Pioggia battente
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Transcript of Pioggia battente
Collana LaRossa
Serie BIG‐C
Grandi Caratteri
La serie Big‐C, Grandi Caratteri, grazie all’alta leggibilità del
carattere utilizzato in stampa e alle sue dimensioni (gene‐
ralmente 13 o 14), propone testi di agile lettura rivolti in par‐
ticolare a lettori con problemi visivi (ipovedenti).
Precisiamo che per i lettori con problemi di dislessia sono in
commercio pubblicazioni a stampa realizzate con caratteri e
accorgimenti particolari, che i libri della nostra serie non uti‐
lizzano. Tuttavia, il carattere utilizzato nella serie Big‐C
(Candara) si presta comunque molto bene allo scopo.
La presente opera è stata realizzata SENZA alcun finanzia‐
mento o contributo statale, pubblico o privato, ma esclusi‐
vamente con il capitale della Casa Editrice.
Ogni riferimento a luoghi, persone o situazioni riscontrabili
nella realtà è da ritenersi puramente casuale, essendo
questo scritto pura invenzione della fantasia dell’autore.
Walter Serra
Pioggia battente
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com
www.quellidized.it
www.facebook.com/groups/quellidized/
PIOGGIA BATTENTE Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni
ISBN: 978-88-6307-468-0 Copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Dicembre 2012 Stampato da
Logo srl Borgoricco - Padova
Questo romanzo è dedicato a mia moglie, per la gioia e il
dolore che la storia racconta, accanto a speranza, passione e
desiderio di cambiare le cose. Un grido fuori e dentro una
storia inventata.
Il romanzo peraltro non parla solo di persone, fra cui il caro
ricordo di nonno “Dolfo”, ma di Lei. Per una volta non una
donna, non una madre, ma una città: Cesenatico.
“Una delicata e complessa storia d'amore tra due ragazzi che
hanno paura d'innamorarsi ancora, si intreccia con un segreto
del passato che ha le sue radici nella guerra in Etiopia. Il tutto
in una Cesenatico magistralmente descritta, quasi sospesa fra
realtà e sogno. La cura con cui viene tratteggiata la psicologia
dei personaggi, anche di quelli secondari, e lo stile fluido ed
evocativo, catturano il lettore sin dall'inizio.”
Francesca Ramacciotti
Introduzione
È tanto che volevo scrivere una storia ambientata a
Cesenatico, dove non sono nato ma dove ho vissuto spesso,
fisicamente e col cuore, a partire dalle vacanze estive a casa
del nonno Dolfo. Trovato il filone della storia, ho scritto di
getto la prima bozza ambientando a memoria, dal
momento che mancavo dalla cittadina da parecchi anni.
Sono così tornato, con gli occhi dell’emigrante che rientra
dopo una lunga assenza. Trepidante, ho rivisto le istantanee
del mio passato, ho colto le novità, le sfumature, le
consistenze. Liberando la mente, ho aspirato l’odore del
canale, camminato lungo le sponde fino al faro, il passo
leggero come un bambino. Certo, tante cose sono cambiate
nei luoghi e nelle persone, ma in un qualche modo la gioia di
essere tornato a casa è rimasta. Così, una volta riaperto il
file ho apportato i necessari aggiornamenti
all’ambientazione, mettendo ancor più nostalgia in bocca al
protagonista. È mia abitudine, accanto alla trama principale,
unire una storia con un’ambientazione storica, utile e
necessaria a spiegare tutto o parte dell’intreccio. In questo
caso racconto qualcosa della campagna d’Africa in
Abissinia, in ricordo di mio nonno che ne ha vissuta gran
parte. Purtroppo nulla mi ha raccontato delle sue vicende,
forse troppo dolorose e poco adatte al ragazzo che ero. Mi
sono quindi dovuto ancorare ai fatti storici e solo dopo
lasciare sfogo alla fantasia.
La storia che presento è forte e delicata assieme, racconta
del dolore di vivere, delle scelte sbagliate e delle
compensazioni che spesso ci vengono offerte. Ma non
capita a tutti di meritare una seconda occasione, e con
quella espiare e dimenticare il passato. Io mi colloco dalla
parte della speranza.
L’autore
11
I
Al largo del mar Ionio, Febbraio 1936
Alfredo ha spiato per ore quel mare calmo che tanto gli
ricorda il suo, ma il cacciatorpediniere “Niburna” non
assomiglia affatto al peschereccio del padre, col quale era
stato migliaia di volte a pescare.
Un ammasso di legno marcio.
Attorno a loro, una fregata e un paio di altre grosse
imbarcazioni, tutte cariche di soldati ansiosi di raggiungere
la terra promessa. Taranto e la costa sono sparite in fretta,
cancellate dai loro occhi puntati al Continente Nero, alla
loro missione. Il sergente Mariani ha fatto loro una testa
così sull’Abissinia, un paese ricco di buona terra e risorse
naturali, pronto per ricevere la bandiera italiana e un posto
nell’impero coloniale, nonostante l’ostilità della
popolazione. In realtà ha parlato più spesso delle abissine e
di quanto sono dolci a letto. Attorno sono risate e occhiate
salaci ogni volta che torna sull’argomento.
12
Alfredo non è venuto fin qua per farsi qualche faccetta
nera, ma per conquistare, a pacificazione avvenuta, un bel
pezzo di terra da lavorare con la sua Vincenzina.
Ha sopportato senza lamentarsi il lungo trasferimento
interno su treni, camion e chiatte, ora può finalmente
respirare l’aria di una nuova casa.
Sono alloggiati in una caserma costruita fuori Addis Abeba,
un campo di addestramento reclute con annessa la
polveriera. È passata una settimana dal loro arrivo, ormai
sono ambientati e pronti all’azione.
Si sente chiamare.
«Soldato Ferreri, si presenti alle quindici‐zero‐zero
all’adunata nel cortile, in attesa d’istruzioni!»
«Signorsì, sergente!»
Corre a lavarsi la faccia sudata e a lucidare gli scarponi, che
non si presenti il Duca d’Aosta in persona per un’ispezione
improvvisa. Nella caserma c’è un via vai impressionante,
camion, moto Guzzi scoppiettanti col sidecar, blindati.
Lontano, si sente ogni tanto un colpo di mortaio o una
raffica di mitragliatrice, l’ennesimo attacco di un pugno di
ribelli che tenta di resistere alla modernizzazione offerta dal
popolo italiano.
“Illusi” pensa “finiranno tutti sottomessi. O sotterrati.”
Alle quindici‐zero‐zero un plotone di uomini sta allineato
sotto al sole cocente. Alfredo fissa incuriosito il sergente in
completo abito coloniale, impeccabile anche nei calzettoni
al ginocchio. Ha le gambe storte e ai più ne vien fuori come
13
una caricatura, ma è meglio non ridergli in faccia, non è la
prima volta che punisce qualcuno a colpi di frustino…
«Alfredo, che dici, ci trasferiscono di già?»
Ernesto è di Taranto, vent’anni appena e tanta smania di
menar le mani.
«Zitto, che quel cane ci fa rapporto!»
Dal casermone di lato arriva il comandante, seguito come
un cagnolino dall’attendente di campo.
«At‐tenti!»
Il sergente si erge impettito, seguito all’unisono da tutti i
soldati allineati. All’improvviso tutta la loro attenzione si
concentra sull’ometto coi baffi che inizia a parlare.
«Soldati, domattina alle cinque‐zero‐zero sarete trasportati
all’interno, verso le montagne. I nostri genieri stanno
costruendo una strada di collegamento per migliorare le
comunicazioni verso Jima, e sono bersagliati da continui
attacchi di guerriglia. Il vostro compito sarà di pattugliare la
zona, rendendola sicura e sgombra da quei selvaggi
rivoltosi. Sono stato chiaro?»
«Sissignore!»
«I lavoratori locali non dovranno lasciare la zona di scavo
per nessuna ragione, per evitare che divulghino notizie ai
ribelli sul dislocamento e le potenzialità delle nostre truppe.
Portatevi tanta acqua, la zona è arida e fa molto caldo.
Saluto al Duce!»
Le braccia scattano veloci in aria, mentre il grido comune di
risposta risuona nel vasto piazzale.
14
«Cristo, ci mandano all’inferno!» bofonchia fra sé il ragazzo,
mentre Ernesto squadra con le mani ai fianchi il contorno
dei monti all’orizzonte, sognando un bersaglio per il mirino
del suo moschetto.
Alfredo corre in camerata per scrivere a Vincenzina una
lettera prima di partire. Da lassù sarà più difficile. Fatica a
trovare le parole giuste e a metterle in buon ordine sul
foglio di carta stropicciata che cava fuori dallo zaino. A metà
è costretto a scappare di corsa al bagno. Quella maledetta
acqua fetida…
15
II
Cesenatico, ottobre 2007.
L’acquazzone arriva all’improvviso.
“Doveva piovere stamattina, e invece si sta sfogando proprio
adesso, accidenti!”
Costernato, chiudo la telefonata e butto il cellulare sul
sedile accanto. Fra i tuoni e il picchiare della pioggia sulla
macchina non si sente più niente. La strada si sta
trasformando in una lucida lastra bagnata, ho davanti a me
un muro d’acqua che i tergicristalli faticano a smaltire. Poca
gente in giro, il vialone è quasi deserto. Tanti giorni ad
aspettare questo momento per vederselo affogare dentro a
un temporale. Le nuvole si sono chiuse e una nebbia
impalpabile prende il posto dell’orizzonte.
Sospiro, sarà per un’altra volta.
Una donna si stacca da un portone chiuso e s’avvia di corsa
fra la strada e le piante di lato, quasi piegata in due per
proteggersi. Il suo incedere incerto e caracollante sotto al
diluvio mi fa decidere di fermarmi. Arresto la macchina poco
oltre e scendo brandendo un ombrello, sfidando le sferzate
del vento che lo vogliono strappare via. Mi pento quasi
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subito: ho i piedi ammollo in dieci centimetri d’acqua, ma
ormai…
«Salga, le do un passaggio!»
Lo sguardo che sbuca fra i capelli appiccicati alla faccia non
è eloquente e grato come mi sarei aspettato, comunque si
affretta verso lo sportello incurante del mio ombrello, quasi
del tutto inutile di fronte alla furia degli elementi.
Mi accascio sul sedile, bofonchio qualcosa all’indirizzo di
una giornata sbagliata e del tempo impazzito. Mi giro verso
di lei, cercando una parola di circostanza e per chiederle un
indirizzo presso il quale separarsi velocemente.
Un essere informe sbuca da sotto le falde del pesante
giaccone, dipana braccia e gambe intirizzite e una lunga
treccia bagnata. Due occhi smarriti mi fissano mentre mi
allaccio la cintura di sicurezza, inzuppato dalla testa ai piedi.
Butto l’ombrello dietro e tiro il fiato.
«E tu, da dove sbuchi fuori, piccola?»
Mi sforzo di sorriderle. La bambina nasconde il volto contro
la spalla della madre, dove crede io non la possa vedere.
Avrà poco più di tre anni.
La donna si scosta i capelli dalla faccia. Ansima, inghiotte a
vuoto e trema vistosamente per lo sforzo.
«Tutto bene?»
Accendo il riscaldamento per togliere l’umidità dal vetro che
si sta appannando velocemente e per riscaldare le due
ospiti inattese. Le allungo una bottiglietta d’acqua, da cui
beve avidamente. Poco importa che io possa o no aver
tracannato direttamente, sta soffocando per la corsa.
17
A terra, banane e cartoni del latte fra i piedi intrecciati, la
spesa del sabato. Sposto tutto quanto dietro, cercando di
non rovinare niente. Non insisto con le domande, è molto
provata. Se ne sta con la testa di lato, gli occhi chiusi.
Respira col naso, lunghi sorsi d’aria per i polmoni martoriati
dalla fatica della corsa. Attorno, il temporale non accenna a
diminuire, a ogni lampo la bambina si stringe più forte.
Quando la donna riapre gli occhi nocciola, ora un poco più
distesi, le allungo dei fazzoletti di carta.
«Grazie, è stato davvero gentile…»
Passa e ripassa il fazzoletto sui capelli della bimba,
indifferente al fatto che lei pare appena uscita da un bagno
fuori programma. Ha i tratti ancora giovani ed è abbastanza
carina anche conciata così.
«Siete tutte bagnate. Abiti qui vicino?»
Un poco la osservo, un poco la ignoro. Mi fisso sulle
gambette irrequiete della piccola per non guardare le sue,
coperte appena da una gonna appiccicata di traverso.
Mormora rassegnata il nome di una via, nei pressi della
piazzetta delle Conserve. Mi avvio lentamente, la strada è
vuota. Oltrepasso il ponte sul canale e la piazza che si
allarga oltre di esso; anche se è dedicata a Pisacane, per
tutti è piazza Garibaldi, il cui busto guarda impettito i
bragozzi che ondeggiano alla fonda nel canale di fronte.
Piglio una traversa e sfilo una strada costellata da murales
scoloriti e zuppi d’acqua. Sorrido; ci sono ancora, dall’ultima
volta che sono stato qua.
«Davvero una disdetta, questo temporale, vero?»
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Non so che altro dirle, pochi minuti ancora e me ne torno a
casa. Mi metto in pigiama a guardare un bel film.
Una vocina scivola fra gli abiti bagnati della madre e giunge
flebile fino a me, imprevista.
«È lui, il mio papà, mamma?»
«Sssh! Fai la brava.»
Le carezza le spalle.
«Eravamo uscite per una passeggiata e per un poco di
spesa, poi è venuto giù il finimondo. Se non ti fossi
fermato…»
«È lui, il mio papà, mamma?» insiste la bimba, io mi sento a
metà fra disagio e un moto di tenerezza.
«No, non è lui, Arianna. Non insistere, ti prego. Fra poco
siamo a casa.»
Nasconde a sua volta il viso contro il suo, ma ormai siamo
arrivati. Mi indica il cancello di una palazzina. Fermo la
macchina nel piccolo piazzale. Non c’è né un terrazzo né
una pensilina sotto a cui farle scendere. Recupero
l’ombrello e mi preparo ad affrontare una seconda doccia
fuori programma.
«Non è necessario, aspetta…» attacca lei.
«La bambina…»
Ho già un piede fuori e l’ombrello s’inceppa, ma si riapre
appena giungo dalla sua parte. La piccola frigna, non vuole
lasciare l’abbraccio della madre, e lei non ce la fa a scendere
con quel fagotto appiccicato. Alla fine la ragazza accetta la
mia mano tesa, si gira di lato e mette i piedi a terra. Siamo
19
fuori, col vento che ci sbatte addosso una pioggia bastarda
e gelata.
Passi affrettati verso il portone, la chiave che non si trova
subito, istanti preziosi che ci regalano i primi tremori per il
freddo. Lei non fiata, annaspa nella borsa, nelle tasche, poi
la chiave appare e le cade di mano. La afferro e apro io.
Siamo dentro, la luce automatica rischiara un pavimento
anni sessanta e un ascensore dalle porte ammaccate. Una
scala s’inerpica lì accanto come un vilucchio su di una spirale
d’aria.
La ragazza chiama l’ascensore e io mi sento di troppo.
«Allora, ciao!»
Un buffetto sulla guancia alla piccola, che non mi toglie gli
occhi di dosso. La madre mi sorride, poi guarda i numeri
avvicinarsi al piano.
«Grazie davvero…»
Le porte si chiudono sul suo sguardo a terra e la portano
via, io col pensiero bloccato a realizzare quanto sia carina.
“Che pomeriggio assurdo” mi dico.
Torno sui miei passi. Dietro mi saluta lo sbatacchiare dei cavi
dell’ascensore, davanti mi accoglie il rumore crescente di
pioggia grossa.
“La spesa!”
L’ombrello grondante accanto al portone me l’ha fatta
tornare in mente. Oggi proprio non me ne va dritta una.
Raccolgo tutto quanto nella busta stracciata e mi ritrovo
nuovamente davanti all’ascensore, con un piano e un
campanello da indovinare.
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“Secondo piano…”
Il display è fermo su quel numero, che mi affretto a
raggiungere, poi è facile seguire la scia d’acqua fin sotto alla
porta che l’ha inghiottita.
Un tocco leggero sul campanello genera un ronzio
sommesso all’interno.
«Chi è?» mi scuote una voce aspra, apprensiva.
«Il garzone del latte!»
La battuta mi esce allegra, spontanea. La sento trafficare
con la catena, lunghi secondi impacciati, poi si apre uno
spiraglio e rivedo una fetta del suo viso.
«Accomodati…»
Spalanca l’uscio e si ritrae. Mi volta le spalle, un grande
asciugamano addosso mentre si friziona i capelli. Sparisce
oltre una porta.
«È papà?»
A quel richiamo lei risponde con un singhiozzo, soffocato
forse dall’incavo della mano. Mormora una risposta, ma non
la percepisco.
Chiudo la porta d’ingresso, ma non vuole essere un gesto
spavaldo, solo l’abitudine di chi vive in città, dove al giorno
d’oggi si perdonano poche distrazioni.
«La metto sul tavolo della cucina!»
Allineo le mele sul piano e raddrizzo il pack del latte. Le
banane si sono rovinate. Annuso per un attimo l’ordine e la
pulizia. Disegni incerti occhieggiano dalle pareti, dai pochi
mobili e dal frigorifero, appiccicati con nastro adesivo.
“Non c’è papà a guardarli, piccola, l’ho capito…”
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Mi appresto a uscire elegantemente di scena, giusto un
saluto fugace dall’uscio socchiuso, quando una voce mi
ferma mentre ho la mano già sulla maniglia.
«Dove pensi di andare, tutto bagnato?»
Mi porge un accappatoio, rassegnata.
«Mentre faccio la doccia ad Arianna, puoi indossare questo.
Mettiamo i tuoi abiti dieci minuti nell’asciugatrice, poi vai
via…»
La osservo mentre torna di là, scalza e la gonna ancora
appiccicata addosso.
Prima la bambina.
Jeans e felpa piegati alla bell’e meglio, le scarpe da tennis a
gocciolare sullo zerbino. Rimango con le calze zuppe e lo
slip umido, che tanto qualche peccatuccio ancora lo devo
scontare.
Il divano mi accoglie con un sospiro, la pioggia batte sui
vetri e sul tetto mansardato, la doccia picchietta, la bambina
pigola stranita. Mi sento scivolare da qualche parte lontano
da qui…
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III
Qualcosa s’è mosso nella mia testa, staccandomi dal sogno
e dal brivido per la sensazione di umido. Fuori sta ancora
piovendo, me lo dice il sordo rumore di fondo. Sbatto le
palpebre due o tre volte per cercare di smorzare la narcosi,
ritrovandomi in un soggiorno non mio. Istintivamente giro
la testa alla mia sinistra, scorgendo nella penombra due
occhi ammiccanti sul sorriso a labbra dischiuse.
«Russi…»
Lo dice quasi con rammarico.
«Sul serio?» protesto debolmente, a disagio.
«Dovresti farti vedere, russare è un disturbo che può dare
dei problemi. Io sono Laura. »
Se ne sta a gambe raccolte sulla poltrona di lato, lontana
quanto basta per mantenere una composta distanza. Veste
una calda tuta da ginnastica e spesse calzette di cotone.
«Forse hai ragione, sentirò col medico. Come sta Arianna?»
Allontano il discorso, ma lei non se ne accorge.
«Dorme, con la doccia s’è riscaldata. Che razza di temporale!
Prendiamo un tè?»
«Volentieri. Poi devo andare, è quasi sera.»
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Deve essere la nebbia, fuori è davvero tutto scuro,
attraverso le tendine tirate.
«Allora preparo. Se vuoi rivestirti, gli abiti sono asciutti, in
lavanderia. È quella con la porta a vetri.»
Sparisce nel piccolo cucinotto e la sento trafficare con
l’acqua e un bollitore. Noto che non ha acceso la luce. Il
piccolo bagno è occupato da box doccia, lavatrice e
asciugatrice impilate, nell’aria ancora una vaga essenza di
lei. Raccatto i vestiti piegati su uno stendino appeso al
soffitto. Sanno di una mano femminile. Sanno di buono.
Quando rientro c’è già la tavola apparecchiata per due,
zucchero di canna e due tazze di porcellana, biscotti e miele
d’acacia, morbido e color dell’oro.
«Che sbadato, io sono Emanuele.»
Ci stringiamo la mano, poi lei arrossisce violentemente. Si
ritrae, ponendosi a braccia conserte a sorvegliare l’acqua
nel bollitore, dandomi le spalle.
«Scusa, non volevo metterti in imbarazzo.»
Mi siedo nella penombra davanti a una tazza vuota, per
riguadagnare la distanza. Ci sentiamo entrambi fuori posto.
«È per questa assurda situazione, io in casa con uno
sconosciuto e…»
«Arianna non ha mai conosciuto suo padre?» le tolgo le
castagne dal fuoco.
Si volta verso di me, grata per avere abbattuto quel muro di
vergogna.
«Suo padre!»
Non mi sembra disprezzo, solo un cattivo ricordo.
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«Quando sono rimasta incinta, in principio sembrava
intenzionato a restare, diceva d’amarmi. Ci siamo sposati in
civile e in tutta fretta, perché il prete ha fatto un sacco di
storie, vista la mia condizione, i corsi pre‐matrimoniali da
fare e tutto il resto. Abbiamo trascorso sei mesi assieme, lui
sempre via con gli amici. Poi ho ricevuto una raccomandata
dal suo avvocato. Sono uscita dal suo studio con la mente
sconvolta e un assegno per il disturbo, così ha commentato.
In pratica mi ha liquidato come un dipendente diventato
scomodo. Ho preso l’assegno e cambiato città appena
conclusa la pratica di separazione, tagliando i ponti anche
con i miei genitori, che non avevano approvato la mia
scelta.»
Tace, le labbra strette per essersi lasciata sfuggire quello
sfogo con me. La guardo meglio, alla luce traversa della
finestra. I suoi occhi sono lucidi, ma mantengono la fierezza
delle proprie decisioni. Arianna è il suo frutto più prezioso e
l’ha difeso con le unghie e con i denti.
È bastato un guizzo del suo sguardo per capirlo.
«Dev’essere stata dura» la consolo.
Ora, con i capelli pettinati e la faccia rilassata, dimostra
molti meno anni di quando l’ho raccolta. La comoda tuta
non lascia presagire quasi niente del suo corpo. Mi soffermo
sulle unghie curate, la pelle morbida e un leggero profumo
che giunge delicato fino a me.
Mi sorprendo a fissarla con un certo interesse, poi un
pungolo acuminato mi attraversa lo stomaco e riporta a
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galla ricordi e rimorsi antichi, prendendosi l’ennesima
rivincita.
Sposto lo sguardo altrove, rassegnato.
Il fischio del bollitore ci fa trasalire, poi scoppiamo a ridere.
Lentamente, il dolore mi si smorza dentro e posso respirare.
Laura si avvicina e versa l’acqua nelle tazze. Osservo la
busta salire in superficie e un leggero fumo che sprigiona
l’aroma del tè. Lei torna e depone sul tavolo un piattino con
delle fettine di limone. Mentre si ritrae le afferro la mano,
con un gesto lentissimo che non ha la forza di evitare.
«Accendi la luce, Laura…»
Attimi di silenzio, appena il respiro e il tiepido calore fra le
nostre mani.
«Poi te ne andrai?» mormora indecisa.
«Solo se me lo chiedi…»
26
IV
Laura ha acceso la luce, poi mi ha chiesto di lasciarla sola,
visibilmente a disagio. Ho abbassato lo sguardo sulle tazze
fumanti e me ne sono andato, chiedendomi dove avessi
sbagliato. Me lo sto chiedendo ancora adesso.
«Allora, ciao» aveva detto.
Non mi era rimasto altro che assecondarla.
«Grazie di tutto…»
Aveva richiuso la porta in fretta, lasciandomi sul pianerottolo
buio in compagnia della puzza del piscio di gatto.
Ha smesso di piovere. Mi sono incamminato in mezzo alle
pozzanghere, con poca voglia di scansarle, lo sguardo fisso
oltre le nuvole.
Le mani in tasca, seguo il filo dei miei pensieri, cercando di
scacciare la confusione che ho in testa, come in un
ripostiglio troppo pieno. Cammino svelto, richiamato dal
lamento lontano della sirena sul molo. C’è nebbia e
qualcuno potrebbe essere ancora in mare. Sbaglio traversa
e mi ritrovo nei pressi del ponte, occhieggio le vele scolorite
dei vecchi barconi. Mancano un paio di mesi a Natale, fra
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poco esporranno i presepi di legno sulle tughe. Mi assale
l’odore salmastro dell’acqua marcia e molto alta, e io mi
sciolgo nella malinconia.
Accelero il passo verso la piazzetta della pescheria e vengo
sommerso da infiniti ricordi.
Ero qua per questo…
Mi avvicino incerto, spio la gente che esce con le borse
piene di pesce. Allungo il collo, una stretta galleria mi
risucchia e mi spalma di tenerezza a ogni passo. La via è
come la ricordavo, la vecchia casa di mio nonno l’hanno
ristrutturata da poco.
Sorrido compiaciuto.
Gli infissi nuovi sono colorati di un blu deciso che perfora la
nebbia che li carezza. Il terrazzo è stato coperto per
ricavarne un piccolo ambiente.
Quando volto le spalle a tutto quanto, l’insegna del
ristorante lì accanto, Il pirata, non mi dice più nulla.
Per me, sarà sempre Da Macafér…
Un vento teso sposta verso l’interno i banchi di nebbia, che
vanno e vengono come il ricordo di Laura e della bambina.
Non dovevo più tornare a Cesenatico, ma tutto è andato
storto nella mia vita e non ho trovato di meglio che venire
qua a leccarmi le ferite, inseguendo gli inutili ricordi di
quand’ero un bambino felice. Poco è cambiato, ma io non
mi ci ritrovo per queste vie che un tempo facevo di corsa,
poi questa nebbia confonde tutto in una sfocatura di sogno.
Lungo il marciapiede che costeggia il canale mi accorgo che
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il livello dell’acqua è davvero molto alto, arriva a lambire la
strada. Una lunga, nera onda di marea risale il flusso
sospinta dal vento. I pescherecci ondeggiano uno addosso
all’altro, ombre indistinte nella nebbia.
Eppure c’è qualcosa, in Laura, che mi attrae. La sua
determinazione, la sua fragile sicurezza. Tenere la luce
spenta, incoraggiare l’uomo a fare il primo passo, ad
avvicinarsi e accenderla.
Cacciarlo via.
Sospiro. Deve avere sofferto enormemente, l’ho intuito
dalla reazione che ha avuto alla richiesta di sua figlia,
quando ha chiesto del suo papà. Tanta delusione, tanto
sconforto su quel volto gentile.
E io, che avrei da offrirle? Cambio lavoro ogni sei mesi, che
alzarmi la mattina è una rottura. Piuttosto che ubbidire a
disposizioni di chi secondo me non vale nulla, preferisco
farmi cacciare. E poi mi conosco; le donne non le sopporto a
lungo, specie quando mi smaniano addosso.
Dell’ultima ho ancora l’odore nel naso, ed è nauseante
nonostante siano trascorsi più di otto mesi.
Della prima porto ancora i segni cuciti addosso…
No, non fa per me, per fortuna non è nemmeno iniziata.
La sirena ora suona più forte, là davanti a me.
Cerco con gli occhi il cemento del bunker tedesco, ma non
lo vedo. Poco oltre, attraverso stupito un lungo dosso che si
solleva davanti al faro della guardia costiera. Hanno rialzato
il marciapiede per impedire al mare di riprenderselo. Mi
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avvicino a quel suono sgraziato. Poco più in là il mare ha
avuto la sua rivincita; l’acqua ha superato la banchina e
invaso la sede stradale, seppure per le poche decine di
metri rimaste al vecchio livello. Qui il canale è immenso,
spazia dai capanni da pesca del lato opposto al muro che un
tempo racchiudeva i campi da tennis. Già, anche quelli non
ci sono più, mi rimane solo il ricordo dentro. Al loro posto, le
insegne dello Sloppy Joe’s, vaporose nella nebbia,
ammiccano sfoggiando il volto di Hemingway del murales e
promettono birra e un parco giochi per bambini. Sacchi di
sabbia impediscono che sia invaso dall’acqua.
Osservo preoccupato questo strano braccio di mare che mi
taglia la strada: attende e m’invita, una leggera onda che
lambisce sorniona il marciapiede. Conosco questi luoghi
come le mie tasche, ma osservo perplesso quest’acqua
limacciosa che m’insidia il calcagno, fa davvero paura. Sotto
a quel velo, ancora per metri attorno, c’è solido asfalto
prima della voragine del canale. So che è solo suggestione,
eppure percepisco dentro di me tutto il peso di quel
richiamo di abisso.
Inspiro l’aria salmastra, poco oltre risuona sordo il rimestare
della risacca sui flutti, distante pochi passi eppure
irraggiungibile. Devo prendere una decisione, davanti a me
mancano un paio di metri di marciapiede per passare
indenne dall’altra parte e devo decidere se posare il piede
nell’acqua oppure rinunciare.
Là in fondo, l’urlo del mare.
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Torno sui miei passi, il vento a soffiarmi nelle orecchie e a
scompigliare i capelli sul capo abbassato. Sibila, sussurra.
Sfida.
Piglio la rincorsa e volo oltre quel solco, approdando
dall’altro lato del marciapiede sulle assi poggiate di lato per
spianare i sacchi di sabbia. Non rallento, supero di slancio il
nuovo rialzo del molo senza nemmeno dare un’occhiata di
rimpianto al Gambero Rosso, il ristorante conficcato sulla
spiaggia sotto al quale ho seppellito tutta la mia illusione di
bambino durante le vacanze estive col nonno.
Ora siamo solo io e il mare.
L’odore di salsedine e pesce marcio riempie i polmoni,
mentre gli spruzzi già spazzano l’aria per le onde che
s’infrangono sui macigni di lato, sollevando una schiuma
sporca. Per fortuna la nebbia qui è molto fitta e mi risparmia
una vista completa sullo scempio che appare e scompare a
tratti, fra barriere frangiflutti e una bassa laguna moribonda
che anni fa non c’era. Meglio non vedere, meglio ricordare
la caccia ai pesci ago e alle stelle marine, in un tempo che
adesso mi pare non essere mai esistito, tanto è lontano.
La sirena è assordante, ancora pochi metri e la raggiungo. Il
vento spinge molto forte di lato, il mare gonfia e pare
strapparmi la terra da sotto ai piedi. La banchina trema,
sottoposta alla pressione del mare che penetra dentro alle
cavità sotterranee.
Sono arrivato alla punta estrema del molo, stordito dal
vento, dalla sirena incessante e dal fragore della risacca
sugli scogli.
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Davanti a me solo il mare, nascosto da un muro di nebbia
che confonde i pensieri e paralizza le decisioni.
Devo ritrarmi, ogni onda è una doccia, ogni folata uno
schiaffo al mio animo corrugato. Le mani in tasca, spio la
duna artificiale allungata lungo la spiaggia, a proteggere il
litorale. Pochi metri e sparisce alla vista.
Un volto di donna riaffiora alla mia mente, della mia donna,
e con esso dolorosi rimorsi. È tanto che m’insegue, che
chiede un prezzo per scomparire.
Ora, potrei pagarlo ora, basterebbe allungare un passo a
occhi chiusi oltre questo marciapiede spazzato dal vento…
Un lamento mi scuote dal turbine dei ricordi. Vacillo, ma è
solo un gabbiano che taglia l’aria sopra di me e porta nuova
pioggia, e non mio nonno che solca la sabbia bagnata con la
bicicletta cigolante, a cercare monete perse dai bagnanti…
Luci e ombre della memoria, nulla più.
Mestamente, riguadagno il paese.
FINE ANTEPRIMA
Continua...