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Tesi in
LA DANZA GIRAFFA COME PRATICA DI VITA E DI
BENESSERE PER IL CAREGIVER FAMILIARE
Presentata da: Relatore: Valeria Pruzzi Catherine Le Gallais
2 Ottobre 2015
1
INDICE INTRODUZIONE pag. 3
1. IL CARE FAMILIARE pag. 5
Prendersi cura: definizione pag. 5
Il caregiver come attore di relazioni familiari che cambiano pag. 8
Il care familiare con pazienti affetti da demenza pag. 11
Le parole per dirlo… storie social e vocabolario dell’ambivalenza pag. 13
2. RISCHI DEL CAREGIVING FAMILIARE; BURNOUT, SENSI DI COLPA
ED IL CIRCOLO VIZIOSO DELLA DOPPIA VULNERABILITÀ pag. 16
Caregiving burden; indicatori di qualità di vita per un caregiver
familiare pag. 16
Rischi del burnout sulle dinamiche famigliari e sulla qualità
dell’assistenza pag. 18
Il senso di colpa nel caregiving; tenuta ad oltranza del legame
familiare e tunnel della doppia/tripla lealtà pag. 20
3. LA CNV ED IL LINGUAGGIO GIRAFFA COME PRATICA DI VITA
E DI BENESSERE PER IL CAREGIVER FAMILIARE.
AUTOEMPATIA ED EMPATIA pag. 23
Accogliere la propria vulnerabilità per aprire le porte
alle connessioni; la CNV come modello di intervento pag. 23
La danza giraffa come pratica di benessere per sé e per il
familiare assistito; darsi empatia e dare empatia al proprio caro pag. 28
Una famiglia in noi: fare pace “dentro” con l’I.F.S. Model
(Internal Family System) pag. 32
CNV e superamento dei sensi di colpa per una progettualità vitale pag. 33
4. PERCORSI CONDIVISI DI EMPOWERMENT E RESILIENZA.
GRUPPI DI MUTUO-AIUTO CNV IN PRESENZA E VIRTUALI pag. 36
Dinamiche dell’automutuo aiuto tradizionale e social pag. 36
Manuale pratico per l’attivazione e la facilitazione di gruppi
di mutuo aiuto caregivers basati sulla CNV pag. 38
Schede operative pag. 40
5. CONCLUSIONI pag. 48
6. BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA pag. 50
2
A mia madre e a mio padre che senza volerlo mi hanno accompagnato
sulla strada della consapevolezza, a mio marito e ai miei figli, attori
benevolenti di questo cammino.
3
INTRODUZIONE
“Avevo passato una giornata faticosa tra lavoro, figli e pulizie di casa. Dopo cena, la badante mi ha chiamato…. Ho lasciato la tavola apparecchiata e sono andata di corsa a dare altri calmanti a mio padre in preda alla sua agitazione serale. Mia madre testarda non spezzava bene la pastiglia ma non voleva
far fare alla badante… accettava questa “perdita di ruolo” solo se lo facevo io... Sono tornata a casa alle 23 e i miei figli già dormivano…Mi sentivo impotente, triste e stanca… Quella notte ho detto a mio marito che lo invidiavo perché i suoi genitori erano morti ed erano in un luogo in cui stavano bene. Poi ho pensato che sarei stata punita per questo e ho pianto con la faccia nel cuscino”. Una caregiver figlia
Questo lavoro nasce da un’esperienza personale, quella che ho vissuto
accanto a mia madre, che ha accudito e sta accudendo mio padre
affetto da decadimento cognitivo.
L’esperienza emozionale è stata ed è intensa, così intensa da avermi
condotto al percorso formativo come Operatore Olistico presso il Centro
Esserci di Reggio Emilia il cui termine - o il cui inizio - è rappresentato
da questa tesi.
Mi sono domandata più volte come poter alleviare il peso avvertito da
mia madre ed il mio non solo per noi stesse ma soprattutto per essere
delle consapevoli e “sufficientemente buone” caregivers per mio padre.
Ho intuito che la CNV avrebbe potuto renderci la vita più bella. Così è
stato e per questo desidero raccontarlo.
Io mi ritengo una caregiver di 2° livello, perché non vivo con mio padre,
ma accompagno mia madre in questo percorso e spesso penso che, a 7
anni dalla diagnosi, la persona più fragile sia lei.
Non tutto può essere compreso dal di fuori, ma chi ha solo
lontanamente sfiorato una demenza senile od un Alzheimer intuisce
tutto il peso di un percorso familiare che inizia silenzioso e silenzioso
procede fino a quando, un giorno o una notte, guardi il tuo caro, ti
domandi cosa stia accadendo, se ce la farai ad andare avanti e come.
4
Pur ammettendo, data la complessità del problema, una certa
impotenza nei confronti di un obiettivo quale la formulazione di metodi
di “caregiving” familiare ad impatto emotivo e fisico 0, la CNV mi fa
credere che possa esistere un “modo migliore” per aiutare chi si prende
cura ad affrontare un’assistenza consapevole e rispettosa sia del malato
che di sé stessi.
Un affiancamento ed un sostegno a tutti i familiari con caratteristiche di
particolare fragilità (sovente il caregiver è anziano o è solo o vive una
vita in bilico tra due famiglie, quella di origine e quella nuova) e non,
possono essere un ottimo strumento di “caregiving-life balance”.
La CNV, se integrata nel faticoso cammino di chi si prende cura della
fragilità altrui, ha a mio parere una grande potenzialità perché
rappresenta il territorio della connessione, della comprensione e del
rispetto dei reciproci bisogni.
Questo lavoro ha dunque lo scopo di affrontare il tema del care nella
sua dimensione informale/familiare con una particolare attenzione al
legame di cura rivolto al familiare, molto spesso anziano, colpito da
decadimento cognitivo. L’attenzione sarà dunque posta in quel delicato
e vischioso territorio nel quale l’intreccio tra malattia, legame affettivo,
cambiamento e aspettative disattese, scatena fenomeni di cortocircuito
relazionale; l’ambizione è quella di fornire spunti di riflessione per la
progettazione di percorsi di cura di sé, di empowerment ed
armonicamente di benessere per il proprio caro.
5
CAP. 1
IL CARE FAMILIARE
Prendersi cura: definizione
Ogni essere umano fin dalla nascita sperimenta la necessità di cure sia
nella sua dimensione fisica che in quella psichica.
La cura, data e ricevuta, intesa come interessamento solerte all’altro e
ai suoi bisogni, ha dunque a che vedere con il genere umano e con la
sua esistenza in un setting relazionale nel quale esercitare pensiero,
linguaggio, emozionalità.
Il care familiare informale su cui questo lavoro intende focalizzarsi ha a
che vedere con quella dimensione della relazione di interessamento e
aiuto che si sviluppa all’interno del nucleo famiglia quando interviene
per uno dei componenti un fattore di sofferenza accolto e gestito nella
famiglia stessa seppur in affiancamento a personale sanitario.
L’attenzione inoltre sarà diretta sulle criticità del caring pur ricordando
quanto il caring stesso risponda ad un’esigenza non solo etica e
compassionevole ma anche nutriente, di presa in carico affettuosa delle
sofferenze di un familiare.
Per una comprensione piena del fenomeno è importante in primo luogo
rifarsi alla distinzione tra curare e prendersi cura, azioni nelle quali, pur
coesistendo la centratura sul malato, differenti sono gli obiettivi
dell’agire stesso e la nuance emotiva sullo sfondo.
La parola cura ed il verbo curare (in inglese to cure) si riferiscono alla
rimozione della causa di un disturbo o di una malattia e ci collegano a
pieno titolo a quel complesso di interventi terapeutici professionali,
operati da personale medico, paramedico e socio assistenziale (OSS,
ASA), che hanno come scopo il ripristino dello stato di salute precedente
l’insorgere della patologia od il mantenimento di uno stato di benessere
compatibile con la vita.
6
Prendersi cura (in inglese to care) è invece un’espressione che, pur non
escludendo preparazione e competenza professionale, indica assistenza
fisico/sociale e coinvolgimento empatico, compassionevole (cum patire,
ovvero patire con), premuroso e incoraggiante verso chi è portatore di
sofferenza.
Se dunque nel processo curativo to cure focalizzato sul “far stare
meglio” tramite l’utilizzo di mezzi terapeutici, l’accezione centrale della
cura è quella dell’occuparsi1 pratico della persona sofferente o debole
anche senza un coinvolgimento soggettivo (curare come insieme di
azioni e mansioni), nel processo curativo to care l’accezione centrale è
quella del preoccuparsi amorevole, accezione intesa come spinta a
prendere a cuore il ben-esistere olistico dell’altro. In tal senso l’altro
entra nel mondo di chi cura sia sul piano del pensiero e dell’operatività
(problem solving di cura) sia sul piano emotivo per l’evidente
coinvolgimento affettivo.
Nell’organizzazione assistenziale italiana i titolari dell’azione del
“prendersi cura” familiare informale hanno una valenza sociale e di
welfare strategica.
L’invecchiamento della popolazione, l’aumento dell’aspettativa di vita di
chi è affetto da malattie croniche e degenerative per effetto dei
progressi della scienza, il pesante taglio alle spese sanitarie e la
diminuzione generalizzata dei giorni di ospedalizzazione, hanno
drasticamente aumentato il long-term care all’interno delle famiglie.
In Italia, più che in altri paesi europei, in assenza di un welfare
adeguato e coerente rispetto ai bisogni evidenziati, la delega
dell’assistenza alle famiglie diventa dunque ricorrente seppur non
omogenea nei diversi contesti regionali. I numeri del fenomeno nel
nostro paese sono indicativi; la percentuale di persone con disabilità
non coperte da cure istituzionali o da assistenza domiciliare risulta
1 Maria Teresa Partelli, I verbi della cura - Ripensare la cura attraverso la voce degli operatori - Facoltà di
medicina e Chirurgia degli Università degli Sudi di Parma, Facoltà di Infermieristica - a.a 2005/2006.
7
essere la più alta d’Europa e ciò spiegherebbe la presenza di circa 4
milioni di familiari che per scelta o costrizione (reddito non sufficiente
per ricovero in strutture o per avere un aiuto formale) si occupano a
tempo pieno di persone in condizioni di non autosufficienza2.
L’assenza di un’adeguata protezione sociale per questa fetta di
popolazione penalizzata per il mancato guadagno (spesso chi si occupa
di assistenza deve lasciare il lavoro), per l’isolamento e per le
ripercussioni sullo stato di salute, è divenuta talmente grave da essere
proposta come oggetto di un’interrogazione parlamentare europea da
parte del Coordinamento nazionale dei famigliari di disabili gravi e
gravissimi. Presentata il 6 gennaio del 2015, ha dato adito ad una
risposta3, pervenuta nello scorso maggio, che non ha che confermato
una cornice di riferimento comunitaria cui l’Italia sta faticosamente
cercando di armonizzarsi (esemplare in senso positivo la deliberazione
legislativa della Regione Emilia Romagna n. 87 del 25/03/2014 “Norme
per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare”)4.
La lingua italiana non contempla un sostantivo che definisca chi nel suo
quotidiano si prende cura di un familiare.
Per questo motivo il titolare del labour of care familiare viene ormai
comunemente definito anche in Italia, e dunque anche in questo lavoro,
caregiver prendendo a prestito il sostantivo dal contesto linguistico
anglosassone.
2 Dati ricavati dall’interrogazione parlamentare di cui alla nota 3. Rispetto ai malati di Alzheimer l’indagine
Censis-AIMA, 1999 e 2006 il documento di sintesi riporta dati attestanti il fatto che i caregivers sono
soprattutto parenti di genere femminile (76,6% contro il 23,4% di uomini). Sarebbero le mogli ad occuparsi
dei pazienti uomini, mentre sarebbero le figlie a seguire le madri malate.
3 Interrogazione al Parlamento Europeo presentata il 6 gennaio 2015. La risposta di Marianne Thyssen
formulata nel maggio dello stesso anno, ha richiamato il governo italiano e gli stati membri a prestare
assistenza a lungo termine e riconoscere l'operato di chi svolge tale attività in ambito familiare. Fornendo
informazioni comparative e indicazioni strategiche la Commissione sostiene gli Stati membri nei loro sforzi
affinché possano realizzare tali obiettivi. La Relazione CE/OCSE «Help Wanted? - Providing and Paying for
Long-Term Care comprende capitoli sulle ripercussioni che l'assistenza ha su chi la presta in ambito
familiare e sulle politiche nazionali di sostegno a loro favore (ad esempio, congedi e organizzazione del
lavoro, sostegno finanziario).
4 La Legge 328/2000ha aperto uno spazio di valorizzazione delle famiglie affidando alle Regioni il compito di
preparare il piano regionale delle politiche sociali e ai Comuni quello di organizzare ed erogare servizi
direttamente o affidandoli a soggetti del privato.
8
In conclusione dunque “prendersi cura” significa occuparsi di un
familiare in modo amorevole. Questo significa pensare con affetto a
compiti quali “pulizia, igiene, alimentazione, aiuto per coricarsi e poi
uscire dal letto, medicazioni, somministrazione di farmaci o iniezioni,
applicazione di cateteri, cambio di biancheria in caso di incontinenza,
assistenza nelle pratiche burocratiche e nella gestione degli affari
personali, compresa quella del denaro, accordi e relazioni con i servizi
sociali e sanitari e con gli operatori professionali, trasporti e gestione
delle faccende domestiche5”. Ma se è vero che quando siamo in contesti
familiari che rispondono ai nostri bisogni di relazione si riceve una forza
“che ci rende più sicuri nel fronteggiare il mondo”6, è altrettanto vero
che laddove esiste un sofferenza aggravata dal decadimento cognitivo –
e quindi dalla perdita parziale o totale della memoria dell’ IO/persona e
quindi del NOI/famiglia - questa forza talvolta sembra sparire lasciando
spazio a battaglie, malesseri, incomprensioni e conflitti. La famiglia
come luogo di realizzazione di sogni e di risposta a bisogni di affetto, di
amore, di comprensione e di accoglienza, può a tratti dunque diventare
per un caregiver un luogo da cui fuggire per il carico di fatica fisica ed
emotiva correlato. La figura del caregiver familiare non va dunque in
alcun modo sottovalutata, perché se sofferente per il peso della cura
e/o perché investita da sentimenti eccessivi di inadeguatezza, invece di
risultare una risorsa preziosa, può divenire nella sua silenziosa ma
tragica sofferenza un’ulteriore aggravante in un contesto di per sé già
difficile.
Il caregiver, un attore di relazioni familiari che cambiano
Il caregiver è al centro di un complesso setting relazionale e quindi
comunicativo caratterizzato da dinamiche molto intense dal punto di
vista emotivo e contenutistico. Nel corso di una stessa giornata il
5 Marian Barnes, Storie di cargiver - Il senso della cura, ed. Erikson, 2006 - pag. 18
6 Marshall Rosenberg, In famiglia quale comunicazione- Esserci Edizioni, 2009, pag. 14
9
caregiver è chiamato ad interfacciarsi, oltre che con il familiare malato,
con altri componenti del nucleo familiare conviventi e non, con eventuali
caregivers formali (badanti e/o personale socio-assistenziale affiancato
alla famiglia nel caso per es. di utilizzo di voucher regionali), con i
medici.
Farsi carico della fragilità e della dipendenza di un membro della
famiglia significa acquisire talvolta improvvisamente ed in un’età
avanzata, nuove conoscenze (caratteristiche della patologia ed
implicazioni sulle abitudini di vita, codice comunicativo
medico/farmacologia, burocrazia di contorno) nuove abilità pratiche
(es.: movimentazione del malato, utilizzo di supporti quali sedie a
rotelle, elevatori, operazioni di igiene quotidiana..) ed un nuovo “saper
essere” ovvero un nuovo modo di “essere” nelle relazioni familiari.
Il semplice fatto che ad un certo punto della vita l’intreccio relazionale
familiare inizi ad avere sullo sfondo aspetti di malattia, sofferenza e
paura della perdita di un proprio caro, implica un’impasse ed una
necessità di cambiamento che può condurre il caregiver verso
un’evoluzione armonica, benevolente e generosa dei rapporti familiari o
verso allontanamenti, rotture, separazioni.
L’ occuparsi di un lavoro di cura in modo intenso, totalizzante e
prolungato nel tempo, sebbene il contesto culturale italiano sia ancora
parzialmente “familistico”7 e solidale, può essere a pieno titolo
considerato un “evento critico familiare”.
Quali sentimenti può provare un figlio nel prendersi cura di un genitore
fragile, non autosufficiente, divenuto o tornato a sua volta figlio
bisognoso, sperduto e intimorito da luoghi e voci che non riconosce ?
Quali sentimenti può provare una moglie che nella relazione di coppia
7 Patrizia Taccani e Maria Giorgetti, Lavoro di cura e auto mutuo aiuto - Gruppi per caregiver di anziani non
autosufficienti, ed. Franco Angeli, 2010 - pagg. 23 e 24. Si precisa come in Italia si sia affetti da familismo
ambivalente tipico di una società che mette al centro la famiglia pur non garantendo un welfare adeguato;
recenti stime attesterebbero sul 6,6% la percentuale di popolazione anziana che oggi trova assistenza nel
mercato privato, incentivata da una politica di erogazione monetaria rappresentata da assegni
d’accompagnamento, voucher regionali
10
non riesce più a trovare il senso del NOI, o un marito che da accudito
diventa accudente?
In questi casi le consolidate e abituali modalità di funzionamento delle
relazioni sembrano diventare inadeguate richiedendo l’attivazione di
processi talvolta faticosi di adattamento e riorganizzazione.
Si pensi al caregiver figlio che, nella già difficile e talvolta
contraddittoria gestione di un rapporto genitore/figlio capovolto, viene
chiamato alla fatica fisica e psicologica di una doppia ma spesso anche
tripla presenza (famiglia costruita, famiglia di origine, lavoro). Il
conflitto definito appunto della “doppia o tripla lealtà”8 è evidente;
perché la scelta di mantenere spazi per sè – familiari, lavorativi o di
socialità - porta il caregiver ad oscillare tra sentimenti di appagamento,
serenità e gratitudine a sentimenti di preoccupazione, scoraggiamento,
esasperazione e tristezza.
Si pensi al caregiver coniuge che si trova a dover gestire relazioni
nuove, talvolta complicate dalla barriera linguistica, con personale
esterno spesso difficilmente accettato perché percepito come invasivo e
ingombrante in una routine di coppia quotidiana faticosa ma
rassicurante nella copertura dei ruoli, consolidata perché antica e
intima9.
Sullo sfondo un passato di relazioni più o meno appaganti, di conflitti
magari rimossi, forse negati e mai risolti, di vicende mai chiuse, di
spiegazioni chieste e mai ottenute, di ferite date e ricevute, di
riconciliazioni tentate e fallite. E allora quando un figlio guarda indietro
può capitare che riesca a vedere solo la parte dolorosa e i vuoti della
sua vita di figlio e un coniuge un passato di incomprensioni e bisogni di
connessione non soddisfatti. In questi casi, se la sofferenza non
8 Patrizia Taccani e Maria Giorgetti, Lavoro di cura e auto mutuo aiuto - Gruppi per caregiver di anziani non
autosufficienti, ed. Franco Angeli, 2010 - pag. 39.
9 ….La vita di coppia è una danza dove continuamente si alternano movimenti singoli, con passi a due e in
gruppo e dove l’essere fuori tempo dell’uno incide su tutti gli altri a meno che non ci sia un danzatore in
grado di affrontare le dissonanze rendendole movimenti nuovi e originali… da “Stare vicino a chi si ammala:
l’esperienza dei partner e dei caregiver” - S. Gastaldi, T. Ragni Raimondi, 2009 Attive Onlus, Milano.
11
conduce ad una rielaborazione del passato e ad una distanza/vicinanza
emotiva giusta, essere caregiver è ancora più difficile perchè il passato
conta divenendo un potenziale filtro nel modo di prendersi cura
dell’altro.
L’esperienza del caregiving può dunque davvero apparire come
“carcere” o come “scoperta di uno spazio di benevolenza per l’altro e di
ascolto empatico di sé”. Certo in tutto ciò un’influenza non trascurabile
è data da fattori oggettivi quali l’entità della sofferenza, la durata, i
sostegni, la rete familiare attiva nel processo di caring. In funzione di
questo, calibrare e ricalibrare costantemente le strategie organizzative
di sostegno per far fronte agli oneri della cura è fondamentale ed ha
importanti impatti sulla qualità della vita del caregiver e del familiare
sofferente.
Un punto chiave per diventare i responsabili protagonisti del proprio
benessere (e indirettamente del benessere dell’altro) e per vivere la
propria vita non come un destino ineluttabile ma come un progetto,
rimane però la ricerca della consapevolezza di sé come altro dal
malato, un sé prezioso e unico, portatore di sentimenti e bisogni mai
esiliati, bensì esplorati e ascoltati.
Un cammino difficile ma utile per negoziare, prima di tutto con sé
stessi, spazi di benessere salvifici.
Il care familiare con pazienti affetti da demenza
Nel caso di caring familiare associato a situazioni di decadimento
cognitivo il percorso di accettazione della malattia è simile a quello che
si intraprende dopo un lutto. Fare i conti con la diagnosi è solo il primo
passo; la salita faticosa inizia piano piano, nei momenti di afasia
improvvisi, quando il familiare un giorno non trova più la strada del
bagno di casa o si perde tornando dal lavoro e poi quando non distingue
più telefono e telecomando. La differenza tra un lutto e la sensazione di
smarrimento alternato a fiducia tipica del caregiver sta nel rinnovarsi
12
costante ed inesorabile della ferita; ogni nuovo deficit rappresenta un
progressivo ma lento avvicinamento al momento più temuto, il
momento in cui un genitore o un coniuge smettono di riconoscerti.
Perché se il lutto è definitivo e quindi inesorabilmente significativo, la
presenza a tratti vacua e a tratti straniera, ma viva, di un malato di
Alzheimer o di demenza di altro tipo, riconsegna costantemente il
caregiver ad una connessione con il familiare a volte reale a volte solo
immaginata ma comunque appagante.
Una recente ricerca della Johns Hopkins University ha stabilito che i
ricordi più cari sono nei malati di Alzheimer i primi a sparire a causa
dell’accumulo di proteine anomale nei centri cerebrali della memoria
specifica responsabile di trattenere i ricordi più preziosi10; il primo
bacio, i successi professionali, la nascita di un figlio, insomma tutte le
tenerezze di una vita sembrano essere, oltre alla perdita di competenze
circa i gesti più semplici e ripetitivi del quotidiano, il primo bersaglio
delle placche neuronali distruggi-memoria.
Alla difficoltà di adattarsi ad un regime di vita diversa, costellata da
piccoli e grandi cambiamenti (di ritmo di vita e orari, ma anche
ambientali), si associa dunque per il caregiver una sorta di spasmodica
ricerca di segnali che dicano che nulla è perduto per sempre.
Perché in assenza di quei segnali per il caregiver si apre la porta di una
realtà rifiutata e costellata da domande dense di angoscia:
Che ruolo ho, chi sono io per lei/lui?
Sono in grado di prendermi cura (non solo occuparsi di, ma scegliere
al posto di)?
Che fine fanno i progetti condivisi?
Ed io, con loro?
Integrare nella propria esistenza la CNV, attraverso un
accompagnamento ed una guida, può facilitare il caregiver nel “cercare
la meraviglia e la grazia della vita oltre gli eventi, oltre l’oscurità, oltre
10
www.alzheimer- riese.it/en/contributi-dal-mondo - Pubblicazione del 17 giugno 2015.
13
le avversità e l’apparenza”? La vita di un caregiver, nonostante sia
faticosa perché centrata sul soddisfacimento delle esigenze del familiare
sofferente, può trasformarsi e diventare più bella attraverso l’apertura
ad una consapevolezza complementare e comprensiva che riesca a
ricomprendere spazi di vitalità, cura di sé e tenerezza verso la propria
parte stanca, frustrata e bisognosa di attenzioni?11
Le parole per dirlo; storie social e vocabolario dell’ambivalenza
In alcuni momenti della mia esperienza di vita come caregiver ho
avvertito il bisogno di condividere con altri caregiver sofferenze, dubbi e
tensioni di un quotidiano ripetitivo nella sua routine organizzativa ma
sorprendentemente ricco di nuovi piccoli eventi destinati a provocare
ansia12; già questa condivisione in alcune fasi particolarmente critiche è
stata un’efficace modalità (modalità alla base dei gruppi di automutuo
aiuto) per individuare possibili vie d’uscita e risposte a problemi di
ordine pratico in un contesto di comprensione reciproca e ascolto
partecipato. Attraverso il contributo dei social media o media sociali,
ovvero degli strumenti on line che sfruttando le nuove tecnologie
consentono la messa in comune di contenuti, il web favorisce oggi un
rapido ed efficace sharing di informazioni, buone pratiche, esperienze e
vissuti emotivi che nella condivisione trovano una leva possibile di
depotenziamento; nello stesso tempo, quando lo scambio comunicativo
a due o più voci ha come scopo il raccontarsi esperienze positive (e
fortunatamente anche questo avviene) ritrovarsi anche se a distanza
consente di recuperare spazi di fiducia e ottimismo. Il web dunque è un
prezioso contenitore di eventi, di storie e di sentimenti. Il web racconta
mondi interiori diversi ed uguali nello stesso tempo, mondi raccontati da
scambi comunicativi in cui le parole scelte, narrano in modo 11
Thomas D’Ansemburg, Più felici di così si può, Edizioni Esserci 2006, Cap.1 pag. 16/31 – L’autore in
queste pagine tratta il tema dei principi di funzionamento della vita e del pensiero binario (o/o che applicato
al caregiving diventa “o ti occupi del tuo caro o ti occupi di te”) come trappola antifelicità.
12 Nel 2014 mi sono iscritta ai gruppi Alzheimer Tolentino e Alzheimer Italia e Caregiver Familiare di
Facebook.
14
significativo le ambivalenti emozioni che ogni caregiver, almeno in
qualche momento della sua vita, ha provato.13 Ho voluto soffermarmi
sul modo di raccontare il proprio percorso di caregiving prendendo a
campione una trentina di interazioni comunicative lette nelle community
social in cui i caregivers si ritrovano virtualmente per confrontarsi,
consolarsi e narrare quotidianamente emozioni, dubbi e sofferenze;
segue dunque un “vocabolario dell’ambivalenza” non esaustivo, né
tantomeno scientifico14, ma indicativo di una sofferenza e di una
complessità non sempre gestibile in assenza di un sostegno esterno.
L’esperienza personale ed il confronto con altri caregiver mi hanno fatto
percepire in più di un’occasione quanto un’ambivalenza emozionale
possa essere causa di disorientamento e sensi di colpa nei confronti del
familiare accudito. Le domande “chi sono io? che persona posso mai
essere se provo il desiderio di fuggire da un caro sofferente che diventa
causa di stanchezza, isolamento sociale e professionale, abbandono di
progetti di vita?” a quali risposte possono portare e a quale livello di
ricorsiva tristezza?
13
Di ambivalenza e senso di colpa si tratterà nel 2° capitolo, pag. 20
14 I risultati di studi scientifici saranno riportati nel 2° capitolo quando si tratterà il tema del peso di cura
(caregiving burden).
15
Vocabolario dell’ambivalenza, ovvero le parole per dirlo15
Vocabolario
dell'ambivalenza Le parole per dirlo Le parole per dirlo
A alzheimer, anziano, angoscia, ansia, assenza, apatia, abbandono
accarezzare, abbraccio, affetto, amore, amare
B brutto, battaglia bene (sentirsi, volere, volersi), bello
C confusione, carico, catetere, colpa caro/a/i, conforto, cantare, coraggio, collaborazione
D
demenza, dolore, disorientamento, destino, decadimento, difficoltà, depressione, danno, deficit, demone (riferito alla malattia), disabilità
divertimento, dignità
E evacuazione emozione
F fretta, frustrazione, farmaci, fallimento, febbre, fiato (prendere)
famiglia
G grida gioia
H - -
I imbarazzo, ineluttabilità, ingiustizia, incontinenza, incubi, insicurezza, indifferenza
interessante
L lotta, lacrime libertà
M malattia, mostro, memoria, medico mamma
N notte, necessità, nostalgia notizie (buone)
O ospedale, odore obiettivo
P problema, peggioramenti, perdita, protezione, paura, pianto
persona, prevenzione, progresso, papà
Q quotidianità qualità
R ripetitività, routine, ricordo, ricovero, rabbia, rimpianto
risultato (buon)
S sofferenza, stanchezza, sonnolenza, solitudine, sindrome, scappare
serenità, speranza, significato, sorridere
T tempo (cronologico), tristezza, tensione, trauma
tranquillità
U urgenza, urina -
V vergogna, vaghezza, violenza, vecchiaia vita
Z zavorra -
15
Ogni lettera dell’alfabeto prevede parole utilizzate nelle interazioni comunicative allo scopo di evocare
sentimenti e descrivere situazioni negative, difficile da accettare (prima riga) o al contrario positive
(seconda riga, in corsivo). Il trattino sulla prima o seconda riga indica che non è stata trovata alcun parola
da inserire.
16
CAP.2
RISCHI CONNESSI AL CAREGIVING FAMILIARE: BURNOUT,
SENSI DI COLPA ED IL CIRCOLO VIZIOSO DELLA DOPPIA
VULNERABILITA’
Caregiving burden; indicatori di qualità di vita per un caregiver
informale
Nel primo capitolo ho posto l’accento sul significato che assume il
“prendersi cura” di un caregiver familiare16. Il caregiver informale,
nonostante la sua centralità sociale ed etica, rimane giuridicamente
degno di poche attenzioni nonostante anche la scienza abbia dimostrato
quale sia l’effetto del peso di cura sulla qualità della vita e sullo stato di
salute17. Il parlarne aiuta a comprendere quanto sia dunque eticamente
e socialmente giusto progettare e proporre da parte degli enti preposti
percorsi di help e self help che quantomeno in parte riescano ad
alleviare gli effetti di un stress psico-fisico dimostrato anche a livello
scientifico. La ricerca più famosa sugli effetti dello stress di lunga durata
legato al caregiving rimane quella della dott.ssa Elizabeth Blackburn18,
professore di biochimica presso l’Università di San Francisco, che ha
condotto un’interessante ricerca su stress, invecchiamento e alterazioni
biochimiche a livello cellulare. Il contesto di cura prolungato
predisporrebbe secondo questi studi ad uno stress cronico perdurante
anche dopo la fine dell’esperienza di caregiving e sarebbe causa dei
seguenti effetti:
aumento rischio di infarto;
16
Il caregiver familiare è anche definito primary caregiver informale (coniuge, figlio, fratello/sorella, più
raramente un amico); il caregiver formale è invece un professionista dell’aiuto ed in questa categoria
rientrano tutte le figure professionali che si occupano di assistenza (OSS, infermieri, badanti).
17 In media il family caregiver fornisce dalla 40 alle 84 ore di assistenza alla settimana, ovvero l’equivalente
di più di due lavori alla settimana, con l’equivalente perdita o riduzione di lavori retribuiti. Ciò implica un
peggioramento della situazione reddituale oltre che della vita sociale - http://la-cura-
invisibile.blogspot.it/2012.
18 “Accelerated telomere shortening in response to life stress - Department of Psychiatry of University of
California. Contributed by Elizabeth H. Blackburn, September 28, 2004.
17
presenza sintomi di depressione maggiore (burden) per una
percentuale dal 40 al 70% dei caregiver;
aspettativa di vita inferiore dai 9 ai 17 anni rispetto alla media.
Altri studi19 si sono focalizzati sui sentimenti ed il vissuto della categoria
facendo emergere, attraverso la somministrazione di questionari e
interviste, sentimenti di rabbia, stanchezza, senso di colpa per il timore
di non essere adeguato al compito20, percezione di una propria
supposta inutilità.
Le percentuali di caregiver coinvolti nelle ricerche ci dicono inoltre che:
il 16% dei caregiver si sente esausto;
il 26% avverte come imponente il peso emotivo del compito;
il 13% vive una profonda frustrazione vedendo l’assenza di
miglioramento del proprio caro;
il 22% arriva a fine giornata spaventato dal timore di non essere in
grado di saper fronteggiare le responsabilità di ruolo, spaventato dal
futuro e dalla propria impotenza.
La tensione del caregiver, soprattutto nel caso di età non più giovane e
di situazioni economiche non floride (in questi casi diventa difficile
permettersi l’aiuto di un’assistenza esterna anche per poche ore) finisce
spesso per ripercuotersi anche sullo stato fisico dell’accudente,
creandosi così le premesse per un cortocircuito assistenziale di difficile
gestione. La domanda cui intendo dare risposta attraverso la CNV è
dunque la seguente: pur essendo vero che il caregiving si realizza nella
misura in cui esistono un accudito (che ha bisogni) ed un accudente
(che soddisfa i bisogni), si possono immaginare per l’accudente
strumenti di cura e auto-cura destinati a fronteggiare il rischio di
19 “Caregiving Appraisal Scale” di M. Powell Lawton, Miriam Moss, Christine Hoffman e Margaret Perkinson e
Center on Aging Society Research (2005) in “Caregiving familiare; il peso del supporto e dell’accudimento
quotidiano” di Alessia Ghisi Migliari in www.humantrainer.com
20 A cio si aggiunga per i caregiver non conviventi il senso di colpa per la ridotta presenza vicino al familiare
malato, il senso di colpa per la “nuova famiglia” trascurata (coniuge e figli) e per i caregiver in genere il
senso di colpa nel caso di allontanamento anche temporaneo (es per brevi momenti di vacanza) pur in
presenza di una rete d assistenza professionale e quindi affidabile.
18
esaurimento fisico e depressione? E più precisamente può per il
caregiver essere consolatorio guardare con benevolenza alle proprie
parti resilienti e a quelle più deboli, ai i propri bisogni esiliati e alle
proprie emozioni? Può un’efficace supporto, non solo pratico, ai
caregiver ridurre il peso della cura?
Rischi del burnout sulle dinamiche famigliari e sulla qualità
dell’assistenza del caregiver.
Carol B., assistente sociale intervistata sul burn-out, descrive così il suo
stato d’animo: “Quando cerco di descrivere ad altri la mia esperienza,
uso la metafora della teiera. Come una teiera, ero sul fuoco e l'acqua
bolliva.
Lavoravo sodo per gestire i problemi e fare del mio meglio.
Ma dopo vari anni l'acqua era tutta evaporata e tuttavia io ero ancora
sul fornello; una teiera bruciata che rischiava di spaccarsi”.
Il termine burn-out21 significa bruciato, esaurito, scoppiato e ha a che
vedere con uno stato di cedimento psico/fisico che impedisce a chi ne è
colpito di sostenere ulteriori sforzi e di adattarsi alle criticità dell’attività
svolta. La sindrome, associabile al carico assistenziale tipico delle
professioni di aiuto, provoca in chi ne è affetto sintomi fisici (disturbi
dell’apparato gastrico, disturbi a carico del sistema nervoso centrale,
disturbi del sonno allergia, asma, perdita dell’appetito, disfunzioni
sessuali, malattie della pelle, artrite, diabete)22 e psicologici23. Questi
ultimi sono stati classificati nelle seguenti categorie:
collasso delle energie psichiche: apatia, demoralizzazione, incubi
notturni, irritabilità, senso di inadeguatezza, senso di frustrazione,
disperazione, disagio, paure eccessive, sensi di colpa;
21
C.Maslach, 1982, “Burnout – The cost of caring” citato in “Maslach Burnout Inventory in Italia alla luce
dell’analisi fattoriale” di Saulo Sirigatti e Cristina Stefanile, pagg 1 e 2
22 Maslach, 1982
23 C. Maslach, 1982, “Burnout – The cost of caring”, citato in “Maslach Burnout Inventory in Italia alla luce
dell’analisi fattoriale confirmatoria”
19
collasso della motivazione: distacco emotivo, perdita della
capacità empatica nella relazione con le persone assistite;
caduta dell’autostima: sensazione di “non essere all’altezza”,
perdita della fiducia in sé stessi;
perdita di controllo: sensazione di essere invasi e di non riuscire a
ritagliarsi momenti di stacco rigeneratore.
Essere assistente sociale, ovvero svolgere la professione di Carol B.
significa appartenere ad una categoria professionale “high touch”
ovvero ad alto contatto ed è proprio questo un connotato che ci facilita
nella comprensione dei fattori scatenanti il burn-out. Gli studi sul burn-
out, in particolare quelli di Christina Maslach, dimostrano infatti come le
categorie professionali più a rischio sono quelle in cui il carico emotivo
risulta particolarmente elevato per un costante coinvolgimento
relazionale. Infermieri, medici, insegnanti, poliziotti, consulenti della
relazione d’aiuto, personale di vigilanza operante negli istituti di pena,
hanno in comune la necessità di dover quotidianamente farsi carico da
una parte della sofferenza altrui e dall’altra della responsabilità di far
fronte alle esigenze delle persone affidate. A ben vedere la relazione
non solo intima ma anche parentale non può che accentuare nel
caregiver informale il rischio di un burn-out che esce dal contesto
professionale classico per entrare a pieno titolo nelle dinamiche di una
famiglia impegnata nel carico di cura24. Il decadimento cognitivo
patologico fa sempre nell’intimità di una casa tre potenziali vittime: il
malato, il caregiver e la dinamica famigliare. La contrapposizione tra
bisogni a prima vista poco conciliabili, il senso di impotenza nei
confronti dei sintomi della malattia, il senso del dovere25 che fa stare ad
oltranza all’interno di un legame familiare con un ruolo di assistenza,
tutto ciò crea un terreno fertile per il verificarsi di forme di burn-out
24
P. Taccani e M. Giorgetti, “Lavoro di cura e auto mutuo aiuto - Gruppi per caregiver di anziani non
autosufficienti” - Ed. Franco Angeli, 2010, pag 112.
25 Talvolta al senso del dovere si associa l’impossibilità di fare altre scelte a causa di una situazione
economica che non consente forme assistenziali esterne.
20
strettamente collegate alla dipendenza non solo fisica ma anche
psicologica del familiare che genera, all’interno del quadro patologico,
una domanda “più o meno avida, insistente, permanente, esigente”.26
Ritengo dunque che sia fondamentale considerare il caregiver informale
un soggetto ad alto rischio burn-out pur non essendo inserito in una
categoria professionale. Per questo motivo l’ascolto di sé e dei propri
bisogni può essere ragionevolmente considerato un passo chiave
nell’evitamento di cortocircuiti psico/fisici destinati a creare danni a sé e
alla persona assistita27. Il giusto bilanciamento tra cura di sé e cura
dell’altro può dunque rappresentare una forma di prevenzione utile per
il mantenimento sia del benessere del caregiver che di quello del
familiare assistito. Imparare a perdonarsi scelte salvifiche e auto-
protettrici di temporaneo distacco dal contesto di cura, iniziando dunque
ad immaginarsi e ad accettarsi come persone vulnerabili, può essere un
altro passo sulla strada di una qualità di presenza libera da sensi di
colpa e aperta all’arricchimento della propria vita e di quella del proprio
caro28.
Il senso di colpa nel caregiving; tenuta ad oltranza del legame
familiare e tunnel della doppia/tripla lealtà
Il senso di colpa inteso come coscienza d’aver fatto del male a qualcuno
o genericamente d’aver causato un danno tramite una propria azione
specifica29 (o inazione), è un compagno assiduo del caregiver informale.
Il legame famigliare unito al senso di responsabilità che connota una
26
Ploton L., “La persona anziana. L’intervento medico e psicologico. I problemi delle demenze”, Ed.
Raffaello Cortina, 2003
27 P. Taccani e M. Giorgetti, “Lavoro di cura e auto mutuo aiuto - Gruppi per caregiver di anziani non
autosufficienti” - Ed. Franco Angeli,2010, pag 43 parla dei legami di cura ad oltranza sfocianti in potenziali
situazioni di disagio e sofferenza così forti da causare potenziali forme di maltrattamento del caregiver verso
l’anziano. Senza arrivare a forme vere e proprie di violenza, è assolutamente verosimile l’innescarsi di
cortocircuiti sfocianti in abbassamento del livello di qualità, di attenzione, di cura e di affettività
28 M. Rosenberg,”Le parole sono finestre oppure muri”, Esserci Edizioni 208-209-210.
29 Definizione tratta da dizionario Treccani e dizionario on-line di psicologia e sociologia.
21
relazione di cura che riguarda in modo pressoché totale il benessere del
proprio caro30, infonde nel caregiver sensazione di invasione e di
impossibilità di distacco. Un legame sinceramente affettuoso, nei
momenti di stanchezza ed esaurimento psico/fisico, può trasformarsi in
una pesante e intollerabile convivenza. Sentiamo le parole di Clara, una
caregiver figlia nel suo sfogo raccolto mentre seguivo mio padre durante
un breve ricovero di sollievo presso il Villaggio Amico di Gerenzano
(VA): “Sono figlia, moglie e madre. Insegno … e faccio male tutto.
Perché quando sono qui da mio padre ho la sensazione che da qualche
parte qualcuno stia reclamando la mia presenza. Mia figlia mi ha
rimproverato di non esserle stata vicino prima della laurea. Questa cosa
mi fa male ma non so come altro fare…”. È questo un esempio chiaro
del cosiddetto tunnel della “doppia/tripla” lealtà, un tunnel nel quale in
caregiver si affanna a coprire più ruoli con l’inevitabile consapevolezza
di non poter rispondere in modo efficace per sé stessi e per gli altri alle
richieste del contesto.
In ambiti sia operativi che di ricerca emerge un dato interessante. Il
caregiver, spesso solo nel crocevia di impegni afferenti i diversi ruoli
ricoperti, per sedare i sensi di colpa, tende a spostare sempre più in là
nel tempo il ricorso ai servizi assistenziali o ad aiuti esterni quantomeno
laddove le attività sono delegabili.31
Accentrare su di sé l’assistenza esasperando la presenza e facendosi
carico di tutte le attività pratiche relative alla cura può diventare però
un pericoloso circolo vizioso se tali scelte non sono inserite in un quadro
di benessere psico/fisico pieno del caregiver32. Il fenomeno a cui invece
talvolta si assiste quando si tacciono del tutto i propri bisogni di
30
Benessere fatto di gesti e attenzioni che riguardano igiene personale, somministrazione di farmaci,
alimentazione e gestione della dieta, movimentazione, spesa, colloqui medici, incombenze burocratiche,
gestione di caregiver formali, esternalizzazione dell’assistenza, colloqui medici.
31 P. Taccani e M. Giorgetti, “Lavoro di cura e auto mutuo aiuto - Gruppi per caregiver di anziani non
autosufficienti” - Ed. Franco Angeli,2010, pag 42.
32 Ricordo che in caso di burn out assistiamo ad un fenomeno di distacco emotivo o disimpegno emozionale
che può condurre il caregiver ad una presenza fatta di automatismi freddi e poco empatici.
22
condivisione e ascolto della propria sofferenza, il bisogno di empatia, di
leggerezza, di riposo o di libertà di scelta è quello della “doppia
fragilità”. La fragilità del malato si associa ad una difficile gestione
delle criticità da parte del caregiver.
Ascoltiamo il dolore di questa figlia stupita, quasi spaventata da una sua
reazione “…..è uscita di nuovo, l’ho cercata per la strada del paese, ero
stanca, avevo sulle spalle una giornata di lavoro in ufficio, il pensiero di
mio marito e dei miei figli che aspettavano me, ancora una volta, la
cena ancora da preparare, l’afa insopportabile. Poi l’ho vista, spettinata,
in ciabatte, con la sottoveste sopra il vestito… L’ho trascinata a casa, le
borbottava qualcosa e non voleva rientrare …io sentivo solo la mia
rabbia che cresceva e appena arrivata in casa le ho dato una
sberla..sono scoppiata a piangere. Non si può picchiare la propria
madre..non mi do pace…”. Legati al senso di inutilità o incompetenza
nel fronteggiare gli effetti della malattia sul proprio caro, o connessi
all’insofferenza talvolta provata per i comportamenti del famigliare
ammalato, od anche al senso di rimpianto per la perdita di spazi di
libertà, comunque i sensi di colpa portano sempre il caregiver a
formulare su di sé giudizi negativi. In qualsiasi caso, comunicare a noi
stessi critiche e pretese di essere diversi, rende un buon servizio alla
nostra crescita interiore e alla relazione di cura?
23
CAP. 3
LA CNV ED IL LINGUAGGIO GIRAFFA COME PRATICA DI VITA E
DI BENESSERE PER IL CAREGIVER FAMILIARE. EMPATIA ED
AUTOEMPATIA
Accogliere la propria vulnerabilità per aprire le porte alle
connessioni; la CNV come modello di intervento
In un articolo dell’associazione Alzheimer Riese un marito scrive: “Molti
si sono riferiti all’Alzheimer come al “lungo addio”. Per il caregiver è
come soffrire la morte per mezzo di mille tagli, senza una fine
dell’emorragia invisibile. Per i coniugi caregivers che hanno avuto buoni
matrimoni prima della comparsa dell’Alzheimer, sperimentare un certo
grado di ansia quotidiana o di lieve depressione33 è abbastanza comune
poiché la persona che amiamo di più in questo mondo è a tutti gli effetti
andata e ancora qui. Siamo sposati e vedovi allo stesso tempo”34. Facile
dunque immaginare la sensazione di lutto percepita anche da un figlio
rispetto ad un genitore, sebbene ciò sia tanto più vero quanto più
precoce è la comparsa della malattia e quindi quanto più giovane è il
caregiver figlio. Al di là del doloroso senso di perdita quotidiano e
frammentato che tanto incide sulla serenità dei caregivers, tanti e
frequenti, abbiamo visto, sono i momenti di sofferenza di “chi si prende
cura”.
Come già indicato in questo lavoro, l’Italia non ha ancora riconosciuto
giuridicamente la figura del caregiver, con un inevitabile corollario di
mancati aiuti e mancati servizi “strutturali” di accompagnamento35; il
prendersi cura significa dunque, nel nostro contesto, portare un
contributo significativo al benessere della comunità generalmente intesa 33
Altra cosa è il burn out, vedi cap. 2
34 http://www.alzheimer-riese.it/en/contributi-dal-mondo/voci-della-malattia/4859-riflessioni-di-un-coniuge
35 Per esempio anche nel caso in cui viene assegnato dalla Regione Lombardia (mia regione di
appartenenza), in virtù della Delibera 856/2013 – RSA Aperta, un voucher corrispondente ad un pacchetto
di servizi, l’unico punto in favore dei caregiver è la “facilitazione di accesso ai gruppi di automutuo aiuto”.
Non è altrimenti presa in carico dalla norma la valutazione dello stato di bisogno psicologico del caregiver.
24
ed anche alla giustizia sociale. Proprio per questo motivo facilitare nei
caregivers l’acquisizione di capacità di rinforzo personale va nella
direzione di una maggiore resistenza al senso di oppressione spesso
avvertito e, nel contempo, di un rinnovato apprezzamento del tempo
non consumato ma vissuto con il familiare bisognoso di assistenza. I
gruppi di automutuo aiuto, nati negli Stati Uniti nel 193536,
rappresentano anche in Italia un setting ed una pratica di lavoro sociale
utile a questo scopo. Formati da caregivers desiderosi di trovare
insieme agli altri partecipanti nuove chiavi di lettura della loro
esperienza e nuovi strumenti di benessere, facilitati da professionisti
esperti nella relazione d’aiuto operanti in contesti di volontariato e di
associazionismo familiare, i gruppi AMA37 rappresentano il territorio in
cui poter esercitare competenze umane che hanno garantito nella storia
dell’evoluzione umana la sopravvivenza ed il superamento delle
difficoltà38. Questi luoghi strutturati di incontro, unitamente ad altre
forme di accompagnamento psicologico individuale, possono
effettivamente rappresentare un terminale del supporto e del sostegno
solo nella misura in cui il caregiver impari a riconoscere e ad accogliere
la propria vulnerabilità. In quanto caregiver, seppur di secondo livello,
ma costantemente in osservazione di una caregiver primaria, so che di
questa parola si tende a cogliere in prima battuta l’aspetto negativo;
come predominante si avverte il senso della ferita e del dolore (vulnus)
e solo sullo sfondo, quasi non fosse rilevante, si colloca il significato
ulteriore, ovvero la possibilità e dunque non la certezza di subire danni,
di essere permanentemente feriti. Per un caregiver familiare accettare il
proprio essere vulnerabili nella relazione di cura è difficile, all’inizio del
percorso quasi impossibile; significa accogliere un’idea di sé incapace di
accogliere una richiesta di presenza affettuosa, costante e competente
36
Alcoohlics Anonymous (AA) Group.
37 Li chiameremo così d’ora in poi così come indicato da www. automutuoaiuto.it
38 V. Calcaterra, Attivare e facilitare i gruppi di automutuo aiuto, Ed. Erickson, 2013, pag. 11.
25
al di là di ogni ragionevole stanchezza e imperizia. Significa
disattendere ad un modello culturale di ruolo che vede il caregiver
attore protagonista di una quotidianità in cui è contemplata e ammessa
solo la possibilità dell’esserci “nonostante tutto”39. Considero la CNV
(Comunicazione non violenta)40 di Marshall B. Rosenberg un modello
di comunicazione e di relazione particolarmente utile per lo sviluppo di
un ascolto attivo, autentico e soprattutto aperto alla connessione con la
propria e altrui vulnerabilità. La “nonviolenza” cui il fondatore della CNV
si riferisce ha a che vedere con la comprensione, il rispetto reciproco e
la capacità di farsi capire chiaramente e nel profondo senza aggredire.
Partiamo da alcune riflessioni di base utili per identificare la potenzialità
della CNV nell’ambito del care helping:
la CNV fa riferimento ad una capacità dell’uomo innata, ma spesso
sopita o bloccata, di relazionarsi in modo empatico, ovvero
compassionevole e rispettoso di sé e dell’altro;
la CNV ci guida nel ripensare il modo in cui esprimiamo noi stessi
partendo da una rinnovata coscienza di ciò che percepiamo
(osservazioni), ciò che sentiamo (sentimenti) e ciò che vogliamo
(bisogni); in questo senso ci aiuta a comprendere che la nostra vita
migliora e si arricchisce quando riusciamo a realizzare un contatto
con noi stessi e con i nostri bisogni profondi; i nostri bisogni sono
universali e rappresentano un terreno di incontro e connessione con
glia altri esseri umani;
la CNV ci guida nel ripensare il modo in cui ascoltiamo gli altri
partendo da un’attenzione rispettosa ed empatica verso i sentimenti
39
Vedi nota 27 sui rischi dei rapporti familiari ad oltranza, rapporti in cui il caregiver non ammettendo la
propria vulnerabilità innesca dinamiche fortemente critiche per sé e per il famigliare sofferente.
40 La CNV, più che un modello di comunicazione, è una vero e proprio approccio alla vita e
all’interdipendenza compassionevole. Sviluppata da Marshall B. Rosenberg, mancato il 7/02/2015, a partire
dal 1960 la CNV è diventata, grazie ai Servizi Educativi del Center for Nonviolent Communication, una
cornice di riferimento teorico/pratica per una formazione alla pace nelle Istituzioni, nelle organizzazioni,
nelle scuole e nelle famiglie.
26
ed i bisogni degli altri; in questo senso ci rende consapevoli della
ricchezza e della potenzialità dell’interdipendenza41;
la CNV si basa su un’abilità di linguaggio e di comunicazione che
rafforza la nostra capacità di esplorare benevolmente ciò che
proviamo nel cuore, nel corpo e nella mente e ciò che prova chi ci
circonda con una sensibilità che ci aiuta nel non portare dolore,
critiche e giudizi colpevoli a noi stessi e agli altri;
la CNV ci facilita nella costruzione e nel mantenimento di un contesto
di vita basato sulla cura di sé e sull’interdipendenza permettendo
altresì alla nostra naturale empatia di esprimersi.
La CNV di Marshall B. Rosenberg si basa e si esprime dunque su due
livelli. Il primo è rappresentato direi dal fondamento stesso di questo
approccio e consiste nella benevolenza verso sé stessi e verso gli altri e
nella ricerca di una qualità nella relazione che tenga conto
saldamente ed empaticamente di sentimenti e bisogni delle
parti; il secondo da un processo di comunicazione diretto a “servire” il
primo. Partendo proprio da questi assunti di base, dalle considerazioni
precedenti sulle potenzialità della CNV nel quadro più generale del care
helping, ho ritenuto che sia questo un modello di intervento ad alto
valore aggiunto nelle azioni di sostegno al caregiver. Marshall B.
Rosenberg afferma infatti nel suo libro “Le parole sono finestre oppure
muri”: “Se non attribuiamo valore ai nostri bisogni è probabile che
neanche gli altri lo faranno”. E poi ancora: “Se esprimiamo i nostri
bisogni è più facile che li soddisferemo”. Nell’accezione della CNV il
termine bisogno, elemento guida di una filosofia di vita ecologica ed
olistica, più che di un modello comunicativo, definisce tutto ciò che è
indispensabile al nostro stare nel mondo e che a questo stare conferisce
sicurezza e senso. Qualsiasi sia la categoria di riferimento (bisogni
fisiologici, di interdipendenza, di autonomia, di integrità, di 41
Il significato di Interdipendenza ha a che vedere con il dare e ricevere con uguaglianza e bilanciamento in
un contesto relazionale all’interno del quale i bisogni dell’uno non possono essere soddisfatti a discapito
dell’altro.
27
celebrazione, di gioco, di comunione spirituale), la mancata attribuzione
di valore ai propri bisogni, in una logica di totale dedizione al proprio
caro è, sulla base della mia personale esperienza e sulla base del
confronto con altri caregivers42, una porta spalancata verso il rischio di
cortocircuito relazionale paziente/prestante cura o burn out.
Ricordare che il caregiver familare è marito, moglie, figlio, sorella o
fratello43, facilita la comprensione del fatto che in non ci si dia spesso il
permesso di dichiarare a voce alta la propria stanchezza, la necessità di
spazi di solitudine, il bisogno di leggerezza e divertimento, la tristezza
per progetti non realizzati, la frustrazione per scelte forzate e rinunce
ripetute. Lo si fa magari in momenti di ansia e rabbia, oppure dentro di
sé, lasciando poi spazio a sensi di colpa silenziosi, seppur potenti e
laceranti.
CATEGORIE DI BISOGNI SECONDO LA CNV I BISOGNI DEI CAREGIVERS “IN PRATICA” Bisogni di autonomia e autenticità Bisogno di realizzare piccoli /grandi progetti; progetti di
vita (coniugale, p.e) progetti di piccola organizzazione anche quotidiana (uscire da soli, prendersi delle pause, fare una vita sociale più intensa)
Bisogni di chiarezza e consapevolezza
Bisogno di conoscere gli effetti della malattia del proprio caro, bisogno di capire come interpretare alcuni sintomi, bisogno di sapere come alleviare concretamente le sofferenze
Bisogni di sicurezza e salute Bisogno di sapere di non essere lasciati soli in momenti
critici della giornata
Bisogni di interdipendenza Bisogno di socialità, di empatia, di ascolto, di considerazione di comprensione per i propri limiti, di vicinanza, bisogno di essere considerato come degno di attenzione
Bisogni di scopo ed efficacia Bisogno di svolgere un’attività significativa al di là dei compiti d caring; bisogno di auto-espressione
Bisogni di riposo e gioco Bisogno di sonno, rilassamento, divertimento
Bisogni di armonia ed equilibrio Bisogno di pace, leggerezza, uguaglianza (anch’io valgo)
Figura 1 - Bisogni del caregiver e categorie di bisogni universali secondo la CNV 44
La CNV dunque, in quanto territorio della vulnerabilità, considera
l’esplorazione, la scoperta e la cura dei propri bisogni e dei bisogni
42
Molto insegnano in tal senso gli scambi con altri caregiver nell’ambito dei gruppi social di Facebook realtà
di mutuo aiuto virtuale di cui si parlerà nell’ultimo capitolo.
43 Rapporto Censis 2007:il 76,6% di caregivers è donna e di questa percentuale circa l’80% ospita il
familiare a carico in casa; il 51,6% è in età attiva.
44 Lucy Leu, Manuale pratico di Comunicazione Nonviolenta, Esserci Edizioni, pag.169; nella tabella le
categorie di bisogni secondo il modello di Rosenberg sono tradotti in bisogni quotidiani del caregiver.
28
dell’altro un punto di partenza per la creazione di relazioni al servizio
della vita in una cornice libera da vergogna, rabbia e sensi di colpa.
La danza giraffa come pratica di benessere per sé e per il
familiare assistito; darsi empatia e dare empatia al proprio caro.
Se il caring ha come scopo la cura, è la relazione la cornice all’interno
della quale la cura si realizza (fig 2). Nel vissuto di ogni prestante cura
l’insufficiente ascolto dei propri bisogni ed il senso di colpa derivante da
comportamenti ambivalenti o considerati inadeguati alla richiesta
(reattività aggressiva verso il famigliare a carico, allontanamenti di
sollievo vissuti come espressione di incapacità di gestione della fatica,
sensazione di incompetenza o inadeguatezza nell’attività di cura) sono
nella mia esperienza di caregiver fattori scatenanti sensazioni di
frustrazione, tristezza, angoscia o rabbia. In un siffatto clima relazionale
ogni interazione comunicativa tra le parti in gioco è, dal punto di vista
dell’efficacia emotivo/contenutistica, potenzialmente a rischio. Possiamo
dunque dire che nella relazione di cura famigliare è facile osservare
modi di comunicare che bloccano quello stato naturale di empatia di cui
ognuno di noi è dotato.
Figura 2 - Territorio relazionale del caregiver
29
Ecco qui di seguito alcuni esempi45
C (al famigliare assistito): “Mi fai sempre le stesse domande cento volte
al giorno. Non ne posso più. Sono sfinita…. Non mi fai dormire…. Oggi
c’è il sole e io sono un’altra volta chiusa in casa…”.
C (moglie, ad altri caregiver): “Almeno a pranzo lo imbocco io. Pensate
che sia diventata un incapace? In fondo in tutti questi anni chi ha
pensato a lui?” oppure “Guardate tutti lui (riferito al marito malato). A
me chi pensa….?”
C (a familiari non caregiver che consolano o danno consigli): “Voi che
passate da qui cinque minuti e poi ve ne andate cosa volete capire di
quello che capita in questa casa? Se vi faceste vedere un po’ di più forse
la smettereste di dare consigli….”
C (innertalk): “Qui ci sono sempre io, devo occuparmi di tutto, in fondo
se non ci sono io chi pensa a …, non posso certo uscire per distrarmi un
po’….”
In questi esempi emergono in modo evidente alcuni elementi appresi e
per Rosenberg non naturali che in CNV fanno capo a “tipi di
comunicazione che alienano dalla vita”46. Formulare giudizi e critiche
verso sé stessi o gli altri, dichiarare la propria responsabilità o la colpa
di qualcuno per aver fatto o non fatto qualcosa, pretendere maggiore
collaborazione o presenza con il tentativo, non sempre consapevole, di
innescare sensi di colpa in chi non si sta adeguatamente conformando
alle richieste, sono tutti esempi di un modo “violento” di entrare in
relazione con sé stessi e con gli altri. Ciò che manca nelle interazioni
riportate è senza alcun dubbio l’empatia, ovvero quella capacità di
ascoltare e di accogliere chi è di fronte a noi, i suoi sentimenti ed i suoi
bisogni senza volerlo condurre per forza da qualche parte; ciò che
manca è però anche l’autoempatia, ovvero quella stessa capacità
utilizzata rispetto a sé stessi o ad una parte di sé. 45
C sta ad indicare il caregiver che interagisce con altri (il familiare assistito, altri caregiver o familiari non
caregiver) o parla a sé stesso (dialogo interno o innertalk).
46 Marshall. B. Rosenberg,”Le parole sono finestre oppure muri”, Esserci Edizioni, CAP. 2.
30
Nella cornice CNV quelle interazioni, intrise di rancore, giudizi, critiche e
malcelata intenzione di innescare sensi di colpa e vergogna,
rappresentano quello che Marshall B. Rosenberg chiama “linguaggio
sciacallo”47, un linguaggio che rende molto difficile il mantenimento di
relazioni autentiche e costruttive. In quanto caregiver, seppur di
secondo livello, ho sperimentato il dialogo interno sciacallo e ne sono
stata testimone a lungo del mio nucleo famigliare percependone tutto il
carico distruttivo. Non sentirsi adeguati al compito, non sentirsi più che
perfetti quando il ruolo ricoperto e la cultura lo richiedono porta il
caregiver a giudicarsi e ad etichettarsi in modo globale. Possiamo
immaginare uno spazio di cambiamento costruttivo e creativo se siamo
immersi nell’autocritica?
Il linguaggio giraffa, contrapposto al linguaggio sciacallo, si allontana
dai concetti di giusto o sbagliato, appropriato o non appropriato,
adeguato o inadeguato, per avvicinarsi ad un modo di comunicare che
tiene conto, partendo dall’osservazione di quanto si può percepire
oggettivamente con i nostri organi di senso, di ciò che si prova e di quali
bisogni ci guidano nel fare ciò facciamo e nel dire ciò che diciamo
(Fig.3).
Solo in questo modo ci è consentito tener fede alla nostra vera natura di
essere umani uguali gli uni agli altri, al di là di sesso, razza, o
condizione di vita e solo così possiamo gettare le basi per la costruzione
di contesti relazionali nei quali esprimere tutte le nostre potenzialità e
richieste assertive.
47
Marshall .B.Rosenberg, Il linguaggio Giraffa, Ed. Esserci, 2012, pag 10 e seguenti. A scopo didattico
Marshall B. Rosenberg ha rappresentato i processi comunicativi empatici e non empatici tramite il ricorso a
due animali: la giraffa e lo sciacallo. La giraffa mammifero dal cuore grande (benevolenza) e dal collo lungo
(visione ampia ma anche vulnerabilità, riferendosi ad alcune difficoltà che la giraffa ha nel compiere certi
movimenti, per esempio bere).
31
Figura 3 - Processo OSBR (Osservazioni, Sentimenti, Bisogni, Richieste)
Nella vita di un caregiver so-stare sulle proprie emozioni e sui propri
bisogni è quasi impossibile. Un caregiver è tale nella misura in cui sosta
nei bisogni degli altri; quando non viene sostenuto e accompagnato
singolarmente o all’interno di gruppi di automutuo aiuto, affronta il
mondo delle sue emozioni e dei suoi bisogni spesso in modo solitario,
disordinato e istintivo conferendo a ciò una nuance emotiva severa o
fragile da cui esso stesso si vede costretto a rifuggire per poter
proseguire nel suo compito; oppure entra in questo mondo di attenzione
benevolmente egoistica48 ormai tardi, quando il burn out ha già fatto la
sua comparsa. La danza giraffa, che invece conferisce valore e dignità
al prezioso mondo interiore, va dunque insegnata in modo che possa
essere danzata anche da soli in quei frequenti momenti di solitudine che
connotano giornate fatta di cure e attenzioni per il proprio famigliare. Si
può pensare di poter offrire empatia quando siamo noi stessi i primi ad
averne bisogno? Possiamo offrire nutrimento se siamo noi stessi
denutriti? La danza giraffa dà al caregiver l’occasione di acquisire risorse
vitali; solo così sarà possibile continuare a donare empatia al proprio
famigliare.
48
“Esiste una forma di egoismo che fa sì che ci si senta talmente soddisfatti da avere molto da dare agli
altri”- Marshall B. Rosenberg in Quaderno di esercizi per imparare a volersi bene – Anne van Stappen,
Vallardi Editore, pag.6
32
Una famiglia in noi: fare pace “dentro” con l’approccio I.F.S.
(Internal Family System)
La condivisione delle esperienze tra caregivers sia nei gruppi AMA che
nei social consente di percepire quanto stupore, sorpresa o perplessità
emergono a fronte di inaspettati comportamenti agiti in talune
circostanze. Il caregiver talvolta si domanda come sia possibile anche
solo provare sentimenti di rabbia, frustrazione, irritazione nei confronti
di un familiare in difficoltà e così tanto amato; o come si possa
desiderare di andarsene anche solo per un po’ pur di allentare una
presa che talvolta stringe come una morsa. In quei momenti il caregiver
sperimenta in tutta la sua dirompente verità la connessione con le sue
diverse parti contraddittorie e conflittuali. Frutto di esperienze,
temperamento, modelli educativi queste parti ci rappresentano e con la
loro diversità, danno vita al nostro essere molteplici e nello stesso
tempo unici. Zittire o non prendersi cura di una parte49, giudicandola
inopportuna o pericolosa, se da un lato rimuove o allontana
momentaneamente sentimenti sgradevoli, dall’altra ci fa perdere
l’opportunità far cooperare la “famiglia” che abita in noi; in questa
famiglia interna ogni parte gioca un ruolo ed ogni ruolo assolve, seppur
in modo diverso, al compito di farci vivere al meglio delle nostre
potenzialità. L’IFS50 (Internal Family System), modello del tutto
complementare alla CNV, permette di far colloquiare le parti di noi e di
farle integrare cooperativamente facilitando la ricerca creativa di
alternative emotive e percorsi di pensiero più funzionali e gratificanti. In
questo modo, mettendo cioè al centro della cura le parti che chiedono
attenzione, il caregiver può scoprirne tutto il valore. Anche se
vulnerabili o rabbiose o sfinite, queste parti dicono qualcosa di vitale
perché nostro; nel caregiving possono rappresentare altrettanti
49
Per esempio la parte esausta e desiderosa di leggerezza che reagisce improvvisamente con rabbia ad una
richiesta o la parte che decide con senso di colpa di delegare le cure ad altri caregiver (in caso per esempio
di ricovero).
50 Richard Schwartz, Système Familial Intérieur - Blessures et guérison - Ed.Elsevier Masson, juin 2009.
33
campanelli d’allarme che ci informano, per esempio, della necessità di
riequilibrare i tempi della cura appoggiandosi ad aiuti formali più
sostenuti. Se riconosciute nella loro funzionalità (o disfunzionalità) sono
risorse pregiate; la capacità di accoglierle consapevolmente apre le
porte ad una salvifica autoempatia.
CNV e superamento dei sensi di colpa per una progettualità
vitale
Ho sentito molti caregiver esprimersi così: “Ho ricoverato mio marito in
una struttura di sollievo, perché ero esausta dalle cure continue e dal
suo rifiuto ostinato di collaborare. Ed adesso invece di provare sollievo
provo un acuto senso di colpevolezza. Ma allo stesso tempo ho bisogno
di allontanarmi per un po’ dai problemi che erodono la mia serenità.
………Non so più come comportarmi”. Oppure: “Mia moglie è da qualche
settimana in una casa di riposo lontana dalla città in cui vivo. Mi sento
così triste e colpevole di averla ricoverata lì, che vado ogni giorno a
trovarla per farmi perdonare, percorrendo chilometri in autobus o in
treno. Sono esausto. Non godo di nessun senso di sollievo. E quando
torno a casa, la solitudine mi è insopportabile”.
Oppure: ”Ho lasciato mio marito una settimana con la badante che è
bravissima ed è ormai di famiglia. Avevo bisogno di curarmi. Come
starà? Si ricorderà di me quando torno?”
La negazione del diritto di soddisfare i propri bisogni personali ed il
senso di colpa per non essere all’altezza del compito, per il desiderio di
distacco dal malato o per il difficile governo di un equilibrio tra ruoli
diversi (es. caregiver figlia, ma anche moglie, madre e lavoratrice) sono
per il prestatore di cura famigliare una costante. E sono anche, abbiamo
visto, potenziale causa e sintomo del burn out. Pensare “giraffa”, in
questo caso, significa avviare un processo di trasformazione interiore
all’insegna della riappacificazione con se stessi e dell’autenticità. Il
senso di colpa può essere definito a mio parere come il frutto di
34
un’operazione di confronto tra ciò che abbiamo fatto o detto e ciò che
una parte di noi ritiene dovesse essere fatto o detto. L’agito e il non
agito sono comunque espressione e voce di un sistema di bisogni
presente nella nostra vita. Nulla è da eliminare e cancellare, tutto va
accolto e ascoltato: nella cornice CNV il senso di colpa non si elimina,
bensì si trasforma in qualcosa di utile.
Processo Eckert Processo Eckert con “rinforzo
autoempatico”
Individuazione situazione
colpevolizzante Individuazione situazione colpevolizzante
Individuazione dei verbi di dovere
(sciacallo interno)
Individuazione dei verbi di dovere
(sciacallo interno)
Individuazione dei bisogni che non
abbiamo soddisfatto a causa della scelta
che ci fa sentire colpevoli
Individuazione dei bisogni che non
abbiamo soddisfatto a causa della scelta
che ci fa sentire colpevoli
Inventario sentimenti negativi provati Inventario sentimenti negativi provati
Individuazione dei bisogni che abbiamo
soddisfatto a causa della scelta che ci fa
sentire colpevoli
Individuazione dei bisogni abbiamo
soddisfatto a causa della scelta che ci fa
sentire colpevoli
Percorso OSBR
Inventari sentimenti positivi provati
grazie alla scelta fatta (rinforzo auto
empatico)
Percorso OSBR
Figura 4 - Processo CNV Eckert con rinforzo empatico (adattamento Valeria Pruzzi)
Anche il senso di colpa ci sta informando del fatto che una parte di noi
ha scelto in virtù di un bisogno in quel momento vitale o sulla scorta
delle risorse che in quel momento avevamo a disposizione. Ecco dunque
che, dietro sentimenti di tristezza, preoccupazione, colpevolezza,
emergono i bisogni che abbiamo cercato di soddisfare facendo quello
che abbiamo fatto; in tal modo quella “nuvola di colpa”51 che ci porta a
pensare ossessivamente ai dettagli del passato limitando così la nostra
intraprendenza, si fa più sottile consentendoci di gustare il senso delle
51
Holly Michelle Eckert, Liberarsi dal senso di colpa, Esserci Edizioni, 2011, pag. 105.
35
nostre scelte. Il processo di superamento del senso di colpa, consente
infatti di:
trasformare i sentimenti di colpevolezza in sentimenti positivi;
attutire il peso della critica del nostro giudice interiore
accogliere con benevolenza la nostra parte egoista
farci riconciliare con il passato e con noi stessi
L’approccio CNV per il superamento dei sensi di colpa ci conduce
armonicamente lungo la strada dell’esplorazione del significato profondo
delle nostre scelte poggiandosi saldamente sull’accoglimento dei nostri
bisogni. La CNV trasforma l’o/o in e/e. I pensieri di “dovere” (avrei
dovuto, devo…) lasciano il posto ai pensieri di “possibilità” consentendo
l’acquisizione di una prospettiva diversa. All’interno dei gruppi AMA, o
interiormente ed in solitudine, il processo proposto può dunque
diventare per il caregiver, carico di emozioni dolorose e autocritica, uno
strumento di self help e di benessere.
36
CAP. 4
PERCORSI CONDIVISI DI EMPOWERMENT E RESILIENZA.
GRUPPI DI MUTUO-AIUTO CNV IN PRESENZA E VIRTUALI
Dinamiche dell’automutuo aiuto tradizionale e social
Empowerment e resilienza sono le parole chiave del percorso di
protezione e cura di cui un caregiver ha diritto. La sindrome del
caregiver, se così possiamo definire lo stato di fragilità fisica e
psicologica cui un caregiver va incontro dopo un lungo periodo di
assistenza dentro le mura domestiche, può e deve essere fronteggiata
per tempo. In attesa che l’Italia riconosca lo status giuridico del
caregiver, non possiamo che incoraggiare la più alta diffusione di buone
pratiche di sostegno da parte di chi dei caregiver si occupa. Sono
proprio queste pratiche che offrono al caregiver occasioni di auto-
potenziamento (empowerment inteso come aumento di conoscenze e
abilità, autostima, autoefficacia, fiducia e speranza) e di ri-
progettazione della propria vita anche se in un contesto difficile,
doloroso e sfidante (resilienza). Abbiamo già visto52 come i gruppi di
automutuo aiuto rappresentino un setting di sostegno integrato nel
welfare esistente. L’automutuo aiuto si fonda sul presupposto che il
gruppo abbia in sé la potenzialità di promuovere dinamiche di reciproco
aiuto tra i suoi membri; il passaggio dall’essere gruppo all’essere
gruppo di mutuo aiuto non è però scontato. Al di là dell’elemento
strutturale (il gruppo deve essere costituito da un minimo di 3 membri
ad un massimo di 12 e tutti i membri devono avere un problema in
comune), diventa fondamentale creare nel gruppo un clima che
consenta l’apertura e la valorizzazione del contributo di ognuno.
52 Pag. 24
37
Figura 5 - Gruppo AMA in azione
Come immaginare in concreto l’approccio CNV nel contesto dei
programmi di caring help attuati tramite i gruppi AMA? Come agevolare,
tramite la danza giraffa, il processo di auto ed etero-terapia insito nel
mutuo sostegno53?I gruppi di automutuo aiuto sembrano, già per la loro
struttura garantire la possibilità di interazione tra i partecipanti che
ascoltano e condividono la narrazione54 della cura. Nelle fasi di
narrazione, base comunicativa del sostegno ricercato aderendo ad un
gruppo AMA55, la propria esperienza da personale diventa comune e le
tante storie, personali e comuni nello stesso tempo, con le innumerevoli
variazioni su un unico tema così tanto conosciuto, danno la possibilità di
ri-conoscersi emotivamente e di apprendere nuovi modi di affrontare
situazioni che altrimenti continuerebbero a sembrare insormontabili56.
L’avvento delle nuove tecnologie e dei social media ha aperto le porte
ad una possibilità di narrazione e condivisione ancora più ampia. Le
comunità virtuali di caregivers57, oltre ad essere contenitori di
conoscenza rispetto alle modalità di gestione della patologia d cui è
affetto il familiare assistito o rispetto a tematiche afferenti la gestione 53
V.Calcaterra, Attivare e facilitare i gruppi di automutuo aiuto,Erickson Centro Studi Edizioni,2013,pag 20
parla di helper therapy facendo riferimento a Riessman, 1965.
54 Magris C., in Ambrosiana, Marzo-Aprile 1997, citato in Storie di Vita, progetto West, Regione Emilia
Romagna, 2004, pag. 11.
55 In questo lavoro note sui gruppi AMA, pag. 24.
56 In questo senso si può parlare di significato terapeutico della narrazione.
57 Decine sono i gruppi d caregivers su Facebook. Particolarmente attivo e dinamico il Gruppo Alzheimer
Tolentino che aperto dal caregiver Andrea Crocetti rappresenta senza dubbio un esempio di gruppo di
automutuo aiuto virtuale.
38
della “burocrazia” dell’assistenza, è spesso il primo, magari unico, luogo
di confronto con persone che stanno facendo la stessa esperienza.
Nonostante la non presenza fisica (anzi talvolta proprio grazie a questo)
il social media è palcoscenico di dinamiche tipiche dell’automutuo aiuto;
dialogo, reciprocità, capacità di ascolto ed empatia sono dunque gli
ingredienti di un momento di gruppo - in presenza e virtuale - che, se
impostato e facilitato in modo adeguato, diventa consolatorio e
terapeutico per il semplice fatto di essere luogo della condivisione
emotiva e della conoscenza di nuove possibilità.
Figura 6: Empatia e ascolto reciproco, aspetti chiave dei gruppi AMA e della CNV
Manuale pratico per l’attivazione e la facilitazione di gruppi di
mutuo aiuto caregivers basati sulla CNV
Quest’ultimo paragrafo è dedicato ai facilitatori di gruppi AMA o a chi
volesse guidare un cerchio di pratica CNV per caregivers. Il mio
obiettivo è quello di fornire strumenti e tracce di lavoro (Schede
operative58) ispirate alla CNV da utilizzare nel qui ed ora con il gruppo
in relazione alle emergenze portate da ogni partecipante. L’utilizzo nel
58
Le schede operative sono liberamente ispirate agli esercizi contenuti nell’ampia produzione letteraria di
Marshall B. Rosenberg. Per il superamento del senso di colpa ho rivisto il processo di Holly Michelle Eckert
inserito nel libro “Liberarsi dal senso di colpa- Sei passi per riappropriarsi della propria vita” Ed. Esserci,
2011 inserendo il passo da me chiamato “di rinforzo empatico”.
39
gruppo o nel cerchi di pratica, oltre a fornire sostegno immediato, ha
nel contempo il vantaggio di rendere i caregiver autonomi nel loro
utilizzo. All’interno del gruppo di sostegno, setting privilegiato di un
percorso sociale di potenziamento e cura di sé, il caregiver può
apprendere come utilizzare quegli stessi strumenti in modalità self help
nei momenti quotidiani di difficoltà. Alcune schede potranno essere
altrettanti stimoli ed esempi da utilizzare nelle conversazioni a distanza
delle Community social che con serietà e ascolto compassionevole sono
una testimonianza quotidiana del bisogno di reciproco sostegno. Il
linguaggio dell’empatia può infatti essere parlato prescindendo dal
canale comunicativo prescelto (web, telefono, Skype, mail…) e la danza
giraffa ha il dono di essere universale sebbene, nello stesso tempo,
intima.
40
Facilitazione di gruppi di sostegno o cerchi di pratica autogestiti
per caregivers secondo l’approccio CNV
SCHEDE OPERATIVE
SCHEDA 1: Formare il gruppo; il quadro dell’interdipendenza alla
luce dei bisogni universali secondo la CNV
Scopi dell’attività:
celebrare la nascita e l’avvio del gruppo
esplicitare la finalità e le regole del gruppo
costruire insieme il quadro dell’interdipendenza alla luce dei bisogni dei partecipanti
iniziare un percorso di familiarizzazione con le categorie dei bisogni secondo la CNV
Il facilitatore coinvolge il gruppo nella condivisione di regole cui attenersi
responsabilmente per consentire la creazione di un clima rassicurante nel quale ogni
partecipante possa sentirsi libero di aprirsi (riservatezza, parlare di sé in prima
persona per avviare processi di responsabilizzazione ed empowerment, critica
abolita).Il facilitatore invita inoltre il gruppo a condividere regole di interdipendenza
(quadro) fondate sui bisogni espressi da ogni partecipante (prima di iniziare questo
momento di lavoro viene fatta dal facilitatore un’introduzione alla CNV; vengono a
questo punto consegnati gli elenchi di sentimenti e bisogni di Marshall B. Rosenberg).
Il facilitatore scrive sul foglio di una flip chart quanto prodotto dal gruppo raccordando
le regole ai bisogni espressi.
Esempio di un quadro dell’interdipendenza:
corresponsabilità; ognuno contribuisce al buon funzionamento del gruppo attraverso
il rispetto delle regole
rispetto reciproco
ascolto silenzio di chi parla
libertà di non intervenire
accoglienza delle diversità
Il foglio scritto rimane appeso al muro quando il gruppo si riunisce nei successivi
incontri. Il facilitatore ricorda che è responsabilità del gruppo negoziare i cambiamenti
del quadro alla luce dei bisogni dei partecipanti.
41
SCHEDA 2: L’alfabeto dei sentimenti
Scopi dell’attività:
Rendere il caregiver consapevole dei sentimenti provati nel gruppo e durante le
diverse fasi di una giornata di assistenza al proprio caro
Facilitare l’attribuzione di valore ai sentimenti provati collegandoli ai bisogni
Far sostare i partecipanti sui sentimenti negativi (es. la rabbia) allo scopo di
coglierne la ricchezza
Facilitare un processo di apprezzamento di come ci si sente momento per momento
Iniziare un percorso di familiarizzazione con sentimenti e bisogni universali secondo
la CNV
Il facilitatore invita i partecipanti a nominare e scrivere i sentimenti provati nel qui ed
ora seguendo le lettere dell’alfabeto. Terminato il lavoro propone la rilettura dei
sentimenti nel seguente modo:
F. Quindi tu ti sei sentito (S)….. quando hai visto, sentito…(O).?
Il facilitatore propone di proseguire utilizzando lo stesso procedimento per i sentimenti
provati a casa con il proprio famigliare, proponendo una riflessione sul sentimento
come “sentinella” di benessere (Bisogni soddisfatti) o malessere (Bisogni
insoddisfatti).
Nel caso di sentimenti di sofferenza o rabbia o frustrazione il facilitatore proporrà una
riflessione sul sentimento come risorsa per l’esplorazione dei propri bisogni
insoddisfatti.
Il gruppo potrà procedere con la condivisione di suggerimenti per consentire ai
compagni di viaggio di sperimentare nuove soluzioni e nuove prassi più funzionali ai
bisogni emersi.
Il procedimento risulta estremamente utile per condividere una riflessione sul fatto che
nel crocevia di relazioni del caregiver, ogni individuo vive la stessa condizione.
42
SCHEDA 3: TRASFORMARE IL DIALOGO INTERNO
Scopi dell’attività:
Rendere il caregiver consapevole di quanto un dialogo interno critico e giudicante
“alieni dalla vita” e sia espressione di bisogni non soddisfatti
Individuare le ricadute dell’ atteggiamento autocritico sul sistema di relazione
caregiver/famigliare
Apprendere i primi passi della danza giraffa e dell’autoempatia
Il facilitatore invita i partecipanti a soffermarsi su situazioni quotidiane che innescano
giudizi su di sé ed autocritica. La narrazione dei caregivers, cui si darà molto spazio,
consentirà infine al facilitatore di condividere nel gruppo le caratteristiche del
linguaggio sciacallo che se non trasformato nel linguaggio di sentimenti e bisogni
consoliderà nel caregiver sentimenti di vergogna e senso di colpa.
In particolar modo il facilitatore condividerà il significato di:
- etichetta (sono un incapace, non sono in grado di far star meglio mio
marito/moglie/padre/madre…)
- generalizzazione (non va mai bene quello che faccio, succede sempre che…)
- pretesa verso se sé stessi (dovrei fare, dovrei essere, dovrei dire…)
Si inviterà dunque il gruppo ad abbandonare il linguaggio sciacallo per trasformarlo nel
linguaggio dei bisogni attraverso un allenamento sul processo OSBR (Osservazione,
Sentimenti,Bisogni,Richieste)
In tal modo il caregiver sarà accompagnato sulla strada della pacificazione personale
imparando a dare senso ad un agire così facilmente sanzionato.
In questa sessione di lavoro il facilitatore potrà introdurre il tema delle “parti di noi”
richiamando l’IFS (Internal Family System) di R. Schwartz ed il concetto della
“famiglia in noi”; come caregiver, che si prendono cura amorevolmente del proprio
famigliare, possiamo trasferire la stessa compassione a quelle parti di noi stanche,
arrabbiate, frustrate che ci stanno facendo sapere qualcosa di importante. Una volta
riconosciute, le parti di noi di cosa vogliono farci sapere?
Per rendere il clima aperto alla discussione può essere trasmesso il film d’animazione
”Vice Versa “della PIXAR che racconta delle emozioni in noi.
Sarà fatta infine una riflessione sull’impatto del non ascolto e della critica su noi stessi
e sui nostri cari.
43
SCHEDA 4: IL CORAGGIO E LA CAPACITÀ DI CHIEDERE SENZA
PRETENDERE
Scopi dell’attività:
Imparare a chiedere aiuto
Imparare a chiedere aiuto senza pretendere
Il facilitatore invita i partecipanti a soffermarsi sui rischi del non accoglimento della
propria vulnerabilità (descrivendo per esempio i rischi del burn out) e su situazioni
quotidiane che hanno innescato conflitti in famiglia con famigliari o con altri cargiver
Scopo della riflessione sulla vulnerabilità è l’aumento della consapevolezza su quanto
possa essere pericoloso il caregiven burden (peso della cura) e su quanto sia salvifico
il domandare supporto e aiuto; la condivisione di situazioni conflittuali ha l’obiettivo di
far riflettere i caregivers sul fatto che molto di frequente il conflitto, che genera poi
tristezza, o rabbia, o frustrazione nasce nel momento in cui le nostre richieste sono
state percepite come pretese e non come richieste.
La sessione si focalizzerà sull’importanza dell’uso di un linguaggio chiaro, concreto, e
positivo accompagnato dalla specificazione dei sentimenti e bisogni di chi parla. Solo in
questo modo la richiesta non rischierà di essere percepita come pretesa.
Ci si soffermerà sull’impatto della pretesa in noi e nell’altro (sottomissione che genera
rancore, ribellione e rifiuto che generano sensi di colpa)
Quindi, partendo dalle situazioni narrate all’inizio, il facilitatore proporrà giochi di ruolo
in coppia in cui entrambi i partecipanti almeno una volta faranno una richiesta con il
linguaggio giraffa.
Es: Cargiver a famigliare che non convive con il caregiver stesso e con il padre affetto
da demenza: “Quando sento che ti rivolgi a me in questo modo, mi sento agitato e
anche sfinita perché avrei bisogno di collaborazione e di una risoluzione pacifica delle
nostre differenze di vedute. Puoi dirmi, se ti senti, cosa ritieni che io possa fare di
diverso anziché dirmi cosa pensi di me?”
44
SCHEDA 5: LA DANZA DELL’EMPATIA
Scopi dell’attività:
Ricevere empatia
Fare pratica di empatia nel gruppo
Il facilitatore invita i partecipanti a richiamare alla memoria una situazione critica con
il proprio caro (per es. in caso di aggressività verbale nel momento della messa a
letto). Dopo aver condiviso il senso profondo dell’empatia secondo la CNV
(comprendere i sentimenti e i bisogni dell’altro ponendoci, anche silenziosamente,
sulla sua lunghezza d’onda emotiva) chiedere al gruppo di offrirsi empatia
reciprocamente mettendo l’accento su ciò che è vivo nel momento presente.
Il facilitatore chiede ad un partecipante di poter condividere la sua situazione per una
sessione d’empatia in plenaria. La sessione con un caregiver volontario consentirà al
gruppo di apprendere i passi dell’empatia.
I passi dell’empatia:
1. Presenza (essere silenziosamente “con” i sentimenti dell’altro, senza giudizi,
paragoni, consigli…)
2. Verifica verbale del nostro essere veramente connessi ai sentimenti (es
…”percepisco molta sofferenza quando mi dici che tuo marito ti ha insultato mentre
lo stavi aiutando a mettersi a letto …è forse perché avresti bisogno di rispetto e
riconoscenza per tutto quello che fai ogni giorno per lui da due anni..ho capito
bene?)
3. Stare “con” anche silenziosamente fino a quando non capiamo (osservando anche il
non verbale)che l’empatia è arrivata
4. Verificare chiedendo “c’è altro che vorresti aggiungere?”
5. Se non c’è altro, dare al partner di empatia un ritorno su come abbiamo vissuto
l’esperienza per creare ulteriore connessione e solo se ci viene chiesto possiamo
condividere strategie per rispondere al bisogno.
Al termine il facilitatore divide a coppie per ripetere il processo. È auspicabile che tutti
ricevano empatia.
45
SCHEDA 6: LA DANZA DELL’AUTOEMPATIA
Scopi dell’attività:
Imparare a dialogare con se stessi in modo empatico
Prendere coscienza del fatto che sapersi nutrire di auto empatia migliora la capacità
di essere empatici con il nostro caro
Il facilitatore invita nuovamente i partecipanti a richiamare alla memoria una
situazione critica con il proprio caro. Dopo aver richiamato il senso profondo
dell’empatia secondo la CNV (comprendere i sentimenti e i bisogni dell’altro
ponendoci, anche silenziosamente, sulla sua lunghezza d’onda emotiva), fornire ai
partecipante il materiale necessario per prepararsi “la pista di danza dell’autoempatia
(in foto) ”. Il facilitatore chiede ad un partecipante di poter condividere la sua
situazione per una sessione di autoempatia in plenaria;in questo modo, affiancando il
caregiver volontario, verranno ripercorsi passi di danza dell’empatia (scheda 5). Il
facilitatore ricorderà al gruppo che il darsi auto empatia silenziosa produrrà comunque
un allentamento della tensione interiore. Inoltre sostare su sentimenti e bisogni aiuta
a fare richieste (anche a sé stessi) coerenti ed utili.
Pista di danza
46
SCHEDA 7: ALLEVIARE I SENSI DI COLPA
Scopo dell’attività:
Condividere il processo CNV di superamento dei sensi di colpa per aumentare la
gioia nel vivere la propria condizione ed il proprio benessere
Il facilitatore chiede ai partecipanti di condividere i sensi di colpa con cui più
frequentemente convive o che procurano maggior dolore.
Prone dunque ad una persona del gruppo di partecipare ad una dimostrazione del
metodo Eckert con rinforzo empatico.
La sessione consentirà di cogliere il senso ed il valore della CNV nelle diverse fasi del
processo consentendo ai partecipanti di poterlo sperimentare anche da soli Esempio:
1. Individuazione della situazione che crea senso di colpa (“mia moglie mi chiama
sempre quando la nostra badante la cambia e io faccio finta di non sentirla”)
2. Individuazione dei verbi di dovere (“dovrei starle vicino, è malata, sono vero
egoista”)
3. Individuazione dei bisogni insoddisfatti a seguito della scelta colpevole (bisogno di
cura e protezione)
4. Inventario dei sentimenti negativi provati (tristezza, vergogna,inquietudine)
5. Individuazione dei bisogni soddisfatti a seguito della scelta colpevole (bisogno di
cura di sé, di riposo, socialità mentre chiacchieravo al telefono con un amico)
6. Inventario dei sentimenti positivi provati (libertà, calma, allegria)
7. Percorso finale OSBR (Quando penso al fatto che mi ritaglio mezz’ora di libertà
quando la badante cambia mia moglie, mi sento sereno e appagato, perché ho
bisogno di socialità, di volermi bene e di libertà di scegliere per me stesso. Voglio
ricordare a me stesso che farlo non toglie nulla all’amore che provo per mia
moglie)
47
SCHEDA 8: TRASFORMARE LA RABBIA IN UN’ENERGIA AL
SERVIZIO DELLA VITA
Scopo dell’attività:
Condividere il processo CNV di gestione e superamento della rabbia
Il facilitatore chiede ai partecipanti di condividere alcune situazioni in cui si ha la
sensazione di perdere il controllo per un forte sentimento di rabbia. Dopo aver
ricordato che la rabbia viene solo stimolata da persone e/o eventi, il facilitatore ne
rammenta la funzione vitale. Dietro la rabbia – espressa attraverso il nostro linguaggio
sciacallo - c’è infatti sempre un bisogno che sta aspettando di essere riconosciuto e
che ci sta informando del fatto che stiamo vivendo una situazione che non è al servizio
della nostra vita.. Anche in questo caso la dimostrazione del processo in plenaria
consentirà ai partecipanti di applicarlo in autonomia anche al di fuori del gruppo. Per
rendere più chiare le fasi di lavoro si potranno posizionare di cerchi di cartoncino
caratterizzati dalla S di sciacallo e dalla G di giraffa. Il facilitatore entrando ed uscendo
dai cerchi simulerà una situazione parlando i due tipi di linguaggio; quando sarà nel
cerchio giraffa il facilitatore userà l’espressione “mi sento…..perchè io ho bisogno
di……..” sottolineando il fatto che oguno di noi ha la responsabilità dei propri
sentimenti.
Con la dimostrazione si porrà l’attenzione sul fatto che, proprio nei momenti di
tensione che coinvolgono altri, il linguaggio giraffa predispone chi è intorno a noi ad un
maggiore ascolto e non all’autodifesa. Nel caso in cui lo stimolo arriva da una persona
affetta da demenza, il caregiver verrà invitato ad esplorare comunque i suoi bisogni
associando alla gestione della rabbia il processo di superamento dei sensi di colpa.
48
CONCLUSIONI
Il vero amore non è né fisico né romantico.
Il vero amore è l’accettazione di ciò che è, è stato, sarà e non sarà.
Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto, ma
coloro che traggono il meglio da ciò che hanno.
La vita non è una questione di come sopravvivere nella tempesta, ma di come danzare
nella pioggia.
Kahlil Gibran
Seppur difficile da accettare, seppur invincibile, la malattia di un proprio
caro può comunque offrire infiniti momenti di ri-unione, armonia,
pienezza e significato. Questo lavoro ha inteso porre l’attenzione sui
rischi di un caregiving che, in assenza di spazio per la cura di chi si
prende cura, può trasformare un luogo di compassione e benevolenza in
un contesto di disagio e malessere. Ho proposto la CNV di Marshall B.
Rosenberg come pratica di vita e di benessere, perché alla CNV sono
giunta nella fase più critica del mio percorso di caregiver. Avevo, e ora
ne sono più che mai consapevole, bisogno di sollievo, pace, empatia,
comprensione e ascolto all’interno di un contesto familiare le cui
dinamiche sono nel tempo della malattia profondamente cambiate
proprio in assenza di equilibrio nei carichi di cura. La CNV con la sua
danza giraffa ci dona il bisogno di prenderci cura dei nostri bisogni e di
diventare, in ultima analisi, i caregiver di noi stessi. Acquisire
consapevolezza del mio vissuto di caregiver, dei miei sentimenti e dei
miei bisogni in quanto soprattutto essere umano è stata la strada
maestra per una riconsiderazione generale del mio personale modo di
affrontare la malattia, di alcune dinamiche famigliari complicate, di
alcune relazioni difficili e apparentemente non recuperabili. La
facilitazione dei formatori CNV del Centro Esserci mi ha guidato sulla via
della ricerca di un nuovo equilibrio nell’essere figlia di una caregiver
primaria, caregiver secondaria di mio padre (ed anche di mia madre),
49
madre di tre figli, moglie e professionista. Il rinnovato rispetto per me
stessa mi ha condotto (e mi sta conducendo…) verso la cura di alcune
ferite, verso la pacificazione interiore, verso una rinnovata fiducia e
speranza nelle relazioni umane per quanto complicate possano
sembrare. Molto è il lavoro da fare ma il mio rinnovato benessere incide
in modo sistemico nel contesto in cui vivo. L’indicatore è un sempre più
frequente senso di pace, una maggiore tolleranza verso alcune fatiche,
una maggiore capacità di soddisfare i miei bisogni nel rispetto, talvolta
con fatica e con un certo margine di errore, dei bisogni degli altri. I
primi passi nell’uso del linguaggio empatico della CNV e della danza
giraffa in effetti non sono stati e non sono semplici; spesso sembra che
mi manchino le parole o l’armonia dei movimenti. Ogni giorno occorrono
pratica, determinazione e desiderio di migliorarsi scoprendo di volta in
volta il buon sapore della riuscita. Sul palcoscenico del caregiving la
cura di sé, che Marshall B. Rosenberg ha posto al centro del suo
approccio, ha un doppio valore; ha valore per noi stessi in quanto esseri
umani e ha valore per i nostri cari a cui, nell’ultimo tratto della loro
faticosa esistenza, potremo dire ancor più consapevolmente e con gioia
“siamo persone che hanno valore ed io mi prendo cura di NOI”.
50
BIBLIOGRAFIA
Calcaterra Valentina, Attivare e facilitare i gruppi di automutuo aiuto,
Ed. Erickson, 2013
Barnes Marian, Storie di caregiver - Il senso della cura, ed. Erikson,
2006
D’Ansemburg Thomas, Più felici di così si può, Esserci Edizioni, 2006
Eckert Holly Michelle, “Liberarsi dal senso di colpa- Sei passi per
riappropriarsi della propria vita”, Esserci Edizioni, 2011
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SITOGRAFIA
www.alzheimer-riese.it
www.automutuoaiuto.it
CAREGIVER COMMUNITY IN FACEBOOK
Gruppo Alzheimer Tolentino
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