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Rivista N.43 - Anno XXII - Dicembre 2019"P

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EditorialeLe fasce del Continente africano rivolte al

Mediterraneo ebbero da sempre storia e civilizza-zione comuni a quelle del nostro Continente.

Gli enormi spazi dell’Africa però sono stati per millenni un mondo sconosciuto, nella notte di sterminati territori rimasti nel grembo della natu-ra. Le antiche e poco attendibili carte geografiche segnavano giungle e foreste col temine: “Hic sunt leones”. Quindi, se ci solo leoni non ci possono es-sere uomini. Col desiderio europeo di conoscenza, almeno dal Seicento si addentrarono nell’ “Africa nera” arditi esploratori. Li seguirono i missionari, i preti e, naturalmente, i soldati. Così gli europei hanno iniziato a colonizzare l’Africa. Mangia tu che mangio anch’io; in due o tre secoli i nostri sta-ti si sono appropriati del vasto Continente. Divi-so sulla cartina in verticale, in Occidente fecero man bassa i Francesi, in Oriente gli Inglesi. Il resto andò in bocca ai Portoghesi, Belgi, ecc. ecc. Italia-ni buoni a raccattare le miserie.

Si chiamò colonizzazione, ossia metodica e sistematica spopolizzazione di un intero Continen-te: dalle zanne di elefante ai preziosi minerali nel fondo di plutone.

Con tante immense ricchezze l’Europa ha consumato tutto: due guerre mondiali fino a vuo-tarne il barile. Ma, come si sa chi la fa l’aspetti.

Prima o poi i conti si pagano. Per secoli mi-lioni di africani hanno visto dei bianchi di ogni razza rapinare impuniti. Ora è giunto il momento che con la decolonizzazione la sorte si è inverti-ta. Popoli di colore sbarcano sulle nostre sponde. Faccendieri di ogni sorte in guanti gialli entrano in casa senza suonare a far da padroni.

L’Europa, un tempo “caput mundi” si è sui-cidata. I vertici sono a Ovest e a Est. Dietro i gran-di, altra gente verrà a far repulisti.

Quale sarà la nostra sorte di malnati Euro-pei? Sarà chi verrà a dominare l’Europa e ci sarà chi si impossesserà di tutto: case, terreni, industrie, scienza, ingegni. Sic transit gloria mundi.

Giorgio Spina

SOMMARIO

EditorialE

Giorgio Spina ..................................... pag. 1

Attualità

Amazzonia in fiammeClara Rubbi ........................................ pag. 3

AllunaggioClaudio Pestarino .............................. pag. 5

Un mare di plasticaMaria Galasso ................................... pag. 7

Mobilità privata Salvatore Nicoscìa ............................. pag. 9

Storia

Pietro MiccaAntinoris ............................................. pag. 11

Vivant DenonGiovanni Liconte ............................... pag. 12

Cultura

Un poeta controcorrenteG. S. ................................................... pag. 14H. G. Wells, scrittoreA. B. ................................................... pag. 15

VariE

Lampedusa, isola feliceClara Rubbi ....................................... pag. 16

Elaborazione del luttoMarco Cingolani ................................ pag. 18

Riti FunEbri

L’era del bronzoSalvatore Nicoscìa ............................. pag. 22

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Francesco Massimo Tiscornia

già Ordinario emerito di Bioetica

Avvocato del Foro di Genova

Comitato Scientifico

Enzo Baldini

Docente Universitario di Storia delle DottrinePolitiche

Luisella Battaglia

Docente Universitario di Bioetica e Filosofia Morale

Giuseppe Benelli

Docente Universitario di Filosofia del Linguaggio

Giovanna Rotondi Terminiello

Storico dell’Arte

Michele Schiavone

SO.CREMFondata il 14 Aprile 1897

eretta in Ente Morale con R.D. del 13 Aprile 1902

Sede:

Via Lanfranconi, 1/4 - 16121 Genova

Tel. 010 562072 - 593174

Fax 010 5962000E-mail: [email protected]

internet: www.socrem-genova.org

ConsiglieriMarco Cingolani, Maria Galasso,

Clara Rubbi, Enrico Sparviero,

Giorgio Spina, Davide Zucca

COMITATO di CONTROLLO

Ivano Malcotti Membro

Luigi Santori Membro

DIREZIONEGiulia Mangiarotti Direttore

Clara Rubbi Redattore capo

Comitato di Redazione

Giorgio Spina Direttore Responsabile

Edoardo Vitale Fondatore

Autorizzazione del Tribunale di Genova n° 20/98Periodico edito dal Centro Studi della SO.CREM

“La Scelta”

Mauro Peirano

Marco Cingolani

Maria Galasso

Giulia Mangiarotti

Salvatore Nicoscìa

Manuela Ferrari

GLI ARTICOLI POSSONO ESSERE RIDOTTI DALLA REDAZIONE A SUO INSINDACABILE GIUDIZIOI MANOSCRITTI NON PUBBLICATI NON SI RESTITUISCONO

GLI AUTORI SI ASSUMONO LA RESPONSABILITÀ DEGLI ARTICOLI FIRMATI

Salvatore Nicoscìa Vice Presidente

CONSIGLIO di AMMINISTRAZIONE

Flora Pistelli Barbis Segretario

Mauro Peirano Presidente

A QUESTO NUMERO:

HANNO COLLABORATO

Claudio PESTARINO

Giovanni LICONTE

Questo periodico è associato all’Unione Stampa Periodica ItalianaGrafica e Stampa: Tipolitografia TORRE - Genova

MEDAGLIA D’ARGENTOCOMUNE DI GENOVA

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La grande foresta. Situata alle

latitudini equatoriali, l’Amazzonia deve

la sua unità alla foresta e all’acqua,

intimamente legate l’una all’altra.

La foresta forma un blocco compatto

dall’Atlantico alle Ande e forma

gallerie di alberi giganteschi a foglie

persistenti, ricche di liane, di piante

parassite e di specie tanto diverse e

tanto numerose da confondere anche

i botanici. La foresta ha anche una

notevole varietà di aspetti: sulle rive dei

fiumi, sui terreni paludosi si sviluppa

la foresta dei cosiddetti “igapòs”, i

cui alberi inestricabilmente intrecciati

s’inclinano al di sopra delle acque,

ingombrando i bracci fluviali al punto da rendere

difficile il passaggio anche alle piroghe. Questo

tipo di foresta, che raggiunge una ventina di metri

d’altezza, cresce su terreni alluvionali recenti,

incessantemente erosi e continuamente rinnovati.

Dove le piene giungono solo una volta

all’anno, dove l’umidità è meno forte e il terreno

più consolidato, cresce una foresta, che contiene

alcuni degli alberi più preziosi: piante di cacao

selvatiche e soprattutto l’albero del caucciù.

I primi esploratori viaggiando lungo i corsi

d’acqua conobbero solo la foresta d”’igapo” e

quella di varzea e videro dell’Amazzonia brasiliana

solo l’aspetto, che mostra in vicinanza dei fiumi.

Ora noi sappiamo che esiste un terzo volto

dell’Amazzonia: la foresta detta di “terraferma”.

Al di sopra di un sottobosco molto folto s’innalzano

alberi di venti o trenta metri, dominati a loro volta

dalla cupole frondose di alberi giganteschi, che

raggiungono anche i settanta metri di altezza: sono

il mogano, il palissandro e il castagno, di cui si

raccolgono i frutti.

Nella foresta vivono uccelli dai colori

smaglianti, farfalle meravigliose, scimmie, rettili,

giaguari, ma anche insetti temibili come le zanzare,

che trasmettono la malaria.

Ma l’Amazzonia non è tutta foresta. Ci sono

anche ampie zone di savana, popolate da animali

commestibili. Altrove, particolarmente alla foce

del Rio delle Amazzoni, la lentezza con la quale

si abbassano le acque impedisce la crescita degli

alberi e favorisce la formazione di praterie paludose,

AMAZZONIA IN FIAMME· A T T U A L I T À ·

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molto pericolose per chi tenta di attraversarle. Si

incontrano anche grandi formazioni di palme di

varie specie.

La letteratura brasiliana contrappone la

selva, detta anche inferno verde, ai fiumi. Sono

i fiumi che hanno permesso la penetrazione del

territorio e che favoriscono l’utilizzazione delle

ricchezze forestali. Le dimensioni del Rio delle

Amazzoni sono impressionanti. Ma la velocità

delle acque è scarsa .Il fiume raggiunge l’Oceano

con vari rami, più o meno navigabili, e quando

entra nell’Atlantico ne attenua la salinità. Ci sono

anche molti affluenti, che formano un’eccezionale

rete navigabile, che i transatlantici possono risalire

sino a 1200 chilometri verso l’interno. Esistono

anche battelli a vapore, che arrivano sino nel Perù.

Le piroghe, invece, si insinuano negli stretti bracci

del fiume, ingombri di liane, ninfee, mangrovie, di

tronchi d’albero.

Il clima dell’Amazzonia è caldo e umido,

poco sopportabile, almeno per gli Europei.

Di recente si è verificato una vasto incendio,

che ha messo a fuoco gran parte della foresta.

Sembra di origine dolosa. Al posto della splendida

foresta si vogliono costruire abitazioni e campi

coltivabili,secondo la spietata logica del profitto.

Tutte le nazioni si sono trovate concordi

nell’affermare che quell’immenso territorio,

occupato da sterminato foreste e savane, è

il polmone dell’umanità. Purtroppo, misere

speculazioni stanno radendo al suolo un patrimonio

planetario che può assicurare la vita dell’uomo

sulla terra.

Clara Rubbi

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Nella notte tra il 20 e il 21 Luglio 1969 per la prima volta nella storia un essere umano (in questo caso gli astronauti statunitensi N. Armstrong e E. Aldrin) metteva piede sul suolo lunare mentre il terzo componente della spedizione (M. Collins) osservava all’interno della navicella rimasta nell’orbita lunare: era il momento apicale della missione NASA Apollo 11, a sua volta evento culminante del lungo e complesso programma spaziale Apollo avviato da John F. Kennedy nel celebre discorso tenuto nel 1961. In questo mezzo secolo l’impresa lunare è stata analizzata e celebrata in maniera ampia e approfondita, ma in motivazione tendenzialmente decrescente: risulta infatti che dagli anni Ottanta in poi l’interesse terrestre per la Luna sia andato costantemente scemando.

Da alcuni anni a questa parte tuttavia si assiste a una inversione di tendenza, ossia a un lento ma sostanziale ritorno di interesse a livello internazionale per il satellite terrestre. Ne è testimonianza la Missione cinese che a fine del 2018 ne ha raggiunto e fotografato il lato non

illuminato. Un’altra interessante prospettiva è quella legata alla possibile costruzione di una Base lunare di appoggio per il 50° anniversario del primo allunaggio umano e le ragionevoli prospettive scientifico-tecnologiche per un ritorno dell’essere umano sul satellite terrestre sono stati uno dei temi portanti della 3/\ edizione del “Festival dello Spazio” tenutosi a fine luglio nella Villa Borzino di Busalla. Ampio spazio alla celebrazione dei 50 anni dell’allunaggio è stato dedicato anche dalla RAI TV e da numerosi altri Canali televisi italiani.

In maniera sintetica l’enorme valenza del primo sbarco umano sulla Luna riguarda tre differenti ambiti: quello scientifico-tecnologico, quello geopolitico e quello culturale.

1-A monte dell’impresa lunare c’è stato un imponente sforzo scientifico-tecnologico in cui tra l’altro si assistette a uno dei primi impieghi davvero massicci delle tecnologie elettronico-informatiche.

2- A fianco del significato scientifico-tecnologico va poi ovviamente menzionato quello geo-strategico e politico-militare dell’impresa lunare americana: dopo una serie di brucianti sconfitte rimediate sul campo dagli USA nella seconda metà degli anni Sessanta, essi riuscirono a capovolgere la situazione e a vincere in pratica la “corsa allo spazio”.

3- Non va infine dimenticato il significato culturale del primo allunaggio umano che consentì in maniera nuova non soltanto il nostro satellite ma anche il rapporto stesso tra essere umano e

A CINQUANT’ANNI

DALL’ALLUNAGGIO

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universo.Un interessante e recente documentario

scientifico televisivo di matrice anglosassone si concludeva con l’affermazione che abbiamo bisogno della Luna. Non a caso da alcuni anni il nostro satellite sembra tornato al centro dell’interesse delle principali Agenzie spaziali internazionali. A guidare questo trend sembra comunque la Cina. Basti pensare alla Sonda Chang e al suo Rover poeticamente soprannominato “Coniglio di Giada” che tra la fine del 2018 e l’inizio del ‘19 ha fotografato in maniera assai più esaustiva il lato non illuminato della Luna.

La “riconquista” terrestre della Luna punta sui seguenti obiettivi in cui si intrecciano considerazioni di ordine squisitamente pratico:

1- l’impianto di laboratori scientifici avanzati sul territorio lunare;

2- l’utilizzo del satellite come Osservatorio astronomico privilegiato;

3- l’incremento del cosiddetto “turismo spaziale”.

Naturalmente gli ostacoli da superare non sono pochi: dalla distanza Terra-Luna che corrisponde a 384.000 km.; alla pericolosità dei raggi cosmici: la caratteristica rugosità della superficie lunare stessa ricca di crateri e di mari di matrice fondamentalmente basaltica ma con

presenze di titanio, zirconio e “terre rare”, più rilevanti rispetto alle omologhe rocce terrestri.

Più in generale la Luna sembra poter costituire un’ottima base di partenza per future e più profonde esplorazioni dirette, non soltanto robotiche, ma anche umane del sistema solare tese alla progressiva colonizzazione terrestre di sempre più ampie aree a cominciare dal citato Marte, il pianeta meno dissimile dalla Terra. Una colonizzazione tutt’altro

che agevole per evidenti motivi di natura fisico-chimica soprattutto a causa del progressivo degrado eco-climatico di una Terra abitata da una popolazione che si avvia all’impressionante quota di dieci miliardi di individui.

Chi vivrà vedrà. I tempi previsti al traguardo non sono brevi, le risorse finanziarie e gli sforzi tecnico-scientifici risultano non ancora all’altezza e le criticità devono essere in grado di richiamare l’attenzione dei politici e dell’opinione pubblica sui progetti di esplorazione spaziale. Comunque, sembra opportuno osservare che ancora una volta Scienza & Tecnica, naturalmente se usate in maniera appropriata, possono contribuire a risolvere problemi di così vasta portata altrimenti ingovernabili.

Claudio Pestarino

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Un grande problema quello della plastica nel mare. Problema che esige una attenta analisi delle cause, delle conseguenze e infine delle soluzioni che vanno ricercate e proposte, soprattutto da chi si occupa di questo problema dal punto di vista scientifico.

L’Unesco ci ricorda il fragile equilibrio della vita animale e vegetale che è scosso dalla concentrazione sempre più elevata di plastiche di ogni tipo, che mette a rischio una catena alimentare di grandi proporzioni, di cui si cercherà di dare notizie.

La storia della plastica risale alla seconda metà del XIX secolo.

La sua produzione si diffonde e deve la sua crescita allo sviluppo tecnologico e alla competitività dei costi per la sua trasformazione.

Se potessimo filtrare tutte le acque salate del mondo, verremmo a conoscenza che ogni chilometro quadrato di esse contiene circa 46.000 micro particelle di plastica in sospensione. Si tratta di dati allarmanti in continua crescita.

Ricordiamo poi che la produzione di plastica nel mondo fa registrare in questi ultimi anni una graduale crescita.

La plastica è uno dei simboli industriali più utilizzati; si connota come un prodotto sintetico a più lunga conservazione e quindi è logico pensare che si degrada solo in tempi lunghissimi.

Si parla di centinaia di anni. Ricordiamo che solo il 20% della plastica prodotta è stato riciclato o incenerito. La parte restante si è depositata come scarto a terra e in acqua. Finiscono nei mari dai 4 ai 12 milioni di tonnellate di plastica, causa di grandissimo inquinamento marino. Molti rifiuti

plastici vengono sospinti dal vento, altri veicolati da scarichi urbani e dai fiumi. Altri rifiuti plastici vengono portati dalle navi.

Tutto ciò che finisce in acqua si spezza in frammenti, tanto più piccoli, quanto più forte è l’erosione delle correnti marine.

Anche il più piccolo di questi frammenti, pari ai 5 mm di diametro, procura la morte per soffocamento di molti pesci e uccelli marini, che ingeriscono le particelle di plastica scambiandole

per cibo. La conseguenza di tale fenomeno ci porta a ritenere, come gli esperti dicono, che 115 specie marine sono a rischio.

Prima di chiederci se ci sono rimedi possibili per ridurre l’uso della plastica, è giusto ricordare che negli ultimi anni sono state scoperte le bioplastiche, a ridotto impatto ambientale.

Esse derivano dalla trasformazione dei polimeri derivati dal mais e altre specie vegetali. I dati ci dicono che nel 2050 si produrranno più di 25.000 milioni di tonnellate di rifiuti plastici, derivanti per la maggior parte dai rifiuti domestici. Questo comporterà che ci saranno in tutti gli oceani più frammenti di plastica che pesci.

Possiamo contribuire a ridurre la quantità di plastica che finisce in mare? E come?

Occorre sicuramente cambiare le nostre abitudini di acquisto.

Per es. ridurre l’uso di oggetti di plastica, scegliere il vetro al posto della plastica.

Dare significato al riciclaggio, attraverso la raccolta differenziata, inventare nuovi strumenti di utilizzo.

Certi che per salvare il pianeta, occorre

UN MARE DI PLASTICA

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ridurre il problema della plastica, analizziamo dunque le diverse modalità di proposte. Dovremmo fare uso di molti materiali naturali, che possono permettere gradualmente di eliminare l’impiego della plastica, riducendone via, via il consumo. Possiamo al posto della plastica usare carta e legno, stoffe, vetro, e alluminio, che è riciclabile all’infinito.

Negli ultimi anni si sono sviluppate diverse fibre vegetali, che, senza contaminare l’ambiente, consentono di dissolversi, in pochi giorni, a contatto con l’acqua. Ricordiamo quelle ottenute dagli amidi, dal mais, dal grano o dalle patate. Importanti sono anche quelle che derivano dalle alghe.

Alcuni esperti hanno studiato la solidificazione di alcune parti vegetali dei funghi, affinché possano essere trasformate in una struttura simile alla plastica.

La ricerca scientifica si sta orientando anche sul riuso degli scarti fisiologici per creare resistenti polimeri. Si pensa di poter ricavare bioplastica dalle feci umane, che permetterebbe di ottenere un polimero del tutto biodegradabile, resistente e duraturo. Dall’urina si potrebbe, una volta unita ad un mix di sabbia, ottenere un biostone, in sostanza un mattone che richiama i mattoni usati dagli antichi romani per gli edifici e gli acquedotti.

Cosa fanno gli Stati per dare risposta

all’inquinamento da plastica negli oceani?Molti progetti di intervento sono stati

avanzati, ma molti hanno agito sugli effetti e non sulle cause. Per intervenire invece sulle cause occorre prima di tutto ripulire i fiumi, che sono le

principali fonti di rilascio di materiali plastici nei mari e negli oceani.

La ricerca è tutta in divenire per quanto riguarda le proposte, ma spesso queste non vengono attivate perché intorno alla plastica girano moltissimi affari economici che interessano particolarmente Stati Uniti, Cina ed India che sono i principali produttori di plastica.

Con la direttiva 2015/720 si è imposto il pagamento per l’utilizzo di shopper biodegradabili e compostabili a partire dal 1° gennaio 2018. Questa direttiva ha permesso la riduzione della plastica da imballaggio.

Occorre ricordare l’impegno di Legambiente, che si occupa di monitorare la quantità di rifiuti trovati sulle spiagge italiane. La plastica è il materiale più ritrovato, pari all’84% degli oggetti rinvenuti.

Nell’ottica di un graduale miglioramento ambientale acquista grande importanza un’educazione che punti sulla informazione, sulla autoformazione, sulla comunicazione corretta da parte di tutti, nessuno escluso.

Maria Galasso

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Tra le attuali emergenze planetarie, qui viene presa in considerazione la comune sensazione che lo sviluppo di una motorizzazione privata a trazione elettrica (EV) rispetto alla tradizionale a combustione interna (ICEV) contribuisca significativamente alla riduzione dell’inquinamento abbattendo le emissioni di “gas serra”. [(GWP) global warming potential1].

È indubbio che un motore elettrico sia più efficiente di un motore a combustione interna, ma le considerazioni per giudicare i vantaggi dalla mera sostituzione del tipo di veicolo nel trasporto privato non sono la soluzione del problema. In una prospettiva di sostenibilità ambientale, si dovrebbero confrontate, in termini di emissioni di CO2, il ciclo di vita dell’intero veicolo e della filiera del vettore energetico. La valutazione delle caratteristiche di un veicolo, compatibili con l’ambiente, non si limita solo all’energia necessaria al suo funzionamento, ma anche alla quantità, qualità e tipologia delle risorse impiegate per realizzarlo, in relazione alla durata di vita e di funzionamento.

Ciò nonostante, il problema di vivibilità delle nostre città non si sposterebbe: né dal punto di vista dell’esaurimento delle risorse e delle fonti energetiche, né da quello dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici. L’espansione della produzione di vetture elettriche private, concepita sostanzialmente come sostituzione di quelle a combustione interna, non fa che mutare il nome alla causa dei problemi.

Al fine di ridurre l’inquinamento ambientale nelle città, una possibile via è quella di modificare la mobilità urbana favorendo il trasporto pubblico rispetto al privato, con politiche più accorte per ridurre al minimo la circolazione privata, nelle zone a maggior concentrazione urbana e in altri modi, laddove possibile. La valutazione comparata dei soli parametri di efficienza nell’impiego dell’energia necessaria al funzionamento di un modello nuovo rispetto

a uno datato risulta limitativa. Purtroppo, allo stato si continua a favorire

la sostituzione di vetture ancora valide con altre dello stesso tipo più prestazionali. Spesso vengono sostituiti veicoli ben funzionanti che, potrebbero con adeguate manutenzioni sfruttare i materiali e l’energia con cui furono costruite per molti e molti anni.

Alcune considerazioni sulla mobilità. •I veicoli elettrici associati a fonti di

elettricità a basse emissioni di carbonio offrono il potenziale per ridurre le emissioni di gas a effetto serra e l’esposizione alle emissioni di gas di scarico del trasporto personale.

•L’inquinamento e l’energia consumata per costruire una nuova vettura potrebbe essere compensata con una percorrenza di centinaia di migliaia di chilometri. È molto probabile che in gran parte dei casi, ovverossia, per tutte le vetture con percorrenze non particolarmente elevate, mantenerle in vita più a lungo risulterebbe vantaggioso per l’ambiente e le risorse primarie, evitando, così, la costruzione di nuove vetture.

•Il processo di riciclaggio di una vecchia vettura, con impiego di energia, permette di recuperare solo una piccola parte dell’energia e dei materiali impiegati per la sua costruzione. Una vettura elettrica rispetto ad una con motore a combustibile fossile ha dei vantaggi dal punto di vista meccanico mentre il motore elettrico e “l’apparato batterie” implicano un maggiore utilizzo di metalli e minerali più pregiati come

MOBILITÀ PRIVATA:

AUTO ELETTRICHE O TRADIZIONALI Quale la più “grin”?

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rame, cobalto, nichel, litio e terre rare, per alcuni dei quali l’approvvigionamento non è privo di criticità. Sostituire, trattare, smaltire e riciclare grandi quantità di batterie a fine vita, qualunque sia la loro natura, sembra più complicato e pericoloso che recuperare acciaio e alluminio, per l’ambiente.

•I veicoli elettrici alimentati dall’attuale mix europeo di elettricità offrono una riduzione dal 10% al 24% del potenziale di riscaldamento globale (GWP) rispetto ai veicoli diesel o benzina convenzionali con una durata di 150.000 km. Tuttavia, i veicoli elettrici presentano il potenziale di significativi aumenti della tossicità umana, ecotossicità dell’acqua dolce, eutrofizzazione dell’acqua dolce e impatti della deplezione di metallo, provenienti in gran parte dalla catena di approvvigionamento del veicolo.

•I risultati sono sensibili alle ipotesi relative alla fonte di elettricità, alla durata del veicolo e ai programmi di sostituzione della batteria.

•Ci sono molti modi in cui l’industria dei veicoli elettrici potrebbe ridurre queste emissioni legate alla produzione, tra cui: progressi nell’efficienza della produzione e nel riciclaggio o riutilizzo delle batterie agli ioni di litio; l’uso di prodotti chimici alternativi per batterie che richiedono materiali a minor consumo di energia; e l’uso di energia rinnovabile per alimentare le strutture dei produttori e dei fornitori

Da quanto riferito sin ora, attingendo alle fonti della letteratura scientifica, si può dedurre che, in un’ottica di valutazione del GWP, il contributo positivo dei veicoli elettrici dipende essenzialmente dalle fonti energetiche pulite.

Dati sovrapponibili della “Yale University” e dell’osservatorio “Energy Outlook” della BP, rilevano:

“come sia emerso che solo in pochissime nazioni al mondo (Paraguay, Islanda, Svezia, Brasile e Francia) il livello di CO2 equivalente in g/km resta compreso tra 70 e 93 - per effetto della tipologia di produzione dell’elettricità: idroelettrica, geotermica o nucleare - mentre già nel Canada si sale per gli EV a 115 g/km di CO2, con Spagna a 146 e Russia a 155. L’Italia si colloca in una zona intermedia, con un valore equivalente di 170 g/km di CO2 che è comunque molto più alto rispetto ai diesel e ai benzina. La Germania sale a 179, la Gran Bretagna a 189 e gli Stati Uniti ‘sforano’ in zona rossa (si utilizza ancora il

carbone) a 202 g/km. Male anche Messico (203) e Turchia (204) ma le cose peggiorano, e non di poco, per Cina (258), Indonesia (270), Australia (292), Sudafrica (318) e India (370) tutti Paesi che sono fortemente dipendenti dal carbone per produrre elettricità.”

Quale la situazione in Italia?Secondo gli ultimi dati diffusi dall’ Ufficio

statistico di Terna, inserito nel Sistan (Sistema Statistico Nazionale), nel 2016 l’Italia ha prodotto l’88,2% di energia elettrica, il resto, l’11,8%, è stato importato. Si stima che le importazioni

siano ancora troppo elevate per quanto riguarda gas naturale (+6,7%) e petrolio (+0,35%). In ogni caso, la composizione percentuale delle fonti energetiche impiegate per la copertura della domanda nel 2016 è stata caratterizzata, rispetto al 2015, dalla lieve flessione del petrolio (dal 34,6% al 34,2%) dei combustibili solidi (dal 7,7% al 7%), dalla diminuzione del saldo netto dell’energia elettrica importata (dal 6% al 4,8%, dall’aumento di quella del gas (dal 32,6% al 34,3) seguito da un lieve aumento del consumo delle fonti rinnovabili che passa dal 19,2% al 19,6%.

Probabilmente, alla luce di queste informazioni, la diatriba elettrico Si / elettrico No, è un modo escogitato dai produttori di autoveicoli per dare nuovo impulso ad un settore in crisi da molto tempo. La soluzione del problema della mobilità urbana ed extraurbana va ricercata altrove.

Salvatore Nicoscìa

Note1 GWP (global warming potential) potenziale di riscalda-mento globaleBEV “Battery electric vehicle” auto che hanno esclusiva-mente il motore elettricoPHEV “Plug-in Hybrid Electric Vehicle” sono auto che han-no sia il motore elettrico sia il motore a benzinaICEV (veicoli a motore a combustione interna).”

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Le due guerre di secessione ai troni di Spagna e di Polonia arrecarono lutti e sciagure in tutta Europa funestando i sofferti decenni del Settecento. Quella al trono di Spagna, scoppiata agli inizi del secolo, si era già protratta da cinque anni quando il fragore delle armi si avvicinò al Piemonte dei Savoia che, transfughi dall’alleanza con la Francia, provocarono le sue più dure ritorsioni.

Infatti un’armata francese, giunta a Torino,mise la città sotto assedio. Forti quattro volte le difese cittadine, le truppe francesi ridussero la città al collasso, devastata dalle artiglierie, ridotta all’inedia. Erano trascorsi quattro mesi dal micidiale pugno di ferro allorché, decisi a stroncare fino all’ultimo sangue la città allo stremo, gli invasori decisero di ridurre alla resa la sua più munita area di difesa, la ben nota Cittadella, bene armato fortilizio eretto nel 1564 per volere del duca Emanuele Filiberto. Granatieri francesi riuscirono a superare l’avanfosso dei sotterranei dove un umile minatore torinese, arruolato come soldato semplice nell’ esercito sabaudo del duca Vittorio Amedeo, faceva buona guardia, determinato a respingere il nemico, costi quel che costi.

Era un’afosa notte di agosto del 1706, 313 anni or sono. Inginocchiato con una fiammella in mano, accanto a un deposito di polveri, come l’iconografia ce ne ha tramandato l’immagine, il giovane minatore Pietro Micca di soli 29 anni, diede fuoco al deposito. Scomparve nel rogo, ma fermò i Francesi che, nell’impossibiità di espugnare la città, furono costretti ben presto a tornare nei confini, armi e bagagli.

Nato a Sagliano il 5 marzo 1677 da famiglia povera e numerosa, Pietro Micca si era fatto minatore a forza di muscoli, a battere granito, dienite, porfido e diorite. Aveva messo su famiglia a Torino e apprese come usare gli esplosivi grazie alla preparazione di caserma assumendo il titolo di minatore sabaudo.

In memoria dell’evento, tra Sette e Ottocento, fu un tutto di esaltazioni dell’eroe,

osanna, lodi sperticate da storici, letterati e memorialisti; furono scritti romanzi, poesie, opere teatrali; furono dipinti, quadri, eretti monumenti e lapidi. Fu visto come un antesignano delle future gesta risorgimentali contro il nemico oppressore della patria. Garibaldi onorò l’eroico minatore con una lapide sul frontone della casa natale di Sagliano. La città di Torino gli tributò meritati riconoscimenti intitolandone una delle sue vie principali e aprendo un museo.

Ma non furono tutti disposti a levare in cielo le lodi del mondo come quelli che non si sprecarono a metterlo sugli altari. Col tempo, all’enorme lavoro dei cronisti si aggiunse il giu-dizio di Giuseppe Maria Solaro della Margherita, che lo collocò nelle giuste posizioni del patriota disposto a morire. Purtroppo ci fu anche chi, se non lo detrasse, non si sprecò a ridimensionar-lo, come i Savoia, alcuni dei quali si macchiaro-no di ingratitudine. Nera ingratitudine quella dei governativi che furono sordi alle suppliche della vedova rimasta in povertà con i bimbi in braccio. Dopo lunga attesa di un sussidio legittimo ottenne un buono per due razioni di pane al giorno: “due rate di pane militare in perpetuo”

Lo scrittore Carlo Botta, in un fremito di rabbia per siffatto “onore” postumo, scrisse: “Il pane si dà ai poveri, non agli eroi”.

G. Antinoris

PIETRO MICCA, MINATORE TORINESE

ANTICIPO’ LE GESTA RISORGIMENTALI

· S T O R I A ·

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Come spesso accade a chi frequenta gli archivi, effettuando una ricerca su un argomento alle volte si può incappare in altro, ovvero trovare documenti fuori posto e fuori contesto che si rivelano molto più interessanti di quelli che si stavano cercando. Così è accaduto anche a me. Mentre cercavo testimonianza dell’esistenza della razza di vacche cabannine nel Dipartimento degli Appennini (con capoluogo Chiavari) tra il 1800 e il 1814, presso l’Archivio di Stato di Genova, mi sono imbattuto in un incartamento decisamente fuori posto. Si trattava, in effetti, di un carteggio relativo alla valutazione di alcune opere d’arte che sarebbero state acquistate dal “Museo Napoleon” dopo la soppressione degli Ordini religiosi nei territori dell’Impero Francese, nel 1811. Queste opere erano state scelte, nel viaggio appositamente organizzato e che risulterà essere l’ultimo, da Vivant Denon, direttore, amministratore, inventore ecc., ecc., del “Musée Napoleon”, ovvero del moderno Louvre. I documenti trattavano di alcuni capolavori che Denon aveva visionato a Genova (ma non solo), con le relative disposizioni per il trasporto in sicurezza e le cifre che dovevano essere corrisposte al Comune di Genova, a cui erano stati affidati dopo l’eliminazione degli Ordini sopracitati.

Ma facciamo un breve passo indietro, per delineare le circostanze dell’appropriazione delle opere d’arte conosciute come “spoliazioni napoleoniche” e per meglio conoscere un protagonista del mondo culturale del tempo, quale era Vivant Denon.

La spoliazione dei beni culturali e dei simboli dei popoli vinti era già praticata dagli eserciti dell’antichità, Grecia e Roma soprattutto, ma tutti i popoli la praticarono praticamente sempre.

Portare al proprio paese le opere d’arte del nemico era segno di grandezza e superiorità, appropriarsi degli Dei degli avversari, in forma di sculture o altro serviva a dimostrare la volontà dei propri dei che la vittoria arridesse a loro. Così, con la Rivoluzione francese, la cui classe dirigente dichiarava di ispirarsi alle grandi Repubbliche dell’ antichità, dopo i primi saccheggi indiscriminati si fece strada l’idea dell’Arte come patrimonio universale, che doveva essere concentrata nel luogo della Libertà, dove tutti avrebbero potuto fruirne e trarne ispirazione per il futuro. Quel luogo era, ovviamente, la Repubblica Francese, unico posto al mondo dove gli ideali di universalità e libertà si erano resi concreti. Pertanto si decise di individuare un sito in cui si potessero esporre le opere acquisite e che fosse fruibile da chiunque. E cosa c’era di meglio del palazzo del Louvre? Già destinato ad ostello per artisti, questi ultimi vennero traslocati poco lontano e gli immensi spazi dell’antico Palazzo Reale trovarono nuova vita.

Dominique Vivant Denon, nacque a Chalon-sur-Saone nel 1747, in una famiglia agiata, legata alla Corte Reale, che gli permise di completare gli studi in legge, terminati i quali fu avviato alla carriera diplomatica. Ciò gli permise di viaggiare e soggiornare a lungo in molti paesi d’Europa e, una volta arrivato a Napoli, vide gli inizi degli scavi di Pompei effettuati dai Borboni e riuscì ad acquisire alcuni reperti archeologici che trasferì a Parigi. Fu inoltre un brillante scrittore “libertino” e il suo romanzo più famoso “Point de lendemain” è tuttora pubblicato in varie lingue. Grazie ai suoi studi, alle sue amicizie e protezioni riuscì ad attraversare indenne il periodo rivoluzionario

VIVANT DENON ED IL DIOGENE PERDUTO

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e ad entrare nel salotto di Josephine Beauharnais, dove conobbe Bonaparte, ed ebbe poi la possibilità di seguirlo in Egitto, durante la spedizione del 1798.Tomato in patria, nel periodo del Consolato e dell’Impero, Denon ottenne l’incarico di organizzare e curare il nuovo Museo Nazionale del Louvre, denominato poi Musée Napoleon. Fu in questa veste che, nel 1811, intraprese il suo ultimo viaggio in Italia per acquisire ulteriori opere (questa volta pagando le) da destinare al museo, approfittando, come già detto sopra, anche dello scioglimento degli ordini religiosi, voluto dall’Imperatore, e dall’acquisizione delle opere d’arte possedute da questi da parte dei Comuni.

In questo contesto, dunque, si inserisce il documento ritrovato all’Archivio di Stato di Genova.

Nella prima parte delle lettera, datata 15 settembre 1812, ed indirizzata al Prefetto del Dipartimento di Genova, Denon chiede rassicurazioni sulla puntualità della spedizione verso Parigi delle opere acquistate, sulla cura del loro imballaggio e sull’affidabilità degli uomini incaricati del trasporto, oltre a dare alcuni consigli sul fatto di tenere al riparo le opere dall’umidità lungo il cammino. La seconda parte è, al contrario, dedicata alla risposta ad una richiesta di raccomandazione (diciamo così) che il Prefetto aveva inoltrato a Denon per cercare di far comprare al Louvre un dipinto di un pittore italiano, il vogherese Paolo Borroni. Nella sua cortese risposta, Denon dice di non poter prendere decisioni in merito all’acquisto, in quanto l’ultima parola spetta all’Imperatore, ma suggerisce di chiedere al pittore di inviare il dipinto in oggetto, ad una esposizione di pittori “Moderni” che si sarebbe tenuta a Parigi nel prossimo ottobre. In tal modo “il Borroni potrà farsi conoscere e, se le critiche saranno positive, Napoleone non avrà contrarietà a concedere il suo parere positivo all’acquisto”. Fin qui la lettera. Approfondendo la ricerca su Paolo Borroni (1749- 1819), scopriamo che costui era un maestro del neoclassico, formatosi prima a Milano, come studente di Calderini, nel1761, a Parma, alla scuola di Benigno Bossi e poi nella Roma di Pompeo Batoni. Una volta

rientrato a Voghera, nel 1776, operò sul territorio con saltuari incarichi a Piacenza e a Milano, fino a quando non fu ingaggiato alla Corte dei Savoia, nel l 786, da Vittorio Amedeo III. Per lui, nel 1787 cominciò a dipingere Diogene nella botte visitato da Alessandro, che però non era ancora terminato all’arrivo dei Francesi, nel 1796. Ma proprio di questo quadro si parla nella lettera di Denon, nel 1812. L’opera, evidentemente poi ultimata, risulta oggi perduta, sebbene citata nel catalogo della Collezione Scarpa, voluto dagli eredi per la vendita all’incanto del 1895. Infatti l’acquisizione fatta dal medico Antonio Scarpa (1752-1832), grande collezionista vissuto in quegli anni, sarebbe in realtà il bozzetto preparatorio al dipinto, acquistato dallo Scarpa presso i marchesi Taccoli di Modena.

Gli interrogativi d’obbligo, dunque sono i seguenti: l’opera fu poi inviata a Parigi? Venne persa durante il trasporto? L’arrivo a Parigi era previsto prima del 25 ottobre 1812, data di inizio della mostra dei “Moderni”, ma anche il mese dell’inizio della terribile ritirata di Russia. Con il diffondersi delle notizie della disfatta è possibile che la mostra non si sia più tenuta e che le opere, ormai giunte, siano state accantonate e poi rubate o alienate dagli stessi trasportatori approfittando dello sconcerto generale?

Questo ed altro ci si potrebbe domandare. Resta comunque interessante, che un documento fuori posto, ritrovato per caso, abbia illuminato un piccolo fatto dal quale, però, potrebbe partire la ricerca di un’opera ritenuta perduta.

Giovanni Liconte

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Lo scrittore Joris-Karl Huysmans nacque a Parigi il 5 febbraio 1848 da madre francese e da padre fiammingo olandese che gli diede il nome. Orfano prematuramente, non frequentò gran scuole ma con tenacia da autodidatta si dedicò alla pittura ma soprattutto alla letteratura francese. Dopo aver partecipato poco più che ventenne alla guerra franco-prussiana che vide la Francia duramente sconfitta a Sedan, venne assunto dal Ministero degli Interni dove, da consumato burocrate, vi dedicò tutta l’esistenza.

Iniziò l’attività letteraria nel 1874 con la pubblicazione di un poemetto, Il vaso di spezie, che gli valse la stima di Emile Zola. Fu quella che possiamo definite la prima fase artistica, verista e naturalista alla quale si legarono altri titoli intorno agli anni 80, come Schizzi parigini, In Cammino e Martha, storia di una ragazza che diverrà la sua opera più famosa nel 1881 con il titolo A’ Rebours (Controcorrente). Frattanto Huysmans era passato alla fase decadente caratterizzata da depressione, tristezza, abbandono ma anche da una forte critica alla società moderna che lo accostò a Guy de Maupassant, a Baudelaire e a Stephane Mallarmè. Altri titoli di quel periodo, tra romanzi e racconti, divennero noti Le sorelle Vatard, En mènage (nella famiglia), A’Vau l’eau (Alla deriva) e Là Bas (Laggiù). Elevato ai fasti dell’Accademia su nomina di Edmond de Goncourt, Huysman passò negli anni 90 alla fase spiritualista che coagulò il tema dominante di tutta la sua opera nella figura del personaggio centrale e autobiografico “Des Esseintes”, vita della poesia, arte come vita, nel quale vengono intese e rilette tutte le composizioni fondamentali della sua opera.

Nel vagabondare dell’autore per le strade di Parigi, gli viene colta la spiccata preferenza per le vie affiancate da alti muri, per la Bièvre, sprofondata, quasi ricoperta, dagli alti argini, per le mura dei conventi, delle prigioni, degli ospedali,

dei manicomi. Il gusto per il Medioevo entra da privilegiato nell’epoca in cui vive e diventa sua; un’epoca in cui l’uomo è come racchiuso nel suo rapporto diretto con il cielo.

Controcorrente è allora il libro chiave e la produzione di Huysmans non farà che confermarlo. L’immagine spirituale ed estetica coincideranno sempre più nello scrittore. Una Tebaide popolata di libri, di oggetti raffinati, di spiriti eletti, di eruditi, di artisti. Il romanzo come genere, scrisse Huysmans, si deve dividere in due parti saldate tra loro, fuse come lo sono nella vita l’anima e il corpo. La barra che divide il soggetto è la diagonale che ci permette di penetrare nel suo più celebre lavoro di saggistica, Controcorrente, che ebbe gli allori nel 1884.

Tra gli scrittori delle successive generazioni, notevole l’influsso di Huysmans su Paul Verlaine, Paul Clodel, François Mauriac, Paul Verlaine e Jacques Maritain.

Huysmans si spense il 12 maggio 1907 a 59 anni.

G.S.

UN POETA CONTROCORRENTE

· C U LT U R A ·

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Wells, scrittore facondo del tardo Ottocento, poligrafo sulle varie discipline culturali e storiche del tempo, famoso soprattutto per i capolavori che diedero vita al genere fantascientifico, nacque il 21 settembre 1866 a Bromley, nel Kent. Ambiente povero, casa povera, bottegaio il padre, cameriera la madre. Costretto a letto a lungo per un grave incidente, si dedicò con crescente passione alla lettura. Commesso in un negozio di tessuti a Windsor, poi in una farmacia, studente della “Midhurst Grammar School” (1883-84), il giovane “Berty’’, grazie a una borsa di studio, ebbe la buona sorte di entrare nella prestigiosa “Normal School of Science and Technology” di South Kensington (Londra) dove fu allievo del famoso biologo Th, H.Huxley, a sua volta allievo di Charles Darwin.

Wells sognava di diventare uno scienziato e lo divenne davvero con gli approfondimenti che via via raggiunse nel campo della biologia e poi in quello della fisica. Diventato uno dei primi aderenti al movimento del socialismo scientifico, ma soprattutto filantropo, volto a prevedere il futuro, Wells fu convinto di gettare un ponte sull’abisso di tempi calamitosi e di rifare il mondo. Iniziò a scrivere su riviste, poi libri senza soluzione di continuità, fino alla fine, su tutti i problemi che si affacciavano nell’evolversi della vita sociale: i problemi politici di fine secolo, la Grande Guerra, il comunismo (accolto in un primo momento per l’amicizia con Maxim Gorki, poi respinto come marxismo leninismo), le netta opposizione alle altre due dittature, la seconda guerra mondiale e i tempi nostri in nome della scienza che a parere di noi tutti può assicurare all’umanità una vita ideale nel giardino dell’Eden ma può anche celare l’abisso pronto a inghiottirla nelle sue fauci. Infatti, per Wells il mondo è meraviglioso ma se appena gli uomini si lasciano inebriare dalle sue infinite scoperte inutili, ecco che si dimentica di quante mostruosità esse nascondano.

Acquisita una vera mentalità scientifica in grado di prevedere il futuro, svolse con inesauribile “verve” una carriera di docente e di scrittore. Laureato nel 1890, per poco tempo insegnante in una scuola di provincia, lasciò ben presto la scuola per dedicarsi interamente alla penna. Redattore di un periodico socialista. poi di uno universitario, e ancora fondatore di riviste culturali e scientifiche, una dopo l’altra, ebbe una vita privata alquanto movimentata: sposato con la cugina Isabel nel 1891, si separò nel 1894 per sposare l’anno dopo la sua allieva e poi collaboratrice Amy Catherine Robbins dalla quale ebbe due figli: George Philip e Frank Richard.

La sua bibliografia registra ben centodieci libri e altrettanti saggi su riviste e giornali. Iniziò con libri di ricordi come il negozio di tessuti in Kipps, la farmacia in Tono Bungay, la scuola in Love and Mr. Evisham, per avviarsi a scritti di biologia come il Text Book of Biology. Affrontò problemi sociali e umani come Ann Veronica, e politici come Guide to the New World e Intermezzo del 1927, primo romanzo antifascista inglese.

Il maggiore impegno di Wells e il suo grande successo furono la genialità delle sue previsioni dei suoi moniti. In una parola, la sua fantascienza di cui fu l’iniziatore. La macchina del tempo, del 1895, lo consacrò come scrittore popolare. Seguirono L’Isola del Dr. Moreau, 1896, L’uomo invisibile, 1897 The war of the Worlds,1898, I primi uomini sulla Luna, 1901, Nei giorni della cometa, 1906, e altre ancora fino a The Conquest of Time, 1942.

Concluse l’incredibile carriera con raccolte di racconti apparse per diversi anni fin dal 1897.

Dopo una vita di intense illuminazioni profetiche e di grandi verità, ma anche di comprensibili contraddizioni giornalistiche, Wells si spense il 13 agosto 1946 a 80 anni.

A.B.

H.G. WELLS CINQUANTANNI A SCRIVERE LIBRI

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LAMPEDUSA, ISOLA FELICENoi conosciamo Lampedusa dalle cronache

televisive che descrivono gli sbarchi continui di

profughi provenienti dall’Africa, quindi un’isola

popolata da poveracci affamati, magari questuanti,

in cerca di un futuro migliore.

L’idea di andare in vacanza a Lampedusa

è parsa, ai miei parenti ed amici, per lo meno

bizzarra. Ma io ero decisa, anche perché il viaggio

si presentava molto comodo in aereo, che parte

dall’aeroporto di Genova e dopo novanta minuti

arriva a Lampedusa.

Hotel a quattro stelle, poco distante dalla

spiaggia di sabbia finissima. Mare di un azzurro

intenso, molto pulito, con eventuali meduse di

contorno. Tutti gentilissimi, a nostra disposizione

(ero con un’amica, che ha il mio stesso spirito

avventuroso); prima di tutto una visita in centro

paese, dove arriviamo in macchina, accompagnate

dal proprietario dell’hotel. Anche nel “centro”

ricco di negozietti carini non c’è traccia di

migranti. Allora è d’obbligo chiedere al nostro

accompagnatore, dove mai fossero i “migranti”.

Ci spiega che a Lampedusa non ci sono, perché,

appena sbarcano, vengono imbarcati nuovamente

e ricondotti in Tunisia, con una certa quantità di

soldi, gentilmente forniti dai fondi europei.

Ci consiglia di andare a vedere la clinica

delle tartarughe: sono enormi, ma un po’

malridotte per aver ricevuto colpi dai motoscafi

o altre imbarcazioni. Hanno un carapace che pesa

circa trecento chili, si muovono con una lentezza

esasperante. Ci dicono che, quando saranno guarite

e saranno deposte sulla spiaggia, a poco a poco

ritorneranno in mare, dove nuotano con incredibile

leggerezza.

Girando per il paese facciamo uno

strano incontro: un vecchio signore ci offre

due immagini della Madonna e c’invita a

pregare con lui. Potevamo dire di no? Dopo la

preghiera ci salutiamo con abbracci e baci. E’

tempo di rientrare, ma ... abbiamo smarrito il

numero di cellulare, utile per chiamare l’hotel.

Fare il ritorno a piedi non era consigliabile,

perché l’acciottolato avrebbe messo a dura

· VA R I E ·

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prova le nostre caviglie. Che fare? Vediamo una

stazione dei carabinieri: entriamo e spieghiamo

il nostro problema. Subito il carabiniere di turno

apre un libro, dove trova il numero dell’hotel, che

chiama e poi con molta gentilezza ci accompagna

alla porta. Viaggiare è come vivere: mai perdersi

d’animo.

L’isola è molto bella: nella parte alta c’è tanto

verde. Non per nulla ci sono ville di personaggi

del gran mondo: le ville di Silvio Berlusconi, di

Claudio Baglioni e della famiglia Modugno. Ma

purtroppo c’è anche una zona militare recintata,

occupata dalle truppe americane. Mi viene in

mente una frase classica, quella che Brenno disse

ai Romani sconfitti:” Guai ai vinti!”

Ma non pensiamo a queste malinconie. E’

meglio godere aria immune da smog, asciutta e

profumata, in attesa d’imbarcarci su un battello,

che ci farà fare il giro dell’isola ricca di grotte e di

speroni rocciosi.

Parlare delle mangiate pantagrueliche,

che abbiamo fatto al chiaro di luna nel ristorante

dell’hotel, sarebbe banale. Unico inconveniente;

se non si mangiavano tutte le numerose portate,

il cuoco e il capo cameriere si offendevano...

Comunque siamo sopravvissute.

Clara Rubbi

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Nella società odierna aleggia un riserbo totale che crea una assoluta insensibilità di fronte alla morte e al lutto e a relazionarsi con i superstiti, per cercare di farsi interpreti del loro bisogno di dialogo, spesso nascosto ed inespresso.

Si tratta di eventi che prospettano problematiche complesse, alcune di stampo antico e altre del tutto nuove, ma la tendenza più diffusa è quella di emarginarle dalla dimensione sia individuale che collettiva della vita.

Siamo costretti a prenderne atto solo quando una malattia grave, la perdita di una persona che amiamo e il dolore per la sua morte, ci fanno toccare con mano e da vicino questa situazione; solo allora comprendiamo quanto sia grande la solitudine che ci avvolge e come siamo impreparati ad affrontare la sofferenza e la disperazione.

Negli ultimi decenni le circostanze economiche, sociali, storiche, politiche, etiche, religiose e scientifiche sono radicalmente mutate ed hanno completamente modificato i nostri parametri culturali e i nostri universi simbolici di riferimento, estromettendo dalle nostre coscienze e dalle nostre abitazioni la dimensione della morte, che è e rimane un mistero irrisolvibile.

Per comprendere la profonda trasformazione

avvenuta in questo periodo, basta pensare che fino alla prima metà del secolo scorso si moriva prevalentemente in casa e l’avvicinarsi della morte era vissuto come un evento dinamico, trasformativo e socialmente condiviso.

Le persone amiche e i parenti avevano il compito di accompagnare il morente e sostenere la famiglia durante la malattia e, dopo la morte, nella fase del lutto.

Oggi le persone muoiono in ospedale, senza possibilità dì avere uno spazio libero e protetto di condivisione, di vicinanza fisica ed affettiva tra il malato e i suoi cari.

Anche i riti funebri si svolgono troppo spesso in un clima di meccanica doverosità, di estraneità emotiva al contenuto spirituale del rito, oscillando tra riserbo e disagio.

Familiari, parenti e amici, specialmente nelle aree urbane, ritornano frettolosamente alla propria vita abituale, a scapito della comunicazione e della condivisione dell’affettività con gli altri, senza più il sostegno di un universo simbolico di riferimento di natura collettiva; anche il singolo individuo non riesce più a trovare le parole per accompagnare il morente, per sostenere e consolare i familiari, nè si concede spazio e tempo per vivere la sofferenza

ELABORAZIONE DEL LUTTO

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del lutto e confrontarsi con la propria morte.Di fronte a questo panorama culturale

e umano viene da chiedersi se la situazione attuale rappresenti un’evoluzione positiva o un’involuzione, e se si pensa che sia inadeguata è bene cercare con maggiore consapevolezza e responsabilità nuove e personali risposte creative, che potrebbero diventare nel tempo nuove ritualità collettive.

Nel nostro Paese già da alcuni decenni le associazioni di volontariato si stanno muovendo in tal senso e recentemente anche lo Stato, con la legge sulle cure palliative, ha incominciato a promuovere nuove forme di assistenza e di cura per l’accompagnamento dei morenti e per contrastare l’isolamento e la sofferenza delle persone in lutto.

Il compito però non è per nulla facile, perché le nostre componenti umane ed umanitarie sono sempre più soffocate da dinamiche economiche, tecnologiche e consumistiche, divenute ormai prevalenti.

Nel linguaggio comune lutto e cordoglio sono due termini equivalenti, usati senza alcuna distinzione, ma in realtà il cordoglio ha una particolare connotazione di significato, poiché con questa parola si intende lo” spasmo del cuore”, metafora che indica sia la sofferenza sul piano fisico, che quella psicologica verso la persona deceduta.

Sicuramente il cordoglio si distingue per la definitività e irrecuperabilità della perdita.

Con la parola lutto si intendono invece sia i rituali collettivi, sia le pratiche sociali e pubbliche, che vengono svolte nelle diverse culture, sia l’insieme delle reazioni psicologiche e dei comportamenti individuali che si sperimentano a causa della morte di una persona.

Il lutto è un’esperienza psichica universale, che tutti incontrano nel corso dell’esistenza e sempre più frequentemente con l’avanzare dell’età, ma che viene vissuta in tempi e modi molto personali e differenti.

La risposta al lutto varia enormemente da una persona all’altra e, mentre alcune soffrono di un danno duraturo per il loro stato mentale, sociale e spirituale, altre portano il lutto nel loro cammino

a ogni passo; altre ancora diventano più mature e più efficienti di quanto fossero prima di questa esperienza.

In qualsiasi modo il lutto sia espresso, sicuramente la morte di una persona che ha avuto un ruolo importante nella nostra vita genera difficoltà che scuotono profondamente, come un terremoto cui seguono le scosse di assestamento, metafora che sottolinea la profondità della perdita e il peso di un’angoscia, che fa vacillare ogni equilibrio all’esterno e nell’intimità più profonda dell’individuo.

Il decorso psicologico del lutto dipende da molti fattori, alcuni legati alle circostanze della malattia e alle modalità del decesso, altri ad elementi eminentemente personali e relazionali, indipendenti dalla malattia e legati alla vita trascorsa insieme.

I più significativi sono l’età, il ruolo ricoperto in famiglia, la qualità della relazione, le risorse e le caratteristiche personali, le risorse del contesto familiare, le risorse del contesto ambientale ed infine i lutti vissuti in precedenza e la loro modalità di risoluzione.

È importante sottolineare che l’elaborazione del lutto è influenzata anche dalle esperienze relazionali che si svolgono nel corso della malattia, legate al tipo di assistenza, di comunicazione e di scambio emozionale che si riescono a creare, motivo per il quale per alcuni studiosi va distinta una prima fase di lutto anticipatorio, quando ci si prepara e ci si confronta con l’evento della perdita, e una seconda fase di lutto vero e proprio, dopo la morte della persona cara.

Il termine lutto anticipatorio è quella fase del cordoglio che aiuta a prendere coscienza di quanto sta accadendo, e pur mantenendo gli elementi positivi del rapporto.

Il processo del lutto anticipatorio è presente non solo nei familiari, ma anche nella persona malata, che sperimenta la pena profonda che deriva dalla consapevolezza di doversi separare da tutto ciò che ama e l’angoscia derivante dalla paura del futuro, dalla perdita della progettualità, dell’integrità e funzionalità fisica, del ruolo familiare e sociale, della speranza, ovvero dalla

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perdita di se stessi e della propria passata identità.Sicuramente il percorso passa attraverso

tappe di negazione, rivolta, depressione, patteggiamento e accettazione, che si susseguono o si alternano, sebbene in maniera non rigorosa, nè uniforme.

I bisogni, le paure e i desideri di un morente sono quelli di una persona viva, resi tuttavia più urgenti di fronte all’imminenza delia morte.

Durante l’evolversi e la fase terminale della malattia, oltre alla crisi del malato, c’è anche quella dei familiari, che vengono tutti, indistintamente, messi alla prova.

Si devono affrontare problemi e cambiamenti non solo sul piano pratico e organizzativo, a causa della perdita della salute del congiunto e delle necessità della sua assistenza, ma anche su quello relazionale, psicologico, cognitivo e spirituale, perché la malattia inguaribile logora e angoscia chi ruota attorno al malato.

Esiste un ricco campionario di possibili nuclei familiari, che vanno dalla famiglia rigida, con un basso livello di espressione delle emozioni e un alto livello di razionalizzazione e controllo, a quella fortemente coinvolta alla famiglia conflittuale, alla famiglia che nega la gravità della situazione, alla famiglia disimpegnata, alla famiglia che utilizza il silenzio come meccanismo di protezione, fino, nei casi migliori, alla famiglia efficiente e collaborativa, capace di aiuto, sostegno reciproco e condivisione della situazione che sta vivendo.

Le fasi psicologiche e i tempi che la famiglia attraversa spesso non coincidono con quelli del malato e può accadere che quest’ultimo sia pronto ad andarsene, mentre il resto della famiglia non lo è affatto.

Per chi resta dopo la morte del congiunto inizia un processo di confronto con una perdita ormai definitiva e con se stessi e la realtà esterna, per riuscire ad affrontare i cambiamenti necessari per dare un senso al proprio contesto di vita.

Poco a poco si attenua l’attaccamento al passato e la vita riprende, colmando i vuoti con nuovi compiti e nuove presenze e quando finalmente la tempesta si allontana, sembra quasi

impossibile di essere riusciti a reagire a tanta sofferenza.

Non riuscire a vivere il dolore del limite e della perdita, arrivare a negarlo o reprimerlo, come del resto vivere esclusivamente in funzione del lutto, è invece fortemente negativo sul piano psichico e su quello fisico.

lo scopo della risoluzione del lutto è quello di sviluppare una nuova relazione interiore con la persona scomparsa, mantenendone vivo il ricordo e trovando consolazione nel fatto che si conserva dentro di sé la presenza simbolica della persona amata e la capacità di continuare ad amarla.

Nell’impossibilità di eliminare la perdita e poter ritornare al passato, si può imparare a riconoscere e a contenere la propria sofferenza, senza rimanerne imprigionati, e a individuare sia le difese contro paure e angosce, sia le risorse, i bisogni, i desideri, le speranze verso nuove forme di vita, fino a che non si riesce ad effettuare una calda e amorosa interiorizzazione di quanto si è perduto all’esterno.

I problemi a cui le persone devono far fronte sono veramente tanti e spesso subentrano difficoltà non solo sul piano psicologico, ma anche a livello cognitivo, sociale, relazionale, spirituale e fisico.

Le ricerche effettuate nell’ambito della cultura anglossassone su coppie molto unite dimostrano che la morte del partner spesso aggravia lo stato di salute dell’altro, fino a farlo ammalare e anche morire.

Ogni lutto è diverso da ogni altro, ma ciò che li accomuna tutti è la presenza di un processo con fasi psicologiche, che si succedono con dinamiche e sequenzialità ben riconoscibili.

La prima fase, che va dalla non accettazione alla presa d’atto della perdita subita presenta delle reazioni caratteristiche: shock, ritiro, apatia, incredulità, negazione, oscillazione tra negazione e realtà.

Queste reazioni psicologiche servono ad attutire le emozioni troppo forti, a evitare il dolore e la sofferenza, tenendo lontano da sé una realtà insopportabile.

É anche presente una scissione difensiva, per cui le persone possono essere intellettualmente

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consapevoli di ciò che è accaduto, ma non riescono ancora ad accettarlo emotivamente;

La seconda fase è caratterizzata dallo struggimento, dalla ricerca della persona amata e dall’espressione dei sentimenti negativi.

In questo periodo sono frequenti rabbie, rancori e sensi di colpa, con i rispettivi correlati di aggressività e depressione, e compaiono anche disorientamento e una disorganizzazione di sé, con difficoltà nel procedere.

L’ultima fase è quella della messa in atto di meccanismi di riparazione, con il recupero di un’immagine interiorizzata del defunto (ridimensionata o idealizzata, ma non più investita di risentimento e di ambivalenza) e con una ristrutturazione del proprio spazio vitale.

Ogni persona è diversa e tende a soffermarsi in determinate fasi del processo luttuoso in base ai suoi valori umani, religiosi e alle particolari circostanze della sua vita.

Quando l’accento inizia a spostarsi dal defunto a se stessi, agli impegni, ai progetti che aiutano a riaccostarsi alla vita, vuol dire che inizia un allentamento del legame di dolore e l’accettazione della perdita.

Purtroppo non sempre e non per tutti è possibile il compimento del processo di elaborazione del lutto in tempi rapidi e in senso positivo e trasformativo.

Nell’esperienza clinica è possibile osservare che molte psicopatologie sono da ascrivere non al lutto più recente, ma a lutti precedenti, non sufficientemente elaborati, che hanno determinato un modello di funzionamento psichico interiore deficitario.

Le teorizzazioni psicologiche, psicanalitiche e le osservazioni cliniche hanno evidenziato che il processo d’elaborazione del lutto comporta un lavoro lungo e faticoso, ma necessario per l’evoluzione maturativa del superstite e per non incorrere nella patologia.

Molte volte le persone in lutto non sono facilitate nel superamento del loro dolore, sia perché trovano difficoltà a esprimere sentimenti, emozioni, rabbie, paure, sensi di colpa che la scomparsa della persona amata ha provocato,

sia perché temono o sperimentano di non essere accolte e ascoltate.

Le persone che vengono a contatto con i superstiti hanno spesso difficoltà a farsi interpreti di un bisogno spesso taciuto e inespresso di dialogo e si sentono a disagio nell’affrontare le esperienze e i vissuti di chi ha perso una persona significativa della propria esistenza.

Lungo il corso della vita è decisivo che nel momento della perdita, della separazione, del cambiamento, possa essere rintracciato un senso e in questo caso il senso è quello di comprendere che la perdita che ci fa soffrire, che ci addolora, che mette a soqquadro il nostro ordine interno ed esterno, ci sollecita e ci obbliga a profondi cambiamenti, che promuovono inevitabilmente una maturazione interiore, ossia il sofferto raggiungimento di una identità separata e distinta e il riconoscimento dell’importanza della componente relazionale e affettiva che continuiamo a vivere e sperimentare nell’incontro con gli altri.

Marco Cingolani

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La varietà delle aree geografiche e la relati-va frammentazione culturale costituiscono il tratto dominante del bacino dell’Egeo durante l’età del Bronzo.

Il ciclo rituale della cura del cadavere, o nekrotherapèia, ben rappresentato in Omero1 come “γέρας θανόντων”2, e, spesso raffigurato sui sarcofagi, comprendeva la fase del compianto fu-nebre (thrènos), della presentazione del defunto (pròthesis), del trasporto (ekphorà), della libagio-ne ai morti (spondè), dei giuochi (agònes) e delle cerimonie di culto in onore dei defunti.

Il corredo tombale era diverso e si modifica-va al cambiare dei costumi: oggetti cari al defunto, manufatti con valenza funeraria, magica o rituale: chiodi, astragali, sonagli, melagrane, vasi per un-guenti, figurine di piangenti, monete come obolo a Caronte. Al rientro a casa si svolgeva un piccolo banchetto, “perideipnon” per la purificazione dal lutto. Diversi giorni dopo e alla ricorrenza annua-le si provvedeva a cerimonie commemorative con l’offerta di ghirlande, cibo e libagioni sulla tomba.

Significativo esempio dell’era arcaica sono le tombe micenee. La tomba circolare A, cimitero

reale del XVI secolo a.C., situato nella cittadella di Micene, è un complesso funerario, inizialmen-te costruito al di fuori delle mura di fortificazione della città, ma alla fine, con le fortificazioni del XIII secolo, fu compreso nell’acropoli. Ha un dia-metro di 27,5 m e contiene sei tombe, un tumu-lo su ogni tomba con stele funerarie, diciannove sono i corpi sepolti. Curioso particolare è che le sepolture di detta tomba, ove era stata ritrovata la maschera d’oro soprannominata “Maschera di Agamennone”, risalgono al XVI secolo a.C., cioè prima dell’epoca tradizionale della guerra di Troia (XIII-XII secolo a.C.), in cui avrebbe dovuto par-tecipare Agamennone. (effetto dei sistemi di data-zione della moderna archeologia).

Già in epoca arcaica lo svolgimento dei funerali era regolato da apposite leggi. Grande importanza veniva data al diritto alla sepoltura: venire esclusi equivaleva all’annullamento della memoria e della dignità della persona. Segno del rispetto per i defunti era l’inviolabilità della tom-ba. Le necropoli erano caratterizzate da differenze di sepolture in base al sesso, all’età e alla classe sociale; ai neonati e ai bambini erano riservati spa-zi appositi, mentre gli appartenenti alle classi più umili venivano sepolti in semplici fosse. Spesso le tombe più antiche erano oggetto di culto eroico; quando non si aveva la possibilità di recuperare il corpo, “Cenotafi” sostituivano la tomba simboli-

Riti funebri nel bacino dell’Egeo

L’ERA DEL BRONZO

“Maschera di Agamennone”

Heroon de Lefkandi

· R I T I F U N E B R I : S T O R I A , M I T I , L E G G E N D E ·

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camente. I riti funerari si modificarono con il passare

del tempo. Il rito crematorio affiancò quello dell’i-numazione, fino ad allora prevalente. Le sepolture venivano raggruppate in base ai legami familiari; erano organizzate in piccoli appezzamenti all’in-terno di necropoli. In Eubea a Lefkandì, è stato ri-trovato un caratteristico rituale, di tradizione ome-rica, riservato ai membri della stessa stirpe, che rappresentava la cremazione di un guerriero e di una donna, associata a quattro cavalli sacrificati e a un ricco corredo, databile intorno al 1000 a.C., in una “Tomba” di struttura rettangolare absidata, circondata da un porticato ligneo ed interpretata come un Heroon.

Ad Atene tombe di epoca protogeometrica sono state localizzate nel Ceramico. La crema-zione per gli adulti è attestata principalmente in Attica, Eubea, Beozia, Rodi. Il rito avveniva nei pressi della fossa scavata e rivestita con lastre di pietra per accogliere i resti del defunto e della pira; le ossa erano raccolte separatamente in un’anfora, generalmente del tipo con anse impostate sul collo

per gli uomini, sulla spalla o sul corpo del vaso per le donne, chiusa da una ciotola o da una lastra di pietra e deposta in una cavità scavata sul fondo della trincea, successivamente riempita con i resti carbonizzati della pira. Un piccolo tumulo e, dal tardo Protogeometrico, una lastra di pietra infissa nel terreno con un vaso segnalava la presenza della tomba e destinato ad accogliere le libagioni.

Nel Nord, in particolare in Macedonia, sono presenti inumazioni multiple in tombe a “tholos” o a camera scavate nella roccia, cui si affiancano, per influsso dei riti diffusi nelle regioni meridio-nali, tombe a cista. La composizione dei corredi è costituita da ceramiche3, fibule e oggetti di or-namento personale, a cui si aggiungono le armi in quelli maschili.

Gli eventi intorno al primo millennio a.C., alla metà dell’VIII sec., segnarono un profon-do cambiamento nei costumi della società. Nei rinvenimenti funerari si riscontrò un incremento del numero e della ricchezza delle sepolture, una maggiore differenziazione sociale e una più ricca composizioni dei corredi. È probabile che in que-sta epoca si sia affermata la divisione tra le aree

oinochoe

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destinate ai vivi e quelle ai morti. Di particolare interesse sono le tombe presenti ad Eleusi e Ana-vyssos. All’interno della fossa una lastra divide lo spazio destinato all’urna da quello per le offerte; i corredi sono composti principalmente da cerami-che, accanto alle quali si fa più consistente nelle sepolture femminili la presenza di monili di ferro, di bronzo, amuleti di maiolica (faïence) e lamine d’oro decorate a “matrice”.

Dalla disamina delle necropoli si può desu-mere che dall’800 a.C. in poi la popolazione sia cresciuta, come la disparità tra i ceti. Esse presen-tavano tumuli di terra di varie dimensioni; i ter-rapieni rettangolari, sostenuti da muri in mattoni crudi, erano sormontati da stele di legno e blocchi di pietra come segnacoli, in alternativa ai vasi. Il numero delle deposizioni per ciascun appezza-mento era aumentato, mentre nelle aree riservate alla sepoltura dei membri di una stessa famiglia trovavano posto ora anche le inumazioni di bam-bini.

In Attica l’inumazione diviene la pratica prevalente, ad eccezione di quanto avviene nelle necropoli di Anavyssos e Trachones in cui conti-nua il rito crematorio. La pratica della cremazione, nel tardo Geometrico è attestata in casi particolari, per singoli individui, maschi e di ceto aristocrati-co, o in determinati gruppi gentilizi come elemen-to distintivo. In questi casi all’anfora in ceramica si sostituisce un cratere o un lebete di bronzo con relativo coperchio come contenitore per le cene-ri. Il corredo è composto da ceramiche, armi per gli uomini, gioielli per le donne. Nel Peloponneso, in Messenia, Argolide e a Corinto si continua la pratica inumatoria per gli adulti, in tombe a cista o pithoi in posizione rannicchiata, ed è praticato il riutilizzo di tombe precedenti, il cui corredo è accuratamente raccolto accanto alla nuova depo-sizione o sopra il coperchio della cista. A Corin-to è comune l’inumazione in sarcofagi scavati nel banco roccioso o in ciste costituite da lastre accu-ratamente connesse tra loro; in epoca successiva sono deposte vasi (hydriai), accanto alla tomba per

le libagioni. In Argolide la ricchezza delle tombe è segnalata soprattutto dalla presenza di ogget-ti di ferro, in particolare spiedi e alari in forma di nave da guerra, rinvenu-te solo a Creta e a Cipro, oltre che di armi in bron-zo, come la panoplia di Argo4.

In Eubea, dopo il declino di Lefkandì, il sito di Eretria all’inizio dell’VIII sec. a.C. eredita la pratica crematoria, in trincee scavate nel terreno, comprensiva delle offerte e dell’intero corredo i cui resti sono deposti nella tomba, necropoli vi-cino al mare; nel cimitero della porta occidentale, invece, solo le ossa dei defunti cremati vengono raccolte in stoffe e deposte in lebeti, e l’area di sepoltura è delimitata da un circolo di pietre, se-condo un uso analogo a quello di Atene, destinato a onorare guerrieri oppure membri di un genos no-biliare.

Salvatore Nicoscìa

Note1) Dell’esistenza di Troia e di un conflitto milita-re nel XII secolo a. C. c’è pressoché la certezza; dell’autore dell’Iliade, il poema epico sulla guerra di Troia, si presume essere il risultato di una com-pilazione molto successiva, frutto della tradizione orale a partire dal XIII secolo a. C., e datato al 762 a. C., da studi recenti, con un margine di errore di 50 anni.2) Dove i suoi fratelli e connazionali eseguiranno riti di sepoltura per lui / con tomba e lapide, poiché questa è la parte onorevole dovuta ai morti. (Iliade XVI 456–457 = XVI 674–675)3) Anfore, crateri, oinochoe, skyphoi su alto piede, lekythoi, kalathoi, pissidi.4) L’armatura degli opliti comprendeva scudo, corazza di metallo o di cuoio guarnito di metallo, schinieri, elmo, lancia e spada.

hydriai

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