“Dalla sua parte” di Isabella Borghese

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Èchos16

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Collana “Èchos” - volume 16

In copertina: Malìa - © Cristina Martone

Progetto graico: Livresse

Realizzazione graica: Martina Pansini

© 2013 Edizioni Ensemble, Roma

© Ass. cult. EdizioniEnsemble

I edizione Febbraio 2013

ISBN 978-88-97639-61-9

www.edizioniensemble.com

[email protected]

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Dalla sua parteIsabella Borghese

Edizioni Ensemble

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A Marion e ad Achille,che negli anni mi hanno insegnato a riconoscere l’amore quando

sembra odio e invece è solo nascosto sotto la rabbia.

Alla solitudine e alla paura,perché diventino per tutti spazio di riflessione

dove scoprire risorse per vivere, cercare e lottare.

La verità è che ci sono momenti nella storia, momenti come quello che stiamo vivendo, in cui tutto quel che

impedisce all’uomo di abbandonarsi alla disperazione, tutto ciò che gli permette di avere una fede

e continuare a vivere, ha bisogno di un nascondiglio, un rifugio. Talvolta questo rifugio è solo una canzone,

una poesia, una musica, un libro. Vorrei che il mio libro fosse uno di questi rifugi e che alla fine della guerra,

gli uomini ritrovassero intatti i loro valori e capissero che, se hanno potuto forzarci a vivere come bestie,

non hanno potuto costringerci a disperare. Non esiste un’arte disperata: la disperazione

è solo una mancanza di talento [...].Romain Gary, Educazione europea

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Ventiquattro dicembre

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Anche ricordare il male può essere un piacere

quando il male è mescolato non dico al bene

ma al vario, al mutevole, al movimentato,

insomma a quello che posso pure chiamare il bene

e che è il piacere di vedere le cose a distanza

e di raccontarle come ciò che è passato.

Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore

Ci sono giorni in cui vorrei abbandonarmi a ciò che vedo erestare sospesa ad ascoltare tutto quello che vive e mi parla di sé.

Inserisco la chiave nella toppa sul muro e resto a origliare ilrumore della saracinesca, diretta e decisa alla conquista del suometro e mezzo di asfalto.

I clienti sotto Natale invadono quei pochi metri quadri coni personali entusiasmi natalizi e la smania, più simile a un’osses-sione, di riempire borsette e sacchetti.

È il ventiquattro dicembre, un tardo pomeriggio di sole chesi è assopito e sono tutti concentrati negli acquisti dell’ultimomomento.

Io lavoro da un anno in questa minuscola bottega artigiana-le. Dipingo astratti su tele con olio e rifinisco dettagli e partico-lari con porporina colorata.

Creo collane e ninnoli trasformando il das e impreziosendo-lo con elementi ornamentali secondo le idee rifinite, le ispirazio-ni del momento o le preferenze di chi le commissiona.

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La sciarpa che mi avvolge mi consegna calore e protezione. Mi affida all’abbandono. La mancina, la mano appesa alla chiave e chiazzata di mac-

chie rosa, mi ricorda che il freddo, nella mia vita, è una condi-zione climatica e mentale da cui vorrei prendere distanze nette.

Lancio un’occhiata agli altri negozi della strada. Fin dove il mio sguardo arriva, ruba e prende tutto. A Natale tutti i negozianti vivono nell’impazienza di pro-

nunciare il loro arrivederci al lavoro. Basta questo e mi accorgo che nel tratto di via che la mia vi-

sta riesce a intrappolare sono già quasi tutti a casa. Tutti i negozi sono chiusi, tranne l’enoteca del signor Tiziano. Riconosco gli uomini che ogni giorno si parcheggiano qual-

che oretta lì fuori, passo sempre davanti a loro dopo aver chiusola bottega.

Uno è un rumeno. E non so se è un caso ritrovarlo in silenzioogni volta o se piuttosto è un tipo davvero taciturno, tutto silen-zio e vino.

Un altro è il signor Cappello, mi piace chiamarlo così. Indossa un copricapo che a fatica permette di vedere il colore

e la forma degli occhi. Maschera il viso con dei baffi curiosi. Straparla e ride anche.

Dev’essere uno che si diverte da solo. L’ultimo è il più anziano, invece. Il signor Tiziano mi raccon-

ta spesso che la moglie del vecchio è un personaggio strano. Ilpomeriggio per abbandonarsi alla sua libertà finge di impegnarsinella spesa, di doversi dedicare alla casa e il marito lo parcheggialì, su una sedia, proprio accanto all’entrata.

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Nessuno l’ha mai vista rincasare con gli acquisti. Lui, assicura il signor Tiziano, si diverte lo stesso e se fa fred-

do è anche più contento. Una scusa in più per riscaldarsi colrum.

È l’Uomo che ha il rum per bastone, l’ho soprannominato così.Ogni volta il Rumeno, il signor Cappello e l’Uomo che ha il

rum per bastone, come una combriccola, restano catturati da vi-no e liquori, come se il bere fosse un vero lavoro.

Io li incontro tra il freddo e le piante del signor Tiziano e l’al-bero che vive lì davanti. Quando chiudo la bottega non sgusciomai in mezzo a loro per paura di interrompere le chiacchiere eper non attraversare il loro singolare ritrovarsi.

Oggi però li osservo incuriosita e mentre la saracinesca sbattela chiusura con l’ultimo secco trambusto dell’incontro col cemen-to, penso che in fondo nessuno dei tre ha fretta di questa vigilia.

Proprio come me che, poco fa, me ne stavo attaccata alla chia-ve con la mano sinistra. Il signor Tiziano è davvero sorprendente.

Appena mi vede capisco che deve aver incontrato i mieipensieri.

− Francesca − mi dice − auguri! Loro non hanno Natale dafesteggiare. Sono soli. Gli farò compagnia fino all’ultimo, poiquando mi chiamerà mia moglie me ne andrò.

Io so rispondergli solo con un sorriso morbido e accogliente. Nelle parole e nel fare di lui riconosco l’educazione e la deli-

catezza che attribuisco a un uomo d’altri tempi. Confermo poi la sensazione che mi coglie ogni volta che mi

affaccio tra quelle mura per acquistare il solito vino sfuso: l’eno-teca del signor Tiziano è un posto magico.

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La luce è flebile. Arriva da un vecchio lampadario di vetro,fatto di polvere e ombre.

Tiziano lo trovo seduto dietro alla sua scrivania con un basconero in testa. Accanto alla cassa, visibile in un modello anni Ot-tanta, c’è una vecchia radiolina Philips.

L’antenna oggi vive con un elastico giallo e ben attorcigliatoche la tiene unita in un pezzo unico.

La musica che Tiziano lascia passare appartiene a una stazio-ne che rianima quella italiana e leggera dei Sessanta e Settanta,gli anni che richiamano la sua giovinezza.

Se poi spegne la radio è solo per dar voce e immagini a unquattordici pollici che occupa lo scaffale più alto, posto di frontea lui, in origine destinato a vini e liquori.

Una bic blu dà colore alle lettere che incasella nei giochi dellasettimana enigmistica che lo intrattengono nei momenti di vuoto.

Le bottiglie sono tutte sistemate tra gli scaffali. La vetrinamantiene gli addobbi natalizi per tutto l’anno, il cordone di luciplastificato, qualche grappa barricata, un Porto, delle bottiglie inminiatura da collezione, calici per il bianco… lì ogni pezzo sem-bra collocato alla meno peggio. La polvere che di tanto in tantocampeggia sugli scaffali non dà alcun fastidio.

Una vetrina pulita, sì, ma poco curata. Questo Vini e Liquori, che è anche un pavimento di mo-

quette verde, non fa rumore e non ha niente di moderno e dinuovo.

Decido di acquistare il solito vino sfuso, due rossi e un bianco. Saluto il proprietario, ci stringiamo anche le destre recipro-

che in un chiaro gesto di piacere e simpatia.

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Dev’essere il nostro “buone feste” lasciato a una stretta dimano e non alla voce delle solite parole. Per un attimo penso almio bar, che è proprio lì vicino, ma è chiuso per ferie. Lì dentroi cornetti della colazione profumano di casa e i cappuccini chemi riscaldano sprigionano un calore familiare.

Poi esco dall’enoteca e per la prima volta sorrido al Rumeno,al signor Cappello e all’Uomo che ha il rum per bastone.

Inciampo in questo saluto fatto di istinto in cui non crede-rebbe nessuno dei tre.

Ma di questo breve attimo durato un sorriso non se ne ac-corge nessuno.

Non è vero che a Natale siamo più buoni. Buono è un aggettivo che inganna. A Natale siamo più distratti.

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Mi dirigo verso casa e per questo sorriso non colto mi sento unfantasma. Dovrò prepararmi per il pranzo di domani, in famiglia.

Ci saranno tutti: mia madre, che mi piace chiamare Lina. Mio padre. Abbraccerò Tommaso, mio fratello. Bacerò Emma, la sorella più piccola. Appena giro l’angolo avvisto il mio balcone fatto di basilico

che tornerà con la stagione calda, una pianta di limone e dueortensie.

Sono splendide e generose quando colorano il mio terrazzi-no di rosa e di azzurro. So che da dove mi trovo per raggiungerel’ingresso del palazzo impiegherei il tempo di scartare e mangia-re una Rossana.

Mi fermo un momento, ma per quanto io possa rovistarenella mia borsa, devo arrendermi all’idea di averle finite.

Se non mangio caramelle un momento come questo potreb-be trasformarsi nel tempo in cui i miei passi riescono ad andareda soli mentre i miei pensieri si imbattono in altro per affac-ciarsi altrove.

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Altrove nella mia vita esiste in un padre che è amore e odio,rabbia e tenerezza.

In una madre mai conosciuta amica. E mi basta soffermarmisu questo per intuire che oggi, il Natale, i rumori, i colori, i pro-fumi, le cose che vedo e che sento, hanno già sfumature differenti.

La differenza di questo da tutti i Natali della mia vita è chenon vivo più nella casa di famiglia.

Da quando mi sono trasferita qui non ho mai percepito il bi-sogno o anche solo la voglia di trascorrere neanche una notte trale pareti di quell’abitazione.

Oggi ricordo gli anni in cui erano bianche ma non posso farea meno di rievocare il momento in cui sono andata via.

Le ho qui davanti ai miei occhi, ormai ingrigite da tristezza,ma soprattutto da anni di fumo ossessivo e dalla disperazione diuna vita sulle altre.

Mio padre è la disperazione. La malattia di mio padre, una depressione bipolare con sfo-

ghi fobico ossessivi, è la mia condanna. Mi veste da anni e mi fabrutta.

Mio padre è l’amore morboso e quello insano. Insegna larabbia e l’odio. È cercarlo per le strade che ha detto di voler per-correre, rabbioso e ubriaco, per ammazzarsi, forse gettandosi daun ponte. Ma è anche il non riuscire a trovarlo.

È scovare dal primo piano la testa di lui mentre si affaccia dalpianerottolo del quinto e il suo capo è lì, come fosse sospeso, nelsilenzio, a fissare il vuoto.

Ed è salire ogni gradino cercando di non coprire il suo mu-tismo improvviso con alcun rumore, per raggiungerlo e riportar-

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lo in casa e sperare per ogni battito di cuore di non vederlo vo-lare giù nel frattempo. Come succede nei film.

La bipolarità di un padre è un coltello lanciato nel vuoto maverso di te che ne sei la figlia.

Mio padre è pianti convulsi e disperati, si getta addosso, gri-da di avere pietà di lui per concedergli il tuo corpo, come se ag-grapparsi ad esso potesse riportarlo alla serenità.

Mia madre invece è la donna che con l’età della consapevo-lezza ho scelto sempre di chiamare Lina, perché mi piace. E Li-na, sì, perché crescendo ho anche creduto che “mamma o ma-dre” fossero di un’intimità che non eravamo in grado di potercipermettere. Non ancora.

Mia madre è la moglie di mio padre. È il sacrificio che l’haallontanata dalla sua stessa vita, quella di donna.

È la forza che la spinge sempre a sostenere mio padre, ancheoltre ogni più umana comprensione. Mia madre è la mattina,quando si sveglia per chiamare mio padre, è il pranzo per la spesache preferisce mio padre. È il silenzio quando mio padre nonvuole sentire voci, è la voce quando lui vuole che lei parli. Sonole cure umane e farmacologiche per mio padre. La cena per lui.La buonanotte per accompagnarlo nel suo letto.

È la sua ombra quando non vuole o non può essere la suaguida. È colei che lo protegge.

Mia madre allora dev’essere anche quello che non ho.Mia madre è l’assenza nella mia vita e l’ossessione in quella

di mio padre. Lina, con il suo nome e il suo essere madre amorevole ma di-

stratta è sempre la mancanza di volontà di contrastare suo ma-rito. Mio padre.

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È così che dev’essersi scordata poi di essere prima di tuttouna donna e anche una mamma. E io poi dietro di lei mi sonodimenticata di essere figlia.

E sono scappata sempre. In casa non ho parlato mai. Al limite strillato. Non ho mangiato. Non ho dormito. Ho bighellonato fuori

fino all’alba. Ho lasciato notti intere il mio corpo stremato incerca di sonno nelle mille case che ho fatto mie. O mi sono col-pevolizzata ed è stato così facile punirmi. Ho scontrato a ripe-tizione la testa sul muro. Mi sono morsa le braccia finché nonarrivasse qualcuno a prendersi la briga di fermarmi.

Tommaso, il fratello diamante in questo è stato molto bravo. Ha conosciuto modi e parole adatte. Ma se non c’era lui ho aspettato di vedere un segno visibile

di questo farmi del male. Una goccia di sangue e un pianto esasperato mi hanno ogni

volta riconsegnato alla lucidità.Mio padre, senza saperlo, mi ha insegnato a chiamare il 118

con freddezza, per chiedere aiuto. Poi piangere, sì, perché può essere necessaria una telefonata,

parla la ragione, ma fa sentire figlia crudele digitare quei male-detti tre numeri, lo grida il cuore.

E poi la rabbia negli anni diventa anche lo struggimento dinon vederlo per giorni quando resta chiuso a piangere nel letto.

Serrande abbassate. Pigiama e ciabatte come abiti quotidiani. Il naso sporco e a tirar su. La voglia di vivere che non lo fa

parlare mai quanto la voglia di morire. La necessità di doverlo accompagnare e lasciare in clinica.

Anche per due mesi. Più volte l’anno.

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Di non sentire più in casa le sue ossessioni che si fanno paroleripetitive. Richieste. Richieste. Richieste.

Come i bambini che non sanno quando devono fermarsi. Lo struggimento di sapere che mentre tu cerchi di ricostruire la

tua vita, lui si sta disperando da solo in qualche angolo della clinica. La lontananza nella malattia sa trasformarsi in un vero peso. È in quell’istante che la rabbia e l’odio scivolano via. Il distac-

co consente di razionalizzare. Ho visto poi davanti ai miei occhi un padre malato e basta. E mi sono scontrata con nuove sensazioni: l’impossibilità di

non poter far nulla per lui non mi ha mai donato sollievo né con-solazione, ma ho imparato a giustificare i suoi comportamenti e idolori che mi ha procurato.

Sono arrivata a convincermi che non è vero che non mi abbiamai voluto bene.

A un certo punto della mia vita tutti i dolori e le sfumature dimalessere provocati dalla sua li ho consegnati, uno a uno, alla ma-lattia. Non al suo non amarmi. Ci ho impiegato almeno dieci an-ni a liberarmi da questo peso non indifferente.

Mia madre è una donna che come lei non ne ho conosciutealtre.

Si è dimenticata di me per anni almeno quanto di se stessa, delsuo essere donna, forte e bella e dagli occhi color del mare. Perquesto devo amarlo così tanto.

Lei non ha mai saputo scordare l’amore che la unisce a que-st’uomo. Non ha potuto abbandonarlo. Mai. La sua assenza nellamia vita è stata un gran peso. Eppure per scoprirlo sono dovutaandare via di casa.

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Il giorno che stavo per spaccarmi la testa su uno specchio misono ritrovata a cercare lo psichiatra di mio padre.

Dev’essere stato un momento in cui mi sono sentita a un bi-vio: lasciarmi andare o concedermi alla mia vita e basta.

Per questo ho chiesto un incontro con lui. E per la paura di volermi punire e farmi male senza fermarmi

mai. Quel giorno lo psichiatra mi ha detto con forza: “Ti lascio

due settimane di tempo per andare via”. Con un piglio di rabbiaper ridestarmi alla vita mi ha accusato anche di narcisismo.

La lucidità mi ha aiutata a capire che con le sue parole ha vo-luto regalarmi un’arma di salvezza, lasciare quella casa e andar-mene altrove. Subito.

Aspettare è un verbo che in quella circostanza non mi è ap-partenuto.

È così che nel giro di una settimana sono venuta qui, nellamia casa di oggi. Da allora non ho più dormito dai miei.

Mentre raggiungo il mio palazzo mi viene in mente che do-mani, per la prima volta da quando sono fuggita via, mi fermeròa dormire da Lina e mio padre per godermi Tommaso e Emma.

Pensare di trascorrere un’intera giornata con i miei fratelli,come ai vecchi tempi, prima che Tommaso scegliesse la sua nuo-va casa dopo che a me è stato imposto questo trasferimento, mitrasmette una sensazione di serenità magnifica.

Il Natale non l’ho mai gradito molto. Per anni mi sono detta che il Minias sarebbe potuto essere la

giusta soluzione, per far scorrere questa festa come fosse invisi-bile; il Minias, l’Halcion, il Roipnol, li ho sempre avuti così a

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portata di mano in casa che sarebbe stato semplice ricorrere a lo-ro. E la facilità non è un sostantivo che ha camminato con me.

Non conosco il suo incedere.

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