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Ariosto ‘colorista’ e cortigiano Ekphrasis e bellezza femminile nell’Orlando furioso

Patrizia GASPARINI Université de Lorraine

1. Scrittori e artisti alla corte di Alfonso I d’Este

Il canto XLVI dell’Orlando furioso si apre con l’evocazione dell’atmosfera festosa creata dalle

« belle e sagge donne » e dai « cavalieri » che il narratore scorge a riva, pronti ad accoglierlo quando

finalmente giunge al termine della sua lunga navigazione letteraria1. Come noto, i nomi fatti dall’Ariosto

non sono solo un tributo ai membri, femminili e maschili, delle famiglie legate alla corte degli Este (dai

Correggio ai Pio ai Malatesta ai Gonzaga…). L’intento principale è quello di porre in rilievo alcune delle

figure intellettuali più di spicco di quel mondo cortigiano. Non a caso, la prima famiglia selezionata,

quella dei Correggio, consente al narratore di rendere omaggio a Veronica Gàmbara « sì grata a Febo e

al santo aonio coro » (o. 3, v. 8), seguono poi donne destinatarie di omaggi letterari (come Ginevra

Correggio e Ippolita Sforza, o. 4, v. 1-3), o nutrite « al sacro speco » di Apollo, come Domitilla

Trivulzio (ibid., v. 4). E ci sono anche donne inserite per il prestigio dipendente da qualità morali, sagge,

oneste e « buone », oltre che belle : sono Barbara Turca e la sua « compagna » Laura, opportunamente

aggiunte nella terza edizione, giacché Laura, di cognome Dianti, è divenuta nel frattempo la ‘favorita’ di

Alfonso (o. 5, v. 1-4)2. E c’è anche Vittoria Colonna, colei che « tolto ha da la scura spiaggia / di Stige

[…] l’invitto suo consorte » facendolo « splender nel ciel » grazie alla celebrazione fattane nella sua

poesia (o. 9, v. 5-8). Molti poi sono i personaggi letterari che nutrono l’elenco delle figure maschili che

attendono il narratore, tra i quali « il divin Pietro Aretino », Pietro Bembo « che 'l puro e dolce idioma

nostro,/levato fuor del volgare uso tetro,/quale esser dee, ci ha col suo esempio mostro » e Iacopo

Sannazaro, presenze illustri che creano un cenacolo virtuale all’interno del quale Ariosto si colloca,

anticipando un riconoscimento letterario che quel medesimo cerchio non mancherà di riconoscergli fin

dalla prima edizione del Furioso3.

1 Cf. ARIOSTO, Ludovico, Orlando furioso e cinque canti, a c. di Remo CESERANI e Sergio ZATTI, 2 vol. Torino, UTET, 2010 [2006]. Per il topos dell’arrivo in porto, già segnalato da Ernst Robert Curtius, cf. CASADEI, Alberto, « Il finale e la poetica del Furioso », in Chroniques italiennes, 19 (2011), versione web p. 1-21, a p. 1. 2 Lucrezia Borgia, seconda moglie di Alfonso, muore nel 1519. Si veda CATALANO, Michele, Vita di Ludovico Ariosto, ricostruita su nuovi documenti, 2 vol., Genève, Olschki, 1931 (Biblioteca dell’« Archivium romanicum » diretta da Giulio Bertoni, Serie I, vol. 15), vol. I, p. 473-474. 3 Riconoscimento che non gli verrà invece da Ippolito d’Este, il dedicatario del poema. Cf. ARIOSTO, Ludovico, Satire, a c. di Guido Davico BONINO, Milano, BUR, 2022, Satira I, v. 106-108 : « S'io l'ho con laude ne' miei versi messo, / dice ch'io l'ho fatto a piacere e in ocio; / più grato fòra essergli stato appresso. »

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Se si esaminano queste medesime ottave secondo un criterio diacronico, si nota che non solo la

stanza 5, quella con Laura Dianti, è un’aggiunta del 1532, ma anche la stanza 9 in cui si celebra Vittoria

Colonna e così la stanza 15, in cui trova luogo l’elogio di Pietro Bembo. Quando si consideri che a

quella redazione appartengono anche le stanze consacrate ai grandi scrittori del canto XLII (Pontano,

Bembo, Castiglione, ecc.), la celebrazione delle donne scrittrici del canto XXXVII, e l’esordio del canto

XXXIII, che si apre con una lista degli artisti più illustri, del passato e contemporanei, assenti finora dal

panorama culturale dell’Orlando furioso, e se si considerano poi le ottave dedicate ai nuovi Argonauti (c.

XV, 19-27), si può allora concludere con Cesare Segre che l’orizzonte dell’autore « spazia ormai su più

ampie regioni [non solo della cultura ma] del mondo » e che le nuove ottave allargano « i confini della

nostra civiltà4. »

Se è intuitivo dedurre che le aggiunte, che ampliano lo spettro dei nomi dei letterati dell’epoca e la

loro frequenza nel Furioso, dipendono dal sentirsi dell’Ariosto sempre più a proprio agio in quel mondo,

grazie soprattutto a una fama letteraria consolidatasi nel tempo, meno immediato è invece giustificare

l’introduzione dei nomi di artisti, e la selezione da lui operata.

Si leggano dapprima le stanze in questione del canto XXXIII, 1-3:

Timagora, Parrasio, Polignoto, Protogene, Timante, Apollodoro, Apelle, più di tutti questi noto, e Zeusi, e gli altri ch’a quei tempi foro; di quai la fama (mal grado di Cloto, che spinse i corpi e dipoi l’opre loro) sempre starà, fin che si legga e scriva, mercé degli scrittori, al mondo viva: e quei che furo a’ nostri dì, o sono ora, Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino, duo Dossi, e quel ch’a par sculpe e colora, Michel, più che mortale, angel divino; Bastiano, Rafael, Tizian, ch’onora non men Cador, che quei Venezia e Urbino; e gli altri di cui tal l’opra si vede, qual de la prisca età si legge e crede: questi che noi veggiàn pittori, e quelli che già mille e mill’anni in pregio furo, le cose che son state, coi pennelli fatt’hanno, altri su l’asse, altri sul muro.

Sappiamo che la lista dei pittori antichi è tutta letteraria e tratta dalla Naturalis Historia di Plinio,

anche se Ariosto, rispetto alla sua fonte, abbrevia l’elenco (« e gli altri ch'a quei tempi foro »)5. Più

interessante è che anche l’enumerazione di artisti contemporanei ricalchi da vicino altre « graduatorie di

4 SEGRE, Cesare, Storia interna dell’Orlando furioso, in ID., Esperienze ariostesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, p. 29-41, a p. 34-35. 5 Cf. Pline l’Ancien, Histoire naturelle. Livre XXXV, texte établi, trad. et commenté par Jean-Michel CROISILLE, Paris, Les Belles lettres, 1985, XXXV, 35-36.

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prestigio allora correnti »6. Basti pensare ai giudizi di valore espressi da Baldassar Castiglione nel

Cortegiano: « eccellentissimi Leonardo Vincio, il Mantegna, Rafaello, Michel Angelo, Georgio da Castel

Franco »7, che differisce di poco da quello di Ariosto. Giorgione è al posto di Giovanni Bellini, non vi

sono invece presenti i Dossi, ferraresi, e Sebastiano del Piombo, artista veneziano trasferitosi a Roma

fin dal 1511. Questi ultimi sono ricordati invece da un altro grande umanista dell’epoca, Paolo Giovio,

citato da Ariosto nella satira VII insieme a una serie di altri illustri letterati, in testa ai quali si trova

ancora una volta il Bembo8. Il Giovio, la cui fama era tale che nel 1535 venne invitato come guida di

Carlo V alla visita delle antichità romane, « non solo aveva scritto le biografie di Leonardo,

Michelangelo e Raffaello, ma aveva ricordato e in modo suggestivo, i Dossi, il Piombo e Tiziano »9.

Conosciamo inoltre il grande interesse che la vicina corte di Mantova prestava agli artisti,

impegnati alcuni anni prima dalla marchesana Isabella nella decorazione del suo celebre Camerino (tra i

quali spicca Andrea Mantegna, artista attivo alla corte per oltre quarant’anni), e quanto insistette la

stessa per avere un ritratto da Leonardo, di cui rimane solo il disegno preparatorio, oggi conservato al

Louvre. Due ritratti le fece anche Tiziano, il primo oggi perduto, il secondo, di una decina d’anni

posteriore, assai apprezzato da Isabella che lo lodò perché la ritraeva nel suo splendore ancora

giovanile10.

Il fratello di Isabella, Alfonso, duca di Ferrara dal 1505 al 1534, è di solito ricordato per la sua

passione per le artiglierie e per la sua abilità strategico-militare, oltre che per la sua competenza in

materia di fortificazioni, e si lascia passare in secondo piano la sua attività di mecenate, forse meno

esibita di quanto non fece il padre Ercole I, ma sicuramente solida11. Egli commissionò infatti la

realizzazione di due importanti camerini, nell’appartamento privato della Via Coperta, lo Studio dei

marmi e il Camerino delle pitture, il cui programma iconografico venne affidato a Mario Equicola.

6 Cf. Orlando furioso, cit., vol. II, p. 1148, in nota. 7 CASTIGLIONE, Baldassarre, Il libro del cortegiano, ed. a c. di Ettore BONORA, commento di Paola ZUCCOLA, Milano, Mursia, 2002, I, XXXVII. Si veda inoltre DIONISOTTI, Carlo, Tiziano e la letteratura, in Tiziano e il manierismo europeo, a c. di Rodolfo PALLUCCHINI, Firenze, Olschki, 1978, p. 259-270. 8 ARIOSTO, Satire, cit., Satira VII, v. 127-129. 9 BAROCCHI, Paola, Fortuna dell’Ariosto nella trattatistica figurativa, in Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, Padova, Liviana Editrice, 1970, p. 388-405, alle p. 388-389. Si veda inoltre GIOVIO, Paolo, Scritti d’arte. Lessico e ecfrasi, a c. di Sonia MAFFEI, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1999. Si cita da p. 218-219 uno dei passi in cui Giovio si esprime su Dosso Dossi, tratto dal testo Dell’Imitatione, rappresentativo dell’ottimo giudizio che l’umanista espresse sull’attività artistica del pittore : « Doxium imagines […] summam tamen […] excellentis industriae commentadionem accipiunt » (« […] tutte le sue immagini riscuotono […], la più alta lode di eminente bravura » ; si vedano anche altri luoghi : nella Raphaelis Urbinatis vita, p. 262-263, e il commento della studiosa, p. 276-277. 10 Tiziano Vecellio, Ritratto di Isabella d'Este in nero, 1534-1536, Vienna, Kunsthistorisches Museum. 11 CATALANO, op. cit., vol. I, p. 465: « Alfonso fu difatti un principe guerriero e questa sua qualità molto gli valse per conservare lo stato alla propria Casa », e più avanti, pp. 467-469. Naturalmente, la maggior parte degli artisti citati furono conosciuti personalmente dell’Ariosto. Per questa ragione si è voluto riconoscere il suo ritratto inserito nell’affresco del Parnaso della stanza della Segnatura, in Vaticano, che Raffaello portò ad esecuzione negli anni 1509-1510, ma la data è molto alta rispetto alla biografia ariostesca, e l’identificazione rimane incerta. Anche l’attribuzione a Tiziano del ritratto di Ariosto resta ancora irrisolta. Si tratta del Ritratto di uomo (Ariosto ?), ca 1515-1516, conservato a Indianapolis, all’Herron Art Museum, cf. Peter Humfrey, Titien : tout l'oeuvre peint, Gand, Ludion, 2007. Di mano del Tiziano è invece l’incisione con il ritratto dell’autore inserita nella terza edizione del Furioso.

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Non può essere un caso, allora, se quattro dei nomi di artisti ricordati da Ariosto, Giovanni

Bellini, Tiziano, i Dossi, e anche Raffaello fossero stati invitati a lavorare ai dipinti per il camerino12. Per

il « divino » Michelangelo, poi, disponiamo di un aneddoto che testimonia della passione del duca per

l’artista e la sua arte. Michelangelo è a Ferrara tra fine luglio e inizio agosto 1529 mandato dalla signoria

di Firenze (temporaneamente di nuovo Repubblica) a visitare le fortificazioni della città. Al ritorno

dell’artista, la Signoria esprimerà la sua gratitudine al duca Alfonso per

le cortesie che l’Excellentia del Duca ha usato verso Michelangelo mostrandogli personalmente tutte coteste fortificazioni et ripari per benefitio della Città nostra, ci sono state molto grate; et in nome nostro ne la ringratierete.13

Poco tempo dopo Michelangelo è di nuovo a Ferrara, ma la situazione è cambiata, ha dovuto

abbandonare Firenze, perché minacciato, e sta cercando di raggiungere la Francia. Non si è fatto

annunciare al duca, che viene tuttavia a sapere della sua presenza in città e lo invita a recarsi a corte.

Nonostante le reticenze dell’artista, il Duca riesce comunque a fargli fare un giro del palazzo14, e a

ottenere dal suo ospite la promessa di realizzare un quadro per lui. Michelangelo torna a Firenze con la

commissione del duca e dipinge la Leda e il cigno, che nel novembre del 1530 egli mostra a Pisanello,

inviato come messo da Alfonso, ma questi, secondo quanto raccontano il Condivi e il Vasari, riuscirà a

contrariare l’artista giudicando l’opera « poca cosa » e Michelangelo rifiuterà di consegnargliela dandola

poi, in un secondo tempo, a Francesco I15.

L’interesse di Alfonso per gli artisti, e le loro opere, è un segnale della preferenza sempre

maggiore che i signori accordavano a creazioni destinate a promuovere la loro immagine politica e

culturale. I dipinti e le sculture rappresentavano per i Signori/mecenati dei beni di cui essi potevano

appropriarsi più facilmente e la loro fruizione, diretta e immediata, era sentita come un supporto utile e

efficace alla diffusione della loro fama personale e di quella della loro corte16.

Il letterato, in tutto questo, non poteva non avvertire la concorrenza dei prodotti artistici, sentiti

sempre più dai signori, secondo quanto osserva Giorgio Padoan, come « omaggi graditi, e più

12 Sulle relazioni esistenti tra Ariosto e gli artisti impegnati nel Camerino, nonché sulle interferenze del progetto iconografico col progetto di scrittura dell’Orlando furioso tornerò più nel dettaglio in un articolo in corso di preparazione. 13 Il camerino delle pitture di Alfonso I, a c. di Alessandro BALLARIN, 6 to., Padova, Bertoncello Artigrafiche, 2002-2007, t. I, 2002 (tomo I: Lo studio dei marmi ed il camerino delle pitture di Alfonso I d’Este. Analisi delle fonti letterarie. Restituzione dei programmi. Riallestimento del camerino), nel capitolo a c. di Maria Lucia MENEGATTI, I camerini di Alfonso I. Regesto degli artisti, p. 403-463, a p. 414, lettera datata 8 agosto 1529 : « La Signoria Fiorentina a Galeotto Giugni in Ferrara. » 14 VASARI, Giorgio, Le Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, si veda dall’edizione giuntina del 1568 la Vita di Michelangelo, ed. Bettarini, Barocchi, 1966-1987, VI [Testo], p. 60-62 : « Il Duca lo menò a spasso, come aveva fatto altra volta, per il palazzo, e quivi gli mostrò ciò che aveva di bello, fino a un suo ritratto di mano di Tiziano, il quale fu da lui molto commendato. », testo ricordato in Il camerino delle pitture di Alfonso I, cit., t. I, p. 415. 15 D’ANCONA, Paolo, La Vita di Michelangelo Buonarroti raccolta dal suo condiscepolo Ascanio Condivi, rev., intr. e note per cura di Paolo D’ANCONA, Milano, Martinelli, [s.d.], [1553] ; cf. anche VASARI, op.cit., Vita di Michelangelo, ed. 1568, p. 60-62. 16 PADOAN, Giorgio, « ‘Ut pictura poesis’ : le ‘pitture’ di Ariosto, le ‘poesie’ di Tiziano », in Tiziano e Venezia. Convegno internazionale di studi, Università degli studi di Venezia, Venezia, 27 settembre-1 ottobre, 1976, Vicenza, N. Pozza, 1980, p. 91-102, a p. 93.

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‘piacevoli’ » del prodotto letterario17. Spia della reazione del mondo delle lettere a una presenza sempre

più invasiva delle arti figurative potrebbe peraltro essere colta nella frase che il Castiglione inserisce

nella dedica del suo Cortegiano già nella redazione del 1513. Egli equipara il suo libro a un « ritratto di

pittura » e come tale il dedicatario è invitato ad accoglierlo, scusandone la fattura perché realizzato da

un « pittor ignobile », secondo una captatio benevolentiae che, se si legge l’intero passo, si rivela in realtà

solo apparente:

mandovi questo libro, come un ritratto di pittura della corte d’Urbino, non di mano di Rafaello o Michel Angelo ma di pittor ignobile e che solamente sappia tirare le linee principali; senza adornar la verità de vaghi colori o far parere per arte di prospettiva quello che non è.18

Il libro sembra in sostanza essere subordinato a un « ritratto di pittura », ma l’umiltà dell’autore è

un pretesto per alludere agli inganni dell’arte, che si mostra capace con i suoi « vaghi colori » di

adornare la verità, abbellendola, o di crearne addirittura una fittizia facendo « parere », grazie alla

prospettiva, « quello che non è ».19

La posizione dell’Ariosto nell’Orlando furioso è meno chiara in proposito. Mentre condanna

esplicitamente i cattivi poeti (XXXV, 20-21), non fa nessun riferimento al ruolo degli artisti a corte. Un

indizio, in realtà abbastanza probante, ci viene tuttavia dall’enumerazione lunare delle passioni che

portano gli uomini a perdere il senno. Tra le ragioni elencate dall’autore figurano anche le « opre di

pittori » (XXXIV, 85, v. 5):

Altri in amar lo perde, altri in onori, altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze; altri ne le speranze de’ signori, altri dietro alle magiche sciocchezze; altri in gemme, altri in opre di pittori, ed altri in altro che più d’altro aprezze. Di sofisti e d’astrologhi raccolto, e di poeti ancor ve n’era molto.

L’elenco dei desideri dietro i quali ci si perde e si perde il senno si apre con la triade “amore,

onore, ricchezza”, che rappresentano rispettivamente la ricerca del riconoscimento presso l’altro, del

riconoscimento sociale, e della ricchezza per sé. Seguono poi quattro versi che precisano i due

precedenti : il senno si perde nel tentativo di veder riconosciuto il proprio ruolo presso i signori, e

nell’infatuazione per le « magiche sciocchezze », tanto evanescenti quanto la possibilità di trovare la

giusta ricompensa a corte ; e la generica cupidigia di « ricchezze » diventa nei versi successivi ricerca di «

gemme » e di « opre di pittori », oggetti concreti, dunque, ma voluti per la loro bellezza e per il valore

simbolico che tale bellezza incarna, le gemme riflettono l’immagine della ricchezza e del prestigio

sociale del loro possessore, e altrettanto doveva essere per le « opre di pittori », se Ariosto le associa alle

gemme, nello stesso verso. Non sono i poemi dunque, che fanno perdere la ragione, semmai sono i

17 Ibidem. 18 CASTIGLIONE, op. cit., Lettera “Al reverendo ed illustre signor Don Michele de Silva, vescovo di Viseo”, parte I, p. 25. 19 PADOAN, op. cit., p. 94.

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poeti, che come gli astrologhi e i sofisti si smarriscono nelle erranze dello spirito ; per gli artisti, invece,

si può immaginare una concretezza del fare, del mestiere che tiene il loro senno ben ancorato a terra.

2. Il canone della bellezza femminile (Alcina, Angelica, Olimpia) alla luce del topos

oraziano dell’ut pic tura poës is

Nel Dialogo della Pittura pubblicato nel 1557, Lodovico Dolce fa pronunciare a Pietro Aretino

parole nelle quali invita i pittori che cercano un « perfetto esempio di bella donna », ossia il prototipo

della bellezza ideale, a rivolgersi non al disegno o al quadro realizzato da un artista, ma alla descrizione

di Alcina fatta da Ariosto nell’Orlando furioso :

Ma se vogliono i pittori senza fatica trovare un perfetto esempio di bella donna, leggano quelle stanze dell’Ariosto, nelle quali egli discrive mirabilmente le bellezze della fata Alcina; e vedranno parimente quanto i buoni poeti siano ancora essi pittori.20

La frase del Dolce giunge in conclusione a un ragionamento nel quale il letterato si inseriva nel

dibattito che da più di mezzo secolo, e sicuramente almeno a cominciare da Leonardo, esplorava la

questione del rapporto tra poesia e pittura. Le ragioni sociologiche dell’equiparazione della pittura alla

poesia sono legate alla progressiva emancipazione degli artisti dal ruolo subalterno di artigiani attraverso

la rivendicazione, per l’arte figurativa, della stessa nobiltà di cui godevano tradizionalmente le arti

liberali21. Da un punto di vista eminentemente estetico, nel ribadire la reciproca utilità a pittura e a

letteratura, e insistendo sul fatto che poeta e pittore devono saper praticare l’arte dell’altro per meglio

riuscire nella propria (« Et è cosa iscambievole che i pittori cavino spesso le loro invenzioni dai poeti, et

i poeti dai pittori »22), Dolce riprendeva i termini attorno ai quali si era sviluppato il confronto teorico

sul paragone delle arti. L’oraziano ut pictura poësis23 viene declinato dal letterato secondo l’adagio di

Simonide tramandato da Plutarco, dove si legge che la pittura è una poesia muta e la poesia una pittura

parlante (in realtà già messo a profitto da Leonardo e da tutti i trattatisti cinquecenteschi)24 :

20 DOLCE, Lodovico, Dialogo della pittura, in Trattati d’arte del Cinquecento, fra Manierismo e Controriforma, a c. di Paola BAROCCHI, vol. I, Varchi – Pino – Dolce, Bari, Laterza, 1960, p. 143-206, a p. 172. 21 PADOAN, op. cit., p. 93. 22 DOLCE, op. cit., p. 192. 23 Cf. Horace, Épîtres. Art poétique, Texte établi et traduit par François VILLENEUVE, Paris, les Belles lettres, 1955, v. 361-365. Si veda anche la traduzione fatta dal Dolce nel 1536, cf. I dilettevoli Sermoni, altrimenti Satire, e le morali Epistole di Horatio,... insieme con la Poetica, ridotte da M. Ludovico DOLCE dal poema latino in versi sciolti volgari, Venezia, G. Giolito de' Ferrari, 1559. Per il topos dell’ut pictura poesis si rimanda a : Rensselaer W. LEE, Ut pictura poesis. Humanisme et théorie de la peinture: XVe-XVIIIe siècles, trad. et mise à jour par Maurice BROCK, Paris, Macula, 1991 [1967]. 24 Plutarque, Œuvres morales, t. V. 1ère partie, La gloire des Athéniens, Texte établi et traduit par Françoise FRAZIER et Christian FROIDEFOND, Paris, les Belles Lettres, 1990. Cf. Scritti d’arte del Cinquecento, a c. di Paola Barocchi, 3 to., Milano-Napoli, Ricciardi, 1971-1977, t. I, p. 223, e nello stesso volume, la selezione delle pagine leonardiane dal Codex Urbinas Latinus 1270, p. 235-246 ; si cita il passo di Leonardo a p. 245, in cui si trova espresso il pensiero dell’artista sul rapporto tra poesia e pittura : « Conclusione infra ’l poeta et il pittore. Poi che noi abbiamo concluso la poesia essere in sommo grado di comprensione alli ciechi, e che la pittura fa il medesimo alli sordi, noi diremmo tanto più valere la pittura che la poesia, quanto la pittura serve a miglior senso e più nobile che la poesia. » Il senso a cui Leonardo si riferisce è naturalmente quello della vista.

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[…] avendo alcuni valenti uomini chiamato il pittore poeta mutolo, et il poeta pittore che parla […]25 Naturalmente la questione centrale della riflessione estetica, dalla quale dipendeva il giudizio di

valore sull’arte del pittore/artista, andava sempre misurata intorno alla nozione della bellezza e del

rapporto tra arte e natura. A questo riguardo, Dolce aderisce alla corrente che ha alimentato la

riflessione sulla maniera, ossia lo stile degli artisti, soprattutto da Michelangelo in poi:

[…] il pittore [deve] procacciar non solo d’imitar, ma di superar la natura.26

E a partire dalla natura, l’arte deve attingere ad un livello superiore di « perfezione di bellezza ».

Per illustrare l’affermazione, Dolce ricorre a un adagio vulgato, l’aneddoto dell’operare di Zeusi per

assemblaggio delle membra più belle di una serie di giovani fanciulle per ricreare in arte la celebre

bellezza di Elena:

Questo è in dimostrar col mezzo dell’arte in un corpo solo tutta quella perfezzion di bellezza che la natura non suol dimostrare a pena in mille […]. Onde abbiamo lo esempio di Zeusi, che, avendo a dipingere Elena nel tempio de’ Crotoniati, elesse di vedere ignude cinque fanciulle e, togliendo quelle parti di bello dall’una, che mancavano all’altra, ridusse la sua Elena a tanta perfezzione, che ancora ne resta viva la fama.27

A questo punto Dolce inserisce il richiamo alla descrizione di Alcina fatta da Ariosto nell’Orlando

furioso (VII, 11-15), sfruttandola in una duplice direzione. Da un lato insiste sull’impegno pratico e

assiduo al quale l’artista deve consacrarsi (« la diligenza che conviene al buono artefice »). Dei versi

dell’Ariosto, commenta soprattutto l’uso del verbo fingere per evocare la creazione della bellezza da parte

degli artisti attraverso l’arte del plasmare (« Di persona era tanto ben formata, / quanto me’ finger san

pittori industri », VII, 11, v. 1-2), e si premura inoltre di segnalare come nel letterato si trovi anche

l’indicazione implicita della giusta prassi artistica, che deve mostrarsi attenta a un’imitazione che sia il

più ‘naturale’ possibile, e capace di rifuggire dunque dal compiacimento per l’artificio artistico. In

questo senso va inteso il commento del Dolce ai versi dell’Orlando furioso che definiscono i capelli di

Alcina con l’attributo ‘biondi’ e non ‘d’oro’:

« Con bionda chioma lunga et annodata : / Oro non è, che più risplenda e lustri »: Poteva l’Ariosto, nella guisa che ha detto ‘chioma bionda’, dir ‘chioma d’oro’ ; ma gli parve, forse, che avrebbe avuto troppo del poetico. Da che si può ritrar che ’l pittore dee imitar l’oro, e non metterlo, come fanno i miniatori, nelle sue pitture, in modo che si possa dire : que’ capelli non sono d’oro, ma par che risplendano come l’oro; il che, se ben non è cosa degna di avvertimento, pur piacemi averla tocca.28

E su questa linea si sviluppa anche l’osservazione secondo la quale la descrizione di Alcina segue nel

Furioso criteri che rispettano il principio aristotelico della proporzione e della « misura del corpo

umano » (ibid., p. 174).

25 DOLCE, op. cit., p. 152. 26 Ibid., p. 172. 27 Ibidem, p. 172. L’aneddoto di Zeusi era conosciuto dal De Inventione ciceroniano (cf. Cicéron, De l'invention, texte établi et trad. par G. ACHARD, Paris, Les Belles lettres, 1994, libro II, c. I, 1-3), si veda anche PLINIO, op. cit., XXXV, 35 [9], e CASTIGLIONE, op. cit., I, LIII. 28 DOLCE, op. cit., p. 172-173.

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Dall’altro lato, al Dolce importa soprattutto di mostrare che il carattere pittorico della scrittura del

ferrarese viene dal fatto che gli elementi che costruiscono l’ecfrasi della maga sono secondo lui tutti di

matrice artistica. I « duo negr’occhi » di Alcina « sotto duo negri e sottilissimi archi » delle sopracciglia

non sono solo dipinti dall’Ariosto, ma seguono anche linee che richiamano modelli dell’iconografia

classica : « quelle forme de’ nasi, che si veggono ne’ ritratti delle belle romane antiche. » (ibid., p. 173-

174).

In questo modo egli continua a seguire la direzione data in apertura del dialogo, puntellando con

un esempio letterario quella interdipendenza di pittura e letteratura che era stata ribadita dall’Aretino.

Ma la qualità pittorica della scrittura ariostesca gli serve poi per uno scopo ben più preciso, e

corrispondente a una problematica piuttosto attinente all’arte figurativa, quando egli la associa alla

scuola figurativa veneta. L’arte coloristica dell’Ariosto si rivela infatti, secondo il Dolce, in tutto simile a

quella di Tiziano, paragone che nasce dalla citazione dei versi che descrivono l’incarnato di Alcina:

« Spargeasi per la guancia delicata / Misto color di rose e di ligustri. » Qui l’Ariosto colorisce et in questo suo colorire dimostra essere un Tiziano. (ibid., p. 173)

Il classicismo figurativo ariostesco, costruito nel rispetto della giusta misura e della proporzione,

viene così a servire da pietra di paragone del ‘colorismo’ di uno dei massimi esponenti, secondo il

Dolce, del classicismo lagunare, Tiziano.

Si capisce allora che la scelta di uno scrittore come l’Ariosto risiede proprio nella sua scrittura

equilibrata, di cui Dolce può servirsi come elemento ulteriore per la difesa di quell’« idealizzazione

naturalistica » della pittura, che egli voleva opporre alla scuola toscana e al manierismo, derivato da

quell’eccesso di « pratica » inaugurato da Michelangelo29.

Per questo non è importante, rispetto alla scelta fatta dal Dolce, che i modelli che Ariosto segue

per costruire il ritratto di Alcina siano tutti letterari. Piuttosto sarebbe interessante poter verificare,

secondo quanto affermato da Padoan, se il Dolce abbia in ultima istanza davvero voluto « accostare

implicitamente i versi dell’Ariosto alla descrizione omerica di Elena, cui si sarebbero rifatti eccellenti

scultori e pittori antichi, secondo l’aneddoto, allora citatissimo, narrato nel De inventione, II, 1. » Si torna

così a quanto detto all’inizio del nostro ragionamento : i versi dell’Ariosto su Alcina dovrebbero essere

letti come esempio verbale di bellezza ideale in tutto concorrente con quella proposta, a livello

figurativo, da un artista come Zeusi30.

29 DOLCE, op. cit. p. 172 : « Onde abbiamo lo esempio di Zeusi, che, avendo a dipingere Elena nel tempio de’ Crotoniati, elesse di vedere ignude cinque fanciulle e, togliendo quelle parti di bello dall’una, che mancavano all’altra, ridusse la sua Elena a tanta perfezzione, che ancora ne resta viva la fama. Il che può anco servire per ammonizione alla temerità i coloro che fanno tutte le lor cose di pratica. » [mio il corsivo]. La « punta antimichelangiolesca » è segnalata da Barocchi, in DOLCE, op. cit., p. 462 n. 4. Si veda anche Scritti d’arte del Cinquecento, cit., t. I, p. 298 n. 1. 30 Il carattere pittorico/coloristico dei versi dell’Ariosto è comprovato dalle numerose ecfrasi che hanno illustrato in epoche diverse l’Orlando furioso. Si pensi alla celebre tela di Ingres, Roger délivrant Angélique, 1819, conservata al Louvre, e ai disegni di Fragonard, riprodotti in DUPUY-VACHEY, Marie-Anne, Fragonard et le Roland furieux, Paris, Les éditions de l’Amateur, 2003.

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È lo stesso Ariosto, peraltro, nei due versi di attacco dell’ottava 11 del canto VII, ad autorizzare la

lettura del Dolce, per il paragone che fa tra la bellezza di Alcina e quella che meglio sanno « finger » i

« pittori industri », e non è certamente un caso se, poco più oltre, un’altra bellezza femminile, quella di

Angelica, viene anch’essa comparata a quella prodotta dall’arte, questa volta però di una « statua

finta…per artificio di scultori industri » (XI, 96). Le due ecfrasi cominciano dalla concorrenza con l’arte

e il paragone viene ricondotto alla capacità dell’una o dell’altra forma espressiva di rappresentare e

plasmare le immagini. Per questa ragione Ariosto dice che la bellezza di Alcina, e anche quella di

Angelica, sono frutto del « finger » di pittori e scultori, il cui mestiere è espresso proprio da quel verbo

‘fingere’, sicuramente utilizzato nel suo valore etimologico, come avrebbe poi ben interpretato il

Dolce31. Si potrebbero allora leggere, anzi rileggere, i ritratti letterari alla luce del topos dell’ut pictura

poesis, valutando la capacità pittorica della retorica ariostesca a descrivere le caratteristiche fisiche e gli

atteggiamenti dei due personaggi femminili, invocando, come facevano i trattatisti d’arte, e come in

sostanza ha fatto Dolce, l’ambiguità a cui autorizza il greco γράφειν, che indica l’origine comune dello

scrivere e del dipingere32. Ma non conosciamo per la figura di Alcina, o di Angelica, un equivalente di

Simonetta Cattaneo, musa ispiratrice di ritratti letterari e artistici tra i più delicati, sensuali e idealizzati

del Quattrocento (Pontano e Botticelli) e non abbiamo dunque un riferimento artistico preciso di cui i

due personaggi potrebbero essere l’ecfrasi.

Il valore pittorico dei loro ritratti viene infatti tutto dalla tradizione letteraria33. La descrizione di

Alcina si svolge in cinque ottave, le cui fonti sono già state abbondantemente segnalate dai

commentatori34. Tra le opere umanistiche latine, possiamo aggiungere la descrizione di Lucrezia,

31 Cf. anche una delle descrizioni del padiglione di Costantino, commentate dal narratore: « così avea ben finti / i gesti lor chi già gli avea dipinti » (XLVI, 89, v. 7-8). Padoan segnala che il « finger » dei « pittori industri » nella descrizione di Alcina è correzione dell’ultima redazione al « pinger » dell’ed. del 1516 e coglie una singolare prossimità con posizioni più tarde e sensibili alle polemiche controriformistiche, come la dichiarazione del Pino nel Dialogo di pittura (stampato a Venezia nel 1548), che « la pittura è propria poesia, cioè invenzione, la qual fa apparire quello che non è », PADOAN, op.cit., p. 101. Ma in più luoghi Ariosto si dimostra ancora attento e favorevole alla necessità di affermare la validità della fictio della poesia, cfr. esordio al canto VII, 1-2, l’aggiunta del 1521 al c. XLII, o. 20-21 sulla verosimiglianza del luogo in cui si svolgono i duelli di Lipadusa, e il lungo discorso di san Giovanni, c. XXXV, 25-30. Cf. anche quanto si è detto sopra, per il commento di Dolce all’uso ‘pratico’ del verbo ‘fingere’. 32 Cf. Scritti d’arte del Cinquecento, cit., I, p. 223, si veda anche MAFFEI, op. cit., p. 285. 33 Cf. BOLZONI, Lina, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino, Einaudi, 1995. 34 Cf. RAJNA, Pio, Le Fonti dell’Orlando furioso, a c. di Francesco MAZZONI, Firenze, Sansoni, 1975 [ristampa dell’ed. 1900], p. 183 ; Orlando furioso, ed. CESERANI-ZATTI, cit., vol. I, p. 244-245 (gli autori rimandano a Petrarca, Triumphus Cupidinis, III, 155, Id., Africa, V, 22-56, Poliziano, Stanze, I, 42-46, Boccaccio, Teseida, XII, 53-63, all’Antea del Boiardo – Innamoramento d’Orlando, XXX, 40 e XXXI, 3-6 – e del Pulci – Morgante, XV, 99-104). Si vedano inoltre le opere, posteriori tuttavia all’ultima ed. del Furioso : A. Firenzuola, Dialogo delle bellezze delle donne intitolato Celso [1541], in Opere, a c. di Delmo MAESTRI, Torino, UTET, 1977 e Paolo PINO, Dialogo di pittura [1548], edito da BAROCCHI, in Trattati d’arte del Cinquecento cit., pp. 92-139, a p. 102, la cui enumerazione delle parti del corpo femminile si avvale però di termini più concreti, vicini a una prosaicità quotidiana sicuramente meno letteraria : « Par a me ch’un corpo feminille [sic], a esser perfettamente bello, […] [bisogna] che le membra corrispondano insieme ; son i capelli lunghi, sottili ed aurei, le guancie uguali, la bocca retta, le labbra di puro sangue e picciole, i denti candidi et eguali, l’orecchie nel suo termine, il qual è da la punta del naso insin alla coda dell’occhio, e sian basse ; la gola rotonda e liscia, il petto amplo e morbido, le poppe sode e divise, le braccia ispedite, le mani delicate con le dita distese, alquanto diminuitenegli estremi con ugnie più lunghe che larghe, il corpo poco rilevato e sodo, le cosce affusate e marmoree. »

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l’infelice eroina della passione amorosa raccontata da Enea Silvio Piccolomini nell’Historia de duobus

amantibus, che coincide straordinariamente con la descrizione di Alcina.

Si confrontino con il testo latino le ottave 11-13 del c. VII dell’Orlando furioso:

11 Di persona era tanto ben formata, quanto me' finger san pittori industri; con bionda chioma lunga ed annodata: oro non è che più risplenda e lustri. Spargeasi per la guancia delicata misto color di rose e di ligustri; di terso avorio era la fronte lieta, che lo spazio finia con giusta meta. 12 Sotto duo negri e sottilissimi archi son duo negri occhi, anzi duo chiari soli, pietosi a riguardare, a mover parchi; intorno cui par ch'Amor scherzi e voli, e ch'indi tutta la faretra scarchi e che visibilmente i cori involi: quindi il naso per mezzo il viso scende, che non truova l'invidia ove l'emende. 13 Sotto quel sta, quasi fra due vallette, la bocca sparsa di natio cinabro; quivi due filze son di perle elette, che chiude ed apre un bello e dolce labro: quindi escon le cortesi parolette da render molle ogni cor rozzo e scabro; quivi si forma quel suave riso, ch'apre a sua posta in terra il paradiso. 14 Bianca nieve è il bel collo, e 'l petto latte; il collo è tondo, il petto colmo e largo: due pome acerbe, e pur d'avorio fatte, vengono e van come onda al primo margo, quando piacevole aura il mar combatte. Non potria l'altre parti veder Argo: ben si può giudicar che corrisponde a quel ch'appar di fuor quel che s'asconde. 15 Mostran le braccia sua misura giusta; e la candida man spesso si vede lunghetta alquanto e di larghezza angusta, dove né nodo appar, né vena eccede. Si vede al fin de la persona augusta il breve, asciutto e ritondetto piede. Gli angelici sembianti nati in cielo non si ponno celar sotto alcun velo.

[7] Statura mulieris eminencior reliquis, come illi copiose et aureis lamenis similes, quas non more

uirginum retrofusas miserat, sed auro gemmisque incluserat. Frons alta spaciique decentis, nulla intersecta ruga, supercilia in arcum tensa, pilis paucis nigrisque, debito interuallo disiuncta. Oculi tanto splendore nitentes ut in solis modum respiciencium intuitus hebetarent. His illa et occidere quos uoluit poterat et mortuos cum libuisset in vitam resumere.

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Nasus, in filum directus, roseas genas equali mensura discriminabat. Nichil his genis amabilius, nichilque delectabilius visu que, cum mulier risit, in paruam utrimque dehiscebant foueam. Nemo has uidit qui non cupperet osculari. Os paruum decensque, labia corallini coloris ad morsum aptissima, dentes paruuli et in ordinem positi ex cristallo uidebantur, per quos tremula lingua discurrens non sermonem, sed armoniam suauissimam mouebat. Quid dicam menti speciem aut gule candorem? Nichil illo in corpore non laudabile. Interioris forme indicium faciebat exterior.35

Le due descrizioni propongono quasi gli stessi elementi : i capelli biondi, dorati, la fronte alta e

spaziosa, le sopracciglia rotonde, gli occhi brillanti, le « vallette » o fossette delle guance ; più

petrarcheschi sono i versi di Ariosto, per l’evocazione dell’atmosfera paradisiaca prodotta dal riso di

Alcina, più concreta e sensuale è la bellezza di Lucrezia, per quelle fossette che attirano i baci. Ma la

sensualità della maga emerge poi maggiormente nell’ottava 14, dove i primi due versi (il primo in

chiasmo, il secondo in bicolon) si attardano sul colore e la forma del collo e del petto della donna,

sollecitando la vista e il tatto, e i tre versi seguenti sono interamente dedicati alla forma e al muoversi

delicato dei suoi seni « acerbi », perché piccoli e giovani. Nonostante l’evidente riuso di immagini

tradizionali, il respiro e il ritmo della descrizione sono però tutti della penna dell’autore, che ha saputo

conferire al ritratto d’Alcina quella sensualità visiva e quasi disponibile al tocco che rende plausibile,

anche agli occhi del lettore, il cedimento di Ruggiero. Ed è tutta dell’autore la conclusione dell’ottava i

cui ultimi due versi sembrano riproporre, a una prima lettura, soltanto il topos della corrispondenza tra

apparenza esteriore e bellezza interiore, dunque soprattutto morale (« ben si può giudicar che

corrisponde / a quel ch’appar di fuor quel che s’asconde », VII, 14, 7-8)36, su cui si conclude anche

l’ecfrasi di Lucrezia. In quell’appellarsi al giudizio del lettore, collocato, come Ruggiero, di fronte

all’immagine di Alcina, per dirigerlo verso una valutazione più che positiva della bellezza, esteriore e

interiore, di Alcina, l’autore tuttavia non solo gioca con quel « s’asconde », alludendo più probabilmente

alle parti nascoste alla vista e non a qualità morali. Ma offre anche un secondo livello di interpretazione,

che il lettore attento deve cogliere : non solo Alcina non è bella, non è neanche buona. Ruggiero

dovrebbe diffidare del giudizio affidato alla sola vista, tanto più che è già informato della trappola che

gli sta tendendo la maga. Ma i sensi di Ruggiero, si scoprirà, si lasciano distrarre facilmente.

35 Testo latino dall’ed. Eneas Silvius PICCOLOMINI, Œuvres érotiques, éd. Fréderic DUVAL, Bruxelles, Brepols, 2004. Mia trad. : La statura della donna era maggiore delle altre, i suoi capelli [erano] folti e simili a lamine dorate, e li aveva messi non dietro le spalle secondo il costume delle vergini, ma li aveva legati con oro e pietre preziose. La fronte [era] alta, e d’armoniose proporzioni, non attraversata da alcuna ruga, le sopracciglia disegnate ad arco, sottili e nere, separate da una debita distanza. Gli occhi risplendenti di una tale luce da abbagliare come il sole lo sguardo di coloro che guardano. Con il suo solo sguardo, poteva uccidere chi voleva e riportare in vita i morti, secondo quanto le fosse piaciuto. Il naso dal dritto profilo, separava le guance rosate in parti uguali. Nulla [era] più gradevole, nulla più piacevole a vedersi delle sue guance, che, quando rideva, facevano apparire dall’una e dall’altra parte una piccola fossetta. Nessuno le ha viste senza desiderare di baciarle. La bocca era piccola e ben disegnata, le labbra d’un colore corallino assai adatte ad essere morse, i denti piccolini e disposti in bell’ordine sembravano di cristallo, attraverso i quali, muovendosi, la lingua agile pronunciava non discorsi, ma una soavissima armonia. Che dire poi del disegno del mento o del candore della sua gola? Tutto in lei era degno di lode. L’aspetto esteriore ne lasciava presupporre la bellezza interiore. 36 La lezione della redazione del 1516 non solo è meno classicistica, ma introduce un registro quotidiano assente nel resto della descrizione : « Non che di fuor però il giudicio manchi ; / Ch’in mezzo è stretta, e rilevata a’ fianchi ».

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Ancora più raffinato il gioco con la tradizione letteraria, nei due versi conclusivi dell’ottava 15, in

cui « gli angelici sembianti » di Alcina, non coperti da quel velo usato dalla Laura di Petrarca per celare

gli occhi e sottrarli allo sguardo del poeta proteggendolo da Amore, sono sfolgoranti nella loro bellezza

e liberi di irradiare su tutto e tutti la potenza della loro carica seduttiva.

La descrizione di Angelica, che il narratore, sulla scorta del mito ovidiano della liberazione di

Andromeda per mano di Perseo37, propone esposta al « nudo sasso » dell’Isola del Pianto offerta in

pasto all’orca (X, 92, v. 8, e 93, v. 1), è inaugurata proprio dallo stesso termine, il velo, o meglio, dalla

sua assenza, anche se il corpo nudo della fanciulla non viene esibito allo sguardo del lettore, ma celato

dal paragone con « i bianchi gigli e le vermiglie rose », assunti a sua metafora. Tanto che quella stessa

metafora floreale tornerà anche nella stanza successiva, in cui si concentra l’ecfrasi di Angelica, per la

quale ritroviamo alcuni degli stilemi già anticipati per la descrizione di Alcina. La presenza della fanciulla

legata alla nuda roccia viene equiparata a quella di una statua modellata nell’alabastro o nel marmo

pregiato, secondo un’immagine tutta ovidiana38, resa però più concreta dal richiamo all’arte degli

« scultori industri »39 e mirante a rendere la fissità del corpo di Angelica abbandonato a una condizione

di immobile disperazione. Quando poi Ruggiero le rivolge la parola, un rossore di vergogna le tinge il

volto (espresso attraverso il prezioso paragone pittorico del « bianco avorio asperso » di rosso carminio,

o. 98, v. 6), e la sua pudica fragilità, nello sforzarsi di « tener basso » il capo per evitare lo sguardo del

cavaliere, costruisce un’immagine seducente di fronte alla quale Ruggiero soccomberà, di lì a poco,

lasciando che il suo pensiero si allontani di nuovo da Bradamante. Il gioco dell’autore in questa

descrizione è tutto nello slittamento dell’erotismo del corpo di Angelica su altri elementi (la nudità della

fanciulla trasformata in attributo della roccia, il « nudo sasso » a cui è legata, e le metafore floreali che

trasformano sublimando la descrizione diretta delle parti del corpo esposte allo sguardo di Ruggiero), e

nella infrazione alla tradizione letteraria, perché dall’incontro degli sguardi, dall’incrocio degli occhi di

Ruggiero con i « begli occhi » della fanciulla, sapientemente collocati in dittologia al centro del verso,

non si accende subito l’amore nel cuore del cavaliere, secondo il topos più comune della tradizione

stilnovistica, ma nasce in lui, per la pietà della condizione di Angelica, il ricordo commosso di

Bradamante. Anche se poi, di lì a poco, un ulteriore slittamento, questa volta sensuale, farà che

Ruggiero si lasci trasportare dalla passione tutta fisica per Angelica, e il narratore si metterà dalla sua

parte (VII, 113-115).

37 OVIDE, Les métamorphoses, vol. 1, Livres I-V, Texte établi et trad. par Georges LAFAYE, Paris, Les Belles lettres, 2007, IV, v.675 sgg. 38 Cf. Orlando furioso, ed. CESERANI-ZATTI, cit., p. 357. 39 Si veda, per la similitudine, quanto già anticipato sopra, n. 31.

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Nel 1532, quando aggiunge le ottave consacrate ai nomi di artisti, presenti e del passato, Ariosto

inserisce anche le avventure, o meglio le disavventure di Olimpia, che si ritrova, come Angelica, nuda e

esposta al medesimo duro sasso dell’Isola del Pianto, a un solo canto di distanza, l’undicesimo.

Sono note le ragioni che la critica di matrice strutturalistica ha evocato per giustificare

l’inserimento della storia di Olimpia nel 1532 e la duplicazione dell’episodio della liberazione di

Angelica dall’orca con quello della regina olandese40. Ma ad esse potremmo aggiungere una

considerazione ulteriore, da ricercarsi nell’esigenza sentita da Ariosto di mettersi in concorrenza con i

mezzi espressivi della pittura. Giorgio Padoan ha colto proprio nelle ottave dedicate alla bellezza di

Olimpia la spia di un tale atteggiamento41.

Delle 7 ottave consacrate alla descrizione del corpo nudo della donna, le prime due sviluppano il

tema dell’innamoramento, secondo la dinamica tradizionale viso/occhi/cuore, attraverso immagini

della più classica tradizione petrarchesca. Olimpia, o meglio viso e occhi di Olimpia, vengono così

celebrati secondo similitudini classiche che rallentano, impeziosendolo, il ritmo della descrizione (si

pensi al paragone, giocato sulla sinestesia – udito/sensazione tattile - tra il canto dell’usignolo che gode

beato della primavera, e Amore che gode nel bagnarsi le piume alle belle lacrime della fanciulla).

Poi però il ritmo cambia e le immagini non sono più attinte alla tradizione letteraria. Dopo il

primo verso dell’ottava 67, che evoca, collettivamente, le « rare » bellezze di Olimpia, si passa a una

rapida enumerazione delle parti del viso, poi il narratore guida lo sguardo verso il resto del corpo e si

compiace in una descrizione lenta e delicatamente sensuale delle « mammelle » (o. 67, v. 5) / « poppe »

(o. 68, v. 3) della fanciulla, a cui sono riservate quasi due ottave (o. 67, 5-8, 68). Anche i fianchi, le

anche, il ventre e le cosce entrano nell’ecfrasi, opportunamente accompagnati da epiteti che ne

sottolineano la leggiadria, la forma, il colore (« I rilevati fianchi e le belle anche, / e netto più che

specchio il ventre piano, /…e quelle cosce bianche », v. 1-3). La competizione con la scultura si fa più

esplicita. Nemmeno Fidia, il celebre scultore dell’antichità greca, avrebbe potuto fare membra così

perfette.

La bellezza di Olimpia, così disponibile agli occhi perché non celata da nulla (« Dirò insomma,

ch’in lei dal capo al piede,/ quant’esser può beltà, tutta si vede », 69, v. 7-8), suggerisce poi all’Ariosto

due paragoni, sviluppati ciascuno in un’ottava, il primo, di stampo letterario, in cui dichiara Olimpia

superiore alla bellezza di Elena, resa celebre dalla letteratura, il secondo, di matrice artistica, che ne

conferma la superiorità anche rispetto alla bellezza ideale della donna greca, che Zeusi cercò di

raggiungere raccogliendo insieme più donne diverse e scegliendo di ognuna il particolare perfetto. A

Zeusi sarebbe bastato avere sotto gli occhi Olimpia, dice il narratore, e avrebbe trovato in lei, e nella sua

ecfrasi, un modello perfetto. Nel tono insieme solenne e parodico dell’ottava, si può forse cogliere 40 Cf. SANTORO, Mario, Un’addizione esemplare del terzo “Furioso”: la storia di Olimpia, in ID., L’anello di Angelica. Nuovi saggi ariosteschi, Napoli, Federico & Ardia, 1983, p. 83-104. 41 PADOAN, op. cit., p. 96-98.

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un’eco della celebre lettera di Raffaello a Baldassare Castiglione (o meglio del Castiglione a se stesso, a

nome di Raffaello), in cui Ariosto sarebbe da vedere al posto di Raffaello, e come Raffaello in grado di

trovare in sé l’Idea della bellezza a cui rifarsi:

[…] Della Galatea mi terrei gran maestro se vi fossero la metà delle cose che V.S. mi scrive: ma nelle sue parole riconosco le parole che mi porta e le dico che per dipingere una bella mi bisogneria veder più belle, con questa condizione che V.S. si trovasse meco a far scelta del meglio. Ma essendo carestia e di buoni giudici e di belle donne, io mi servo di certa idea che mi viene alla mente. Se questa ha in sé alcuna eccellenza di arte, io non so, ben m’affatico d’averla […].42

Insomma queste stanze lascerebbero affiorare tracce di un dialogo dell’Ariosto con alcuni dei

temi che più premevano agli artisti, quali la questione della bellezza ideale e la rappresentazione del

nudo. Potremmo allora giustificare l’apertura dell’ecfrasi di Olimpia a modi di impronta non letteraria e

più concreta, in grado di emulare quelli dei dipinti. La descrizione sensuale della donna sarebbe allora

un omaggio dedicato implicitamente ad Alfonso43, estimatore dei soggetti mitologici di Tiziano, non

privi di un sicuro erotismo (basti pensare alla fanciulla in primo piano nel quadro degli Andrî del

Camerino, in cui si riconosce l’Arianna appena abbandonata da Teseo44), ma anche di Dosso Dossi ;

basti citare un solo quadro, noto come Il risveglio di Venere o Psiche abbandonata da Amore (1524-1525)45,

che è stato posto in relazione con il vincolo d’amore che in quegli anni legava Alfonso a Laura Dianti,

in cui Psiche/Venere è offerta nuda allo sguardo dello spettatore secondo una composizione e una resa

plastica peraltro assai prossima a quella dell’Arianna di Tiziano46.

Potremmo aggiungere alcune considerazioni di tipo biografico e storico, essenzialmente extra-

letterarie per puntellare ulteriormente la nostra ipotesi. Negli anni Trenta, la fama di Tiziano stava

crescendo sempre più e l’artista si avviava a divenire il pittore prediletto da Carlo V. L’imperatore, di

passaggio a Ferrara nel 1530 insistette tanto presso Alfonso da convincerlo a cedergli il ritratto che

Tiziano gli aveva fatto, quello stesso che Michelangelo aveva ammirato pochi mesi prima. Difficile dire

se Ariosto si sia sentito esposto a una concorrenza pericolosa. Certo è che nello stesso periodo non

solo aggiunge al romanzo alcune stanze d’elogio all’imperatore (XV, 24-26), ma è molto probabile che

42 Lettera di aprile-maggio 1514: cf. VENTURI, Adolfo, Raffaello, Roma, Calzone, 1920, p. 65. La lettera venne pubblicata dal Dolce nel 1554, ma sembrerebbe un falso. Cf. THOENES, Christof, Galatea: tentativi di avvicinamento, in Raffaello a Roma. Il convegno del 1983, a cura di C. FROMMEL e M. WINNER, Roma 1986, 59-72, e SHEARMAN, John, Castiglione’s Portrait of Raphael, « Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz », 38, 1994, p. 69-96, secondo il quale l’autore della lettera non è Raffaello, ma Castiglione. 43 Sulla maggiore affinità tra Ariosto e il Duca, rispetto al fratello Ippolito, si è espresso Catalano che osservava che se « L’Ariosto […] si lamentò più volte del cardinale Ippolito e ne fece nelle Satire un ritratto così poco favorevole, non scrisse mai per il suo sovrano parola men che riguardosa », CATALANO, op. cit., vol. I, pp. 473-476, la citazione a p. 473. 44 Cfr. Il camerino delle pitture di Alfonso I, a c. di Alessandro BALLARIN, cit., vol. I. 45 Dosso Dossi, Psiche abbandonata da Amore, 1524-1525, Bologna, Palazzo Magnani, Collezione Unicredit Banca. 46 FARINELLA, Vincenzo, L’Eneide di Dosso per Alfonso I d’Este (ed altre mitologie). Un esercizio di filologia ricostruttiva, in Il camerino delle pitture di Alfonso I, a c. di Alessandro BALLARIN, 6 vol., vol. 6, Padova, Bertoncello Artigrafiche, 2007 (Tomo 6: Dosso Dossi e la pittura a Ferrara negli anni del ducato di Alfonso I. Il camerino delle pitture. Atti del convegno di studio, Padova, Palazzo del Bo, 9-11 maggio 2001), pp. 299-342, alle p. 299-303.

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nel novembre 1532 quando accompagnò il Duca a visitare Carlo ospite dei Gonzaga, dovette fargli

omaggio di una copia della sua opera47.

Dovremmo concludere allora che Ariosto, almeno per lo spazio di poche stanze, abbia sentito il

bisogno di sedurre i suoi signori, ricorrendo a strumenti in grado di competere con quelli dei suoi

concorrenti artisti. Le ottave della bella nudità di Olimpia ne sarebbero un indizio.

3. « Il pittore [è] poeta mutolo, e il poeta pittore che parla »

Come noto, ci sono luoghi nel Furioso in cui Ariosto inserisce lunghe digressioni riservate

all’ecfrasi encomiastica. Riccardo Bruscagli ne individua essenzialmente tre48 : la grotta di Merlino, dove

sfilano davanti a Bradamante gli spiriti dei suoi stessi discendenti evocati dalla maga benigna Melissa

(III, 23-59), la successiva profezia pronunciata ancora una volta da Melissa a Bradamante sulla virtù

delle donne discendenti dall’unione dell’eroina con Ruggiero (XIII, 57-73), infine, la digressione

figurativa, nell’inserto del padiglione di Costantino, in cui vengono annunziate profeticamente le virtù

di Ippolito (XLVI, 77-99). Delle tre descrizioni, che promuovono « un disegno unitario e completo

delle future glorie estensi » e sono la « prima elaborazione moderna di un sistema ecfrastico laudatorio

[…] saldamente innestato nell’impianto dinastico di un ancestrale racconto di fondazione49 », solo

l’ultima è commento verbale di una serie di immagini, « trapunte » a suo tempo dalla troiana Cassandra.

Ad essa vanno associati altri due cicli di immagini, sempre di impronta profetica, ma non più

incentrati sulla casa degli Este. Il primo, scolpito nel marmo della fontana di Merlino, e presente già

nell’edizione del 1516, si sviluppa attorno all’elogio di Francesco I, campione di virtù, superiore agli altri

grandi della terra (Massimiliano, Carlo V, Enrico VIII, Leone X), contro la « fera crudele » che devasta

terre e popolazioni, l’avarizia (XXVI, 30-5350). Il secondo ciclo, raffigurato nella sala principale della

rocca di Tristano, e aggiunto interamente nella terza edizione, mette in scena invece le campagne

francesi in Italia, tutte destinate a un esito infausto (« che non lice / che ’l Giglio in quel terreno abbia

radice », XXXIII, 10, v. 7-8), fino alla sconfitta di Francesco I nella battaglia di Pavia e al sacco di Roma

e all’intervento tardivo e inutile di Lautrec per liberare il papa (XXXIII, 6-58: ottave tutte aggiunte nel

1532). Il racconto si adegua così nel tempo all’andamento della politica ferrarese, le cui sorti e alleanze

erano profondamente mutate dopo la pace di Cambrai e l’incoronazione di Carlo V a imperatore.

47 Ariosto si trattenne alla corte mantovana per circa un mese, come scrive lui stesso in una lettera del 17 dicembre 1532, redatta al suo ritorno a Ferrara. Cf. CATALANO, op. cit., vol. I, p. 607-608. 48 BRUSCAGLI, Riccardo, L'ecfrasi dinastica nel poema eroico del Rinascimento, in Ecfrasi. Modelli ed esempi fra Medioevo e Rinascimento, a c. di Gianni VENTURI e Monica FARNETTI, 2 t., Roma, Bulzoni Editore, 2004, t. I, p. 269-292, in part. p. 273-276. 49 Ibid., p. 276. 50 Sono aggiunte nel 1532 le ottave 50-52, per adeguare l’encomio all’attualità, anche biografica dell’Ariosto. Gli Avalos, Francosco e Alfonso, cugini, rispettivamente marchese di Pescara e marchese del Vasto, erano famosi capitani dell’esercito di Carlo V. Il secondo concesse nel 1531 a Ariosto, in ambasciata presso di lui a Correggio, una pensione, riconoscendone così i grandi meriti letterari. Cf. CATALANO, op. cit., p. 578.

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Tradizionalmente alleati dei francesi, dopo il riavvicinamento a Carlo V, Alfonso era riuscito a ritrovare

il pieno possesso dei territori del suo ducato, minacciati per decenni dalle mire papali51.

Le tre rappresentazioni figurative non sono però in concorrenza diretta con immagini esistenti,

ma sono l’invenzione di cicli che valgono per il loro contenuto, per la storia che mettono in scena,

tant’è vero che la qualità plastica o pittorica è solo allusa attraverso la comparazione con i grandi artisti

dell’antichità (nel caso del ciclo realizzato da Cassandra), o è attribuita a un artefice del calibro di

Merlino, il cui uso della magia garantisce, secondo i modi della tradizione canterina e cavalleresca,

l’eccellenza delle raffigurazioni. Insomma, Ariosto non ricorre a termini artistici per rendere il carattere

figurativo delle immagini52, e quando ciò accade, è solo per sintagmi steoreotipati (le immagini

« bianche, azzurre e rosse » della rocca di Tristano53) o troppo generici (come la seconda allusione alla

qualità cromatica delle immagini della rocca, le cui storie sono raccolte nella sala, « in varii e bei colori »,

o come il riferimento all’« intaglio con lavor divino » realizzato da Merlino nel marmo fino, lucido e

terso della fontana, XXVI, 30, v. 3-8).

Solo una volta, nel descrivere la qualità del lavoro « divino » di Merlino sulle figure della fontana,

il narratore ne commenta la forza figurativa, la mano dell’artista le ha plasmate conferendo loro un

soffio vitale:

la fonte è di « bel marmo fino, / lucido e terso, e bianco più che latte./ Quivi d’intaglio con lavor divino/avea Merlino imagini ritratte:/ direste che spiravano, e, se prive/non fosser di voce, ch’eran vive » (XXVI, 30, v. 5-8).

51 Si trova qui una nuova lunga celebrazione di Francesco e Alfonso del Vasto, e della loro stirpe, XXX, 27-30, 33, 45-49. 52 Si pensi anche alla fontana con le sculture delle donne virtuose all’interno del palazzo del cavaliere del nappo. Mai Ariosto ricorre a termini plastici per descriverne la fattura. Il palazzo, invece, è immaginato secondo elementi che evocano l’architettura dell’epoca : rispetto dei principi della proporzione tra le parti (ogni lato della stanza in cui si trova la fontana misura 100 braccia), simmetria (ogni lato ha una porta), elementi architettonici latamente rinascimentali (porte fiancheggiate da colonne con capitelli dorati, sormontati da un arco). La preziosità dei materiali rimanda alla ricchezza del proprietario, elemento fondamentale del mecenatismo signorile e di loro esclusiva pertinenza. Sulla questione, si veda SAVARESE, Gennaro, « Il Furioso e le arti visive », in La rassegna della letteratura italiana, 83/1-3, 1979, p. 28-39. 53 Ben diverso l’uso dei colori in numerosi altri luoghi del poema. Lo stesso Ariosto ne propone un’interpretazione simbolica. Si pensi, a titolo di esempio, ai cavalieri che partecipano alla giostra di Damasco, abbigliati di vari « colori accompagnati ad arte » per mostrare alla loro donna « letizie o doglie » (XVII, 72, v. 5-6), oppure alle vesti nere scelte da Orlando e da Ariodante. Quando abbandona il campo di Carlomagno per mettersi sulle tracce di Angelica, Orlando lascia « l’onorata insegna del quartiero, / distinta di color bianchi e vermigli », per rivestirsi di nero, colore del dolore e della sofferenza (VIII, 85, v. 3-5), Ariodante, desideroso di morire in duello contro il rivale in amore per vendicare l’ingiusto tradimento che crede di aver subito da Ginevra, indossa « sopraveste nere, e scudo nero […]», egli avrà cura però di fregiare le vesti « a color verdegiallo » (VI, 13, 3-4), il colore delle foglie appassite, e così accentuerà la carica di disperazione legata all’esaurirsi della speranza, simboleggiata appunto dal verde e dal giallo combinati insieme. La ricchezza simbolica dell’universo cromatico del Furioso ha fatto sì che l’opera sia stata letta in questo senso dai trattatisti del Cinquecento e successivi che hanno visto nel poema un « codice interpretativo dei colori, delle imprese, dei moti, degli affetti, ecc. », vedi BAROCCHI, Fortuna dell’Ariosto, cit., pp. 395-397 ; si veda anche SALZA, Abd-el-Kader, « Imprese e divise d’arme e d’amore nell’Orlando furioso », in Giornale storico della Letteratura italiana, 38 1901), p. 310-363, BERTONI, Giulio, L'« Orlando Furioso » e la Rinascenza a Ferrara, Modena, Orlandini, 1919, BASTIAENSEN, Michel, « Varianti e colori nel “Furioso” », in Giornale storico della Letteratura italiana, 155 (1978), p. 526-550.

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In queste immagini che spirano, quasi fossero vive, verrebbe da cogliere di nuovo un’eco del

dibattito sulla concorrenza tra arte letteraria e arte figurativa54. Ludovico Dolce nel suo trattato sulla

pittura fa esprimere ad Aretino un giudizio sulla capacità espressiva del pittore il quale, « …quantunque

[…] non possa dipinger le cose che soggiacciono al tatto, come sarebbe la freddezza della neve, o al

gusto, come la dolcezza del mele ; dipinge non di meno i pensieri e gli affetti dell’animo. » Fin da

Leonardo, e grazie soprattutto a lui, l’emancipazione della pittura, e poi delle arti figurative più in

generale, è passata attraverso la dichiarazione della superiorità delle arti pittoriche e plastiche su quelle

letterarie, perché capaci di esprimere « i moti dell’animo » delle figure rappresentate. I dipinti

acquisiscono così una efficacia espressiva superiore a quella della poesia, che resta « pittura muta ».

Ariosto, nel dare la voce alle immagini scolpite, si schiera però solo parzialmente dalla parte

dell’artista, perché è alla sua scrittura che in realtà rivendica una grande forza, capace a suo dire di creare

sculture visivamente perfette, il cui marmo si materializza in forme ‘polite’ (è fino, lucido e terso),

coloristicamente pure (« più bianco del latte ») e dalla composizione mirabilmente calibrata, se i loro

movimenti, al solo vederli, sembrano animati da uno spirito vitale.

Le tre ecfrasi figurative hanno poi sempre bisogno che il racconto delle immagini che le

compongono sia accompagnato dalla loro interpretazione. La descrizioni legate alle creazioni di

Merlino, la fonte e la rocca, avvengono infatti in due tempi, prima sono presentate dalla voce del

narratore, che ne precisa i personaggi presenti e le loro azioni, e legge anche le iscrizioni che ne rivelano

l’identità. Il lettore, e il narratario, soprattutto, sia esso Ippolito, unico dedicatario esplicito, o Alfonso,

nuovo signore del poeta55, capiscono subito di chi si tratta, ma i personaggi della finzione narrativa no,

perché le immagini si riferiscono al futuro. Ecco allora che l’Ariosto si offre il pretesto per dare vita a

un racconto, interpretativo delle immagini, dalla forte carica profetica, di cui si incaricano

rispettivamente Malagigi, per la fonte di Merlino, e il signore della rocca di Tristano, nell’omonimo

episodio. Solo quando alle immagini viene restituito tutto il loro senso, esse possono essere veramente

apprezzate. È quello che succede alle belle donne e agli altri cavalieri della rocca di Tristano, che dopo

aver ascoltato il racconto del loro ospite, godono nel guardare e riguardare le figure e nel rileggere le

iscrizioni, finalmente diventate comprensibili (« Tornano a rivederle due e tre volte,/né par che se ne

sappiano partire;/e rileggon più volte quel ch’in oro/si vedea scritto sotto il bel lavoro », XXXIII, 58, v.

5-8). La finezza dell’autore è nel creare un gioco di specchi che raddoppia il piacere della corte reale, la

quale accede al senso due volte, la prima immediatamente, la seconda ‘vedendosi’ rappresentata nella

corte fittizia e ideale della narrazione.

54 BALDASSARRI, Guido, Ut pictura poesis. Cicli figurativi nei poemi epici e cavallereschi, in La corte e lo spazio : Ferrara estense, a c. di Giuseppe PAPAGNO e Amedeo QUONDAM, 4 vol. Roma, Bulzoni, 1982, vol. 4, p. 605-635. 55 Che Alfonso fosse, o almeno fosse stato, un lettore del Furioso, lo prova peraltro una lettera inviata già nel 1509 dal duca stesso in richiesta del manoscritto, ancora tuttavia in fase di redazione abbastanza ridotta (in essa viene definito « una gionta a lo Innamoramento de Orlando »), cf. CATALANO, op. cit. vol. II, p. 92-93 e SANGIRARDI, Giuseppe, Ludovico Ariosto, Firenze, Le Monnier Università, 2006, p. 95.

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Tra figura e parola, nel ‘paragone’ tra arte figurativa e arte letteraria vince in sostanza l’arte

letteraria. L’arte ha bisogno della mediazione dello scrittore, dell’umanista, il cui ruolo, è proprio quello

di rendere più o meno accessibili i contenuti, prendendo parte e alimentando i modi di una corte elitaria

e colta che si compiace di giochi raffinati56. Lo stesso principio presiede del resto anche altre invenzioni,

non necessariamente figurative. Si pensi ad esempio all’allegoria del Tempo e della Fama e della

funzione della Poesia dell’episodio lunare. Anch’essa, benché ipostasi in atto, diviene chiara solo

quando viene spiegata. Davanti agli occhi di Astolfo si svolge dapprima l’azione, presentata dal

narratore, della « femina cana », che si scoprirà poi essere una delle Parche, e del vecchio,

personificazione del Tempo (XXXIV, 88-92). Sarà poi san Giovanni a pronunciare il discorso

interpretativo, legandolo alla celebrazione di Ferrara, degna per volere divino di dare i natali a Ippolito

(XXXV, 4-9), e allargandolo poi al resto dell’allegoria, che includerà così cattivi poeti (i « corvi et avidi

avoltori, mulacchie e varii augelli », XXXV, 13, 1-4), e i poeti degni (« duo cigni soli, / bianchi »,

XXXV, 14, v. 5-8), il cui colore, ricorda abilmente il narratore, è il medesimo dell’insegna del

Signore, dedicatario del poema, che egli interpella direttamente57.

Per il padiglione di Cassandra, è l’autore stesso invece a farsi narratore e interprete delle

immagini, associando descrizione e spiegazione. È a sé che egli riserva in questo modo l’intonazione

dell’ultimo lungo encomio delle virtù del cardinale estense, destinandolo però solo al dedicatario e ai

lettori cortigiani, quegli stessi, possiamo supporre, che il narratore ha scorto festosi sulla riva ad

aspettare il suo ritorno. Le scene della vita di Ippolito, benché accompagnate anch’esse da « una

scrittura… in lettera minuta » indicante i nomi dei personaggi, restano infatti ‘mute’ per coloro che le

ammirano, sotto lo sguardo compiaciuto di Bradamante e di Melissa (XLVI, 98-99). Agli Este soltanto,

e alla sua corte, il narratore concede di conoscerne il contenuto. Senza il suo racconto, le belle immagini

trapunte mantengono una mera funzione estetica, disponibili come sono a una fruizione che non

insegna, non informa, non ha un significato morale, storico, profetico:

98 Le donne e i cavallier mirano fisi,

56 La passione per l’interpretazione figurativa e verbale si esprimeva in tutti gli aspetti della vita di corte, non solo in letteratura. Si pensi che alla passione per i motti era tanto di moda che essi venivano apposti persino sugli abiti, secondo un costume francese, BERTONI, op. cit., p. 222-224. Baldassarre Castiglione consigliava al cortigiano di por cura « d’aver cavallo con vaghi guarnimenti, abiti ben intesi, motti appropriati, invenzioni ingeniose. », cf. CORTEGIANO, op. cit., I, VIII. Lo stesso Ariosto descrive in una canzone Alessandra Benucci vestita di nero (simbolo non solo del lutto e del dolore, ma anche del lusso, cf. PASTOUREAU, Michel, Noir. Histoire d’une couleur, Paris, éditions du Seuil, 2008), con ricami di porpora e oro a formare due viti intrecciate e vorrebbe credere che la donna abbia scelto quel disegno per lui, simboleggiando così la sua loro unione. Il gusto per l’impresa ‘parlante’ trova luogo anche nel Furioso : basti citare l’impresa dipinta sulla bandiera vermiglia di Rodomonte (XIV, 114: un leone tenuto alla briglia dalla « sua donna »), oppure le imprese scelte da Orlando e Oliviero prima della battaglia di Lipadusa. Orlando fa ricamare nel quartiero a colori « bianchi e vermigli », « l’alto Babele da fulmine percosso », e Oliviero vuole ornare la sua armatura d’un cane d’argento : « Che giaccia e che la lassa abbia sul dosso / Con un motto che dica : “Finché vegna!” / E vuol d’or la veste e di sé degna. » (XLI, 30, v. 2-8). 57 Diversa la funzione della personificazione allegorica di sentimenti o attributi elementari, come nell’episodio della lotta dello Sdegno contro Gelosia, ipostasi delle passioni che lacerano il cuore di Rinaldo e protagonisti dell’ultimo duello combattuto dal paladino, evocazione parodica di una battaglia allegorica il cui sapore medievale è del tutto reinterpretato (XLII, 46-64).

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senza trarne costrutto, le figure; perché non hanno appresso che gli avvisi che tutte quelle sien cose future. Prendon piacere a riguardare i visi belli e ben fatti, e legger le scritture. Sol Bradamante da Melissa istrutta gode tra sé; che sa l'istoria tutta.

99 Ruggiero, ancor ch'a par di Bradamante non ne sia dotto, pur gli torna a mente che fra i nipoti suoi gli solea Atlante commendar questo Ippolito sovente.

Nemmeno i veri artisti possono fare di più, creare immagini più eloquenti. Per quanto la loro

abilità possa essere ‘divina’, i pittori posseggono una capacità espressiva limitata agli eventi del presente

e del passato « quelli che noi veggiàn pittori, e quelli che già mille e mill’anni in pregio furo » hanno

sempre e solo fatto coi pennelli « le cose che son state ». Per quanto le « historie », godessero in realtà

fin dal De pictura di Alberti, di una posizione privilegiata nella gerarchia dei temi da rappresentare in

arte58, Ariosto scrittore non è disposto a cedere terreno. Anzi, proprio questo è il limite degli artisti, su

cui lui insiste, ossia quello di non disporre degli strumenti per « dipingere il futuro » (XXXIII, 3, v. 5-

6) : « Non però udiste antiqui, né novelli [pittori] / vedeste mai dipingere il futuro ».

In effetti, le immagini profetiche dell’Orlando furioso, scolpite o dipinte, non sono mai opera

umana, ma sono create dalla magia (le immagini della rocca di Tristano, le ha fatte fare Merlino in una

notte dai demoni servendosi del libro della Sibilla, XXXIII, 4 ; la fontana, il mago l’ha creata insieme ad

altre tre, XXVI, 30), o trapunte da una creatura della tradizione classica dotata di capacità profetica

(Cassandra, XLVI, 80) e riattivate poi ancora una volta dalla magia (è Melissa a trasportare il padiglione

a Parigi, XLVI, 79).

Solo la parola, capace di controllare la magia, creare le immagini e interpretarle, gode allora di una

forza espressiva assoluta. Solo la scrittura può farsi, in ultima istanza, interpretazione, profezia, encomio

e divenire così espressione della gloria dei signori. Sono i cigni bianchi, i poeti « che non sian del nome

indegni », e non gli artisti, non le arti in generale, a garantire la fama duratura, la celebrazione che

inscrive la fama del signore nell’eternità, sottraendola all’oblio (XXXV, 23, 1-2). Giovanni stesso, nel

proclamarsi scrittore (« fui scrittore anch’io », XXXV, 28, v. 8), diventa il primo degli scrittori cortigiani,

di quella corte dell’età di Augusto che non solo ha favorito l’attività degli scrittori dei quali Ariosto ha

seguito di volta in volta l’esempio, ma ha coinciso con la nascita di Gesù. Giovanni è stato scrittore da

lui riconosciuto, ricevendone il massimo guiderdone, la gloria celeste, che né tempo né morte possono

togliergli, e « l’assunzione » nella corte più prestigiosa che possa esistere.

58 SAVARESE, Gennaro, « Il Furioso e le arti visive » cit., p. 33; ALBERTI, Leon Battista, La peinture, texte lat., trad. fr., version italienne, éd. De Thomas Golsenne et Bertrand Prévost, revue par Yves Hersant, Paris, Seuil, 2004, I, 33.

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Gli artisti, antichi e moderni, sono sottomessi allo stesso destino dei signori, la loro fama non è

legata alle loro opere, ma « sempre starà, fin che si legga e scriva, / mercé degli scrittori, al mondo

viva » (XXXIII, 1, v. 7-8).

Fosse anche una presa di posizione, questa di Ariosto, da letterato che deve difendere il proprio

ruolo da una presenza sempre più invadente degli artisti a corte, certo è che la questione non toccava

soltanto lui. Abbiamo visto come Castiglione svalutasse implicitamente l’opera artistica mentre

sembrava umilmente subordinare il proprio Cortegiano a un’opera di pittura59. Pietro Bembo nelle Prose

della volgar lingua, di sicuro conosciute e lette da Ariosto, era più severamente esplicito nel relegare

pittura, scultura e architettura al ruolo di arti « molto minori », per quanto esercitate da artisti del valore

di Michelangelo e Raffaello. La fama di questi, e degli altri artefici, e di tutti coloro che desiderano

essere conosciuti nel tempo, è di fatto legata solo e soltanto agli scrittori: « Quantunque non pur gli

artefici, ma tutti gli altri uomini ancora di qualunque stato, esser lungo tempo chiari e illustri non

possono altramente. » Nemmeno l’attività pratica di « Vitruvio, o pure il nostro Leon Battista Alberti

[ma cita anche « Mirone e Fidia e Apelle »] e tanti altri pellegrini artefici per adietro stati » avrebbe

garantito loro la sopravvivenza del loro nome. Se il mondo ancora se ne ricorda, dipende dagli scritti, di

loro mano o di altri, in cui i loro nomi sono stati celebrati: « ora dal mondo conosciuti non sarebbono, -

continua Bembo - se gli altrui o ancora i loro inchiostri celebrati non gli avessero, di maniera che vie più

si leggessero, della loro creta o scarpello o pennello o archipenzolo le opere, che si vedessero »60.

Di lì a qualche anno, sarà poi ancora la scrittura che darà all’arte la sua prima storia, organizzata

cronologicamente e secondo criteri di valutazione esterica inseriti in un progetto critico coerente. Ci si

riferisce naturalmente all’opera di Giorgio Vasari nelle sue Vite (1550)61. Non è già più questione di

‘paragone’ tra arte figurativa e arte letteraria, la scrittura si mette al servizio dell’arte, consapevole

tuttavia dell’importanza della sistematizzazione teorica che essa offre al mondo figurativo. Lo stesso

Vasari vuole, attraverso la propria opera, creare una graduatoria di preferenze, all’apice della quale

colloca il ‘divino’ Michelangelo. Il suo è uno sguardo da critico, uomo del mestiere e teorico che si

autorizza giudizi basati sul valore estetico e non sulla generica lode, perché sa quanto la lode, per

quanto generica possa essere, quando è espressa da un grande talento letterario, può creare glorie

indebite. È il caso di Dosso Dossi, del cui talento Vasari si mostra, nella Vita, tiepido estimatore. Egli

ne riconosce la fama, ma la dice legata, molto più che ai suoi pennelli, alla penna del « divino » Ariosto.

La pittura, benché « muta », ha imparato, con « l’artifizio e co’ gesti meravigliosi », ossia con lo sforzo

59 Cf. sopra, nota 18. 60 Cf. BEMBO, Pietro, Prose della volgar lingua [1525], in ID., Prose e rime, , ed. a c. di Carlo DIONISOTTI, Torino, Utet, 1978, 3, 1. 61 VASARI, Giorgio, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino ’a tempi nostri, Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, a c. di Luciano BELLOSI e Aldo ROSSI, 2 vol., Torino, Einaudi, 2008, cf. inoltre sopra, n. 14, i riferimenti bibliografici dell’ed. del 1568.

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artistico e la raffigurazione dei « moti dell’animo », a esprimere ciò che la penna concepisce62 ; a sua

volta la penna, nelle mani di un « raro » poeta, è in grado di alimentare una reputazione che sarà creduta

dai più, anche se non fondata su basi concrete :

Benché il cielo desse forma pittura nelle linee e la facesse conoscere per poesia muta, non restò egli però per tempo alcuno di congiugnere insieme la pittura e la poesia. Acciò che se l'una stesse muta, l'altra ragionasse, et il pennello con l'artifizio e co' gesti maravigliosi mostrasse quello che gli dettasse la penna e formasse nella pittura le invenzioni che se le convengono. E per questo insieme col dono che a Ferrara fecero i fati de la Natività del divino M<esser> Lodovico Ariosto, accompagnando la penna al pennello, volsero che e' nascesse ancora il Dosso pittore ferrarese; il quale, se bene non fu sí raro tra i pittori come lo Ariosto tra' poeti, fece pure molte cose nella arte, che da molti sono celebrate, et in Ferrara massimamente. Laonde meritò che il poeta, amico e domestico suo facesse di lui memoria onorata ne' chiarissimi scritti suoi. Di maniera che al nome del Dosso diede piú nome la penna di M<esser> Lodovico universalmente, che non avevano fatto i pennelli et i colori che Dosso consumò in tutta sua vita, ventura e grazia infinita di quegli che sono da sí grandi uomini nominati. Perché il valore delle dotte penne loro sforza infiniti a dar credenza alle lode di quelli, ancora che perfettamente non le meritano.63

Ariosto stesso aveva già messo in guardia i suoi lettori dal potere inventivo e persuasivo della

parola. Se sembra rivendicare, attraverso san Giovanni, il ruolo dei veri poeti, a cui soltanto spetta di

eternare le gesta degne di essere ricordate, ne esibisce però i limiti, relativizzando il ruolo della « bella

menzogna poetica », capace di creare la fama postuma, buona o cattiva, giusta o ingiusta. San Giovanni,

scrittore cortigiano, si scusa però per il suo invito a non fidarsi della parola poetica (« tutta al contrario

l’istoria converti »), proprio in nome dell’appartenenza a quella ‘casta’ alla quale egli stesso ammette,

peraltro, di aver dato il proprio contributo (XXXV, 28, v. 5-8):

Non ti maravigliar ch'io n'abbia ambascia, e se di ciò diffusamente io dico. Gli scrittori amo, e fo il debito mio ; ch'al vostro mondo fui scrittore anch'io.

Ma si badi, è poi sempre per bocca di san Giovanni che l’Ariosto, nonostante ammetta,

deplorandola, l’evidente rarità di poeti degni di questo nome (« Son, come i cigni, anco i poeti rari,/

poeti che non sian del nome indegni », XXXV, 1-2)64, non vuole poi rinunciare a ribadire, da ultimo, la

funzione civilizzatrice della poesia, della quale la celebrazione cortigiana è solo un aspetto:

Sì che continuando il primo detto, sono i poeti e gli studiosi pochi; che dove non han pasco né ricetto, insin le fere abbandonano i lochi.

Ariosto, cortigiano e scrittore, si attribuisce l’ultima parola.

62 La posizione di Ludovico Dolce, abbiamo visto sopra (par. 2), andava proprio nel senso contrario, nel cercare con l’argomentazione dialogica di svalutare « l’artifizio », ossia il virtuosismo artistico, divenuto il verbo dei manieristi toscani, a favore di un classicimo regolato dal rispetto delle giuste proporzioni. 63 Cf. BAROCCHI, Paola, Fortuna dell’Ariosto, cit., p. 392 e 393, VASARI, Vite [1550], vol. 2, p. 740. 64 Dolce, nel trattato della pittura citato più volte, non esiterà a far propri i versi ariosteschi, mutandoli e spogliandoli della critica cortigiana : « Sono i poeti et i pittori pochi, / pittori, che non sian del nome indegni. » La critica si esaurisce tutta nell’ambito del mestiere e si concentra piuttosto sul solo valore artistico dei pittori, e di riflesso anche dei poeti : l’ingegno naturale è vano, se non accompagnato da un’« industria » costante, come del resto l’industria è insufficiente se non accompagnata da un ingegno adeguato, cf. DOLCE, op. cit., p. 192.