ALCESTE CATELLA
VESCOVO DI CASALE MONFERRATO
«Questa è l’opera di Dio: che crediate
in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29)
Riflessioni sulla Fede, il Battesimo,
l’Eucaristia, la Carità
Messaggio alla Diocesi per l’anno pastorale 2012–2013
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Misericordias Domini cantabo
Carissimi,
anche quest‟anno desidero raggiungervi con un messaggio che aiuti
tutte le comunità a riflettere e a vivere la nostra esistenza cristiana:
personalmente e come Chiesa diocesana. Siamo impegnati a tradurre
in pratica la “passione” per il compito educativo. Siamo impegnati a
riscoprire il senso dell‟educare alla fede, del trasmettere la fede,
dell‟iniziare alla fede. Il papa Benedetto XVI propone a tutta la
Chiesa di vivere un “anno della fede”…; da tutto questo sorge il
contenuto del presente messaggio: si tratta di quattro
catechesi/riflessioni riguardanti la fede, il Battesimo, l‟Eucaristia, la
vita morale del cristiano.
Questo messaggio, certamente rivolto a tutti, ha la famiglia come
destinatario privilegiato. Ritengo, infatti, assai necessario un
rinnovato e generoso impegno evangelizzante con la famiglia e per la
famiglia proprio in quell‟ambito decisivo che è l‟iniziazione cristiana
che trova il suo alveo portante e la sua fonte primaria nel sacramento
del Battesimo, porta della fede e di tutta la successiva vita cristiana
ed ecclesiale.
Siamo ogni giorno posti di fronte alla necessità di coinvolgere e
responsabilizzare le famiglie in un compito che è poi loro proprio:
l‟educazione cristiana di quei figli per cui chiedono i sacramenti della
iniziazione. Le famiglie lo fanno per motivi che a volte sembrano,
almeno per alcune, di pura tradizione o derivati da scelte non
propriamente di fede. Eppure il fatto che chiedano i sacramenti è
comunque un segno importante della sensibilità e apertura ai doni di
Dio ed è per la comunità cristiana un appello forte per una risposta
efficace sul piano dell‟accoglienza, dell‟evangelizzazione e
dell‟accompagnamento. Per cui possiamo ben dire che “cristiani si
diventa in famiglia”, che è la prima “Chiesa domestica” e il primo
grembo dove oltre che la vita fisica deve crescere e irrobustirsi quella
vita divina che la Chiesa ha immesso in ogni bambino donandogli il
sacramento della rinascita in Cristo, il Battesimo.
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La famiglia non va dunque considerata solo oggetto di cura pastorale svolta da noi sacerdoti, diaconi o catechisti ma diventa vera protagonista e responsabile in prima persona della comunicazione della fede e della vita cristiana ai propri figli. Non serve fare tanti discorsi sulla famiglia e per la famiglia, ma anzitutto mettersi di fronte ad essa con simpatia e trovare con essa le vie per raggiungere insieme questo obiettivo decisivo per la crescita umana e cristiana delle nuove generazioni. Non si tratta di proporre una lunga serie di incontri; si tratta di proporre loro l’essenziale, vale a dire: la riscoperta della fede da
viversi con i figli; la riscoperta della vita della Chiesa attraverso la pratica fedele della Messa festiva e attraverso la pratica concreta
del comandamento cristiano. Quando incontriamo una famiglia non possiamo scindere il tema religioso, l‟evangelizzazione, dalla concretezza della sua vita, dalla fatica del suo crescere in unità, dall‟impegnativo compito di educare i figli, dal carico di problemi, anche primari, che deve affrontare ogni giorno. Eppure, malgrado ciò, io sono convinto che ogni famiglia o coppia di genitori che si avvicina alla Chiesa, va considerata un dono ed una risorsa importante; ogni famiglia che resta ai margini della nostra pastorale è comunque aperta all‟incontro, se noi la cerchiamo là dove vive e sappiamo portare speranza e amore nei momenti più difficili o di bisogno. Le famiglie di oggi, con tutte le loro povertà, vanno comprese, ascoltate, accompagnate nelle loro difficoltà e nel loro cammino di crescita, non giudicate. Esse vivono oggi sollecitazioni e accelerazioni culturali, difficoltà relazionali, povertà di tempo e di risorse spirituali che le famiglie delle passate generazioni non hanno sperimentato. Oggi, malgrado forti segnali preoccupanti, molte famiglie curano con vigore il loro patrimonio umano e cristiano e si pongono come sicura risorsa per una ripresa, in tanti ambiti, del nostro vissuto ecclesiale e sociale. Mettiamoci al loro passo, coinvolgendoci nei loro problemi, offrendo una sponda forte di sostegno alla loro debole o forte fede e a riscoprire quanto Dio le ami e quanto la Chiesa sia prossima alle loro concrete necessità e le aiuti nel compito educativo.
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I. LA FEDE CRISTIANA È UN INCONTRO REALE,
UNA RELAZIONE CON GESÙ CRISTO
Gesù gli disse: «Tutto è possibile per chi crede». Il padre del
fanciullo rispose subito ad alta voce: «Credo, aiuta la mia
incredulità!» (Mc 9, 23-24).
A Dio che si rivela è dovuta l‟obbedienza della fede, con la quale
l‟uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, prestando il pieno
ossequio dell‟intelletto e della volontà a Dio che rivela e assentendo
volontariamente alla rivelazione data da lui (Costituzione Conciliare
Dei Verbum, n. 5).
La fede è la risposta dell‟uomo a Dio che gli si rivela e gli si dona,
apportando nello stesso tempo una luce sovrabbondante all‟uomo in
cerca del senso ultimo della vita (Catechismo della Chiesa Cattolica ,
n. 26).
La fede cristiana non è soltanto una dottrina, una sapienza, un
insieme di regole morali, una tradizione. La fede cristiana è un
incontro reale, una relazione con Gesù Cristo. Trasmettere la fede
significa creare in ogni luogo e in ogni tempo le condizioni perché
questo incontro tra gli uomini e Gesù Cristo avvenga. L‟obiettivo di
ogni evangelizzazione è la realizzazione di questo incontro, allo
stesso tempo intimo e personale, pubblico e comunitario. Come ha
riaffermato Papa Benedetto XVI «all‟inizio dell‟essere cristiano non
c‟è una decisione etica o una grande idea, bensì l‟incontro con un
avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e
con ciò la direzione decisiva. […] Siccome Dio ci ha amati per primo
(cf. 1Gv 4,10), l‟amore adesso non è più solo un “comandamento”,
ma è la risposta al dono dell‟amore, col quale Dio ci viene incontro»
(BENEDETTO XVI, Deus caritas est, n. 1) Nell‟ambito della fede
cristiana, l‟incontro con Cristo e la relazione con lui avviene
«secondo le Scritture» (1Cor 15,3.4). La Chiesa stessa prende forma
proprio dalla grazia di questa relazione.
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Questo incontro con Gesù, grazie al suo Spirito, è il grande dono del
Padre agli uomini. È un incontro al quale veniamo preparati
dall‟azione della sua grazia in noi. È un incontro nel quale ci
sentiamo attratti, e che mentre ci attrae ci trasfigura, introducendoci
in dimensioni nuove della nostra identità, facendoci partecipi della
vita divina (cf. 2Pt 1,4). È un incontro che non lascia più nulla come
prima, ma assume la forma della conversione, come Gesù stesso
chiede con forza (cf. Mc 1,15). La fede come incontro con la persona
di Cristo ha la forma della relazione con lui, della memoria di lui in
particolare nell‟Eucaristia e nella Parola di Dio e crea in noi la
mentalità di Cristo, nella grazia dello Spirito; una mentalità che ci fa
riconoscere fratelli, radunati dallo Spirito nella sua Chiesa, per essere
a nostra volta testimoni ed annunciatori di questo Vangelo. È un
incontro che ci rende capaci di fare cose nuove e di testimoniare,
grazie alle opere di conversione annunciate dai Profeti (cf. Ger 3,6ss.;
Ez 36,24-36), la trasformazione della nostra vita.
Leggiamo in 1Gv 1,1-4: «Quello che era da principio, quello che noi
abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello
che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della
vita... quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a
voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra
comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo». Di
quest‟“incontro”, parliamo; ossia di un‟esperienza che attraverso la
testimonianza apostolica ci raggiunge e noi sentiamo, a nostra volta,
l‟intimo bisogno di trasmettere.
All‟origine della comunità cristiana c‟è l‟esperienza di Cristo, ossia
l‟incontro con la sua Persona. La fede si compie in quest‟incontro
con Cristo e «con lui la fede prende la forma dell‟incontro con una
Persona alla quale si affida la propria vita» (BENEDETTO XVI,
Verbum Domini, n. 25). Questo incontro, però, nel tempo presente
non si attua senza la mediazione della Chiesa (cfr Costituzione
Conciliare Lumen gentium, n. 1). L‟incontro con Cristo (Gesù di
Nazaret, vero Dio e vero uomo, che ha patito, è morto ed è risorto)
permette all‟uomo di accedere realmente alla “storia della salvezza”,
così che essa diventa “storia personale”, relazione personale con
Dio… Fede è, allora, incontro/relazione credente tra Dio che per
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amore si fa conoscere e incontrare e la libera adesione dell‟uomo che
conosce, si fida e si affida a Lui, nella totalità della sua esistenza.
Che cosa vuol dire incontro?
Per un primo approfondimento sarà di una certa utilità richiamare
almeno qualcosa riguardo alla categoria dell’incontro in prospettiva
di antropologia teologica. Diremmo, allora, che l‟uomo è se stesso
non già quando si chiude nella propria autosufficienza, ma quando si
muove in direzione dell‟altro e si apre a esso. Romano Guardini ha
scritto in proposito delle pagine molto profonde (ad es. in Etica
[Brescia 2001]). Ogni volta che trascende se stesso e si apre
all‟incontro, l‟uomo diventa, proprio in ciò, realmente uomo; evento
questo, che può perfezionarsi sino ad acquisire una particolare
intensità religiosa: quella dell‟“estasi”, appunto, che anche
letteralmente indica una forma di uscita da sé per amore di ciò, o di
chi gli si muove incontro. Che la persona umana, poi, possa essere
incontrata non solo da un‟altra persona umana, ma da Dio stesso, è
implicito nel fatto creaturale. L‟atto creatore di Dio ha sempre la
forma della chiamata. L‟uomo è stato creato con chiamata così che
egli, nel formarsi, diventa il “tu” di Dio ed è, a sua volta, in grado di
rivolgersi a Dio con il “Tu”.
È questa, la forma fondamentale in cui l’uomo esiste ed è ancora qui
che s‟inserisce anche il dinamismo della fede. Fede, infatti, è entrare
in questa chiamata; è l‟entrata nel rapporto io-tu col Dio che si rivela.
È il legarsi della persona che ascolta con la persona che parla.... La
stessa etica è possibile a partire dal fatto che Dio ha creato l’uomo
con chiamata, che l‟uomo si rapporta a Dio con relazione di io-tu e
che questa relazione passa attraverso ogni cosa.... L‟uomo, in
definitiva, non è un essere concluso in sé, ma esiste a partire da Dio e
verso Dio... In conformità con tutta la sua costruzione egli si realizza
nell‟incontro. Anzitutto con l‟uomo, con quello che la situazione di
volta in volta gli fa incontrare; e poi con le cose che egli trova nel
complesso articolato delle realtà che lo circondano. Infine, però, e in
maniera definitiva, nell‟incontro con Dio che lo ha fatto suo tu.
L‟uomo è persona, ma lo è in riferimento a Dio. L‟io dell‟uomo
esiste veramente nella relazione a Dio. L‟uomo è se stesso solo in
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quanto è il tu di Dio. E non solo psicologicamente, nel senso cioè che
egli si è sviluppato in modo particolare nel rapporto religioso, ma
essenzialmente, lo voglia o no, a sua salvezza o a sua perdizione. Se,
tuttavia, ciò si può e si deve dire riguardo all‟incontro e all‟incontro
con Dio nella prospettiva dell‟etica cristiana, ecco che noi siamo
inevitabilmente di nuovo condotti alla medesima “questione”, che è
pure alla radice dell‟emergenza educativa: ossia il falso concetto
dell‟autonomia dell‟uomo, di cui ha parlato Benedetto XVI nel suo
Discorso del 27 maggio 2010.
A questo punto propongo tre brevi catechesi che intendono illustrare
quanto abbiamo esposto precedentemente in modo sintetico
Prima catechesi
Elisabetta quando ricevette in casa sua la cugina Maria, la lodò
soprattutto per la sua fede: «beata colei che ha creduto
nell‟adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45). In questa
prima catechesi rifletteremo sulla fede, sorgente della nostra vera
beatitudine. Non parlerò dunque di nessuna verità che noi
professiamo nel Credo, ma cercherò di rispondere alla seguente
domanda: che cosa significa credere? Vi dico subito la risposta, così
che poi spiegandone ogni elemento, possiate seguire meglio. E la
risposta è: la fede è la risposta della persona umana a Dio che le
rivela se stesso ed il suo disegno di salvezza, dando allo stesso tempo
una luce sovrabbondante all‟uomo in cerca del senso ultimo della sua
vita.
In questa descrizione della fede entrano in gioco due soggetti: l‟uomo
e Dio. Di Dio si dice che «rivela Se stesso ed il suo disegno di
salvezza». Dell‟uomo si dice che, credendo, risponde a questa
rivelazione, cioè l‟accoglie, restando così illuminato nella sua ricerca
del senso della vita. Cercherò ora di riflettere brevemente su ciascuno
dei due attori che costituiscono il dramma della fede. Parto
dall‟uomo.
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L’uomo alla ricerca di senso
Tanti sono i nostri bisogni; tante sono le nostre domande. Ma se
andiamo in profondità, possiamo prendere coscienza che ciascuno di
noi non solo ha dei bisogni, pone delle domande, ma è bisogno, è
domanda. La Samaritana ha il bisogno di andare ogni giorno ad
attingere acqua, poiché, come ognuno di noi, vive dentro a questa
sorte di dialettica: sete-acqua-sete. Ma Gesù le fa percepire che ella,
che la sua persona stessa è sete. Tante persone vogliono eleggere
Gesù loro re, racconta il Vangelo di Giovanni (cfr. cap. 6), perché ha
saziato la loro fame. Ma non si rendono conto che non hanno solo
bisogno di pane, ma che sono bisogno di nutrimento. Lo percepisce
Pietro: «tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6,68, dice a Gesù, e si
attacca a lui per sempre.
Che cosa significa “ognuno di noi è bisogno, è domanda”? Vi aiuto a
rispondere ricorrendo ad un nostro grande amico, S. Agostino scrive
in quella che può essere chiamata la sua autobiografia (Le
Confessioni IV,4,9). Egli, come sono sicuro ciascuno di voi, era
affamato di amicizie. Ad un certo momento la morte gli strappa il suo
amico più caro. Egli è sconvolto: perché la morte ti toglie anche le
persone più care? Allora essa è più forte dell‟amore? Ma se è così,
perché continuiamo a desiderare un amore – in un parola: una vita –
più forte? E Agostino conclude: «io divenni a me stesso una
domanda». Agostino ha sperimentato ciò che ognuno di noi
sperimenta nei momenti più tragici o belli della sua vita: la vita è più
grande del nostro stesso vivere quotidiano, perché porta in sé
l‟esigenza di ragioni per cui valga la pena vivere. La vita quotidiana è
fatta di dolore, il dolore della morte dell‟amico, ma dentro a questo
vivere Agostino percepisce, o per lo meno desidera e sospetta, delle
ragioni per cui valga la pena vivere, nonostante tutti i nonostante.
Quali sono queste ragioni? Chi/che cosa risponde al mio desiderio di
vivere una vita per cui valga la pena di vivere?
Il bisogno è una mancanza con dentro una domanda (la Samaritana
manca di “acqua per spegnere la sua sete” e desidera e chiede
quest‟acqua). Ma nel momento in cui prendiamo coscienza della
nostra condizione, sovente presumiamo di non aver bisogno di
nessuno per trovare risposta al nostro bisogno oppure ci convinciamo
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che alla domanda che è ciascuno non esisterà mai risposta. Il rischio
più grande che noi oggi corriamo è quello di assopire, o censurare, o
perfino inibire questa immensa domanda che ci costituisce, questo
grande desiderio di “uscire all‟aperto per vivere nell‟ampiezza delle
possibilità dell‟essere uomo”.
Se non ci immunizziamo contro questo rischio, vivremo secondo i
nostri istinti sia pure dentro al quadro della legalità. Ma istinto e
legge sono oggi gli strumenti principali del potere dominante.
Quando noi parliamo di fede, presupponiamo un uomo e ci
rivolgiamo ad un uomo che non si accontenta semplicemente di
vivere, ma che cerca veramente il senso ultimo della vita ed il suo
gusto.
Dio rivela se stesso ed il suo progetto.
Vorrei partire dalla riflessione di un antico filosofo pagano, Platone,
che diceva più o meno così: «Infatti, trattandosi di questi argomenti,
non è possibile se non fare una di queste cose: o apprendere da altri
come stiano le cose, oppure scoprirlo da se stessi; ovvero, se ciò è
impossibile, accettare, fra i ragionamenti umani, quello migliore e
meno facile da confutare, e su quello come su una zattera, affrontare
il rischio della traversata del mare della vita: a meno che non si possa
fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida
nave, cioè affidandosi a una rivelazione divina» (Dialoghi, Fedone,
XXXV).
Come potete constatare l‟uomo che cerca risposta, si rende conto che
in fondo egli ha solo bisogno che nella sua vita accada un evento: che
Dio stesso gli venga incontro. È in fondo la stessa posizione che
Cesare Pavese espresse nei suoi diari il 27 novembre 1945, quando
scrisse: «qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? e allora perché
attendiamo?» C. PAVESE, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino, 1952,
p. 276).
Come avviene l‟incontro fra due persone? Lo strumento basilare, la
via dell‟incontro è la parola detta dall‟uno e la risposta dell‟altro.
Attraverso la parola si rivelano i propri sentimenti, i propri pensieri, i
propri desideri, i propri progetti. In una parola: se stessi. Possiamo
dire: l‟incontro è un evento linguistico. Ma non solo, e non
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principalmente. L‟incontro è anche e soprattutto una storia fatta di
eventi, di vita condivisa in una reciproca appartenenza. Pensate, per
esemplificare, all‟incontro fra un uomo ed una donna che venga
sigillato dal patto coniugale. L‟incontro è una storia. Sono dunque
questi i due elementi che costituiscono un incontro fra due persone:
parole e fatti. L‟incontro è sempre e un evento linguistico e un evento
storico.
Ascoltate ora il seguente testo: «Questa economia della rivelazione
avviene con eventi e parole tra loro intimamente connessi, in modo
che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano
e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole
proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto»
(Costituzione Conciliare Dei Verbum, n. 2).
Chi è il credente? È colui che ha incontrato Dio, che per la ricchezza
del suo amore gli parla come ad un amico, si intrattiene con lui per
invitarlo ed ammetterlo alla comunione con sé. Gli parla e compie
gesti divini di amore. La fede nasce da questo evento. Nel prossimo
paragrafo spiegheremo meglio parlando precisamente dell‟atto della
fede. Ora mi preme richiamare la vostra attenzione su un punto
centrale.
Non è difficile capire che questo fatto: Dio in Cristo parla all‟uomo e
compie i sui gesti di amore, deve in un qualche modo accadere oggi.
Non deve essere solo memoria di un evento passato, ma presenza
oggi dello stesso evento passato. Non solo memoria, ma presenza:
Cristo è nostro contemporaneo: solo così può essere risposta al
bisogno che è ciascuno di noi. Se ho fame, non mi basta pensare a
quando ho mangiato! Ho bisogno di avere il cibo ora.
Contemporaneità di Cristo non significa che tutto comincia sempre
da capo come se in un preciso momento e spazio non fosse accaduto
nulla. Ma nel senso che quanto è accaduto una volta, rimane per
sempre e ciascuno di noi in qualsiasi momento può incontrarlo.
Come? Mediante la Chiesa.
Anche a noi è possibile avere un contatto sensibile con Gesù, mettere,
per così dire, la mano sui segni della sua Passione, i segni del suo
amore: nei Sacramenti Egli si fa particolarmente vicino a noi, si dona
a noi. Possiamo “vedere”, e “incontrare” Gesù nell‟Eucaristia, dove è
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presente e vicino fino a farsi cibo per il nostro cammino; nel
sacramento della Penitenza, in cui il Signore manifesta la sua
misericordia nell‟offrirci sempre il suo perdono. Possiamo
riconoscere e servite Gesù anche nei poveri, nei malati, nei fratelli
che sono in difficoltà e hanno bisogno di aiuto.
Vedete dunque come la fede, incontro personale col Signore, ci
inserisce profondamente dentro alla Chiesa di ieri e di oggi. La mia
fede è la fede della Chiesa: è questa che sorregge e protegge la mia
fede.
La risposta a Dio che rivela se stesso ed il suo progetto di salvezza è
precisamente la fede; il rifiuto della risposta è l‟incredulità; il ritenere
Dio non affidabile; il sottrarsi all‟ascolto, all‟incontro, al dialogo…
Dobbiamo finalmente vedere che cosa è, in che cosa consiste questa
risposta.
Parto da una esperienza umana. Quando un ragazzo dice ad una
ragazza che la ama, che desidera condividere con lei la vita, che sia
lei la madre dei suoi figli, la ragazza ha tre possibilità di risposta. La
prima è di pensare che quel ragazzo non è sincero, non è affidabile, la
sta ingannando. La seconda è di rifiutare semplicemente quella
proposta. La terza è di consentire, e quindi di iniziare una storia di
amore.
Proviamo ad analizzare brevemente la terza risposta. Essa implica un
atto di intelligenza: “ciò che mi sta dicendo è vero; non mi sta
ingannando”. La ragazza è certa della verità delle parole dette. Ma
questo non è tutto. Ricordate la seconda risposta? Potrebbe essere
sicura che quel ragazzo non la sta ingannando, ma dirgli: “non mi
interessi … non sei il mio tipo”. Perché inizi una vera storia d‟amore,
è necessario che la ragazza si senta attratta verso il ragazzo; senta
come una sorta di trasporto affettivo nei suoi confronti.
Se mi avete seguito, non vi sarà ora difficile comprendere che cosa
significa credere. Dio si rivolge a ciascuno di noi oggi (ricordate la
contemporaneità) e dice: “ti voglio bene; desidero vivere con te una
storia di amore, perché io sono Amore” cfr 1Gv 4,8) (ricordate che
cosa significa Rivelazione). L‟uomo ritiene che Dio veramente gli sta
parlando; che quando gli dice il suo Amore, non lo sta ingannando:
gli dice la verità. Ecco il primo costitutivo della fede: la fede è un atto
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della ragione che ritiene con certezza assoluta che Dio gli sta dicendo
la Verità. La stessa ragione dell‟uomo, infatti, porta insita l‟esigenza
di ciò che vale e permane per sempre. L‟assenso che viene prestato
implica che quando si crede si accetta liberamente tutto il mistero
della fede, perché garante della sua verità è Dio stesso che si rivela e
permette di conoscere il suo mistero di amore (BENEDETTO XV,
Porta Fidei, n. 11) 1.
Ma la fede non si riduce a questo, ad un assenso della nostra ragione.
Essa implica anche un profondo interesse per quanto Dio sta dicendo;
implica una sorta di attrazione interiore verso la parola, meglio, verso
ciò che Dio sta dicendo: in ultima analisi verso Dio stesso. Ecco il
secondo costitutivo della fede: la fede è un atto della nostra libertà
che decide di porsi nella relazione amorosa col Signore. Quando
diciamo “credere a Dio” sottolineiamo l‟aspetto razionale della fede:
quando diciamo “credere in Dio” sottolineiamo l‟aspetto affettivo
della fede.
Ma questo non è tutto. La dimensione più importante della fede è
un‟altra. Ritorniamo all‟esempio. La ragazza dice sì perché si sente
attratta verso quel ragazzo. Donde nasce questa attrazione?
1 Soffermiamoci su di una esperienza comune: nel comportamento delle persone,
gli atti compiuti per “fede” sono di gran lunga più frequenti di quelli sottoposti al
controllo critico della “consapevolezza”. “Fede” è esperienza che il linguaggio
comune lega con la religione, ma non si può dimenticare il suo legame con la
totalità della vita umana. La fede-fiducia è l‟orizzonte che alimenta la vita. Ogni
atto libero si configura come “atto di fede” con il quale diamo, “accordiamo
credito” ad un bene che appare degno di dedizione e che come tale interpella la nostra libertà in vista di una decisione morale pretica. E questo è necessario per
vivere.
Nella fede religiosamente intesa vi è questa stessa esperienza vissuta non
genericamente (affidamento fiducia a qualcosa di genericamente religioso; c‟è fede
cristiana allorché questa esperienza è vissuta cristo logicamente connotata, cioè
come incontro, rapporto con la figura singolare di Gesù Cristo così come esso è
proposto dall‟annuncio-testimoninza della Chiesa (cfr Rm 10,17). Dunque non un
qualsiasi rapporto umano, bensì modellato su quello che intercorre tra Cristo e il
Padre. IModellato in altri termini, sulla “vita riuscita” di Cristo che obbedisce al
Padre. Su di Lui, il Cristo concreto che ascolta e mette in pratica la volontà del
Padre.
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Sicuramente dalle qualità che la ragazza intravede nel ragazzo: la sua
bellezza, la sua intelligenza. Nella fede accade qualcosa di grandioso.
Dio esercita un‟intima attrazione nei confronti della persona; gli
mostra come un raggio della sua bellezza, gli dona come una
pregustazione della dolcezza del suo amore. E la persona umana …
cede e resta come sedotta. Certamente, quindi, la fede è un atto
ragionevole e libero della persona che crede. Ma ancora prima e di
più è un atto di Dio stesso il quale muove il cuore dell‟uomo e lo
rivolge a Sé, apre gli occhi della mente e fa gustare la dolcezza nel
consentire alla parola di Dio.
In sintesi. La fede è un’adesione personale di tutto l’uomo a Dio
che si rivela, ed è costituita da un’adesione dell’intelligenza e da un
movimento della libertà.
Seconda catechesi
Rifletteremo su una sola, grande domanda. Gesù sta in mezzo a noi e
ci chiede: voi chi dite che io sia? (Mt 16,15).
Rispondere a questa domanda è di importanza fondamentale per la
vostra vita. E in un certo senso siamo costretti a rispondere, poiché il
dire: “non mi interessa chi tu sia”, come vedremo subito, ci pone in
un gravissimo rischio. Siamo costretti a rispondere alla domanda
fattaci da Gesù, perché egli si presenta con promesse che nessuno
prima di lui aveva fatto all‟uomo: la promessa di una vita eterna, da
subito e non solamente dopo la morte; la promessa di una beatitudine
vera. In una parola: di una vita riuscita, non fallita.
Di fronte a chi fa promesse simili, non è forse inevitabile chiedersi:
ma chi è costui che mi fa simili promesse? Inevitabile, certamente,
se, per i più diversi, motivi ci rassegniamo a vivere senza quelle
speranze illimitate che il cuore suggerisce a ciascuno di noi di nutrire;
se, ad un certo punto del nostro cammino, decurtiamo il naturale
desiderio di vivere una vera storia di amore, e non solo qualche
episodio; se censuriamo quella tensione instancabile della nostra
intelligenza verso la Verità tutta intera; se siamo tentati di rinunciare
a dare un senso alla nostra vita.
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Quanti prima di noi hanno avuto dentro questa domanda, e non
l‟hanno censurata. Fra essi Paolo. La sua conversione è cominciata da
una domanda che egli rivolge al Cristo che gli si mostra: «Chi sei, o
Signore?» (At 9,15). Sì, anche noi, in un certo senso, possiamo come
Paolo dire a Gesù: “ma tu, chi sei, o Signore?”. E quando ebbe
risposto, la vita di Paolo cambiò. Ricordando quell‟evento Paolo
scrive: «queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate
una perdita a motivo di Cristo. Anzi ritengo che tutto sia una perdita
a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio
Signore» (Fil 3,7).
Nel momento in cui rispondiamo alla domanda che Gesù ci fa – “voi
chi dite che io sia” (Mt 16,15) – ed egli ci rivela se stesso, non a
parole ma illuminando il nostro cuore, allora noi incontriamo uno che
ci fa vedere nello splendore della verità e gustare nella forza del bene
l‟intero significato della vita. Ci siete imbattuti nella persona vivente
di Cristo e ne restiamo totalmente affascinati.
Ma, come dice la pagina evangelica, non bisogno cercare la risposta
in “ciò che dice la gente” (Mt 16,13). Molte sono oggi le false
risposte che ci propongono anche i grandi mezzi della
comunicazione. Ma ve ne sono due soprattutto da cui dobbiamo
guardarci. La prima è quella che ci presenta Gesù come il grande
maestro di regole di vita (stavo per dire: una suocera noiosa che ci
dice sempre che cosa dobbiamo o non dobbiamo fare). La seconda è
molto più subdola, e possiamo trovarla anche in libri di teologia e
catechesi. Sono libri o persone che usano una tale sottigliezza di
linguaggio da lasciarci costantemente incerti sulla questione di fondo:
ma Gesù è vivo oggi tra noi? Lo posso incontrare nella sua persona
vivente della vita risorta?
Alla fine la questione è questa: Gesù appartiene al passato e può
essere solo ricordato oppure è vivo oggi e può essere incontrato? Il
resto sono chiacchiere.
Allora, come vostro fratello nella fede e come vostro Pastore, in
piena comunione con il papa Benedetto XVI vi dico: «Anche a noi è
possibile avere un contatto sensibile con Gesù, mettere, per così dire,
la mano sui segni della sua Passione, i segni del suo amore: nei
Sacramenti Egli si fa particolarmente vicino a noi, si dona a noi.
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Impariamo a “vedere”, a “incontrare” Gesù nell‟Eucaristia, dove è
presente e vicino fino a farsi cibo per il nostro cammino; nel
sacramento della Penitenza, in cui il Signore manifesta la sua
misericordia nell‟offrirci sempre il suo perdono. Riconoscete e
servite Gesù anche nei poveri, nei malati, nei fratelli che sono in
difficoltà e hanno bisogno di aiuto» (BENEDETTO XVI, Messaggio
per la Giornata Mondiale della Gioventù 2011, 4).
Conosciamo la risposta di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio
vivente” (Mt 16,16). Ma che cosa in realtà quelle parole significano?
Significano che Gesù, è la presenza stessa di Dio in mezzo a noi. Non
siamo più soli nella traversata della vita: siamo imbarcati e sulla
nostra piccola zattera c‟è anche Dio. Non possiamo affondare. Gesù
ci ha fatto molti doni e ci ha detto parole stupende che non
passeranno mai. Ma il dono più grande che ci ha fatto è lui; è che lui
sia presente fra noi.
L‟apostolo Paolo, parlando dei pagani del suo tempo, li descrive nel
modo seguente: «senza speranza e senza Dio nel mondo» (Ef 2, 12).
Naturalmente egli ben sapeva che avevano molti dei, molti templi e
pratiche religiose. Ma erano «senza Dio nel mondo»; cioè: vivevano
in un mondo da cui ritenevano che Dio fosse assente. Ritenevano che
la divinità non volesse, non potesse, non dovesse interessarsi delle
brutte faccende umane. Quale era il risultato? Vivevano «senza
speranza», perché alla fine un mondo da cui Dio era assente, era buio.
Quanto è attuale la descrizione che fa S. Paolo dei pagani del suo
tempo! Un mondo da cui Dio fosse assente spegne la speranza; la
speranza, intendo, che la nostra vita non finisca nel vuoto eterno.
«Gesù» – dice Pietro – «tu sei … il Figlio del Dio vivente» (Mt
16,16). Cioè: in te è presente fra noi Dio stesso. Dopo molti anni, un
altro apostolo, Giovanni, scriverà: «la Vita eterna si è fatta visibile,
noi l‟abbiamo veduta» (1Gv 1,2). Se Dio è presente in mezzo a noi,
noi possiamo conoscerlo; possiamo essere nella sua compagnia
(«dimorare nel suo amore», dice Giovanni stupendamente) (Gv 15,9;
cfr 1Gv 2,6.24.28; 3,23; 4,12.16) e questo significa avere speranza.
Su Cristo, possiamo discutere, non essere d‟accordo … Tutte queste
discussioni sono possibili e il mondo è pieno di esse, e a lungo ancora
ne sarà pieno. Ma io e voi … sappiamo che sono tutte sciocchezze,
15
che Cristo – in quanto solo uomo – non è Salvatore e fonte di vita, e
che la sola scienza non completerà mai ogni ideale umano e che la
pace per l‟uomo, la fonte della vita e la salvezza dalla disperazione
per tutti gli uomini, la condizione sine qua non e la garanzia per
l‟intero universo si racchiudono nelle parole : «il Verbo si è fatto
carne» (Gv 1,14 e nella fede in queste parole. È questa la portata della
risposta di Pietro.
Come sarebbe la nostra vita se da essa, se dal mondo in cui viviamo,
Dio fosse assente? Pensiamo veramente che la scienza, la politica, il
benessere economico, l‟uso sregolato della sessualità possano dare le
risposte vere e definitive a ciò che il cuore desidera più
profondamente? «Tu sei … il Figlio del Dio vivente», ha risposto
Pietro; e, logicamente, in un altro contesto egli dice: «tu hai parole di
vita eterna, da chi andremo?». Volendo vivere non in un mondo
senza speranza; volendo incontrare il Cristo, il Figlio del Dio vivente,
per ascoltare da Lui «le parole che danno la vita eterna», ci
chiediamo coi primi due discepoli che seguirono Gesù: «dove abiti?»
(Gv 1, 38).
L‟incontro con Cristo – non solo il suo ricordo – è possibile oggi a
ciascuno di noi perché Cristo è presente nella Chiesa. Alla domanda:
“Gesù dove abiti, perché io possa venire ad incontrarti, e rimanere
con te?” Egli risponde: “nella Chiesa”. È la Chiesa la dimora dove
abita il Figlio del Dio vivente. «Nella totalità del suo essere essa ha
per fine di rivelarci il Cristo, di condurci a Lui, di comunicarci la sua
grazia; non esiste insomma che per metterci in rapporto con Lui. Essa
solo lo può fare, e non potrà mai cessare di farlo … se il mondo
perdesse la Chiesa, perderebbe la redenzione» (H. DE LUBAC,
Meditazione sulla Chiesa, Paoline – Jaca Book, Milano 1979, p.
136), perché perderebbe Gesù. Senza la Chiesa, la nostra vita sarebbe
senza speranza perché la notizia che Dio è presente fra noi e che in
Gesù ci ha mostrato il suo volto, sarebbe un discorso puramente
informativo. Non sarebbe cioè in grado di trasformare la nostra vita,
facendoci sentire nel cuore la verità delle parole di Pietro: «Signore,
tu solo hai parole di vita eterna».
Forse sentendo queste parole, comincia ad insinuarsi in noi un
dubbio: ma come è possibile che la Chiesa sia la custode della vita
16
eterna, la custode della vera speranza per me, la presenza vera di
Gesù fra noi, quando essa è fatta di uomini carichi di tanta miseria?
Non vi preoccupate. Questo dubbio è vecchio di duemila anni.
Quando Gesù si presentò come colui che rendeva presente ed
operante la grazia e l‟amore di Dio, dicevano: «non è costui
l‟artigiano, il figlio di Maria?… E si scandalizzavano» (Mc 6, 2.3).
Lo stesso “scandalo” che ha per oggetto la Chiesa, ebbe per oggetto
Gesù. Ma dobbiamo guardare più in profondità la cosa. Non è
commovente che Dio si sia umiliato fino al punto di essere fra noi,
vicino a noi mediante non una società di angeli ma di uomini? Non è
commovente che alla domanda di speranza che ciascuno di voi gli
rivolge, abbia risposto non nel modo seguente: “cercami da solo”, ma
“cercami là dove c‟è una comunità di uomini e donne come te, che
credono in Gesù”? Perché è nella Chiesa che voi incontrate la
persona vivente di Gesù? Perché in essa vi sono i sacramenti.
Soprattutto l‟Eucaristia e la Confessione.
L‟Eucaristia è il sacramento in cui Gesù ci dona il suo Corpo e il suo
Sangue – ovvero se stesso – perché anche noi ci uniamo a Lui
nell‟amore, divenendo un solo Corpo, la Chiesa.
La Confessione è il sacramento in cui Dio ci perdona e rimette i
nostri peccati: ogni nostra piaga viene curata.
Il racconto della passione di Gesù scritto dal suo amico prediletto,
Giovanni, termina con l‟apertura del costato di Cristo crocefisso da
cui sgorga sangue e acqua. È la ferita dell‟amore. Accostiamo le
nostre labbra a quella fonte della vita; lasciamoci purificare e
rigenerare da quell‟acqua che, sgorgata dal costato di Cristo, scorre
nel sacramento della Penitenza. E dentro il nostro cuore fiorirà la
gioia vera; metterà radice la speranza; la luce della verità ci
illuminerà, e diventeremo capaci di fare della nostra vita uno
splendido dono.
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Terza catechesi
Quando Gesù lascia visibilmente questa terra, dice ai suoi amici:
«avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete
testimoni … fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8).
Sappiamo che cosa significa “essere testimoni” o “rendere
testimonianza”. Molto semplicemente narrare ciò che si è visto,
oppure ciò che si è udito a chi ha l‟autorità di chiederlo o a chi ha
semplicemente interesse a sapere. A modo di esempio, ascoltiamo la
seguente testimonianza: «ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi
abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato
e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita …
noi lo annunziamo anche a voi» (1Gv 1, 1. 3). È la testimonianza resa
a Gesù dal suo più grande amico: Giovanni.
La fede è un incontro vero e proprio con Gesù, perché egli non è solo
un ricordo, ma è una presenza reale in mezzo a noi. Nella fede e
mediante i sacramenti noi viviamo una vera esperienza di amicizia
con Gesù. Perché, uno potrebbe pensare, devo testimoniare, narrare
ciò che mi è accaduto incontrando Gesù? Perché non posso tenerlo
per me? Negli Atti degli Apostoli viene narrata una testimonianza
resa da Pietro, assai interessante. Egli assieme a Giovanni ha appena
compiuto il miracolo di guarire uno storpio. Essi vengono richiesti
dal Sommo Sacerdote di rendere ragione del loro operato. Allora
Pietro dice: «nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete
crocifisso, e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta dinanzi
sano e salvo … in nessun altro v‟è salvezza» (At 4, 10. 12). È
accaduto un fatto. Pietro ne dà la ragione: Gesù è presente fra noi con
la sua potenza di salvezza. Pietro e Giovanni erano ben consapevoli
di questo. Essi per primi lo avevano sperimentato. Ma Cristo non era
un bene solo per loro stessi; è un bene da condividere con tutti,
perché la sua salvezza è offerta a tutti. Chi crede in Gesù; chi lo ha
veramente incontrato, e cerca di nascondere questo avvenimento che
gli è accaduto, è come uno che – direbbe Gesù – accende la luce e poi
la copre perché non illumini.
Ma, qualcuno si chiederà: come faccio concretamente a rendere
testimonianza a Gesù? La risposta ce la dona S. Pietro nella sua
18
prima lettera. È una lettera scritta a cristiani calunniati, perseguitati. E
quindi anch‟essi si facevano la stessa domanda: come faccio a
rendere testimonianza a Gesù in questa società? Ascoltate bene la
risposta di Pietro: «Non vi sgomentate per paura di loro, né vi
turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre
a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in
voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto» (1Pt 3, 14-15).
Tu rendi testimonianza prima di tutto, se non hai paura; se non ti lasci
turbare dalla previsione di essere deriso e come “compatito” o
squalificato (“ma come, tu pensi ancora così?”). Ma la vera fortezza è
in un rapporto profondo con Cristo: «adorate il Signore». E poi
finalmente ecco come si rende testimonianza a Gesù: «pronti sempre
a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in
voi». Mi fermo su questo punto un po‟ più a lungo.
Siamo chiamati a dare testimonianza di una speranza che è in noi e
che è frutto dell‟incontro con Gesù. Chi vive senza speranza, vive
veramente in modo miserevole, perché non ha un futuro. Solo quando
siamo certi che il futuro è sotto il segno positivo, anche il presente è
vivibile. Chi incontra Gesù sa che Egli lo conduce sempre, anche
quando passa attraverso valli oscure. Diventiamo dunque testimoni di
speranza: “sono molti coloro che desiderano ricevere questa
speranza”.
Ma non si è testimoni se non si è in grado di rendere ragione della
speranza. La nostra è una speranza ragionevole, che ha un
fondamento incrollabile: la fede in Gesù. Dobbiamo quindi conoscere
profondamente le ragioni della nostra fede. Dobbiamo approfondire e
imparare…
Che cosa grandiosa è la testimonianza! Essa dà gloria a Cristo: dando
testimonianza, siete la gloria di Cristo in tutto quello che farete.
L‟Apostolo Paolo usa un‟immagine bellissima. Dice che siamo il
“profumo di Cristo”: «diffonde per mezzo nostro il profumo della sua
conoscenza nel mondo intero. Noi siamo infatti dinanzi a Dio il
profumo di Cristo» (2Cor 2, 14-15). La gloria di Cristo nel mondo
rifulge attraverso la testimonianza che gli uomini, i suoi discepoli,
danno a Lui. La sfida di Gesù si può riassumere in questo: Egli
scommette sui suoi discepoli, ipotizzando che il suo amore e la sua
19
salvezza riveleranno la loro potenza e presenza nel mondo attraverso
la testimonianza dei suoi discepoli.
Non posso tuttavia tacere l‟esistenza di una grave insidia che può
impedire la testimonianza fin dall‟inizio. È uno dei dogmi
indiscutibili della cultura in cui viviamo. Potrei formularlo nel modo
seguente. “La fede religiosa è un fatto privato. Ciascuno si tenga la
propria o non ne tenga nessuna. Tutte alla fine hanno lo stesso valore.
L‟importante è che ci sia una reciproca tolleranza”. Proviamo a
pensare ad un cristiano che accetti questa posizione, e chiediamogli
di essere testimone. È come chiedere a uno di … bere litri di liquore e
di non ubriacarsi! Cerchiamo dunque di analizzare seriamente, anche
se brevemente, questa posizione.
Essa presuppone – è questo l‟errore fondamentale – che la fede
religiosa, o meglio ciò che dice la religione non è né vero né falso,
dal momento che essa non interloquisce con la ragione ma con altri
interlocutori. Chiedersi quindi se una religione è vera o falsa, è come
chiedersi … quanti chili pesa una sinfonia di Mozart. Verità e
religione sono due grandezze completamente estranee l‟una all‟altra.
Ricordiamo la testimonianza resa da Pietro? Perché Paolo percorse il
mondo intero allora conosciuto per predicare il Vangelo di Gesù?
Semplicemente per dire: “cari ateniesi, cari romani, questa è la mia
opinione; però voi ne avete un‟altra: è lo stesso!”? No certamente. La
loro testimonianza nasceva da una certezza: ciò che testimoniamo è
vero; e quindi vale per ogni uomo. Ora capiamo meglio perché
dicevo: dobbiamo saper rendere ragione della speranza che è in noi.
“Ma – ci si dirà – in questo modo siete intolleranti”. Intanto
costatiamo un fatto: i grandi testimoni di Gesù non solo non hanno
mai imprigionato nessuno, o ucciso qualcuno. Sono stati imprigionati
e uccisi, non raramente. È anche vero che lungo i secoli, non sempre
nella Chiesa c‟è stata chiarezza su questo punto. E quindi
sicuramente dobbiamo fare attenzione. La verità non può essere
imposta, ma solo proposta. Essa chiede solo di essere conosciuta. E la
vittoria che nasce dalla fede è quella dell‟amore. Quanti cristiani sono
stati e sono una testimonianza vivente della forza della fede che si
esprime nella carità.
20
Alla fine, perché testimoniare Cristo? Perché è vero, e ne siamo certi,
che affrontare la vita nella memoria continua dell‟incontro con
Cristo, è più intelligente, è più gioioso. In una parola: è più umano.
“Di che cosa parliamo quando parliamo di fede”? La fede è l‟incontro
con una Persona e con la sua storia in mezzo a noi, un dono che
liberamente accettiamo, un venire a colui che ci attira a sé (Gv 6,44).
È fondamentale e prioritaria per l’identità cristiana la relazione,
anzi l’unione personale col Signore, in quanto la comunione col
Padre, fine e mèta della nostra vita, è possibile solo entrando in
questo particolare rapporto con Gesù.
La fede cristiana, mediante la quale Cristo è accolto e abita nei
nostri cuori, implica due aspetti inscindibili: da un lato la ferma e
consapevole adesione alla verità rivelata e ai comportamenti
insegnati da Gesù (aspetto oggettivo della fede), dall’altro
l’accoglienza di un rapporto personale di fiducia, amore e
obbedienza con il Signore Gesù e, tramite lui, con il Padre e i
fratelli (aspetto soggettivo).
Per diventare cristiani è necessario passare attraverso la
testimonianza della Chiesa, a cui il Risorto ha garantito la sua
presenza e affidato la sua parola di vita e le sue azioni di salvezza.
L’accedere alla fede e alla comunione con il Cristo coincide allora
con l’accoglienza della testimonianza della Chiesa e con
l’ingresso in essa, secondo un percorso graduale indicato già in At
2, 37-42.
- Certo l‟aspetto personale è decisivo perché la fede non è un fatto
freddamente intellettuale! Si trasmette da persona a persona, con i
fatti e non solo con le parole, e si traduce in gioia, fiducia ed
entusiasmo:.. E tuttavia, se la fede fosse solo uno stato psicologico
personale, rischierebbe di essere come la casa costruita sulla sabbia
(cf. Mt 7,24-27). Dunque, dopo il primo annuncio, anche l‟aspetto
oggettivo (quello dei contenuti) è necessario alla nostra crescita nella
fede, al nostro essere fedeli all‟Alleanza.
21
- Una volta ricevuta e accolta, la fede è vivere in letizia e in
consapevolezza. È un cammino che dura per tutta la vita, diverso per
ciascuno e per ciascuno imprevedibile nelle sue prove, perché siamo
troppo piccoli per conoscere i disegni di Dio su di noi (cf. Gb 40,1-
9). Non per caso ci vogliamo chiamare fedeli!
Si tratta di partecipare con la doverosa regolarità e con partecipazione
attiva alla liturgia, ai sacramenti e alle iniziative ecclesiali. Si tratta
anche, forse prima di tutto («con le mie opere ti mostrerò la mia
fede», Gc 2,17-18), di vivere ogni attività quotidiana alla luce della
Buona Novella che ci è annunciata, a beneficio di sé e del prossimo:
così anche ciascuno di noi sarà pietra viva (cf. 1Pt 2,5), sarà lievito
(cf. Mt 13,33). L‟amore infatti è il comandamento più grande, e la
carità è più grande della stessa fede (cf. 1Cor 13,13), se non altro
perché questa opera per mezzo di quella (cf. Gal 5,6).
- Secondo la nostra fede ogni evangelizzato che si converte
diviene/deve divenire evangelizzatore La fede non è una lampada che
si tiene sotto il moggio (cf. Lc 11,33). La maggior parte di noi
testimonia, e quindi evangelizza, anzitutto con la propria vita
concreta, e senza questa carità coerente la testimonianza non è
efficace: «vieni e vedi» (Gv 1,38-39.45-47). Fra l‟altro, l‟uomo
contemporaneo ascolta i testimoni più volentieri dei maestri.
A questo punto vogliamo professare la nostra fede. Nei primi secoli i
cristiani erano tenuti ad imparare a memoria il Credo. Questo serviva
loro come preghiera quotidiana per non dimenticare l‟impegno
assunto con il Battesimo. Con parole dense di significato, lo ricorda
sant‟Agostino quando, in un‟Omelia sulla redditio symboli, la
consegna del Credo, dice: «Il simbolo del santo mistero che avete
ricevuto tutti insieme e che oggi avete reso uno per uno, sono le
parole su cui è costruita con saldezza la fede della madre Chiesa
sopra il fondamento stabile che è Cristo Signore … Voi dunque lo
avete ricevuto e reso, ma nella mente e nel cuore lo dovete tenere
sempre presente, lo dovete ripetere nei vostri letti, ripensarlo nelle
piazze e non scordarlo durante i pasti: e anche quando dormite con il
corpo, dovete vegliare in esso con il cuore» (Sermo 215, 1).
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Credo in un solo Dio,
Padre onnipotente,
creatore del cielo e della terra,
di tutte le cose visibili ed invisibili.
Credo in un solo Signore,
Gesù Cristo,
unigenito Figlio di Dio,
nato dal Padre prima di tutti i secoli:
Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero,
generato, non creato,
della stessa sostanza del Padre;
per mezzo di lui tutte le cose sono state create.
Per noi uomini e per la nostra salvezza,
discese dal cielo,
e per opera della Spirito Santo
si è incarnato nel seno della Vergine Maria
e si è fatto uomo.
Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato,
morì e fu sepolto.
Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture,
è salito al cielo, siede alla desta del Padre.
E di nuovo verrà, nella gloria,
per giudicare i vivi e i morti,
e il suo regno non avrà fine.
Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita,
e procede dal Padre e dal Figlio.
Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato,
e ha parlato per mezzo dei profeti.
Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica.
Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati.
Aspetto la risurrezione dei morti
E la vita del mondo che verrà. Amen
23
II. IL BATTESIMO, SACRAMENTO DELLA FEDE
Allora Pietro si alzò in piedi e a voce alta parlò a loro così: «[…]
Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo
di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece tra voi per opera sua,
come voi sapete bene –, consegnato a voi secondo il prestabilito
disegno e la prescienza di Dio, voi, per mano dei pagani, l‟avete
crocifisso e l‟avete ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato […] e noi tutti ne
siamo testimoni. Innalzato, dunque, alla destra di Dio e dopo aver
ricevuto dal Padre lo Spirito santo promesso, lo ha effuso come voi
stessi potete vedere […]». All‟udire queste cose si sentirono
trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa
dobbiamo fare, fratelli? » E Pietro disse loro: «Convertitevi e
ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per il
perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo»
(Atti 2, 14-38).
Sia riveduto il rito del battesimo dei bambini e sia adattato alla loro
reale condizione. Nel rito siano messi maggiormente in rilievo anche
il posto dei genitori e dei padrini (Costituzione Conciliare
Sacrosanctum Concilium, n. 67)
Secondo l‟Apostolo san Paolo, mediante il battesimo il credente
comunica alla morte di Cristo; con lui è sepolto e con lui risuscita…
Mediante l‟azione dello Spirito Santo, il battesimo è un lavacro che
purifica, santifica e giustifica (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
1227).
Ispirandosi alla prassi della chiesa antica, il Rito della iniziazione
cristiana degli adulti ripropone il conferimento dei tre sacramenti
dell‟iniziazione in un‟unica celebrazione. Tale soluzione rituale,
prevista in questo caso solo per gli adulti, impegna a dare una lettura
unitaria dell‟evento di iniziazione e quindi una comprensione unitaria
dei sacramenti che la compongono.
Nel Battesimo il candidato viene unito alla morte e risurrezione di
Cristo, ossia viene rigenerato alla vita nuova e incorporato a Cristo
nella Chiesa. Con la Confermazione viene perfezionata la sua
conformazione a Cristo, nel senso che, attraverso il dono dello stesso
24
Spirito effuso a pentecoste, il battezzato viene „unto‟ e „consacrato‟
come Cristo, per vivere la vita di Cristo nello Spirito, inserendosi
attivamente nel suo corpo ecclesiale e dando testimonianza al mondo.
Nell‟Eucaristia, memoriale della morte e risurrezione del Signore, «i
fedeli mangiano la carne del Figlio dell‟uomo e bevono il suo sangue,
per ricevere la vita eterna e manifestare l‟unità del popolo di Dio.
Offrendo se stessi con Cristo, s‟inseriscono nell‟universale sacrificio,
che è tutta l‟umanità redenta offerta a Dio per mezzo di Cristo,
sommo sacerdote; e pregano il Padre che effonda più largamente il
suo Spirito, perché tutto il genere umano formi l‟unica famiglia di
Dio» (Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, Introduzione
generale, 2).
La stretta connessione fra i tre sacramenti implica la tensione
dinamica di Battesimo e Cresima verso l‟Eucaristia. La
configurazione a Cristo realizzata nei primi due sacramenti genera i
fedeli a una comunione piena con lui, attuata e alimentata
sacramentalmente nell‟Eucaristia, per essere poi vissuta nella storia.
D‟altra parte la commensalità eucaristica non si può ridurre a un
generico e indiscriminato raggruppamento sociale fine a se stesso,
senza riferimenti alla logica evangelica del vissuto personale e
comunitario. In questo senso, il Battesimo (con la Confermazione)
esprime le condizioni permanenti dell‟accesso all‟Eucaristia e
quest‟ultima rinvia la Chiesa stessa a vivere quotidianamente la
logica del morire al peccato e del rinascere alla vita nuova secondo lo
Spirito.
Il Rito del Battesimo dei bambini
Dando corso alla richiesta di Sacrosanctum Concilium, 67, è stato
promulgato un rito del Battesimo esplicitamente adattato per
bambini, cioè per «coloro che non sono ancora giunti all‟età della
ragione, e quindi non sono in grado di avere né di professare
personalmente la fede» (Rito del Battesimo dei bambini, 1). Il rito
assume la struttura tipica delle celebrazioni sacramentali: riti di
accoglienza, liturgia della Parola, liturgia del sacramento, riti di
conclusione. La celebrazione si svolge in diversi luoghi: l‟ingresso
della chiesa per l‟accoglienza, l‟aula della chiesa per la liturgia della
25
Parola, il fonte battesimale per la celebrazione del sacramento,
l‟altare per la conclusione. Questi luoghi rivestono una valenza
simbolica e suggeriscono un percorso aperto, un itinerario da
completare con la futura partecipazione alla mensa eucaristica (cf.
Rito del Battesimo dei bambini, 19; 76).
I riti di accoglienza iniziano con un saluto gioioso e accogliente ai
presenti e con un dialogo che fa emergere nei genitori la
consapevolezza della loro responsabilità e nei padrini la disponibilità
ad aiutarli. Il segno della croce sulla fronte dei bambini, da parte del
celebrante e dei genitori/padrini, esprime l‟accoglienza della
comunità, che si ritrova radunata e unita nel segno di Cristo salvatore.
A questo punto è stata introdotta molto opportunamente la liturgia
della Parola, che tende a risvegliare la fede dei presenti e a radicare il
Battesimo nel quadro della storia della salvezza, di cui il sacramento
è memoria efficace. Così la Chiesa rimane fedele al compito
dell‟evangelizzazione. Dopo l‟omelia, si continua con la preghiera
dei fedeli e una breve litania dei santi, espressioni della sollecitudine
della comunità cristiana nella comunione con la chiesa „celeste‟.
Seguono, strettamente unite, l‟orazione di esorcismo e l‟unzione con
l‟olio dei catecumeni: si invoca così l‟intervento di Dio, perché in
forza dell‟opera di Cristo, vincitore del male, liberi il bambino dalla
schiavitù del peccato (dal peccato originale) e lo fortifichi in vista del
cammino della vita.
Inizia quindi, al fonte battesimale, la liturgia del sacramento. La
sequenza logica dei riti che la compongono è generata dal gesto
battesimale centrale, con l‟invocazione trinitaria: esso viene preparato
dall‟invocazione della grazia di Cristo e della potenza dello Spirito
sull‟acqua, dalla rinuncia a satana e dalla professione di fede chiesta
ai genitori e ai padrini, con l‟assenso della Chiesa intera: viene
concluso con l‟unzione con il crisma (segno dell‟inserimento in
Cristo e della conseguente appartenenza al suo corpo ecclesiale), la
consegna della veste bianca e del cero acceso (espressione del dono
ricevuto e del suo orientamento escatologico) e il rito dell’effetà. (il
sacerdote tocca le orecchie e le labbra del bambino dicendo: “il
Signore ti conceda di ascoltare la parola e di professare la fede”).
26
I riti di conclusione mettono l‟evento battesimale in tensione verso il
completamento del cammino di iniziazione (cfr. Rito del Battesimo
dei bambini, 76). Essi prevedono la recita del Padre Nostro all‟altare
e una solenne benedizione finale (Rito del Battesimo dei bambini, 77
- 80).
Anche nella struttura attuale del rito, non è difficile riconoscere la
sostanziale permanenza del nucleo originario del Battesimo: il
lavacro compiuto nel nome di Gesù o del Dio di Gesù (la Trinità),
come sacramento della fede e incorporazione a Cristo nella Chiesa.
Celebrando il Battesimo, la Chiesa si mantiene fedele alla sua identità
di comunità generata da Cristo nello Spirito e così vive una vera
obbedienza al progetto stesso di Cristo. Egli non ha inventato il rito
del lavacro come tale (è una tipica espressione rituale religiosa
dell‟uomo); il Battesimo del Battista lo aveva già profeticamente
preannunciato. Gesù però lo ha compiuto e lo ha trasformato,
legandolo al compimento del suo mistero pasquale-pentecostale:
questo è il vero momento genetico del Battesimo cristiano (la sua
istituzione). La Chiesa, accogliendo dal Risorto il mandato di
annunciare e battezzare tutti i popoli (cf. Mc 16, 15s.; Mt 28,19s.),
riconosce proprio in questo gesto sacramentale il modo di dare
attuazione alla perenne volontà di Cristo di rigenerare i credenti alla
vita filiale attraverso la partecipazione pneumatica alla sua morte e
risurrezione.
L‟insieme della celebrazione del Battesimo ci permette di cogliere
alcuni elementi fondamentali Anzitutto, il Battesimo cristiano è
sempre ricevuto dalla Chiesa (non è mai auto-battesimo), la quale lo
celebra in nome di Cristo/Trinità (mai in nome proprio). In secondo
luogo, il Battesimo è inserito nell’azione missionaria ed
evangelizzatrice della Chiesa (è sempre collegato con l‟annuncio e
con un discernimento operato sulle condizioni della celebrazione) ed
è connesso con un cammino di conversione e di crescita della vita di
fede da parte del soggetto (è sempre destinato a generare la fede e il
rinnovamento della vita).
27
Il Battesimo come evento pasquale ed ecclesiale
L‟evento pasquale di Cristo, nucleo genetico del Battesimo, si rivela
essere il compimento della sua vita-missione storica e l‟inizio della
sua signoria escatologica. Questa condizione universale di salvezza,
che ha in Cristo il suo unico mediatore (cf. 1 Tm 2,5s.) e che nello
Spirito raggiunge ogni uomo, motiva non solo l‟annuncio ecclesiale
rivolto a tutti, ma anche l‟atto simbolico e “performativo” che, in chi
si converte, sigilla l‟effettiva partecipazione sacramentale a questa
iniziativa salvifica di Dio: un atto tanto concreto ed efficace quanto
reale e definitiva è l‟offerta di salvezza da parte di Dio. «Infatti
coloro che ricevono il Battesimo, segno sacramentale della morte di
Cristo, con lui sono sepolti nella morte e con lui vivificati e
risuscitati. Così si commemora e si attua il mistero pasquale, che è
per gli uomini passaggio dalla morte del peccato alla vita» (Rito della
Iniziazione cristiana degli adulti, Introduzione generale, 6). Anche il
contenuto del simbolismo legato al gesto del lavacro riceve la sua
realtà dalla morte e risurrezione di Cristo: immersione ed emersione
sono l‟immagine della sepoltura nella morte e del risorgere alla vita.
La dimensione pasquale dell‟evento battesimale merita di essere
mostrata in tutta la sua ampiezza, sia dal lato del dono di Dio sia dal
lato dell‟effetto sull‟uomo. L‟unione a Cristo, sigillata nel
sacramento, è operata dall‟azione dello Spirito, che è la novità
escatologica della Pasqua. Partecipando così alla vita di Cristo nello
Spirito, il battezzato si inserisce nel disegno salvifico di Dio, al quale
impara a rivolgersi con l‟Abbà (cf. Rito del Battesimo dei bambini,
76s.). Dal lato del soggetto e della sua disponibilità ad accogliere tale
dono, l‟effetto di questa partecipazione alla vita di Cristo può essere
indicato nel duplice versante di un‟unica realtà: è sia morte al
peccato, sia rigenerazione alla vita dei redenti.
Con l‟atto battesimale, in forza del mistero pasquale di cui è
memoriale, la vita dei figli di Dio riceve il suo „inizio‟ nella forma
del discepolato cristiano. Nell‟aderire a Cristo, morto e risorto, i
battezzati partecipano del perdono dei peccati e della vittoria
definitiva di Cristo sulla schiavitù del peccato (originale e personale);
sono riconciliati con Dio, rigenerati alla nuova vita nello Spirito. In
altri termini, i battezzati sono agganciati a Cristo, segnati da lui, e ciò
28
avviene non per loro merito o per le loro opere, ma per la
sovrabbondante grazia di Cristo. La vita del battezzato, pur essendo
ancora vissuta dentro una storia segnata dal peccato (per questo la
conversione evangelica deve rimanere un‟attitudine permanente del
cristiano), è ormai raggiunta nel gesto sacramentale dalla pienezza di
vita di Cristo e diventa, sostenuta dallo Spirito, il luogo in cui la sua
identità filiale può realmente prendere „carne‟ e può veramente
avvalorarsi attraverso la trama quotidiana delle azioni e delle
relazioni personali. Perciò il Battesimo, caparra della vita piena,
esibisce la radice gratuita della vita cristiana, come „possibilità
donata‟ in modo irrevocabile e quindi irripetibile, perché proviene dal
legame che Cristo nel sacramento instaura con il battezzato e rimane
anche qualora questi rompa con il suo peccato la comunione con
Cristo (cfr il tema del „carattere‟); in quanto „possibilità donata‟,
potrà sempre essere posta in atto e sviluppare la sua fecondità nel
momento in cui nel battezzato verrà rimosso l‟ostacolo che ne
impediva la recezione fruttuosa.
La dimensione pasquale del Battesimo si incontra nell‟attuazione
della sua dimensione ecclesiale: questa è insieme effetto e
mediazione sacramentale di quella. Il Battesimo, come si è visto, è
sempre ricevuto da un ministro, al quale è richiesta l‟intenzione di
fare ciò che fa la Chiesa. In altre parole, il Battesimo è sempre
ricevuto dentro e da una tradizione ecclesiale, la quale però si muove
in fedeltà al mandato del suo Signore e si riconosce generata dalla
partecipazione al suo mistero pasquale. Nel Battesimo non è possibile
separare l‟incorporazione a Cristo e l‟incorporazione alla Chiesa. In
un unico e indivisibile movimento, il credente è fatto membro di
Cristo e membro del corpo del Cristo, cioè dell‟unica Chiesa di Dio.
Ciò significa che il Battesimo non può essere inteso semplicemente
come la ratifica esterna di una scelta personale, né come un normale
rito di aggregazione comunitario, ma come un evento a cui
partecipano sia il battezzato, il quale è destinatario dell‟azione di
Cristo e vi aderisce accogliendola tramite la mediazione ecclesiale,
sia la Chiesa, la quale è ministra di tale azione e la attesta
accogliendo e riconoscendo il battezzato come suo membro, in una
comunione che supera ogni altro motivo di distinzione (cf. Gal
29
3,27s.; 1 Cor 12,13). Così l‟unica appartenenza a Cristo, frutto della
rigenerazione battesimale, determina l‟incorporazione dei battezzati
nella Chiesa ed è chiamata a esprimersi in essa.
Dall‟appartenenza a Cristo nella Chiesa deriva a tutti i battezzati la
partecipazione al sacerdozio di Cristo e alla sua missione profetica e
regale, ossia la chiamata a partecipare attivamente alla vita e alla
missione della Chiesa (cf. Lumen Gentium nn. 31; 33; Catechismo
della Chiesa Cattolica n. 1268). Con ciò, la realtà battesimale diventa
anche la base su cui si fonda il diritto dei battezzati e si stabilisce tra
loro una vera uguaglianza nella dignità e nell‟agire. Si tratta, per
ciascuno, del diritto di ricevere ciò che la sua identità cristiana esige
(sacramenti, Parola di Dio, vita comunitaria), ma anche di porre degli
atti che rispondono alla sua vocazione particolare in armonia con il
carisma che gli è proprio (diritto di iniziativa, diritto di parola, diritto
di integrarsi al proprio posto nella missione nel suo complesso).
Nello stesso tempo, dal Battesimo scaturisce anche il dovere di
professare la fede e di collaborare responsabilmente alla missione
apostolica della Chiesa, conservando e rispettando la comunione con
essa.
Poiché l‟incorporazione alla Chiesa è segno della conformazione a
Cristo, sarà anche garantita da Dio (torna il tema del “carattere”).
L‟infedeltà dell‟uomo all‟alleanza battesimale non impedisce a Dio
di rimanere fedele a ciò che egli stesso ha operato, a garanzia della
costituzione e della permanenza della Chiesa come comunità
escatologica della salvezza. La fedeltà di Dio implicata nell‟atto
battesimale porta anche a rilevare il valore del Battesimo per l‟unità
dei cristiani. La grazia che ci genera come figli di Dio è la stessa che
ci rende fratelli; però la dimensione fraterna della relazionalità filiale
dei cristiani può essere vissuta in modo disarmonico, perché la
recezione e lo sviluppo della grazia battesimale avviene in tradizioni
storiche ed è segnata dai limiti personali e culturali dei cristiani.
L‟accoglienza dell‟unico Battesimo di Cristo comporta il
riconoscimento di un legame di comunione che precede ed eccede lo
sforzo di ciascuno, ma che fonda anche per tutti i battezzati una
chiamata all’unità, verso la piena comunione delle Chiese. Il
battesimo perciò è «il vincolo sacramentale dell‟unità» dei cristiani
30
(Unitatis Redintegratio, 22) e il reciproco riconoscimento del
Battesimo costituisce la base imprescindibile per un cammino
rispettoso e condiviso, teso a superare lo scandalo della divisione
nella testimonianza ecclesiale del vangelo di Cristo.
Il Battesimo sacramento della fede ecclesiale e personale
L‟esprimersi del valore salvifico – pasquale ed ecclesiale –
dell‟evento battesimale è sempre connesso con l‟attuazione della
fede. Si potrebbe dire che il Battesimo è il sacramento
dell‟accoglienza della salvezza nella fede:
Non solo celebrazione-attuazione della salvezza in assoluto come se
fosse un dono automaticamente connesso col rito, non solo
celebrazione-professione della fede, quasi fosse in sé e per sé, come
atto dell‟uomo, attuazione della salvezza. Il Battesimo è sacramento
dell‟accoglimento della salvezza da Dio mediante la fede dell‟uomo.
Questo è lo statuto fondamentale della salvezza cristiana, che è
assolutamente gratuita e per questo assolutamente esige e suscita la
fede.
La gratuità del dono di salvezza, se non dipende dalla risposta
soggettiva, non ne sancisce però l‟irrilevanza, perché tale dono
rimane destinato all‟uomo e quindi diviene il fondamento più solido
della libertà e della capacità di risposta del soggetto.
La struttura simbolica della celebrazione battesimale prevede una
stretta connessione tra l’annuncio di fede da parte della Chiesa e
l’accoglienza di fede da parte del soggetto, con il rimando costitutivo
di entrambi alla precedenza dell‟azione salvifica di Dio. Il contesto
pastorale del Battesimo, anche nel caso dei bambini, è sempre quello
di una Chiesa che vive la propria dimensione missionaria e che
intende portare altri ad accogliere il dono della vita nuova. Nel rito
ciò è evidenziato dallo stretto legame tra l‟annuncio della Parola, che
suscita la fede, e l‟attuazione sacramentale, «con la quale gli uomini,
illuminati dalla grazia dello Spirito Santo, rispondono al Vangelo di
Cristo (Rito del Battesimo dei bambini, Introduzione generale, 3). Ma
l‟espressione più pregnante dell‟implicazione della fede nel
Battesimo si può vedere nella prassi antica, secondo la quale la
31
triplice immersione nell‟acqua coincideva con la professione del
soggetto, formulata in forma dialogica di domanda e risposta.
Fede e Battesimo non risultano due vie alternative di salvezza, ma
due realtà che, pur non essendo riducibili l‟una all‟altra, si includono
reciprocamente all‟interno di un unico percorso. La fede tende alla
sua espressione sacramentale piena e il Battesimo è professione di
fede in atto. Senza il contesto della fede il Battesimo è rito esteriore;
con il Battesimo la fede si apre ad accogliere l‟iniziativa redentrice di
Dio da cui essa stessa è suscitata. Il sacramento del Battesimo non è
solamente l‟espressione della fede già esistente, ma è esso stesso un
atto di fede generato e reso possibile dall‟attuale offerta di salvezza di
Cristo, che è attestata al soggetto dalla mediazione della Chiesa:
l‟attuazione ecclesiale della fede dà spazio-tempo al dono gratuito di
Dio che si fa incontro qui-ora al soggetto. Perciò il Battesimo
rappresenta la fede come dono, prima che come risposta del credente.
Evidenzia il primato e l‟assoluta gratuità dell‟iniziativa di salvezza da
parte di Dio. Esso dunque, senza esaurire la realtà della fede, rimane
quel punto fermo e stabile cui il credente può sempre tornare per
ridare impulso al suo cammino di crescita nella vita cristiana.
La definizione del Battesimo come “sacramento della fede” si può
intendere in diversi sensi. In senso oggettivo, il Battesimo è una
professione di fede in atto, dove il contenuto della fede trinitaria
professata coincide con la realtà del Battesimo, che è la
partecipazione sacramentale al mistero di Cristo e alla comunione di
vita trinitaria. In senso ecclesiale, il Battesimo è il sacramento della
fede della Chiesa e determina l‟inserimento nella comunità dei
“fedeli”, la quale a sua volta si riconosce e si identifica nel Battesimo
(«Professo un solo Battesimo per il perdono dei peccati»). In senso
personale, il Battesimo è anche sacramento della fede del soggetto,
se questi è in grado di compiere un atto personale di fede. Si tratta
dell‟adesione personale al contenuto salvifico offerto nell‟evento
sacramentale. L‟atto di fede personale consente il pieno
dispiegamento della salvezza nella vita del credente ed è destinato a
svilupparsi e a maturare continuamente nella sua vita. In senso
teologale, il Battesimo dona la fede, ne è la causa. Anche per l‟adulto
che la professa, la fede rimane un dono gratuito di Dio che si
32
autocomunica all‟uomo. Solo riconoscendo e accogliendo questa
iniziativa gratuita di Dio è possibile la fede dell‟uomo: la grazia del
rivelarsi di Dio rimane ciò che genera la fede, a prescindere dalla
forma concreta che assume il cammino con cui il soggetto accoglie e
sviluppa tale grazia. A motivo del suo valore salvifico, il Battesimo è
conferimento di grazia, è „illuminazione‟, in quanto al soggetto che lo
riceve svela la sua condizione di figlio in Cristo. Perciò si può dire
che la fede è perfezionata dalla grazia del Battesimo, in virtù di un
compimento – attraverso il segno sacramentale del Battesimo –
dell‟azione salvifica di Dio che, a sua volta, non può essere fatta
propria, e quindi divenire dinamicamente efficace, se non sulla base
di una libera assunzione personale che è un‟esplicitazione della fede
che già c‟è.
Il Battesimo dei bambini
Il ruolo della fede nella celebrazione del Battesimo spinge a
considerare il caso del Battesimo dei bambini. Essi non sono in grado
di compiere un atto di fede personale; il nuovo rituale ne ha preso
atto, rivolgendo le interrogazioni per la rinuncia e la professione di
fede direttamente ai genitori e ai padrini (Rito del Battesimo dei
bambini, 64-67).
Per un approccio corretto al tema devono essere tenuti presenti due
aspetti. Anzitutto, dev‟essere riconosciuta la condizione universale di
salvezza instaurata oggettivamente in Cristo e offerta dallo Spirito a
ogni persona, come unica via di salvezza. La mediazione unica e
universale di Cristo introduce la possibilità reale di una solidarietà
con lui che vince fin nella sua radice ultima la forza del peccato, da
cui ogni persona è storicamente segnata. La partecipazione alla vita
di Cristo è la vocazione ultima di ogni uomo e motiva la possibilità di
attestare anche ai bambini la conformità a lui, in vista della loro piena
realizzazione nella libertà dei figli di Dio. In secondo luogo, occorre
precisare in che modo si instaura il rapporto tra la fede e il Battesimo
nel caso dei bambini. La prassi liturgica testimonia che il Battesimo
non è amministrato senza la fede: per i bambini si tratta della fede
della Chiesa che è loro comunicata. Ciò è vero per diversi motivi: sia
perché il Battesimo è celebrato nella fede della Chiesa (è professata
33
dai genitori, dai padrini, dalla comunità ed è come oggettivata nel rito
battesimale stesso); sia perché con il Battesimo il bambino è inserito
nella comunità dei credenti, che è come l‟ambiente spirituale nel
quale il bambino si risveglia all‟esperienza della grazia e alla vita
nello Spirito; sia perché il Battesimo non è solo segno della fede, ma
ne è anche causa, secondo la dottrina tradizionale.
Per certi aspetti, c‟è analogia tra il Battesimo degli adulti e quello dei
bambini: per entrambi l‟azione di Dio è gratuita e preveniente;
entrambi ricevono il Battesimo dalla Chiesa e nella fede della Chiesa
(anche l‟adulto, nel Battesimo, professa “personalmente” la fede
della Chiesa); in entrambi il dono della fede deve essere ripreso e
continuamente sviluppato. Al bambino però questo dono è dato non
attraverso la sua cosciente professione di fede, ma come presupposto
di essa. Del resto, il bambino è persona molto prima di essere in
grado di manifestarlo mediante atti di coscienza e di libertà, e come
tale può già divenire figlio di Dio e coerede di Cristo mediante il
sacramento del Battesimo. La sua coscienza e la sua libertà potranno
in seguito, a partire dal loro risveglio, disporre delle forze infuse
nell‟anima dalla grazia battesimale. Sì, il Battesimo del bambino è
un atto di fede dei genitori: fede in Dio Padre Creatore, in Gesù
Cristo Figlio di Dio Salvatore, nello Spirito Santo Amore e la
Chiesa. Non è evidentemente un atto de fede teologale del bambino
(il quale è incapace di una fede deliberata, quale è quella
teologale); è un atto deliberato di fede teologale dei genitori.
Ogni sacramento è inseparabilmente segno della grazia di Dio e
segno della fede dell‟uomo. Nel caso del Battesimo la grazia è il
bambino e la fede è quella dei genitori. Il Battesimo è il segno della
fede dei genitori nella grazia del figlio (nella grazia che è il figlio).
Gli effetti radicali del Battesimo (il carattere, come appartenenza a
Cristo nella Chiesa) sono dati pienamente e irreversibilmente, mentre
i frutti della rigenerazione alla vita nuova maturano in proporzione
allo sviluppo funzionale della libertà del soggetto e alla sua
attuazione nella direzione della fede. In questo modo il Battesimo dei
bambini manifesta l‟iniziativa di Dio nei nostri confronti e la gratuità
del suo amore che circonda tutta la nostra vita.
34
La necessità del Battesimo
Il tema del Battesimo dei bambini fa risaltare più vivamente anche la
questione della necessità del Battesimo. Supportata da alcune
affermazioni neotestamentarie (in particolare Gv 3,5 e Mc 16,16), la
Chiesa ha inteso il Battesimo come necessario alla salvezza, anche se
non ha mai preteso di delimitare le possibilità di salvezza, dal
momento che Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino
alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4). I due principi – l‟universale
volontà salvifica di Dio e la necessità del Battesimo – non si elidono
né si limitano a vicenda, perché si pongono su piani diversi e insieme
correlati: quello delle relazioni salvifiche reali e quello dell‟ambito
sacramentale della loro mediazione. In altre parole, l’affermazione
della necessità del Battesimo non limita la volontà salvifica di Dio,
ma piuttosto la afferma e si pone dentro di essa, identificando in
questo modo il compito ministeriale della Chiesa e la chiamata
rivolta a ogni uomo ad accogliere pienamente la salvezza di Dio.
Il Battesimo purificazione dal peccato
Possiamo dire che nella riflessione teologica del passato, questo
aspetto era presentato come principale. Il limite fondamentale di
questa riflessione è quello di mettere al centro il peccato, per cui
Cristo Redentore entra in scena solamente come colui che ripara i
danni che il peccato dell‟uomo ha provocato nella creazione: una
creazione pensata senza alcun riferimento a Gesù Cristo.
La riflessione teologica contemporanea ha riscoperto che il
riferimento a Gesù Cristo non può essere introdotto solo “in seconda
battuta”: Gesù Cristo, infatti, ha la priorità assoluta su tutto ciò che
esiste; in lui tutto è stato creato ed è lui il principio di tutto. L‟uomo
quindi non può essere pensato al di fuori della sua originaria
relazione con Gesù Cristo: ogni uomo è creato in Cristo e chiamato a
vivere l‟esistenza umana con lui e come lui. In altri termini, ogni
uomo è pensato da Dio come figlio nel Figlio Gesù e chiamato a
vivere in conformità con questo suo destino. Perché questa chiamata
si attui effettivamente è necessario il consenso della libertà, intesa
come capacità decisionale di accettare o rifiutare di vivere l‟esistenza
umana secondo Gesù Cristo. In quanto collocata nella storia, la
35
libertà dell‟uomo è segnata da tutta una serie di condizionamenti, tra i
quali pesa in particolare l‟“eredità” del peccato originale. La dottrina
del peccato originale evidenzia la condizione “divisa” della libertà
umana che, destinata alla comunione con Cristo, si sperimenta
quotidianamente tentata di rinchiudersi in se stessa, scegliendo
l‟alternativa a Cristo, invece che la comunione con lui. Tale dottrina
intende pure ribadire che da tale condizione l‟uomo non può
presumere di uscire con le proprie forze: la salvezza viene solamente
dalla Pasqua di Cristo; è solo in forza della relazione col Signore
morto e risorto che l‟uomo trova la possibilità di vivere la propria
esistenza secondo Gesù Cristo. Ed il Battesimo è precisamente il
gesto sacramentale – quindi storico, visibile, oggettivamente
percepibile – attraverso cui si instaura questa relazione: mediante il
Battesimo Gesù Cristo, ponendo l‟uomo in relazione con sé, lo libera
dalla soggezione al peccato, offrendogli la possibilità di realizzare la
propria vocazione di figlio.
In questa prospettiva, dunque, viene in primo piano il tema della vita
nuova resa possibile dal Battesimo, mentre la remissione dei peccati
viene riletta come il versante negativo della rigenerazione
battesimale. Una rigenerazione che però non elimina tutte le
conseguenze del peccato; in particolare nel battezzato resta la
concupiscenza che, in termini molto generali, può essere identificata
con il fatto di avvertire in noi la tentazione, cioè la propensione a
compiere il male. Il battezzato non è sottratto alla tentazione;
pertanto, anche dopo la rigenerazione battesimale, può fare la
drammatica esperienza della propria fragilità, fino a ricadere nel
peccato. Il Battesimo, quindi, non esime chi lo riceve dall‟impegno di
conversione; al contrario, la rigenerazione operata dal Battesimo
costituisce un “inizio fondante” in rapporto al cammino di
conversione che accompagna tutta l‟esistenza cristiana. In altri
termini: il Battesimo costituisce la condizione di possibilità
dell‟esercizio della libertà cristiana. Il battezzato non è sottratto alle
condizioni concrete dell‟esistenza e, di conseguenza, resta soggetto
alla seduzione del male; in lui c‟è però il principio reale di una novità
di vita, che non può che venirgli “dall‟Alto”: il credente che riceve il
Battesimo – nel gesto stesso con cui viene battezzato – confessa Gesù
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Cristo come Colui che, associandolo alla sua Pasqua, lo abilita a
camminare in una vita nuova, seppellendo il suo passato colpevole
nell‟acqua del Battesimo.
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III. EUCARISTIA, SCUOLA PERMANENTE DI VITA
Erano perseveranti nell‟insegnamento degli apostoli e nella
comunione, nello spezzare il pane e nella preghiera (Atti 2, 42).
Il nostro Salvatore nell‟ultima cena, la notte in cui veniva tradito,
istituì il sacrificio eucaristico del suo corpo e del suo sangue, col
quale perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il sacrificio della
croce, e per affidare così alla diletta sposa, la Chiesa, il memoriale
della sua morte e risurrezione: sacramento di pietà, segno di unità,
vincolo di carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l‟anima
viene ricolmata di grazia e viene dato il pegno della gloria futura
(Costituzione Conciliare Sacrosanctum Concilium, n. 47):
La santa Eucaristia completa l‟iniziazione cristiana. Coloro che sono
stati elevati alla dignità del sacerdozio regale per mezzo del
Battesimo e sono stati conformati a Cristo mediante la
Confermazione, attraverso l‟Eucaristia partecipano con tutta la
comunità allo stesso sacrificio del Signore (Catechismo della Chiesa
Cattolica, n. 1322).
Ci sono parole, indicatrici e rivelatrici di stili di vita, che sembrano
ormai in esilio. Pure sotto uno strato di polvere sono parole sacre,
hanno natura di roveto ardente, bruciano senza potersi consumare.
Sono parole che, uscite dalla bocca di Dio, sono state impastate di
umanità da Gesù. Sono parole che provengono da „altrove‟, ma
hanno la fragranza del pane, sono parole che nutrono, parole da
mangiare.
Con il soffio dello Spirito possono tornare a vivere; se accolte da
cuori umili e miti iniziano di nuovo a sprigionare fiamma. Sono forze
di bene che chiedono di trovare spazio, desiderano continuare a
parlare da dentro, premono per diventare carne.
Ogni domenica nell‟Eucaristia queste parole ricominciano il viaggio
di ritorno dall‟esilio in cui le abbiamo confinate, bussano alla nostra
porta di casa, si presentano come cibo nutriente e invitante, chiedono
di familiarizzare con noi. Hanno ancora il sapore di quel giorno in cui
Gesù sfamò una folla di „cinque mila uomini‟ che lo avevano seguito
e ascoltato senza badare al luogo deserto e al giungere della notte. Ma
38
soprattutto portano ancora le note di quella sera estrema in cui Gesù
si china sui piedi dei suoi e li lava. Mentre molti in quell‟ora
aspettano da Gesù un gesto politico, Lui, giunto al culmine del suo
percorso in terra, fatto di condiscendenza e di vicinanza, fa il gesto di
abbassarsi. Si tratta del gesto tradizionale di ospitalità, inaugurato da
Abramo alle querce di Mamre, che qui viene compiuto da colui che è
riconosciuto come Maestro e Signore. È il suo cuore pieno di
benevolenza e sono le sue mani aperte alla dedizione che lo portano
ad “abbracciare gli uomini ai piedi”, là dove poggia il peso e la
statura di ognuno, “i piedi che non portano corone”.
Nell‟ora suprema, per assicurare una relazione durevole tra lui che se
ne va e i suoi e, tramite loro, con tutti noi, Gesù prende pane , vino,
acqua per trasformare tutto in alleanza. Anche il gesto di abbassarsi
fino ai piedi è per innalzare. Il gesto è attribuzione di fiducia e di
onore, per trasformare in “Qualcuno” i tanti qualunque. In tal modo
anche il povero, sotto le mani di Gesù, si sente onorato, stimato, reso
prezioso. Gesù dona la sua vita per ricostruire una preziosità
“nascosta” e spesso dimenticata o mortificata.
Quasi senza accorgercene, abbiamo raccolto in cinque parole i gesti
compiuti da Gesù in quell’ora estrema, gesti che rivelano il suo
ardente desiderio di voler rimanere con noi e tratteggiano lo stile
permanente della sua relazione con noi. Sono parole cariche di
dettagli preziosi che contengono una ricchezza inesauribile perché
rivelano in modo coerente la storia di una vita. Le ritroviamo infatti
nei diversi racconti della moltiplicazione dei pani, il miracolo più
narrato di tutto il Nuovo Testamento I sinottici, ai tratti già
sottolineati, aggiungono l‟atteggiamento “benedicente” di Gesù.
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di
loro, perché erano come pecore che non hanno pastore:
benevolenza.
“Voi stessi date loro da mangiare”: fiducia.
E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde:
accoglienza ospitale.
Spezzò i pani e divise i due pesci fra tutti: dedizione.
Recitò la benedizione. La dedizione di Gesù guarisce tutto quello che
abbraccia, ma soprattutto trasforma le relazioni da commerciali a
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gratuite perché riconosce tutto come dono. Davanti al tanto o al poco
i suoi occhi si alzano verso il cielo per benedire e le sue labbra si
aprono in parole di gratitudine all‟Autore di ogni cosa. Il suo
linguaggio non conosce che l‟alfabeto della gratitudine che è
l‟alfabeto della vita.
Qualche frammento di quei gesti miracolosi di ospitalità, di
benevolenza, di fiducia, di dedizione compiuti nella sera della
moltiplicazione dei pani e nella notte dell‟ultima cena, qualche eco
del linguaggio inedito della gratitudine, è avanzato anche per noi:
qualcuno l‟ha raccolto e ce lo ha trasmesso. Per questo ogni
domenica noi torniamo a celebrare con gratitudine la memoria di
quelle ore. La comunità dei credenti non ha mai smesso di obbedire
al comando rivolto da Gesù ai suoi discepoli nell‟ultima cena: „fate
questo in memoria di me‟ e di ripetere l‟invito a gustare nel pane e
nel vino il dono del suo amore senza fine. L‟Eucaristia ci regala la
benedizione di un incontro con quel Dio che in Gesù continua a
provvedere al bene della nostra umanità; un incontro che dà slancio e
vigore al nostro cammino che spesso ospita paure e rifiuti, fragilità e
peccato, limiti fisici e psichici, sperimenta sfiducia e assenza di
riconoscimento benevolo e grato. Nell‟Eucaristia avviene l‟incontro
con l‟avvenimento di una dedizione destinata a sanare e rinnovare
tutte le situazioni umane. L‟Eucaristia, memoriale del “passaggio” di
Gesù da questo mondo al Padre, passaggio avvenuto attraverso la sua
passione, fa passare l‟uomo dall‟esclusione all‟ospitalità, dalla
maldicenza alla benevolenza, dallo scoraggiamento alla fiducia,
dall‟egoismo alla dedizione, dall‟ingratitudine alla gratitudine. In
ogni celebrazione eucaristica alla quale abbiamo la grazia di
partecipare, qualcosa accade sempre. La celebrazione eucaristica,
infatti, non solo illumina la mente, ma imprime nel nostro corpo e
scrive nel nostro cuore un fermento di vita nuova.
Ospitalità
Noi andiamo all‟Eucaristia perché Qualcuno ci aspetta. La Messa non
è qualcosa da fare, ma un appuntamento da non mancare. Entrando in
chiesa, forse abitati ancora da sentimenti contrastanti come la fretta e
la trepidazione, percepiamo sin dall‟inizio che qualcosa del mistero ci
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avvolge e ci attira, ma abbiamo bisogno di voci e volti che possano
orientare la nostra ricerca di Dio. Vivere un incontro infatti passa
attraverso tanti piccoli gesti.
I riti di inizio della celebrazione eucaristica offrono un‟architettura
di parole e di azioni che ci fanno sentire accolti da Dio e ci
conducono ad aprire in noi uno spazio per ospitare il mistero stesso di
Dio.
L‟Eucaristia inizia con e per la voce di un altro, una voce che precede
le nostre voci e i nostri gesti. È la voce del rito che chiama in un
luogo stabilito e in un tempo fissato per compiere azioni già
strutturate. Cosa indica tutto questo? Vuole ricordare che l‟incontro
non dipende dall‟iniziativa umana, non siamo noi ad autoconvocarci.
Noi non ci diamo nulla da soli. Quello che siamo e compiamo è
sempre una risposta ad una voce che arriva, alla voce di qualcun altro
che si interessa di noi. Qualcuno ci cerca, ci rende degni di essere
destinatari dei suoi doni. La forza di questa voce è quella di condurci
fuori dal nostro io chiuso, all‟incontro con altre persone, ad abitare
altri luoghi, a sperimentare tempi diversi. Anche se la voce in sé non
ha nulla di grandioso, la sua opera nella liturgia è potente. Realizza
una interruzione della vita nel suo percorso ordinario, istituisce una
distanza dall‟ovvio, spezza un io troppo ripiegato su di sé, realizza
una uscita dal proprio piccolo mondo antico, ci restituisce la
condizione di pellegrini. L‟io è posto oltre se stesso, è chiamato ad
esporsi ad altri tu. Quest‟opera di distanza da se stessi libera uno
spazio per la relazione con l‟altro e per l‟ospitalità do Dio stesso.
La liturgia è questa voce che arriva e chiama. Quando rispondo e
seguo l‟invito della voce che cosa trovo? Mi trovo condotto e
collegato con altri che si sono lasciati condurre dalla Voce. Si tratta
di solito di una comunità con le sue ferite e le sue attese. Vedo gente
diversa per età, cultura, vita spirituale: incontro la differenza. Ma
sperimento anche il dolore di tante assenze, di volti prima sempre
presenti e ora assenti perché impediti dalla malattia o da esperienze
faticose.
La liturgia non parte dalla perfezione, dall‟unità, da una armonia già
composta, non esige che quanti vi partecipano abbiano la stessa
cultura, la stessa fede, la stessa vita spirituale. La liturgia sa che la
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perfezione è sempre ciò che manca, perché la sua forma è la
relazione. La maturità dell‟uomo e del cristiano non dipende dalla sua
coerenza, ma dalla sua apertura all‟accoglienza. Consiste nel ricevere
se stessi dalle mani di un Altro e dagli altri. Per questo motivo
andiamo a celebrare l‟Eucaristia ogni domenica, perché abbiamo
bisogno di riceverci ogni volta e sempre di nuovo. La nostra
perfezione si dà solo in una relazione ospitale; ma questa è anche la
qualità della vita spirituale, della santità: l‟ospitalità. Una persona e
una comunità vivono una ricca vita spirituale quando ospitano molto
di altro o di altri e soprattutto quando si aprono all‟accoglienza
ospitale di Dio nella propria vita. La liturgia chiama persone che
sperimentano la fragilità, la precarietà, che vivono divisioni.
Soprattutto la liturgia sa che la perfezione oltre che nella relazione sta
nell‟invocazione, per questo trasforma tutto in supplica. Ma la
liturgia non è un‟azione neutra e rassegnata, non lascia le cose come
stanno, piuttosto conduce i distanti verso le relazioni, compone
l‟unità. E lo fa prendendosi cura degli inizi, del punto in cui ci uno si
trova.
Il primo gesto è la processione accompagnata dal canto. Il suono del
canto intona il senso delle relazioni: è necessario sintonizzarsi con la
voce dell‟altro per ospitare in noi qualcosa del suo mistero. Nel
movimento della processione verso l‟altare, mentre viene reso
visibile il nostro desiderio di avvicinarci al Mistero della misericordia
perdonante e risanante, si attua la vicinanza di Dio al suo popolo,
meglio, il suo desiderio di rendersi ospitabile da ogni persona e
situazione.
La processione è diretta all‟altare. Ma a questo punto accade qualcosa
di sorprendente: il sacerdote bacia l‟altare e si stacca da esso, si reca
alla sede, collocata a lato dell‟altare. Questo sta a significare che la
direzione del cammino ha come traguardo il centro, ma coloro che vi
giungono non lo occupano, lo venerano e poi lasciano libero lo
spazio perché tutti vi possano trovare ospitalità. Il centro non può
essere occupato, Dio desidera rendersi avvicinabile da ogni persona.
La comunità non è una realtà già compiuta, ma l‟unità di coloro che
si lasciano generare e plasmare da quello che ricevono. È questo il
senso del saluto iniziale: “il Signore sia con voi”. I Padri della Chiesa
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commentavano sottolineando che con il saluto iniziale si intende
dichiarare esplicitamente che protagonista è il Signore e nessuno lo
può sostituire. La risposta del popolo al saluto, “E con il tuo Spirito”,
suona come un invito a colui che presiede ad agire solo secondo
l‟azione dello Spirito Santo, lo Spirito dell‟ordinazione. Colui che
presiede infatti lo può fare solo a motivo di una epiclesi, e pertanto è
invitato ad agire in obbedienza allo Spirito. Risulta chiaro come tutti,
fin dall‟inizio, sono soggetti di una azione che ha nel Signore il suo
inizio e il suo protagonista principale. Nessun “sequestro
corporativo”: né di libri, né di luoghi, né di ruoli.
Con l’atto penitenziale Dio ci ospita nella sua misericordia, ci
accoglie senza tener conto dei nostri precedenti e così libera le
relazioni da ogni forma di precedenze. Si preoccupa solo di aprirci un
futuro rinnovato.
I riti di inizio si concludono con la preghiera chiamata “colletta”, un
invito a raccogliere le voci di tutti perché tutti abbiano voce.
L‟orazione Colletta è scandita in quattro momenti: invito, silenzio,
invocazione, petizione-acclamazione.
L’invito (“Preghiamo”): qualcuno si occupa di me, qualcosa è già
pronto per me, qualcuno ha predisposto un dono. La preghiera c‟è
già: entra anche tu nella preghiera. L‟invito è sempre finalizzato a
risvegliare la partecipazione ad un dono già in corso.
Il silenzio: un‟interruzione ospitale affinché anche ciò che rimane
senza parola possa avere voce. Molti dicono: “Io non so esprimere la
mia preghiera”. Il silenzio può ospitare la preghiera inesprimibile, il
grido di gioia o il gemito di sofferenza; oppure la preghiera simile a
quella della donna del Vangelo, capace solo di toccare il lembo del
mantello. Tacere, sospendere la parola, soprattutto quella tentata di
spiegare continuamente, offre spazio e tempo per la voce di altri, è far
posto ad ulteriori parole.
L’invocazione e la petizione: è l‟atto con cui si accoglie e si raccoglie
il grido inarticolato e il gemito senza lingua per orientarli. Nessuna
voce è condannata al suo disorientamento, nessun grido è lasciato
nella sua indeterminatezza, tutto viene ospitato per essere orientato al
Padre. La preghiera che il ministro ordinato rivolge al Padre le
imprime una direzione e ne annuncia anche la via, il Figlio. Nessun
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frammento rimane senza collegamento perché la preghiera avviene
nello Spirito, che è “vincolo di unità”.
Ma tutto questo movimento, interruzione, ripresa, è per
l’acclamazione: Amen! Nessun atto di parola nella liturgia sta senza
provocazione, tutto è finalizzato a suscitare l‟acconsentimento di
tutti. Nella liturgia quelli che hanno voce, ritrovano parola. L‟Amen è
possibile a tutti. È la parola di tutti. Risulta chiara la forza della
parola nella celebrazione: quando l‟uomo si accorge di non poter
pensare l‟impensabile, il rito dialoga con esso, perché invoca, tace,
acclama. Una via si apre, non quella del concetto, ma quella del
contatto.
Abbiamo raccontato che cosa accade nei riti di inizio. Sono riti che
oggi richiedono una cura particolare: è la cura per gli inizi del
pregare, ascoltare, credere, atti rituali che sono all‟origine di uno stile
di vita improntato all‟ospitalità, alla benevolenza, alla fiducia, alla
dedizione, alla gratitudine. Non sopportano la fretta, richiedono il
rispetto del loro ritmo. Un ingresso repentino dal retro del presbiterio
suona come mancanza di rispetto; la processione di inizio invece non
è mai stata motivo di noia. Anche nel rito della comunione celebrato
nella casa di un malato è indispensabile la cura per i riti di inizio,
anzi, nel caso esigono un‟attenzione ancora più accurata e delicata.
Tra le forme più belle per ospitare il mistero di Dio e dell‟altro vi
sono il saluto e il silenzio. Sono infatti lo spazio in cui si dona
all‟altro la possibilità di manifestarsi, il primo passo per mettersi in
relazione. Senza il silenzio, le parole si sovrappongono e si
ammassano e la confusione prende il sopravvento sulla relazione.
Nella celebrazione eucaristica ci sono diversi momenti in cui vivere il
silenzio ospitale: nei riti di ingresso dopo il saluto e l‟invito all‟atto
penitenziale, nella preghiera di colletta, nella liturgia della Parola
dopo la proclamazione del Vangelo e l‟eventuale omelia, nei riti di
comunione.
Benevolenza
Dio ha un desiderio: intrattenersi familiarmente con gli uomini. Il suo
non è mai uno sguardo indagatore, ma è ricco di benevolenza e cerca
il bene delle persone. Per vincere ogni distanza e realizzare la sua
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prossimità, riversa su di noi gesti e parole di bontà. La Parola
proclamata nella celebrazione eucaristica è l‟avvenimento della sua
vicinanza. Dio cerca qualcuno che presti alla sua vicinanza la stessa
attenzione, cordiale e benevola, che lui ha per tutti. Il desiderio di Dio
è di risvegliare la sensibilità accogliente dell‟uomo. Solo nella
relazione infatti accade la rivelazione. Nella liturgia della Parola,
mentre la voce del lettore proclama il testo e lo scioglie dalla sua
rigidità, Dio stesso si avvicina e discende in mezzo al suo popolo.
Nell‟Apocalisse c‟è un‟espressione molto ardita e significativa che
sembra evocare un dialogo d‟amore: «mi voltai per vedere la voce»
(Ap 1,9). Credo che dica bene il senso della liturgia della parola. La
voce della Parola è come la voce dello sposo, arriva con un tono che
invita a cercare il volto e a rivolgersi verso il corpo di colui che parla,
un tono che suscita il desiderio di incontrare la persona da cui
proviene la voce. La liturgia della parola opera proprio questo: la
liturgia della parola è la persona di Dio nell‟atto di parlare, di
rivolgersi a me e a tutta la comunità. Si tratta di una parola
generatrice di una relazione. Per realizzare questa sua qualità
intrinseca nella celebrazione concreta non si dovrebbe però trascurare
la qualità sonora della parola. La voce, infatti, qualsiasi cosa affermi,
sempre rimanda all‟unicità della persona che parla. Per questo motivo
la liturgia richiede che la Parola sia proclamata, acclamata, cantata,
invocata: l‟intento è di portare le persone a cercare il volto di Colui
dal quale proviene questa voce che comunica sempre l‟unicità della
persona. Risulta indispensabile pertanto custodire la sonorità della
parola. Per questo motivo nelle chiese antiche era presente l‟ambone,
da cui la voce scendeva potente e sonora. Noi viviamo un periodo di
devocalizzazione, siamo dominati dalla tenaglia del logocentrismo,
con conseguente appiattimento e spersonalizzazione. Forse per
questo nelle nostre chiese gli amboni sono scomparsi e sono stati
sostituiti da fragili e inconsistenti leggii.
Nell‟Eucaristia domenicale l‟evangeliario viene portato nella
processione d‟ingresso per essere deposto sull‟altare e poi proclamato
all‟ambone, ma la cura per il libro delle Scritture, i gesti di
accoglienza e venerazione della parola, sono sempre possibili, anche
quando la parola viene proclamata nella casa degli ammalati.
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Sappiamo bene che la Parola risuona nell‟assemblea con il timbro, la
persuasione e la forza della voce e della persona che la propone: una
riconosciuta testimonianza di vita la rafforza; una proclamazione
attenta, chiara e puntuale, la esalta; una lettura sciatta, affrettata o
puerile, la vanifica.
Fiducia
La parola e i gesti della benevolenza di Dio ci offrono una luce che ci
fa guardare con occhi nuovi la realtà e ci orientano a cogliere
possibilità insperate anche nelle situazioni buie e intricate.
Riconosciamo, con gli stessi occhi della benevolenza di Dio, che
vicino a noi sta un Padre affidabile a cui possiamo consegnare la
nostra vita. Davanti alla Parola non si dà neutralità. La prima risposta
dell‟uomo è una professione di fede: talvolta aperta e gioiosa, altre
volte titubante e sofferta. La parola che tutto raccoglie è: «Credo in
Dio Padre onnipotente». È quell‟atto di fiducia che diviene la radice
e il fondamento capace di sostenere il nostro cammino anche nelle
ore in cui la fiducia può venir meno. Ci basta dire “credo”, dirlo con
tutto il cuore, dirlo insieme, per sentire che la nostra fiducia si
rafforza.
Poiché l‟onnipotenza di Dio si compie nella sua paternità, noi siamo
liberati da ogni paura davanti alle nostre impotenze e fragilità e di
fronte ad ogni forma di prepotenza. Sappiamo di chi fidarci e a chi
affidare la nostra vita e quella dei fratelli, sappiamo a chi parlare dei
problemi nostri e del mondo.
Con la preghiera universale (o dei fedeli), l‟impasto della vita, i
fatti quotidiani e straordinari, possono trasformarsi in supplica e
intercessione. Da poveri possiamo tendere le mani, da figli sentiamo
che il Padre le colmerà di doni. La risposta dell‟uomo alla Parola
ascoltata diviene preghiera, intensa come la fede da cui nasce,
universale come l‟amore che l‟ispira, che non conosce frontiere, che
non si arresta davanti a nessun confine: si estende ad abbracciare il
mondo, si piega sulle miserie e i dolori dell‟uomo, s‟innalza fino a
superare le frontiere delle razze o delle religioni. La preghiera di
intercessione allarga lo sguardo oltre noi stessi, ci aiuta a staccarci
senza fughe dai nostri problemi. E la fiducia rinasce!
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La Parola che ha generato l‟atto di fede e si è fatta preghiera di
supplica, ci invita poi a portare all‟altare i doni per il banchetto: pane
e vino. Portiamo le cose, il mondo e i frutti della terra. Anche se
siamo a mani vuote, possiamo dare qualcosa, perché anche donare è
una grazia che ci è stata data, nasce da un atto di fiducia che ci è stato
accordato. Il pane e il vino contengono già tutto, sono frutto del
lavoro umano e hanno in sé la gioia e la fatica, le delusioni e le
speranze che accompagnano il vivere quotidiano.
Credo, preghiera dei fedeli con apertura universale, presentazione dei
doni: sono tanti colori con cui la parola di grazia e i gesti di
benevolenza di Dio risvegliano la nostra risposta fiduciosa.
Dedizione
Nell‟Eucaristia la Chiesa si ferma per lasciarsi formare da Gesù nel
suo ultimo atto, l‟atto di una dedizione radicale per la salvezza e la
ricomposizione dell‟umano in tutti. Solo in quest‟ora Gesù ha potuto
dire con verità piena: «questo è il mio corpo». E questo avviene
nell‟ultima cena, nel momento della crisi delle relazioni di Gesù con i
suoi. La comunità crolla, i legami di sequela vengono negati e
sovvertiti. Proprio in quest‟ora Gesù trova la forma per assumere e
trasformare la crisi delle relazioni. E questo rivela che la vita si attua
per passaggi concreti, attraversati da una passione che non viene
meno neppure davanti al rifiuto del dono. Anche per Giuda c‟è un
boccone benché tragicamente rifiutato! Proprio quando sta vivendo
l‟interruzione delle relazioni con i suoi discepoli, Gesù reagisce
facendosi presente, come non aveva mai fatto: “questo è il mio
corpo”. Questo è il mio modo di essere presente, io sarò sempre
presente così, come uno che si dà e basta, uno che ha una così forte
passione per la vita dell‟altro che arriva a prendere la forma della
disponibilità a morire per lui. In questo modo Gesù rende impotenti i
prepotenti: l‟uomo crede di poter ottenere l‟affermazione di sé
mediante il sacrificio dell‟altro, Gesù desidera consacrare l‟altro,
dargli dignità e lo fa mediante il sacrificio di sé. Con l‟atto della
dedizione totale di sé, Gesù sancisce la fine di una santità senza
ospitalità, che non sa includere il rifiuto, la fragilità, le ferite, la
morte.
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“Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. Una parola
impossibile. Chi la può pronunciare? Solo Gesù e solo in quell‟ora. È
la parola di una lingua non ancora inventata, la lingua dell‟amore che
si sacrifica per accogliere tutti e per comunicare a tutti la stessa
capacità di amore.
L‟Eucaristia, centrata sul dono del corpo e del sangue, trasforma i
distanti in destinatari del dono e i traditori in ospiti. Noi facciamo
fatica a tenere insieme dedizione e fragilità, per questo ogni
domenica attendiamo di nutrirci del corpo di Cristo.
Stiamo avvicinandoci al centro della celebrazione eucaristica: la
sua forma essenziale ha il carattere del pasto. Non si tratta però di un
pasto qualsiasi: quando uno partecipa al banchetto eucaristico infatti
non accede subito alla comunione. La celebrazione fa compiere un
percorso che impedisce l‟accesso immediato e solitario al cibo
eucaristico. Il pasto istituisce il massimo della relazione intima, ma
non è mai la consumazione dell‟altro per soddisfare se stessi. Il
banchetto eucaristico opera una sospensione che crea la differenza.
L‟Eucaristia è certamente un convito, ma è anche sacrificio.
Concretamente questo significa che nella celebrazione l‟atto di
mangiare è risvegliato e nello stesso tempo viene dilazionato:
nessuno va a prendere subito e da solo la Comunione, prima esiste
una sequenza di azioni che impediscono l‟accesso immediato al
banchetto. Ci si raduna, ci si aspetta, si chiede perdono, si acclama la
parola, si ringrazia e si invoca. Tutti i gesti e le parole risultano un
invito al massimo di intimità, di prossimità, di comunione ma
contemporaneamente operano per impedire una relazione precoce e
senza respiro che porterebbe ad un rapporto di tipo fusionale. Il cibo
non è tutto e subito e solo per me, io non vi posso accedere da
solitario e da proprietario. Il cibo eucaristico viene atteso e portato,
viene spezzato e donato. Ciò che mi è indispensabile per vivere viene
dalla mano di un altro ed è condiviso con altri. In tal modo si sente
che non si può mangiare da soli né tranquillamente davanti ad uno
che non mangia. Questa è la relazione che si istituisce in un convito:
ci si aspetta, si domanda, si riceve e si ringrazia.
E tutto avviene nella forma semplice di un pezzo di pane spezzato.
Ma quando Gesù prende il pane e dice «questo è il mio corpo»
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succede qualcosa di grande: intende infatti riferirsi al suo corpo
spezzato sulla croce, all‟ora della sua morte in croce, ma per rivelare
che quella morte è generatrice di vita. Come il pane è spezzato per far
vivere, così anche il suo corpo spezzato dona vita. Non si tratta di un
corpo morto, ma di un corpo offerto.
Nella liturgia non prevale il concetto ma il contatto. Per questo
andiamo nelle case a portare il pane eucaristizzato. Ma anche in
questo caso la liturgia non è neutra, non si accontenta di un contatto
qualsiasi, anzi è generatrice e plasmatrice di contatti autentici. La
forma rituale istituisce una forma di relazione in cui nel contatto è
custodita e salvaguardata l‟inviolabilità dell‟altro. La liturgia
sorprende i corpi perché è capace di tenere insieme prossimità e
distanza: nella liturgia ci si avvicina realmente gli uni agli altri senza
mai occupare lo spazio e violare il segreto dell‟altro. Il rito vince la
distanza perché chiama a riunirsi in assemblea, invita ad agire
insieme, ma lo fa in un tempo, in un luogo, con gesti e parole dei
quali nessuno è padrone. La stessa struttura dell‟edificio di culto
funziona come invito che avvicina le persone e nello stesso come
limite davanti alla tentazione di occupare il posto e il segreto
dell‟altro.
Ma è soprattutto nella preghiera che si vive questa singolare forma di
prossimità. Il modo attraverso cui ci si prende cura delle necessità
dell‟altro è l‟intercessione. Tra me e il bisogno dell‟altro è invocata la
presenza e l‟azione di un Altro, il Signore di tutti. Nella preghiera di
intercessione il camminare dell‟uno verso l‟altro fa appello a Dio
perché si collochi tra me e l‟altro. La preghiera è il modo per
interessarmi dell‟altro senza occuparne lo spazio, ma lasciando aperto
lo spazio all‟arrivo di Dio e al respiro dell‟altro.
Gratitudine
“È veramente cosa buona e giusta, rendere grazie a te, Dio Padre
onnipotente,… per Gesù tuo Figlio”. La vita buona e giusta conosce e
usa il linguaggio della gratitudine: rendere grazie fa zampillare vita
piena. La gratitudine infatti è il modo più adeguato per ospitare la
grazia, è una finestra aperta all‟ingresso del dono nella nostra vita.
L‟ingratitudine invece è una barriera posta a impedire il
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sopraggiungere del bene che proviene da Dio e dagli altri.
Ringraziare è riconoscersi sospesi e dipendenti dal suo amore, è
respirare e vivere soltanto di ciò che riceviamo. La gratitudine è una
forza, impedisce che il dono diventi un possesso: così, invece di
essere consumato, mantiene la sua libertà di continuare a generare
vita.
Per questo nel prefazio che apre e orienta la preghiera eucaristica si
canta che l‟azione di grazie è fonte di salvezza. Tutta la celebrazione
eucaristica è un invito a declinare il linguaggio della gratitudine. Con
la mite insistenza del gesto e della parola ripetuta, la celebrazione
regala ai nostri sensi colori, suoni, profumi, tocchi di grazia per farci
gustare quanto è buono per noi il Signore.
Ma è nella preghiera eucaristica che, con parole antiche e gesti
insistenti, siamo condotti a riconoscere che Dio è all‟origine di ogni
cosa, che tutto è dono ma soprattutto che in Gesù ci è stato dato tutto.
E per poter dire l‟eterna grandezza del suo amore raccogliamo tutte le
forme del linguaggio umano: dal silenzio al canto, dall‟invocazione
all‟intercessione per concludere con la dossologia, la formula
trinitaria con cui tentiamo di esprimere la gloria di Dio.
Si tratta di un‟azione presieduta dal presbitero, il quale tuttavia non fa
altro che agire dimenticandosi di sé, e vivendo delle successive e
sempre più radicali interruzioni, perché tutto sia rivolto al Padre. Fa
memoria del Figlio, invoca l‟Altro che è lo Spirito, dà gloria non a se
stesso ma al Padre. Memoria, epiclesi, dossologia. Racconta al Padre
del Figlio, pregando e ringraziando nel prefazio, ma poi interrompe la
narrazione, che è la narrazione e memoria dell‟Altro, per far parlare il
Figlio. In fondo, per partecipare all‟evento, continua a interrompere il
suo compito, così libera lo spazio del dono. Questo è il gioco della
preghiera eucaristica. Ad un certo punto non diciamo più le nostre
parole, anche se sono parole di azione di grazie al Padre: mentre
rendiamo al Padre la sua grazia che è il Figlio, nelle parole
dell‟istituzione, lasciamo che il Figlio si dica. Esse sono la più
radicale forma di sacrificio dell‟io. Davvero lì è il cuore della
preghiera eucaristica, là dove l‟uomo è costretto a sottrarsi alla sua
gloria per dare gloria unicamente al Padre (dossologia). Lo fa con
toni diversi, il solenne del prefazio e della dossologia, trasportato
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perché condotto nella narrazione, umile nell‟invocazione epicletica
(«ti preghiamo umilmente»). Lo fa con i gesti, le mani elevate, le
mani imposte, con i doni che nel racconto dell‟istituzione mostra e
nella dossologia eleva. Parla a Dio, il presidente, non all‟assemblea,
perché non dà un insegnamento o un orientamento.
L‟ultimo atto della celebrazione eucaristica è un gesto di
benedizione. Al momento del congedo la voce, pur rimanendo una
flebile voce, diventa energia di dono, si fa benedizione. “Vi benedica
Dio onnipotente”: nella benedizione finale la voce coinvolge
l‟onnipotenza di Dio. La benedizione apre una porta per dare un
passaggio alla potenza di Cristo che tocca il corpo dei credenti in
modo che essi possano portare nel mondo quello che in quell‟ora è
accaduto in loro. La benedizione finale non ci consegna più dei doni
perché tutto è stato dato, ma ci regala l‟energia del dono, la
permanenza del dono come energia che custodisce il passo dei
credenti. Così i corpi diventano una presenza benedicente, ricevono
dall‟onnipotente Trinità un potere vitale, il potere di comunicare vita.
Benedicendo con il segno della croce, la liturgia imprime alla
benedizione una qualità insperata: il potere di fecondità della croce.
La Chiesa dell‟Eucaristia dopo la vittoria del crocifisso, vittoria nella
debolezza, non ha più motivo di maledire nessuno. Credo che oggi la
benedizione sia uno dei doni di cui il mondo ha maggiormente
necessità; in un contesto di linguaggio dove trionfano il sospetto e la
maldicenza, i cristiani escono dall‟Eucaristia con una parola che
contraddice tutto il mal parlare del mondo. La benedizione diventa la
qualità e il contrassegno delle relazioni; gli incontri acquistano
respiro, diventano incoraggianti e rincuoranti. La Chiesa riceve tutto
nel sacramento, ma il sacramento chiede di risuonare in gesti e parole
che includano nell‟abbraccio benedicente della Trinità molti altri che
non hanno partecipato al sacramento dell‟Eucaristia.
Il papa Benedetto XVI conclude il suo libro su Gesù di Nazareth con
l‟immagine di Gesù che si congeda dai suoi benedicendo.
“Benedicendo se ne va e nella benedizione Egli rimane. Le sue mani
restano stese su questo mondo. Le mani benedicenti di Cristo sono
come un tetto che ci protegge. Ma sono al contempo un gesto di
apertura che squarcia il mondo affinché il cielo penetri in esso e
51
possa diventarvi una presenza. Nel gesto delle mani benedicenti si
esprime il rapporto duraturo di Gesù con i suoi discepoli, con il
mondo. Nell‟andarsene Egli viene per sollevarci al di sopra di noi
stessi ed aprire il mondo a Dio. Per questo i discepoli poterono gioire,
quando da Betània tornarono a casa. Nella fede sappiamo che Gesù,
benedicendo, tiene le sue mani stese su di noi. È questa la ragione
permanente della gioia cristiana” (JOSEPH RATZINGER- BENEDETTO
XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso di Gerusalemme fino alla
risurrezione, LEV,Roma, 2011,324). E possiamo dire che è questa la
ragione della gioia della Chiesa, sposa benedetta e benedicente. Vorrei concludere invitando tutti a compiere un atto di fiducia nella
celebrazione eucaristica. La celebrazione eucaristica ci regala un
luogo, un clima in cui nessuno può usare la prepotenza perché si
confessa che solo Dio è onnipotente, in cui nessuno può imporre il
proprio punto di vista, perché lì tutti sono uditori dell‟unica Parola di
verità. Nell‟Eucaristia nessuno può esercitare precedenze, perché in
essa non si tiene conto dei precedenti delle persone. Lì tutti siamo
penitenti, uditori della Parola, offerenti comunicanti, riconoscenti.
Tutti lì siamo destrutturati dei nostri ruoli precedenti e ristrutturati in
base all‟unico Signore. Le uniche differenze sono quelle istituite dal
servizio.
La celebrazione ci è donata senza che l‟abbiamo troppo meritata: non
attende che noi abbiamo tutte le condizioni per accoglierla, ma ci
attende. Non apre le sue porte solo a chi sa, fa, ha tutto. Sancisce
invece la fine dell‟ideologia della perfezione in quanto suscita il
desiderio della relazione, la voglia di incontrare, la nostalgia di
tornare. Rivela il volto di un Dio sempre incontrabile, ospitale,
benevolo, fiducioso. Quel Dio che in Gesù dispone lui stesso le
condizioni del suo essere a nostra disposizione.
È bello allora lasciare che al centro delle nostre celebrazioni, delle
nostre catechesi risuoni una beatitudine: «Beati gli invitati…».
Quanto accade nell‟Eucaristia è risposta ad un invito, non è frutto
dell‟iniziativa del singolo; all‟Eucaristia sei invitato, sei atteso.
L‟invito costa a Colui che ti invita, ci mette la sua vita e più della sua
vita. Chi accetta l‟invito, accetta di ricevere vita da Lui e quindi
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rinuncia alla propria autosufficienza, ciò che fa vivere lo riceve da un
Altro.
L‟Eucaristia è davvero un‟attività festiva, un‟opera d‟arte, scaturita
dalle dita di Dio. Come le dita, una piccola parte del corpo, che però
evocano agilità e delicatezza, anche l‟eucaristia evoca la forza e la
bellezza di quei piccoli gesti che hanno il nome di ospitalità, fiducia,
benevolenza, gratitudine, piccoli gesti ma capaci di iniziare ad una
vita vissuta altrimenti. Con il tocco delle dita – tocco delicato come
quello del musicista sull‟arpa o di un pittore sulla tela o di una donna
che ricama – Dio crea quello che si vede in cielo, in un cielo
notturno. Con un frammento di tempo, attraverso mezzi umili e
piccoli – divina semplificazione – la liturgia dischiude spazi aperti alle
relazioni e soprattutto alla relazione con il Signore. È l‟opera d‟arte di
Dio, che ognuno di noi è chiamato a custodire con cura affettuosa e
fedele.
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IV. MATURI NELLA FEDE, TESTIMONI DI UMANITÁ
Si avvicinò a lui uno degli scribi […] e gli domandò: “qual è il primo
di tutti i comandamenti?”. Gesù gli rispose: “il primo è: ascolta,
Israele! Il Signore nostro Dio è l‟unico Signore; amerai il Signore tuo
Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua
mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: amerai il tuo
prossimo come te stesso. Non c‟è altro comandamento più grande di
questi” (Mc 12, 28-31).
Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a tutti e
ai singoli suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato la santità
della vita, di cui egli stesso è l‟autore e il perfezionatore […]. È
chiaro dunque a tutti che i fedeli di qualsiasi stato o grado sono
chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità
(Costituzione Conciliare Lumen Gentium, n. 40).
Gesù fa della carità il comandamento nuovo. Amando i suoi sino alla
fine, egli manifesta l‟amore che riceve dal Padre. Amandosi gli uni
gli altri i discepoli imitano l‟amore di Gesù, che essi ricevono a loro
volta (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1823).
In questo capitolo vogliamo percorrere qualche sentiero che ci
permetta di scoprire che cosa vuol dire la “pratica morale”, la “pratica
del comandamento cristiano”. In altri termini, che cosa significa
“essere maturi nella fede e testimoni di umanità”? Significa
accogliere e vivere il “comandamento nuovo”, quello affidato da
Gesù ai suoi discepoli. Partiremo da una premessa sulla realtà del
mondo degli adulti.
Essere adulti oggi
Per quanto riguarda la realtà degli adulti, va tenuta presente anzitutto
la loro difficoltà a riconoscersi ed accettarsi come tali. Gli adulti
vorrebbero restare sempre giovani-dentro. Infatti, ad ogni
compleanno, a ogni incontro casuale dopo molto tempo, il
complimento che si riceve più volentieri è quello di sentirsi
considerati giovani-dentro. Solo di rado capita di incontrare qualcuno
che non si vergogna di essere adulto-dentro. Nessun‟età, ad ogni
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modo, da sola, ha la responsabilità del nostro futuro. È un luogo
comune ripetere che solo i giovani siano il futuro del mondo. Sarebbe
più realistico asserire che il futuro è nelle mani di Dio, l‟unico sul
quale si può scommettere che mantenga la parola e adempia la
promessa.
Una seconda osservazione è relativa al fatto che essere adulti è un
processo, non una condizione. Mentre cessa la pubertà, la giovinezza,
non cessa l‟età adulta. I processi di maturazione, poi, non sono così
scontati e così evidenti, né gli adulti anagrafici sono automaticamente
gli adulti culturali. Al fenomeno dell‟infanzia rubata corrisponde
quasi sempre, specularmente, il fenomeno della maturità presunta.
D‟altra parte, è difficile stabilire quando la fede si possa definire
adulta. L‟età dell‟anima, infatti, non è la stessa età del corpo, così
come i bisogni dell‟anima non coincidono con i bisogni del corpo. Ci
si può chiedere, allora, se esista un‟età per la santità o per la fede
adulta; se si possa essere maturi nella fede e deboli in umanità; su
quale sia il metro per stabilire che si è adulti o bambini nella fede.
San Paolo ha scritto che «quand‟ero bambino, parlavo da bambino,
pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma divenuto uomo, ciò
che era da bambino l‟ho abbandonato» (1Cor 13, 11). Il testo, però,
parla di abbandono di ciò che è proprio del bambino, ma non dice
nulla su ciò che ha acquisito per diventare adulto. È necessario, allora,
capire quale sia il fondamento d‟una fede adulta, nel senso di una
«fede che chiede di "diventare adulta" in un soggetto che è divenuto
adulto anagraficamente e culturalmente» (A. CAPRIOLI, La catechesi e
le sfide dell’evangelizzazione, in La Rivista del Clero Italiano, 4
[2012] 322).
Maturi nella fede
Relativamente alla maturità della vita di fede, capita spesso di sentire
obbiezioni di questo genere: perché devo diventare cristiano, se per
vivere bene in questa vita e salvarmi nell‟altra basta la mia semplice
umanità? Perché seguire la morale cattolica quando la morale laica
della responsabilità individuale e collettiva è più lineare e coraggiosa?
Perché seguire la religione cattolica, che spesso ha originato ed
origina guerre e tensioni sociali, se è garantita la salvezza eterna
55
anche per mezzo di altre religioni che sono più pacifiche e meno
violente? Perché essere credenti, se si può essere virtuosi anche senza
la fede? Per fare del bene non serve la fede. Il bene è più della fede.
Queste domande e obbiezioni sono tutt‟altro che accademiche ed
inattuali; provocano la coscienza ecclesiale e richiedono risposte
sincere e motivazioni convincenti.
Si può rispondere efficacemente a queste domande e obbiezioni se
dimostriamo che la maturità della vita di fede consista nel vivere
l‟esperienza di Dio. Secondo Benedetto XVI, infatti, «la fede cresce
quando è vissuta come esperienza di un amore ricevuto e quando
viene comunicata come esperienza di grazia e di gioia» (Porta Fidei,
n. 7). In altri termini, il cristiano maturo è colui che fa esperienza di
Dio, e solo chi fa esperienza di Dio può definirsi credente e credibile
allo stesso tempo. Inoltre, solo chi fa esperienza di Dio è capace di
vivere e generare valori cristiani e modelli evangelici di vita buona,
perché il cristianesimo lo si “racconta” e si testimonia con lo stile
della vita. Per esempio, un genitore educa il figlio al valore
dell‟Eucaristia se invece d‟imporgli di andare a messa, ve lo
accompagna e ci va insieme; gli insegna l‟importanza della
formazione cristiana se invece di costringerlo ad andare al catechismo
fa un cammino di fede in comune. L‟autorevolezza dell‟esperienza
personale e dell‟ esemplarità è molto più efficace della semplice
trasmissione di nozioni e norme. C‟è stato un tempo in cui la scuola e
la famiglia avevano autorità, ma senza reciprocità. Negli ultimi
decenni abbiamo assistito all‟affermarsi di una reciprocità livellatrice,
senz‟autorità. La sfida che ci attende oggi è quella di giungere a
un‟autorità che comporti la reciprocità e ad una reciprocità che
rispetti l‟autorità.
Il modo concreto per fare l‟esperienza di Dio, è la sequela di Cristo.
Infatti, coloro che seguono Cristo entrano con Lui in una relazione
simile a quella che avevano i discepoli di Giovanni e dei rabbini con i
propri maestri (cf. Mc 2,18). Questa relazione implica una comunanza
di vita (cfr. Mc 3,14), un servizio personale (cf. Mt 26, 17-19; Mc 14,
12-16; Lc 19, 29-36) e l‟imitazione del maestro. Seguire Gesù come
discepolo comporta esigenze assai impegnative, espresse ad esempio
nel discorso con cui egli inviò i discepoli a predicare (cf. Mt 10) e
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implicanti la condivisione della passione per amore del vangelo e
persino il martirio (cf. 2Cor 4, 10-12; At 7, 54-60; 1Pt 2,21; Ap 14,4).
La sequela di Cristo consiste primariamente in una comunione
personale di vita con Cristo, in un porsi completamente e senza
riserve sotto la guida dello Spirito, in una imitazione di Cristo povero,
perseguitato, servizievole (cf. Lumen Gentium, 8). I modi concreti di
questa sequela potranno cambiare a seconda dei soggetti che sono
chiamati in tempi e luoghi diversi a testimoniare la dimensione
evangelica dell‟esistenza cristiana, ma la radice e l‟ispirazione rimane
sempre la comunione con Gesù. «Non basta dichiararsi cristiani per
essere cristiani, e neppure cercare di compiere le opere del bene.
Occorre conformarsi a Gesù, con un lento, progressivo impegno di
trasformazione del proprio essere, a immagine del Signore, perché,
per grazia divina, ogni membro del Corpo di Lui, che è la Chiesa,
mostri la necessaria somiglianza con il Capo, Cristo Signore»
(BENEDETTO XVI, Discorso preparato per la visita a La Verna, 13
maggio 2012).
La carità, pienezza della sequela
Il testo di Dt 6, 4-9 è la parte iniziale della preghiera recitata
quotidianamente – ogni sera e ogni mattina – dal fedele israelita fin
da prima del tempo di Gesù e usata da Gesù stesso nella sua
quotidiana preghiera. E quando lo scriba interroga Gesù circa il
primo comandamento, egli risponde citando proprio questo testo.
Osserviamo come al principio di tutto vi è l‟ascolto e l‟amore per
Dio, da qui scaturisce l‟amore per il fratello. È certo che l‟amore per
il fratello è possibile solo quando si conosce (si fa esperienza)
l‟amore di Dio verso l‟uomo. Come a dire: tu hai conosciuto un Dio
che “si coinvolge con te”; un Dio che è sceso con te in Egitto, con te
è stato in schiavitù, con te è uscito verso la libertà…; dunque tu fatti
prossimo così come Dio si è fatto prossimo a te. Gesù assume questa
dinamica, la vive, la conferma, la radicalizza; diremmo toglie ogni
limite, ogni confine all‟amore verso il prossimo; tale amore è
connotato da tre caratteristiche: si tratta di amare sempre – senza
eccezione – gratuitamente. Ma, ci chiediamo, questo amore assoluto
e incondizionato è possibile all‟uomo? È possibile solo all‟uomo che
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accoglie il dono dello Spirito; solo all‟uomo che vive totalmente in
riferimento a Cristo.
Come abbiamo sopra riferito quando Gesù risponde alla domanda
dello scriba che lo interroga sul prima e più grande comandamento
(Mc 12, 28-34) sa bene che nella tradizione ebraica era corrente la
nozione di “un primo comandamento”, di “un comandamento più
grande”, più rilevante, più importante, capace di costituire come la
sintesi ricapitolativa dell‟intera legge di Dio. Così Gesù accetta
questa concezione di un comandamento prioritario e la applica al
comandi di “ascoltare Dio” per giungere, così, ad “amarlo”.
Ma chiediamoci, perché i comandamenti? Perché un primo
comandamento? Perché il rapporto tra Dio e Israele (tra Dio e il
credente) è un rapporto di alleanza. E alleanza significa incontro,
tensione fra due libertà; quella di Dio che per amore sceglie Israele e
quella di Israele che responsabilmente si impegna, si obbliga verso il
Signore, con libera scelta fatta nell‟amore. Insomma i comandamenti
sono esigenze del rapporto di alleanza e non c‟è contraddizione
alcuna fra obbedienza e amore: anzi l‟espressione più piena
dell‟ascolto, della conoscenza, dell‟amore è proprio l‟obbedienza ai
comandamenti. La spiritualità di Israele dice: “ricompensa di un
comandamento è un altro comandamento”; ricompensa per
l‟esecuzione di una volontà di Dio è la conoscenza più profonda della
sua volontà, e questa più profonda ed intima conoscenza ci porta a
fare meglio la volontà di Dio e non la propria.
È così che la conoscenza e la messa in pratica del primo
comandamento (“ascolta e amerai Dio”) produce una conoscenza
(una esperienza) di Dio che richiede un altro comandamento (“ama il
prossimo tuo come te stesso”). Come dire: se tu ascolti e ami Dio con
tutto il cuore (e questo è possibile se hai ascoltato e ascolti con tutto
il cuore), allora tu devi amare il prossimo tuo come te stesso perché
questa è la volontà di Dio che ti parla, di quel Dio che tu ascolti, che
tu conosci, che tu ami, al quale tu obbedisci…
Dunque il primo comandamento è: “Ascolta e amerai”. Il primo
comandamento inizia con l‟ascolto e sfocia nell‟amore del Signore.
Solo con l‟ascolto, infatti, ci si apre alla conoscenza, all‟accoglienza,
all‟obbedienza ai comandamenti, al dono della Legge che è il “regalo
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nuziale” che lo Sposo fa alla Sposa. Il popolo di Dio è popolo
dell‟ascolto, è l‟assemblea convocata alla quale Dio parla.
Dall‟ascolto nasce conoscenza e dalla conoscenza l‟amore.
Ascoltare è conoscere, è aderire personalmente. Per noi cristiani quel
«Ascolta Israele» si traduce così: «Questi è il Figlio mio amato,
ascoltate lui». Ascoltando il Figlio – che è il rivelatore e l‟interprete
del Padre – conosciamo, aderiamo, amiamo. Ogni discorso sul
comandamento dell‟amore deve partire da qui. È l‟amore del Signore
la fonte dell‟amore verso il prossimo. E l‟amore non può esistere se
non a partire dall‟ascolto, dall‟intimità, dall‟obbedienza. Ascolto e
amore di Dio: un binomio inscindibile per il cristiano.
Ci siamo già posti un interrogativo: “l‟amore assoluto e
incondizionato per il prossimo è possibile all‟uomo?” Questo amore
per l‟altro che arriva fino ad amare il nemico e alla preghiera per i
persecutori (cf. Mt 5, 43-48) è possibile all‟uomo? Certo se l‟uomo
fosse affidato alle sue sole energie – fosse pure un uomo arrivato ad
un grado eccelso di affinamento spirituale e di ascesi filantropica –
questa legge, questo “evangelo” di Gesù sarebbe irrealizzabile. Una
carità di questo tipo è cosa “non umana”, non realizzabile. Questa va
detto e va ricordato non per disarmare, ma per non illudersi…
L‟uomo è incapace a essere amore puro, carità assoluta; l‟uomo ha
questa vocazione: ma ferito dal peccato, con le sue sole energie non
può essere amore; diversamente non avrebbe bisogno di salvezza,
sarebbe già salvo, si salverebbe da solo.
Questa carità è “virtù teologale”; cioè è dono di Dio e insieme
compito per l‟uomo. La carità autentica deriva da Dio ed è possibile
solo per grazia, per dono mediante lo Spirito effuso in noi dal Signore
crocifisso. Mettere in pratica ciò che Gesù chiede nella pagina del
vangelo di Matteo non appartiene alle nostre forze: questo amore è
possibile perché fonte di tale amore è Dio che il cristiano ha
conosciuto e conosce come “amore che ama”.
Solo in questa prospettiva acquista senso quanto Gesù afferma nella
parabola del samaritano. A chi gli chiede “e chi è il mio prossimo?”
Gesù, capovolgendo la questione, risponde: “sii prossimo nei
confronti di chiunque”. I Padri della Chiesa hanno sempre
interpretato che il samaritano (colui che si fa prossimo nei confronti
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del nemico) è Gesù che si fa prossimo; e Dio che ci ama mentre noi
eravamo ancora nemici, prende l‟iniziativa, ci riconcilia… La carità
cristianamente intesa non si limita al bene fatto al fratello; è autentica
quando facciamo il bene e amiamo il nemico!
La comunità cristiana di Corinto: Chiesa ricca di carismi e, insieme,
attraversata da divisioni, da tensioni. A tale Chiesa divisa l‟apostolo
Paolo – dopo avere illustrato il mistero d‟amore supremo reso visibile
nella croce di Cristo – rivolge una esortazione alla carità e lo fa
mediante un testo che è uno splendido inno (1Cor 12, 31-13, 18a).
Dice Paolo: “Voi siete pieni di zelo e desiderate i migliori carismi?
Ecco io vi mostrerò la via eccellente”. Questa “via eccellente” è la
carità: senza di essa tutti gli altri carismi restano vie negative.
- Se io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli
(espressione che designa la preghiera liturgica), ma non ho la
carità sono come un bronzo che rimbomba o come un
cembalo che strepita.
- Se io avessi il dono della profezia e se conoscessi i misteri e
le scienze tutte (se sono apostolo o successore degli apostoli),
ma non ho la carità, non sono nulla.
- Se io avessi la fede fino a trasportare le montagne (se sono un
cristiano fedele), ma non ho la carità, non sono nulla.
- Se io anche distribuissi tutti i miei beni e consegnassi il mio
corpo per averne vanto, ma non ho la carità, non mi
servirebbe a nulla.
Dunque: se celebro bene la liturgia; se sono un ortodosso ministro
della Chiesa; se sono un fedele che si batte per le giuste e sante cause
fino al sangue; se dono tutti i miei beni; se…; se… Paolo dice che
può sussistere tutto questo ed esserci la possibilità che in costoro non
ci sia la carità; allora non sono nulla, non hanno nulla in più!
Nell‟essere e nel fare, se manca la carità, il risultato è nulla, nulla in
più!
E poi Paolo espone i “verbi della carità”, ciò che la carità fa e ciò che
la carità non fa.
L‟amore paziente fa il bene; mette la sua gioia nella verità; copre
tutto; crede tutto; spera tutto; soffre tutto.
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La carità non fa gelosia; non fa guerra; non si gonfia; non fa niente di
sconveniente; non aggredisce; non tiene conto del male; non si
rallegra dell‟ingiustizia.
Ecco l‟equilibrio della carità: l‟amore maturo è fare, è agire; ma è
anche “essere con”, essere insieme, pensare, desiderare, fare le cose
insieme. Insieme e reciprocamente: così si manifesta la carità; così
essa risplende davanti agli uomini senza fare violenza né arroganza.
Ma questa è la carità o è la vita della Chiesa? Non si tratta forse della
stessa cosa? Ma questa è la carità o è il rapporto che il cristiano deve
avere con gli uomini? Non si tratta forse della stessa cosa?
Potrebbe, infine, essere utile rileggere questo inno e al posto della
parola “carità – amore” mettere la parola “Cristo”. Vedremo che non
solo il testo sta in piedi, ma che è proclamazione del fatto che “Cristo
è l‟amore”!
Maria di Nazaret modello di fede e di carità
In Maria Santissima vediamo perfettamente attuata la pienezza della
carità… La fede obbediente è la forma che la sua vita assume ad ogni
istante di fronte all‟azione di Dio… Maria è la grande Credente che,
piena di fiducia, si mette nelle mani di Dio, abbandonandosi alla sua
volontà. In particolare il nostro sguardo vuole contemplare Maria che
ha reso la sua fede ed il suo amore per Dio tutto un crescendo di
attenzione amorosa, di dedizione generosa, di misericordia senza fine
verso i fratelli. Ci soffermeremo in particolare su tre scene
evangeliche.
- La carità del cuore: Maria da Elisabetta.
Maria che ha ricevuto l‟annuncio dell‟Angelo, già tutta presa da
Cristo, se ne va “in fretta” alla casa della sua parente, prima di tutto
per portare là Cristo che non può restare solo suo. E questo è già un
atto di carità che deve farci pensare. Ma poi va là per aiutare. Che
cosa avrà fatto? Non facciamo facili ed oleografici quadretti se
pensiamo che avrà fatto le cose di tutti i giorni, con dedizione di
carità, con delicatezza di amore, con condivisione di sollecitudini…
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Attraverso questa sollecitudine della carità di Maria, nasce quella
misteriosa sintonia tra lei ed Elisabetta; due creature che si aiuteranno
a vicenda a fare ciò che il Signore ha detto e fatto, ma si aiuteranno
pure ad essere se stesse, nella gioia d‟una vocazione stupenda e
nell‟ineffabilità d‟un‟esperienza unica.
Dallo stile di Maria che frettolosa va da Elisabetta, possiamo e
dobbiamo imparare a far diventare la nostra carità un tessuto non
tanto di cose da inventariare, ma di doni che si concatenano,
manifestando e realizzando quel “primato dell‟amore” che è
“sostanza” del Vangelo.
- La logica della carità: Maria a Cana.
Il secondo episodio che ci aiuta ad entrare nel concreto della carità di
Maria verso le necessità e gli imbarazzi degli altri è l‟episodio di
Cana.
Intanto notiamo: ella è là perché là c‟è Gesù, ed è proprio
quell‟“essere dove c‟è Gesù” che la rende attenta e puntuale. Intorno
c‟è festa, esultanza, felicità, rumore… Ma lei emerge nel momento in
cui succede qualcosa che altri ancora non hanno notato: manca il
vino. La sua attenzione materna l‟ha colto e non se ne è
disinteressata. Si è resa conto che da sola lei non poteva farci niente,
ma la coerenza della sua fede e la profondità del suo amore la
illuminano e la ispirano: si rivolge al Figlio e gli manifesta il fatto.
Che c‟entrava? Dove la carità urge tutti sono convocati e tutti
c‟entrano: questa è la “logica” della carità. Come abbiamo già
osservato la sua fede e la sua carità perseverano e la rivelano ancora
una volta come la “credente”: “Fate quello che egli vi dirà…”.
Alcune osservazioni:
- chiedere un miracolo per una sovrabbondanza di vino, può
apparire assurdo, ma non alla logica della carità;
- questa fiducia che la carità serve sempre, è sempre al suo
posto nell‟intreccio dei rapporti umani, è il grande
insegnamento di Maria;
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- nei nostri rapporti quotidiani, prudenze, calcoli, riserve, forse
fanno sì – sovente – che accada più spesso che siano gli altri a
doverci chiedere le cose, piuttosto che noi offrirle.
Proviamo a pensarci; potrebbe essere un piccolo “test” per vedere se
nella nostra vita sono presenti quelle carità silenziose che non
mettono mai in primo piano le nostre persone e arrivano sempre un
po‟ prima perché le cose non si vedano e però si facciano e perché
qualche sofferenza sia risparmiata e qualche gioia distribuita…
- La misericordia spirituale: Maria nel Cenacolo.
I discepoli hanno visto il Signore salire al cielo, sono nel Cenacolo e
là c‟è Maria, la Madre del Signore. Non che possa o voglia
sostituirlo, ma lo ricorda; ne è come una soavissima presenza…; e
attorno a lei si ricrea una comunità, nella preghiera, nella speranza,
nella serenità, nella pace; anche se la “presidenza” è affidata a Simon
Pietro. In questa circostanza Maria pratica la misericordia spirituale.
Là non c‟è vino da moltiplicare, c‟è fede da sorreggere, speranza da
rinnovare, amarezze da redimere, rimpianti da rasserenare e rendere
meno pungenti. Maria che ha preceduto tutti nella fatica del credere,
è in grado di capire la stessa fatica della nascente Chiesa: con
l‟eroismo della carità, lei che – non temiamo di dirlo – avrebbe forse
bisogno d‟essere consolata, consola.
È questo un discorso importante circa la carità spirituale che
dovrebbe essere esercitata in modo particolare da quanti siamo di
Cristo in un modo unico e particolare, perché da lui scelti e
consacrati. Carità da esercitare dentro le nostre comunità e verso tutti
quelli che incontriamo.
Essere come un “supplemento d‟anima”, un palpito di cuore da
regalare, una ragione di speranza da proclamare; avere quel sereno
coraggio che ci viene da un fiducioso abbandono nel Signore.
Questo aspetto della “funzione materna” di Maria che la devozione
popolare chiama di “misericordia”, di “consolazione”…, dovrebbe
trovare risonanza viva e rinnovata nella nostra vita e nella nostra
presenza in mezzo ai fratelli.
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Per concludere
La nostra Chiesa diocesana sta intensamente riflettendo allo scopo di
assumere quegli impegni necessari per rendere l‟iniziazione cristiana
una via efficace di esperienza di fede e di vita per le nuove
generazioni. D‟altra parte, ci si rende sempre più conto che ogni
tentativo di qualificare e sostenere il cammino di fede dei piccoli
esige che la famiglia sia coinvolta e corresponsabilizzata.
Si tratta di intensificare sul piano della qualità quanto si sta facendo,
approfondire le proposte di contenuto, offrire iniziative, anche nuove,
di vicinanza con le famiglie secondo uno stile missionario che non
attende, ma anticipa e precede la domanda con la proposta. In ultima
analisi, credo che non si tratti di aggiungere altre iniziative a quanto
già è avviato, ma di scommettere di più sulle famiglie, di aiutarle ad
operare insieme, tra loro e con la parrocchia, di dare vita a una
ministerialità più diffusa, favorendo la responsabilità dei laici e delle
stesse coppie di sposi e famiglie verso le altre famiglie, di lavorare di
più insieme, nelle unità pastorali, tra parrocchie, con le diverse realtà
ecclesiali.
Maria Santissima ci insegni a “correre in fretta” – come ha fatto
andando dalla parente Elisabetta – verso la casa di ogni famiglia, per
sperimentare la gioia dell‟incontro in cui il dono di Cristo si
comunica ai genitori e ai figli; correre significa andare a cercare
senza aspettare che le famiglie vengano, trovarle là dove si fanno
trovare, visitarle con lo stesso entusiasmo di Maria che porta Cristo e
la sua carità.
L‟anno della fede indetto dal Papa per il cinquantesimo del Concilio
Vaticano II e il ventesimo anniversario di pubblicazione del
Catechismo della Chiesa Cattolica può ben essere collegato alla
nostra riflessione e al nostro impegno circa l‟iniziazione cristiana, in
quanto il Battesimo è la porta della fede in Gesù Cristo e fondamento
della fede della Chiesa, popolo di credenti e di battezzati. La vita
battesimale qualifica sia l‟esistenza del credente che della comunità,
rendendoli santi e testimoni di fronte al mondo delle meraviglie
operate da Dio in loro. Il Battesimo, inoltre, è la radice di ogni
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vocazione e ministero nella Chiesa suscitato dallo Spirito Santo: dal
ministero ordinato alla vita consacrata, al matrimonio, alla missione.
L‟anno liturgico ha il suo cuore nella notte pasquale in cui si
benedice l‟acqua nuova nel battistero, si celebrano i Battesimi oltre
che dei bambini anche dei giovani e adulti catecumeni e tutta la
comunità rinnova le promesse battesimali. Sarà dunque opportuno
che l‟Anno della fede ci conduca come Chiesa diocesana a favorire
sia mediante la catechesi, la liturgia e la vita di carità la
riappropriazione del Battesimo come sacramento permanente di
grazia in tutta la sua dimensione cristocentrica, ecclesiale,
missionaria.
Maria Regina di Crea, il patrono S. Evasio ci sorreggano in questo
cammino con la loro intercessione.
+ Alceste Catella, vescovo
Casale Monferrato, 7 settembre 2012 – 4° Anniversario dell‟inizio
del mio ministero pastorale
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