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a Camilla, ovviamente

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Osvaldo Capraro

Nessun altro mondo

Stilo Editrice

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Collana Nuovelettere

Alcuni luoghi qui narrati sono veri, altri non lo sono affatto, come tutti i personaggi di cui si parla, frutto di invenzione pura e semplice.

isbn 978-88-6479-121-0© stilo EditricE 2014www.stiloeditrice.it

Stampato nel mese di maggio 2014presso Arti Grafiche Favia, Modugno (BA).

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Sommario

Cambiare vita non è detto risolva tutto 11

Anche un incontro seccante può aprire spiragli 19

L’istinto di vendetta è come la ragione del più forte 37

‘Naturale’ è sinonimo di ‘irrazionale’ e un cane non è mai soltanto un cane 63

Salvare i più deboli non è un lasciapassare per l’anima 89

Andare fino in fondo equivale a spargere sangue 121

Ogni dolore scava la roccia e accade quel che deve accadere 131

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Un cane può mancare come una persona,sarà banale, ma io questo non lo sapevo prima.

(Raffaele La Capria, Guappo e altri animali)

L’uomo nella prosperità non comprende,è come gli animali che periscono.

(Sal 49, 21)

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Cambiare vita non è detto risolva tutto

Il telefonino riprende a vibrare, numero privato, è la terza volta da questo pomeriggio.

Prima di alzarmi dal tavolo, lancio una scorza di formaggio a Lina.

Giorni fa l’avrebbe addentata al volo. Muso pog-giato sulla sua coperta, apre gli occhi, mi osserva uscire dalla cucina. Si solleva stancamente sulle zampe e mi segue fino alla porta del cortile.

«Allo?».«Era ora» risponde una voce risentita.«Che vuoi?».«È da un po’ che non ci sentiamo. Secondo te,

cosa posso volere?».«Non lo so. So soltanto che il mio nome non do-

vrebbe più esserci nei tuoi elenchi».«Come sta il vecchio rimbambito?».«Philippe non è un rimbambito».«Il tuo aereo parte domani mattina alle sette e

mezzo».«Non ricordo di aver prenotato voli».«Sempre quest’atteggiamento ostruzionistico…»,

sbuffa. «Nessun ostruzionismo. È quel che avevamo sta-

bilito».«Avevamo? E da quando sei tu che stabilisci? C’è

un lavoretto da sbrigare e sei il più indicato, mica c’è da discutere».

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Lina si è coricata sul gradino dell’ingresso. Sem-bra un grosso cuscino nero. Da lì controlla il mio andirivieni in cortile: alza la testa se mi allontano, agita la coda quando mi vede tornare.

«E invece discuto, visto che sono fuori dal giro».«Non sei fuori, non lo sei mai stato».«I patti erano diversi».«Nella tua testa forse, non nella mia. E ora, se

permetti, si diceva del lavoretto».Odio quest’uomo. Ma farsi odiare e obbedire al

tempo stesso è godimento puro per quelli come lui.

«Ok, non decido io. Ma niente aereo».«Perché?».«Preferisco scendere con Lina».«Lina? Ma dai, alla tua età?».«Non è una donna, è il mio cane. Cagna anzi, è

femmina».Un click divide in due la pausa di silenzio. Avrà

acceso una sigaretta, gli serve per prendere tempo. Creare distanza è il suo modo di reagire quando sente di non padroneggiare una situazione.

«È l’età ad averti rincoglionito fino a questo pun-to?». Poi, visto che non ribatto: «Quindi il tuo pro-blema sarebbe l’aereo».

«Il mio problema te l’ho detto. Poi, sì, ci sarebbe anche l’aereo».

«Hai sempre avuto qualche rotella che gira male, Pellegrino. Ti procuro un’automobile, però ti vo-glio giù entro due giorni».

«Giù dove?».«Torni al tuo paese».

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«Quale?».«Quanti ne hai di paesi, tu?».«No, un attimo. Siete impazziti? Sai benissimo

che sarebbe troppo rischioso».«Ma cosa vuoi rischiare dopo tutti questi anni?

C’è da risolvere una situazione, e nessuno conosce meglio di te la città. E poi, un estraneo avrebbe difficoltà a spiegare la sua presenza, tu invece un motivo per tornare ce l’avrai pure, o no? Prima fi-nisci il lavoretto, al massimo una decina di giorni, e prima riprendi a mungere le tue mucche».

Ormai ha deciso. Quando Lochiaro decide, inu-tile insistere. L’operazione è già partita.

«Dieci giorni sono pochi».«Per te saranno più che sufficienti. Prepara la va-

ligia, ti richiamo appena trovo l’automobile».«Va bene, lascia stare, scendo con la mia. Mi ag-

giungerai un rimborso extra».Lina si sposta dal gradino per lasciarmi entrare,

si scrolla di dosso l’umidità, mi segue in cucina e torna a distendersi nell’angolo accanto al camino.

Philippe è ancora seduto al suo posto. Sigaretta fra le dita. Bicchiere vuoto, come la bottiglia.

«C’est pour ta mère?».«Sì, mamma ha avuto un’altra crisi, parto do-

mani mattina. Stavolta scendo in macchina, porto Lina con me, preferisco tenerla sotto controllo».

Gli ho sempre lasciato intendere che le mie par-tenze improvvise dipendessero dalla cagionevole salute di mia madre. Fosse ancora viva avrebbe più o meno la sua età. A lui sta bene così, è abitua-to a non fare domande. Gli piacciono le persone

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che lavorano sodo e io non mi sono mai tirato in-dietro.

Da quando è morta la sua compagna ha venduto i cavalli, ha smesso di coltivare il grano; gli resta-no una decina di mucche e le oche per il foie-gras. Valérie era molto più giovane di lui, aveva quasi l’età dei suoi figli, una bella donna di queste par-ti: alta, bionda, forte e senza grilli per la testa. Tra i due, era scontato, sarebbe stato lui ad andarse-ne per primo. Ma così non è stato, e da allora si è chiuso in un mutismo da misantropo. Coltiva una rabbia ripiegata su se stessa, contro Dio, contro l’umanità, contro chiunque gli capiti a tiro, e la gente del posto ha cominciato a scansarlo. I figli si fanno vedere solo di tanto in tanto; uno lavora in banca, l’altro è dirigente in un’assicurazione. Così, oltre a Claude, il garzone di sempre, sono rimasto l’unico su cui possa fare affidamento.

Apro il frigo. Di Morbier ne è rimasto poco. Tiro fuori la forma di Mimolette vecchia, va mat-to per questo strano formaggio arancione. Non dovrebbe mangiarne, ma ricordargli le analisi mediche serve solo a farlo infuriare. Gliene taglio un pezzo: «Tanto lo so che al mio ritorno non ne troverò nemmeno una briciola. Anzi, sai che fac-ciamo adesso io e te? Ti dispiace se stappo l’altra bottiglia?».

La sagoma di Philippe, immobile sulla porta, rimpicciolisce nello specchietto retrovisore fino a scomparire dietro la curva.

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Stamattina era nervoso e stanco, una ragnatela di rughe intorno agli occhi: quando qualcosa non gira per il verso giusto dorme poco. La storia di mia madre malata comincia a scricchiolare, e pro-babilmente non l’ha mai bevuta del tutto. Ma a suo modo mi vuole bene, mai che si sia lasciato sfuggi-re un cenno di disappunto.

Prima di conoscerlo mi trovavo da queste parti da un anno circa. Non me la passavo malissimo. Di notte dormivo nei locali dell’Esercito della salvez-za, dietro piazza Charles de Gaulle. Di giorno lavo-ravo con Dante, un piastrellista toscano emigrato da trent’anni, amante anche lui del formaggio e del buon vino. Avevamo storie diverse, lui non aveva nulla da dimenticare, ma c’era rispetto e sapeva-mo come divertirci. I responsabili della struttura, però, mi costringevano a tenere Lina in cortile, e l’autunno, che da queste parti non è mai mite, sta-va per piombarci addosso.

Quando la sera della grande Braderie, l’enorme fiera che a settembre richiama turisti da ogni parte d’Europa, salvai questo contadino da un paio di balordi che volevano rubargli l’incasso della gior-nata, colsi la mia occasione. Più a gesti che a paro-le – il francese non sono mai riuscito a impararlo come si deve – gli suggerii il modo per sdebitarsi: uno come me poteva sempre tornargli utile, e io e Lina avevamo bisogno di un alloggio.

Mi scrutò con attenzione e, con quello sguardo corrucciato che col tempo ho imparato a inter-pretare, mi chiese se me la cavavo con i lavori in campagna.

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Annuii.«Bon. Prends ton chien et tes bagages».È quel che feci: tornai a prendere Lina, infilai la

mia roba nel borsone, salutai Dante e mi trasferii alla fattoria.

L’alba è spuntata da poco, ma dalle case bianche del centro storico rimbalza già il calore di una gior-nata senza respiro.

«Prego signorina, siamo arrivati».Tranne durante le soste alla stazione di servizio,

Lina ha dormito tranquilla tutta la notte. Ha sem-pre adorato viaggiare in macchina. Il problema è che, da sveglia, schizza saliva dappertutto.

Zampe sul sedile, introduce il muso nell’apertu-ra del finestrino: fiuta un’aria densa di odori nuovi per lei, abituata ormai ad altre latitudini.

«Aspettami qui, vado a controllare la situazione. Tu non farti notare come al solito». Comincia a mugolare, non gradisce l’idea di restare sola. «Dai, no, non è il momento di annunciare a tutti il nostro arrivo».

Orecchie dritte, occhi impertinenti. Breve uggio-lio di dissenso.

Le punto il dito sul muso: «Ho detto che torno subito. Non. Voglio. Sentirti. Abbaiare. Capito, sì?».

Sollevo gli occhi. La facciata dell’edificio an-drebbe ridipinta, il vento che soffia dal porto ha scrostato l’intonaco fino a scoprire i tondini di fer-ro arrugginiti dall’umidità.

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Anche il portone ha un’aria malandata. Il passa-mano delle scale è rotto in più punti. I miei coin-quilini, ammesso che siano gli stessi di allora, non hanno mai avuto gusto né soldi da spendere.

La chiave gioca un po’ nella serratura, ma riesco ad aprire senza sforzo.

Il tanfo di un appartamento chiuso da anni. Caldo asfissiante. Apro le finestre, la cucina si riempie di luce e la prima novità che balza agli occhi è la tristezza di un ambiente abbandonato: lo strato di polvere sembra una pellicola isolante. La seconda sono le due librerie che si impongo-no per tutta la lunghezza del corridoio. Lavoro artigianale, ciliegio massiccio, ci avranno consu-mato un bel po’ di risparmi. Ecco dove sono finiti i libri che mi facevo mandare in carcere. Dopo averli letti, li spedivo ai miei genitori e loro, la cui massima attività intellettuale era la visione di un telegiornale di tanto in tanto, hanno pensato di collocarli in questi scaffali in attesa del mio ritor-no. Ma non è andata come speravamo: sono morti a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra. L’ultima volta che ci siamo visti eravamo separati dal vetro, nella sala colloqui.

È come trovarmi di fronte alla misura oggettiva dei miei anni in cella: uno, a volte due libri a setti-mana, giornate intere senza scambiare parola con nessuno. È il motivo per cui il Vecchio mi chia-mava ‘il Professore’: prima di me non aveva mai conosciuto qualcuno che avesse letto un libro. Pre-ferire i libri alla televisione, al biliardo o al poker era roba da alieni.