire la propria natura.“Soltanto” non è solo Matteo Terzi che suona, ma appartiene a tutte le persone che in qualche modo gli hanno dato qualcosa, gli hanno lasciato un contributo, che si ritrovanoin lui o si rispecchiano, è come se “Soltanto” fosseun gruppo di persone: Matteo dà qualcosa cantando nelle piazze e in qualche modo la gente gli restituisce un’esperienza personale, un’emozione. Nei suoi viaggi Matteo ha notato che la gente delle nazionalità più diverse si emoziona sempre allo stesso modo, perché ha bisogno di verità, di toccare con mano l’arte e l’artista, e si è stufata di storie di plastica: vuole storie vere, che può raggiungere, e nelle quali immedesimarsi. Negli ultimi anni i musicisti di strada sono aumentati e Soltanto è stato tra i primi a superare la vergogna e i pregiudizi che una città come Milano purtroppo ha neiloro confronti. Grazie a Matteo altri ragazzi hanno iniziato a suonare. Ma perchè proprio ora? Secondo Matteo in questo momento storico le possibilità di realizzare i propri sogni sono ridotte, il lavoro è lontano, mal retribuito e senza

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Soltanto Matteo Terzi si racconta

garanzie, quindi è questo il momento in cui non c’è niente da perdere e bisognerebbe inseguire i propri sogni.Per ora Soltanto ha cantato solo cover ma sono anni che scrive canzoni e a breve dovrebbe partire un progetto di più ampio respiro: un disco tutto suo.Sempre per rimanere in tema di semplicità e scambio, Matteo vorrebbe che il disco fosse finanziato tramite un progetto di crowdfunding, di finanziamento dal basso che in Italia è poco diffuso.A metà ottobre nascerà un fundraising esclusivamente per la musica dove una persona si dà una somma da raggiungere per un determinato progetto, in questo caso il disco di Soltanto, e chiunque finanzi il progetto online avrà un ritorno in proporzione alla sua donazione: per esempio un disco, o, in casi di più cospicue donazioni, Matteo ha anche pensato ad un concerto a casa oppure ad un viaggio in tour con il musicista.È importante sottolineare che la sua esperienza è stata una scelta basata su semplicità e condivisione: Matteo è già andato a “prendersi il suo sogno” e non ha bisogno di talent show sempre più finti, perché purtroppo in molti casi la scelta dei ragazzi di parteciparvi non è una vera scelta ma un vendersi, senza più avere alcun potere decisionale sulla propria musica e sulla propria carriera, e perché nel caso in cui si venisse rifiutati è come se si fosse già stati rifiutati dalle grandi marche e dal grande pubblico.

Ludovica Leone

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La bambina in braccio a Matteo sulla copertina del suo disco di cover è Penelope,

una bambina di Lione, la prima fanche per giorni ha seguito Soltanto in piazza.

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MeMoRie dA UnA cittÀ di MoRti

Entro in città in una giornata piovosa: non mi colpiscono tanto le crepe sulle case della periferia, che così a primo sguardo sembra la normale periferia di una normale città, quanto le facce della gente. Grigie. Parcheggio dalle parti di Collemaggio, appena fuori dal centro

storico. Groppo alla gola. Entro nella basilica attraverso il grande portale nella facciata romanica, coi suoi disegni geometrici di bianco e d’arancio. Luce. La chiesa è invasa dalla luce del sole (e sì che piove) che entra da quella grande voragine che una volta era la cupola, crollata il 6 aprile 2009 e ora sostituita da una copertura in plexigas trasparente che vomita la luce sulle ossa di Celestino V, esposte davanti all’altare, e sulle costole scarnificate a tutto sesto che ancora reggono navata e transetto. Esco.Entro nel centro storico e un paio di volte (per errore, beninteso) entro anche in zona rossa. Il centro de L’Aquila è quasi tutto zona rossa. Inagibile. Pericoloso. Da nascondere. Per terra non ci sono solo le macerie, le stesse macerie di tre anni e mezzo fa, ma anche una gran varietà di oggetti, quelli che sono venuti giù dalle case con i calcinacci la notte del terremoto. Su alcune automobili ricoperte di intonaco e mattoni sono addirittura cresciute delle piante, forse discendenti dei gerani e degli altri fiori che un tempo ornavano i davanzali delle finestre e i balconi. Anche fuori dalla zona rossa la vista non migliora di molto: le macerie, è vero, non invadono più le strade, ma tutto quello che vedo sono porte e finestre cieche, ostruite da un imponente sistema di ponteggi e impalcature. Non incontro neanche un edificio che non sia puntellato; tutta la città ha bisogno di sostegni, di stampelle per stare in piedi. C’è un grande silenzio. La città è completamente vuota, e i miei passi rimbombano sui muri incerottati. A L’Aquila ho un’amica: ci incontriamo, e parte il tour.Lei viveva nel mezzo del centro storico, ma dopo il sisma è stata costretta a trasferirsi a Milano, perchè non solo non c’era più la sua casa, ma anche le case dei suoi amici e la sua scuola sono state tutte rase al suolo. Mi racconta una vita al passato. Qui andavo a scuola (puntellamenti, inagibile). Lì si andava a bere il sabato sera (puntellamenti). Là ci viveva il mio ex (puntellamenti). Quella era casa mia (macerie). I suoi genitori, come la stragrande maggioranza degli aquilani che vivevano in centro, vivono ora in un appartamento del progetto C.A.S.E

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MeMoRie dA UnA cittÀ di MoRti

messo a punto dal governo Berlusconi e dalla Protezione Civile di Bertolaso.Il progetto consiste in 42 newtowns piuttosto distanti dal centro città (anche e più di 20Km), casermoni enormi in grado di ospitare migliaia di inquilini sbattendosene di ogni criterio di preservazione e tutela del paesaggio (che, sorgendo l’abitato ai piedi del Gran Sasso, è un paesaggio piuttosto notevole) e, soprattutto, di vivibilità. Le case di C.A.S.E. sono grandi palazzoni ad uso esclusivamente abitativo, prive e lontane da ogni servizio, anche semplicemente dai supermercati. Da qui l’idea di costruire vasti e pratici centri commenciali all’americana nell’hinterland de L’Aquila. Un’operazione non particolarmente logica, dal momento che ha costretto gli aquilani a cambiare molte di quelle (poche) abitudini che dopo il sisma potevano aiutarli a riconquistare la normalità. Gli abitanti del capoluogo abruzzese, a più di tre anni dal terremoto che ha colpito la loro città, si trovano a dover convivere con una gran quantità di difficoltà e incertezze, e ad abitare case non loro nell’attesa (sempre più lunga e sempre meno fiduciosa) che le loro abitazioni vengano ricostruite.Camminando per la città mi accorgo che la speranza che L’Aquila venga ricostruita si affievolisce sempre di più. L’Aquila è una città fantasma. L’Aquila è una città morta. L’Aquila non risorgerà per colpa del governo, della Protezione Civile, della Regione Abruzzo, della Provincia di cui è capoluogo, della Sovrintendenza per i Beni Culturali e delle altre istituzioni competenti, che hanno semplicemente gettato la spugna e hanno deciso di salvaguardare solo alcuni interessi, più vicini a loro e più lontani da quelli dei cittadini. A L’Aquila non c’è più una linea d’autobus che ti porti da una parte all’altra della città. A L’Aquila ci sono branchi di cani randagi che si aggirano per le strade del centro in cerca di cibo e di un po’ d’affetto.A L’Aquila tutti i locali che sono riusciti a rimanere aperti sono stati ammassati in un’unica piazzetta ancora agibile, e i ragazzi sono costretti a stare stipati fra loro per bere qualcosa la sera.L’Aquila è morta.

Tito Grey de Cristoforis@GrayTito

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Stare in coda, in fila, aspettare sono tra le croci del mondo moderno. Schiacchiati dallo stress del movimento costante, quando ci troviamo a dover attendere, improvvisamente siamo sottovuoto. Stiamo facendo una sola cosa, corriamo senza sosta verso la morte.

Odiare le code è giustificato. Lo scorso anno, uno studio di TomTom NV ha rivelato che in Italia l’automobilista medio trascorre aspettando, tra semafori rossi, ingorghi e code, quindici giorni ogni anno.Tuttavia, l’aspetto più peculiare dell’attendere è quanto ogni minuto sembri un’attesa penelopica.

Richard Larson, direttore del CESF al MIT e riconosciuto come massimo esperto mondiale in code (SÌ.), parla di un grumo di ansia, sete di giustizia, stress, noia e hiraeth1. Scossi dalla negatività, il tempo in attesa ci sembra più lungo del 36 percento, il cervello si spegne e i nervi si incendiano.Da un punto di vista strettamente tecnico, le code multiple, modello fast food, sono estremamente più pratiche, ma tutti preferiscono le file singole. La sofferenza causata dal rischio di essere sorpassati da un fortunato in un’altra colonna è troppa, e nemmeno ci accorgiamo se siamo noi a “passare davanti” a qualcun’altro.Lo stress ci porta, invece, a scegliere sempre la coda apparentemente più veloce, anche se notevolmente più lunga di una parallela, corta ma lenta.

Larson e altri “scienziati delle code” sanno come non farci soffrire, banalmente mai dare il tempo ad un uomo libero di pensare.Anni fa l’aeroporto di Houston decise di fare qualcosa per le continue e pressanti critiche riguardo la lentezza di check–out dei bagagli. La soluzione sembrava così semplice—aumentare il numero di nastri su cui le borse scorrevano. Il tempo d’attesa scese drasticamente ad otto minuti, ma non le lamentele. Dopo un più profondo studio del problema, i gestori scoprirono che i viaggiatori impiegavano circa un minuto e mezzo a raggiungere il ritiro bagagli, passavano cioè tre quarti del loro tempo ad aspettare, fermi, che le valigie arrivassero. La soluzione fu immediatamente chiara, dovevano spostare il cancello bagagli più lontano, costringendo le persone a camminare più a lungo. Le lamentele cessarono immediatamente.

Il trucco più buffo risale all’epoca della Seconda Guerra Mondiale. Gli ascensori erano ancora cosa nuova, e gli utenti finivano per annoiarsi o spaventarsi, preoccupati di rimanere bloccati. Era un vero problema d’uso. Finché in un grattacielo di New York qualcuno non ebbe un’intuizione e piazzò specchi all’interno di tutti gli ascensori. Ventiquattro ore dopo gli ascensori non erano più macchine di morte aliene.Perché siamo umani, e niente ci tranquillizza e occupa il pensiero meglio che controllarci i capelli, o poter spiare di nascosto chi ci è vicino.

Alessandro Massone@amassone

—1 Cosa significa? Girate pagina e scoprite la nostra nuova rubrica.

Finalmente!Code, attese, e ruoteper criceti per umani

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Quando, nel 1884, Leopoldo Alas detto Clarìn si accinge a scrivere il suo romanzo La Presidentessa, sa bene che gli intellettuali spagnoli ed europei non perderanno occasione per criticare un uomo che, recensendo gli scritti altrui, si

era creato una meritata fama di critico letterario poco indulgente e puntiglioso. Le critiche, infatti, non tardano ad arrivare: prima fra tutte quella che vede nel suo capolavoro nient’altro che una rielaborazione spagnola della più celebre Madame Bovary di Gustave Flaubert. Che tale opera abbia influito su Clarìn è fuori discussione, come è evidente dalla trama de La Presidentessa. Come Emma Bovary, anche la bella e sensibile Anna Ozores vede la sua vita consumarsi nelle pastoie di un infelice matrimonio con un uomo che non ama, e che per giunta è molto più anziano di lei: don Víctor Quintanar, il presidente in pensione della Corte di Giustizia. Corteggiata con pervicace determinazione dal dongiovanni della città, il politico liberale don Àlvaro Mesía, è sul punto di cedere quando la situazione si complica perché di lei s’innamora appassionatamente il canonico don Fermín de Pas, l’affascinante capo della fazione “devota”.Ma le analogie con Flaubert finiscono qui, laddove cominciano le geniali innovazioni di Clarìn: come quella di fare della città di Vetusta (sotto cui si ammanta Oviedo, città dove l’autore viveva), lo scenario dell’azione, uno dei protagonisti –forse il vero protagonista- del suo romanzo. Di Vetusta sono protagonisti tanto le strade, la Cattedrale, il club dove l’élite cittadina s’incontra all’insegna del pettegolezzo e della maldicenza, quanto la variegata umanità che la abita: con più di centocinquanta personaggi, La Presidentessa è un vero e proprio romanzo corale, in cui la grandezza dell’autore sta nel saper assegnare a ciascuno di essi una credibile individualità.Il culmine di tale virtuosismo si trova nelle figure dei due personaggi principali, Anna e Fermìn, legati tra loro da sottili parallelismi e descritti così a fondo nelle grandezze e nelle miserie delle loro personalità da produrre nel lettore l’illusione che si tratti di persone in carne ed ossa. In quest’impresa Clarìn è aiutato dalle sue peculiari scelte stilistiche, anch’esse influenzate dalla letteratura francese coeva, in specie Flaubert e Zola. Clarìn mutua da loro soprattutto un sapiente uso del discorso indiretto libero, ma il suo narratore, ben lungi dalle pretese d’impersonalità del Naturalismo, interviene con giudizi morali da cogliere in filigrana e con ironici accostamenti tra gli slanci di sentimento dei personaggi e i più prosaici dettagli della vita provinciale vetustense.Questo capolavoro del Realismo paga purtroppo lo scotto della poca dimestichezza del pubblico italiano con le letterature iberiche, così spesso sono solo gli studenti di Lingue ad avere l’occasione di entrare in contatto con La Presidentessa. La sua vivida rappresentazione della società spagnola dell’Ottocento, ricca di verve polemica, ma soprattutto il suo intenso scavo psicologico, che permette al romanzo di assolvere al compito di favorire l’“educazione sentimentale” del lettore, fanno auspicare che La Presidentessa possa conoscere un maggior successo in Italia.

Lidia Zanetti Domingues

Da rileggereLa Presidentessa

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Non chiederci la parola

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N on chiederci la parola è una nuova rubrica di Vulcano in cui elenchiamo parole ed espressioni oscure, e intraducibili. L’italiano è la lingua più bella del mondo, ma seguiteci in questo Nglayap in giro per le lingue del mondo, ci sarà di che divertirsi.

Sgriob (gaelico)Quel vago prurito che prende il labbro superiore l’istante prima di bersi una bella sorsata di whiskey.

Mamihlapinatapai (yagan)Scambiarsi sguardi ammiccanti come se niente fosse.

Schadenfreude (tedesco)Il piacere di vedere il prossimo soffrire.

Pochemuchka (russo)Una persona che fa troppe domande.

Backpfeifengesicht (tedesco)Una faccia che ha davvero bisogno di un pugno.

Aerodjarekput (inuit)Scambiarsi le mogli, ma solo per qualche giorno, e conservando il diritto di avere rapporti sessuali conla propria consorte.

Yuyin (cinese)La sensazione del suono che resta in un orecchio dopo averlo sentito.

Nglayap (indonesiano)Allontanarsi da casa e vagabondare senza una meta precisa.

Achaplinarse (spagnolo)Esitare e poi scappare—come Charlie Chaplin.

Karoshi (giapponese)Morte dall’aver lavorato troppo.

Bakku–shan (giapponese)Ragazza che sembra bella vista da dietro, ma che non lo èvista davanti.

Waldeinsamkeit (tedesco)Senso di solitudine e libertà che si prova nei boschi.

Dustsceawung (inglese arcaico)Riflessione sulla formazione delle civiltà e la consapevolezza

Non chiederci la parola

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che tutto si trasformerà in polvere.

Yuputka (ulwa)L’illusione che qualcosa strisci sulla propria pelle durante

una passeggiata notturna nei boschi.

Groak (inglese)Fissare silenziosamente qualcuno che mangia con la speranza di essere invitati a partecipare al convivio.

Hobbledehoy (inglese arcaico)Adolescente goffo e maldestro.

tingo (rapa nui)Prendere in prestito dalla casa di un amico, uno ad uno, gli oggetti che desideri, sino a quando non gli resta niente.

Mukamuka (giapponese)Essere tanto arrabbiati da avere i conati di vomito.

Hoppìpolla (islandese)Saltare nelle pozzanghere.

Hiraeth (gallese)Nostalgia di casa per una casa alla quale non si può far

ritorno, per una casa che forse non lo è mai stata; nostalgia, dolore e desiderio per i posti persi del proprio passato.

Koi no yokan (coreano)La sensazione che si prova quando si incontra la personadi cui ci si innamorerà.

Backpfeifengesicht (tedesco)Una faccia che ha davvero bisogno di un pugno.

iktsuarpok (siberiano)Andare fuori per vedere se una persona attesa sta arrivando.

L’esprit de l’escalier (francese)Quando, dopo una discussione animata, state tornando a

casa e il cervello per conto suo, in un lampo, mette insieme la risposta acuta, tagliente, pungente che vi sarebbe servita

poco prima, ma è troppo tardi.

Registrato al tribunale di Milano, n. 317, 4 Maggio 2004.Direttore responsabile: Laura Rio.

Fondato da: Luca Gualtieri, Andrea Modigliani, Andrea Canevazzi.Stampato con il contributo dell’Università degli Studi di Milano,

derivante dal fondo per le attività culturali e sociali,previsti per Legge del 3 Agosto 1985, n. 429

EDITORIALEChange. Changer. Cambiar.

È un periodo di grandi cambiamenti. Ricco di quegli eventi che vanno a finire nei libri di scuola. Tanto per cominciare l’Italia è andata al voto, e il risultato di queste elezioni è stato a dir poco sconcertante. Chi si sarebbe aspettato una tale ripresa del Pdl? Per non parlare del fiasco del Pd: “Siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto”, Bersani non ha mai detto parole più vere. Povero Bersani, in che situazione si trova... silurato da qualunque parte si volti: a destra, la sciagura e la tomba con Berlusconi che vuole il governissimo, il prezzemolino Grillo che dice “No la colesterolo ma sì a valsoia” e si è dimostra sordo ad ogni possibilità di dialogo, e a sinistra la base del suo stesso partito spaccata in più parti. E se le presidenze di Boldrini al Parlamento e di Grasso al Senato sono state accolte con favore dall’opinione pubblica, non si può dire la stessa cosa per i Dieci Saggi, che non solo hanno sollevato un polverone fin dalla loro nomina (Quagliarello?) ma anche nelle loro funzioni: il tempo brevissimo sta per scadere e nessuno ha ancora capito che sono stati chiamati a fare; persino il nome non è stata una buona scelta di marketing. E come se non bastasse, il 18 aprile termina il mandato di Napolitano e si elegge il nuovo Presidente della Repubblica. Però anche fuori dall’Italia c’è chi non se la passa bene: ad esempio, in Corea del Nord Kim Jong Un deve decidere se dare inizio o meno a una guerra nuclere. In Venezula muore Chavez e la gente piange disperata per strada. In Gran Bretagna muore la Thacher, e la gente balla sulla musica dei Crass. Va be’. Anche nei tempi più bui resta sempre la fede, no? Peccato che il papa si sia dimesso. Via Benedetto, avanti Francesco. È troppo presto per giudicare questo papa, ma una cosa la si può dire: primo gesuita, primo sudamericano e primo Francesco eletto al soglio pontificio. Davvero, è un periodo di grandi cambiamenti.

Gemma Ghiglia

Vulcano, il trimestrale della Statalenumero 60, aprile 2013Milano

Direttore: Gemma GhigliaVicedirettore: Alessandro MassoneCaporedattore: Filippo BernasconiDesign: Alessandro MassoneRedazione e collaboratori: Irene Nava, Francesco Floris, Elena Sangalli, Maria Catena Mancuso, Daniele Colombi, Elisa Costa, Paola Gioia valisi, Ludovica de Girolamo, Giovanni Masini, Lorenzo Porta, Stefano Colombo, Lidia Zanetti-Domingues, Stefano Santangelo, Mattia Salvia, Delis Nisco, Sebastian Bendinelli, Tito Grey De Cristoforis, Danilo Aprigliano e Angelo Turco.

La redazione di Vulcano si riunisce ogni giovedì alle ore 12,30 nell’auletta A di via Festa del Perdono 3

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