Filosa Anna Maria
Legislazione e Ruolo dei Comitati Etici
Approvazione degli aspetti etico-scientifici da parte di
un organismo competente
Il sorgere dei Comitati etici risponde ad una necessità di un contatto tra
cultura e morale, in un contesto frammentario e con una metodologia tra
e per la disciplina, negli scontri tra progresso scientifico e diritti della
persona. Infatti, la sperimentazione deve essere attuata con procedure
articolate e complesse, che impongono un preordinato prospetto,
rispettoso, in particolar modo, delle normative ispirate dalla
Dichiarazione di Helsinki del 1964, quali le norme di Buona Pratica
Clinica, la cui prima caratteristica è quella di rendere trasparente il
rapporto tra sperimentatore e soggetto coinvolto, affinché questi possa
essere libero di decidere di partecipare ovvero di rinunziarvi anche
successivamente. Per questo sono stati creati i Comitati Etici, che in un
primo tempo hanno avuto funzioni prevalentemente consultive,
successivamente poi evolutesi a competenze vincolanti e decisionali
nella nostra legislazione, a partire dalla data di pubblicazione(28 Maggio
1998) del Decreto Ministeriale 18 Marzo 1998, il quale prevede delle
linee guida di riferimento per l’istituzione e il funzionamento dei
Comitati etici. Ma che cosa sono esattamente i Comitati etici e come si
articola il loro sviluppo?
Il Comitato etico non è altro che un organo del tutto indipendente anche
e soprattutto nei rapporti con lo sperimentatore, ed è chiamato a
formulare il proprio parere prima di ogni sperimentazione, parere
vincolante,il quale rimane tale anche nel corso della sperimentazione,in
seguito a mutamenti delle condizioni e dei criteri fondanti le modalità e
la ratio iniziali dello studio e, in caso di sopravvenienza, in proposito di
eventi avversi significativi. In generale, il controllo ed il parere
riguardano tutti gli aspetti significativi concernenti la validità della
sperimentazione proposta in sé ed in relazione soprattutto alla tutela dei
soggetti, in quanto vengono menzionati sia gli aspetti oggettivi
concernenti la pertinenza e rilevanza dello studio,sia i rischi, i benefici
prevedibili con le incognite che caratterizzano lo studio e l’idoneità dello
sperimentatore unitamente all’adeguatezza della struttura. A tal
proposito,si deve aggiungere che a partire dal 1 Gennaio 2004,per la
disciplina di questo settore,è stato emanato un apposito D.Lgs.
n°221/2003,il cui art. 6 sancisce che “Il Comitato etico deve emettere il
proprio parere prima dell’inizio di qualsiasi sperimentazione clinica in
merito alla quale è stato interpellato”(…) “tenendo in particolare
considerazione”(…) “le disposizioni in materia di assicurazione relative
al risarcimento dei danni cagionati ai soggetti dall’attività di
sperimentazione,a copertura della responsabilità civile dello
sperimentatore e del promotore della sperimentazione” Per esempio, J.
Bernard, celebre professore e medico, nel suo “Comitès d’Etique” divide
in quattro periodi( a cui si è aggiunto un quinto nella prassi)l’evoluzione
della storia dei Comitati, periodi che possono così essere suddivisi:quello
di nascita, di espansione, di stabilizzazione e infine di relazioni
internazionali, in seguito poi se ne è aggiunto un quinto, presente solo
nel nostro Paese e contraddistinto dalla diffusione obbligatoria dei
Comitati per le sperimentazioni cliniche sui farmaci, secondo quanto
previsto nella predisposizione fondamentale, allo Stato, dei D.M. 27
Aprile 1992, 15 Luglio 1997 e 18 Marzo 1998.
Passando ad analizzarli tutto, non possiamo non iniziare dalla nascita.
La nascita, infatti, è legata all’evolversi della sperimentazione
farmacologia, a causa dell’impulso delle industrie farmaceutiche e fa
fronte, in questo modo, all’esigenza di simbiosi del rispetto della persona
e della sua autonomia unitamente a quella di controllo dei rischi della
sperimentazione, la quale tende a essere individuata dal bisogno di
approvare da parte di un Comitato Indipendente dei protocolli di ricerca,
in conformità alle leggi e ai principi dello Stato in cui la sperimentazione
si svolge,coprendo un ruolo che appare non molto determinante,essendo
spesso l’intervento di natura consultiva.
La successiva fase di espansione è caratterizzata dalla proliferazione,
intorno agli anni 80, del numero dei Comitati etici, dalla diversità della
loro composizione( inizialmente solo medica e poi con l’ausilio anche di
teologi, filosofi, giuristi e sociologi) dalla consapevolezza dei pubblici
poteri e dall’importanza degli argomenti trattati.
Il periodo di stabilizzazione, invece, corrisponde ad un assestamento dei
Comitati a seguito di una proliferazione di tematiche e problemi di
essenza strettamente etica, che i progressi della medicina e della biologia
evidenziano.
Ed infine la fase delle relazioni internazionali, la quale mitiga differenze
concettuali legate alla diversa dislocazione territoriale e ambientale.
Purtroppo però, la prevalente concentrazione di attività dei Comitati etici
nell’ambito della sperimentazione clinica ne ha oscurato il significato più
ovvio di organismo rivolto alla valutazione attiva dei molteplici problemi
etici presenti nei vari settori di attività connessi con la vita e la salute
dell’uomo. Di qui il rischio di limitare il Comitato a ruoli
amministrativo-burocratici, sottolineati da una crescente normativa
ministeriale in tema di sperimentazione farmacologica. L’attuale
ipertrofia, legata all’aspetto autorizzativo nel campo della
sperimentazione, ha finito per comprimere quei settori di attività dei
Comitati, i quali avrebbero meritato assai più ampia ed organica
espansione, nell’ambito delle funzioni di consulenza, relativamente ai
fini della tutela dei diritti del malato, nella prassi medica ed infine in
quella della sensibilizzazione e formazione del personale sanitario e dei
ricercatori sui profili etici e deontologici, assai connessi con le attività
del servizio sanitario. In realtà il Compito dei Comitati dovrebbe essere
volgere la sua attenzione verso altri aspetti, considerando sicuramente
anche i problemi della sperimentazione farmacologia, ma soprattutto
anche la formazione di enunciazioni propositive e di criteri di azione per
ricercatori ed operatori sanitari, inerenti a questioni non ancora
inquadrate nella normativa deontologica, nonché nell’elaborazione di
pareri per l’interpretazione e la costituzione delle modalità attuative di
principi e norme rilevate da disparate fonti. E’ importante, infatti,
considerare come attualmente ci sia stata, in tal contesto, l’enunciazione
delle fondamentali tematiche d’intervento previste dal regolamento del
Comitato etico per le attività biomediche dell’Università di Napoli
Federico II, ristrutturato nel Marzo 1997 su quello istituito tra i primi
d’Italia nell’ottobre 1985, con la denominazione precisa di
“Commissione etica unificata per i diritti del malato e per la
sperimentazione del malato”.
In particolar modo, tali tematiche attengono alla ricerca biomedica, alla
sperimentazione clinica su soggetto, in riferimento al paziente, o su
materiali biologici da questi provenienti, previo consenso informato
naturalmente, nel rispetto della riservatezza, dell’inviolabilità della vita e
dell’integrità psico- fisica del soggetto in esperimento. Tutte queste
prospettive d’intervento sottolineano, infatti, il legame indissolubile tra
aspetti bioetici e deontologici di medesime questioni di rilievo,
essenziale nella prassi assistenziale con assoluto rilievo dei problemi di
natura deontologica.
Lo stesso CNB, a tal proposito, ha individuato nei compiti dei Comitati
etici non solo l’espressione di giudizi di laicità per la tutela dei diritti del
malato e la formazione del personale in ambito sanitario, ma anche la
promozione e la difesa dei principi della deontologia medica. Infatti, un
progetto di legge relativo a linee guida di riferimento per l’istituzione ed
il funzionamento dei Comitati etici, approntato da un’apposita
Commissione tecnica su incarico dell’Agenzia per i Servizi Sanitari
Regionali nel 1995 (in seguito non pervenuto al vaglio parlamentare),
prevedeva che “l’attività dei Comitati consistesse nell’elaborazione di
indicazioni su problematiche che coinvolgono scelte comportamentali, di
natura etica e deontologica, collegate indissolubilmente ad attività di
assistenza e di ricerca”.
Nello stesso progetto di legge si sottolineava in più, tra i compiti dei
Comitati etici “il rispetto di principi e di norme vigenti sull’acquisizione
del consenso informato dei soggetti coinvolti nella sperimentazione.
La simbiosi culturale tra bioetica e deontologia è nettamente evidente,
così come chiarito dal “Documento di Erice” del 1992, nel quale è
chiarito che, in realtà, la deontologia( intesa come la disciplina che studia
“ le norme di comportamento professionale specifiche delle professioni
sanitarie”) costituisce parte fondamentale ed importante della Medicina
legale, con evidente considerazione sia per norme morali e
deontologiche proprie e sia per norme giuridiche di ciascun Paese. Però,
mentre in senso generale la deontologia ha una funzione
pluridisciplinare, in quanto costituisce un presupposto fondamentale di
collegamento tra la norma etica e quella giuridica, facendo propria una
parte dell’etica medica e della bioetica con attenzione al diritto, la sua
funzione comincia a divenire specifica quando, in presenza di una norma
giuridica oscura e lacunosa o in totale temporanea assenza di questa, essa
ne assume quasi un ruolo di guida, e in questo modo un significato e
valore fondamentale per il funzionamento dei Comitati etici nell’ambito,
così particolare della sperimentazione. In riferimento al bene integrale
della persona concorrono non solo l’etica e le morali religiose, ma anche
i contenuti di numerose convenzioni, carte e dichiarazioni nazionali ed
internazionali che sottolineano i diritti del malato e quelli stessi del
medico nell’ambito della sperimentazione. Esempio illustre è
sicuramente rappresentato dalla Dichiarazione di Helsinki del 1964,
unitamente alle sue numerose revisioni (Tokio, Ottobre 75; Venezia
Ottobre 83, Honk Kong Settembre 89, Somerset West Ottobre 96,
Edimburgo Ottobre 2000), la quale enuncia “i principi etici in grado di
fornire una guida per i medici e per gli altri partecipanti ad una ricerca
medica che coinvolga soggetti umani”. La particolare importanza delle
riflessioni elaborate nella Dichiarazione di Helsinki risulta dal fatto che
la Dichiarazione stessa, le raccomandazioni del Comitato nazionale per
la Bioetica e le versioni più recenti delle norme di Good Clinical Practice
sono individuate nella normativa ministeriale relativa alla
sperimentazione clinica(D.M. 18 Marzo 1998) come principale
riferimento per le decisioni e le attività dei comitati etici. Il confronto tra
le prime edizioni della Dichiarazione (64-75) e l’ultima, cioè quella di
Edimburgo (2000), mette in rilievo la costante presenza di espliciti
principi deontologici accanto a quelli etici, i quali vengono ad ampliarsi
e a specificarsi in un insieme sempre più preciso insieme con la norma
giuridica e la prassi di applicazione. Per questa ragione, alcuni punti
della Dichiarazione sono estremamente nuovi per la ricerca. L’attuale
articolo 13,infatti, confermando la necessità di un protocollo di
sperimentazione ogni volta che nello studio siano coinvolti soggetti
umani, per la prima volta menziona un “Comitato etico di revisione”,così
differenziandosi dalle precedenti stesure, in cui si menzionano “comitati
Indipendenti”,venendo in questo modo ad evidenziare la necessità di
reintervenire da parte di questi organismi nell’ambito di un’attività di
garanzia più ampia perché ripetuta nel tempo. L’articolo 13, infatti, nel
recitare che“il ricercatore ha l’obbligo di fornire informazioni di
monitoraggio al Comitato, specialmente in relazione agli eventi avversi
seri”, denota come non solo il Comitato si mette in moto vigilando e
verificando se è opportuno o meno proseguire la ricerca, ma indica anche
allo sperimentatore la necessità di reinformare il paziente e di riacquisire
il suo consenso informato alla sperimentazione quale rinnovo di
consapevole adesione allo studio, dopo la conoscenza della sussistenza
di più ampi rischi nella partecipazione naturalmente. La riflessione etica
risulta, quindi, completa, solo nel trattare del problema, relativo al
consenso informato sulla ricerca scientifica.
Infatti, nelle prime versioni della Dichiarazione, si faceva riferimento
semplicemente ad un “consenso libero e cosciente”, appreso dal paziente
dopo avergli fornito notizie circa “obiettivi, metodi, benefici scontati,
rischi potenziali e svantaggi che sarebbero potuti derivare”.
Oggi, allo stato attuale delle cose, all’evoluzione dell’l’informazione,
finalizzata al consenso cui ha diritto il paziente, si aggiungono ulteriori
aspetti, trattati anche sotto l’aspetto deontologico, come ad esempio gli
scopi ed i metodi, le fonti di finanziamento, ogni possibile conflitto
d’interessi, l’appartenenza istituzionale del ricercatore e infine i possibili
fastidi dello studio, tutto questo diretto solo al suo “consenso informato”.
Sull’argomento del consenso la normativa nazionale in tema di
sperimentazione clinica è diventata molto particolareggiata, risultando,
nelle funzioni dei Comitati etici, l’obbligo di valutare con attenzione il
consenso informato insieme all’eventuale uso di placebo(D.M 18 Marzo
1998).Ed è, infatti, in tale ottica che il Comitato etico è chiamato a
verificare che siano rispettate le quattro condizioni fondamentali le quali,
come indicate dal C.N.B, qualificano il consenso stesso(D.M 18 marzo
1998)nella:
o Qualità della comunicazione
o Comprensione dell’informazione
o Libertà decisionale del paziente
o Capacità decisionale del paziente
Nel volerli analizzare, vediamo che il primo aspetto riguarda la verifica
dell’idoneità delle notizie date sugli aspetti dello studio sperimentale, da
adottare ai fini della maturazione, nel soggetto che vi partecipa, di una
consapevole autodeterminazione a aderirvi. E’ necessaria, quindi,
un’informazione precisa dal punto di vista medico, ma. in questo modo,
subentra il rischio di generare incomprensioni nel destinatario
dell’informazione, dovendo, secondo lo standard “medio”,
l’informazione essere rapportata a quanto una persona ragionevole
vorrebbe conoscere e potrebbe comprendere della procedura medica che
lo riguarda, verificandosi, quindi, una personalizzazione
dell’informazione, filtrata, tuttavia, attraverso un’attività specifica del
medico.
Inoltre, vi sono due casi in cui la tipologia e la regolamentazione del
consenso informato si differenzia. Nel primo caso la finalità della ricerca
coincide con quella terapeutica del miglioramento dello stato di salute
del singolo paziente, per questo la corretta informazione, modalità e
finalità della procedura sulle sue caratteristiche fondamentali, sui suoi
previsti vantaggi, sui possibili trattamenti alternativi e sui possibili rischi
si concretizza attraverso minori necessità di dettagliamenti nella misura
in cui la sperimentazione non superi normali livelli di pericolosità e sia
sostanzialmente prevedibile la positività del trattamento.
Per questo, in tali condizioni, la ricerca può essere estesa anche a
soggetti incapaci e minori, sapientemente informati attraverso i legali
rappresentanti, nel secondo caso invece, la sperimentazione prescinde da
immediati obiettivi curativi e da vantaggi diretti per chi vi si sottopone,
solo per realizzarsi nell’esclusivo interesse del progetto della scienza
medica, venendo così in rilievo l’esigenza di porre garanzie di sicurezza
ancora più forti per la tutela del diritto-dovere alla salute del soggetto,
disponendo sia misure di carattere generale sia di carattere specifico,
efficacemente considerate anche dal C.N.B.
La delicatezza della questione impone una chiara e precisa informazione
e genera perplessità circa l’estensione della sperimentazione ai soggetti
cosiddetti “vulnerabili”, anche in assenza di espressi divieti legali. Il
consenso, come noi supponiamo, presuppone sicuramente comprensione
dell’informazione trasmessa, e capacità autodeterminativa del paziente.
La verifica di tale capacità è delineato irrealisticamente come compito
dei Comitati etici, anche se nella prassi ciò non si è mai pienamente
realizzato.
In conclusione nella sperimentazione, secondo sempre il D.M. 18 Marzo
1998, il consenso deve seguire un’informazione chiara, precisa e
comprensibile con un’illustrazione tecnico-scientifica compatibile con il
livello di comprensione del paziente e soprattutto deve prevede
l’indicazione specifica dell’uso del placebo. Ne consegue un’ulteriore
compito di promozione e verifica da parte del Comitato etico, nei
confronti di un cammino metodologico complesso ed al tempo stesso
garantista, idoneo ad assicurare il rispetto del requisito di più elevato
valore etico-deontologico e giuridico, per la legittimazione
dell’esperienza sperimentale da condurre. E’importante, quindi,
evidenziare che il Comitato si è soffermato sul particolare e stretto
controllo dell’uso del placebo, cioè di una sostanza inerte dal punto di
vista farmacologico, in vista di possibili fonti di responsabilità per
eventuali danni al paziente, dovuti alla mancata protezione farmacologia
per incongruo impiego del placebo.
La questione del ricorso del placebo, infatti, presenta forti legali etici e
medico-legali, poiché comporta sottili problemi di conciliazione tra
doverosità d’informazione al soggetto, sul quale si compie la
sperimentazione per riceverne un valido consenso alla stessa, intuitività
necessità della sua mancata consapevolezza sullo stato di reale
assunzione della sostanza da sperimentare e costante obbligo di agire nel
rispetto della salute della persona coinvolta nella sperimentazione. Sotto
tale prospettiva il consenso non può valere a giustificare l’assunzione di
rischi sproporzionati o comunque irragionevoli, né ad assumere efficacia
scriminante verso la responsabilità dello sperimentatore, nel caso di
danni da mancata somministrazione del farmaco, sicuramente utile per la
predetta malattia. Inoltre, può procedersi all’impiego di placebo, quando
non ci sia più la possibilità di validi trattamenti della patologia o in ogni
caso, in associazione ad un farmaco efficace su questa, viceversa,invece,
è da escludersi l’uso di solo placebo, in quanto il saggio sperimentale
non può comportare la privazione al malato dei mezzi diagnostici e
terapeutici consolidati, che risultino indispensabili alla tutela della sua
salute.
Il C.N.B, vista la spinosità della questione, ha predisposto in proposito
delle indicazioni nel suo documento del 17 Novembre 1992 sulla
sperimentazione dei farmaci, secondo cui l’uso del placebo è consentito
e raccomandato quando:
o Il trattamento nuovo si aggiunga ad un consolidato.
o Non esista un trattamento consolidato per la forma morbosa in
studio.
o Il trattamento disponibile sia un agente sintomatico per
condizioni morbose, minori nelle quali la sospensione
temporanea di un trattamento attivo non abbia alcuna
conseguenza clinica temibile.
Le prime due ipotesi risultano considerate anche nel D.M. 18
Marzo 1998 riguardante “linee guida di riferimento per l’istituzione
ed il funzionamento dei Comitati Etici”, ma anche la terza, senza
dubbio, può ritenersi recepibile nel suddetto D.M, in quanto questo
prevede, quale principale riferimento per le decisioni e le attività
dei Comitati etici, non solo la dichiarazione di Helsinki in forma
aggiornata ma anche, ove applicabili, le raccomandazioni del
C.N.B. Il problema del ricorso al placebo riprende e sostiene a
pieno titolo la questione della possibile responsabilità del Comitato
etico nella ricerca clinica sperimentale, ne segue, in relazione al
suddetto risultato, uno stato di profondo disagio operativo in cui da
tempo si trovano i Comitati etici. Il disagio nasce, infatti, dalla
ormai presa di coscienza delle molteplici e gravose responsabilità
che si pongono per i Comitati nel loro ruolo di pubblica garanzia
relativa ai diritti, alla sicurezza e al benessere dei soggetti che
partecipano ad una sperimentazione clinica dei medicinali. Nati per
dare una consulenza etica, essi finiscono con il fornire, nell’ambito
delle sperimentazioni cliniche, giudizi che hanno conseguenze
giuridiche in quanto, alla luce delle funzioni e dei compiti loro
attribuiti dai D.M. 15 Luglio 1997,18 Marzo 1998 e 19 Marzo, essi
si configurano come organi amministrativi che esprimono pareri
tecnici obbligatori e vincolanti in tale ambito, diversamente
peraltro, da quanto poteva ritenersi inizialmente, in base al D.M.
Aprile 1992. Infatti, la responsabilità per i membri del Comitato
etico può ricorrere nei confronti dei soggetti coinvolti nella
sperimentazione per errati pareri(azione) o, con maggiori
probabilità, per mancato controllo (omissione) in situazioni
produttive di eventi pregi pregiudizievoli in ordine:
o Alla fisionomia scientifico-metodologica del protocollo.
o Al giudizio di notorietà del farmaco
o Alla fattibilità dello studio in riferimento ad idoneità delle
strutture,del personale sanitario e attrezzature
disponibili,nonché compatibilità di soggetti reclutati
o Al consenso informato, la cui verifica si estende, con il D.M
18 marzo 1998, alle quattro condizioni fondamentali che
erano state indicate come qualificanti del C.N.B nel suo
documento del 20 Giugno 1992
o Ai rapporti sullo stato d’avanzamento della sperimentazione.
o Alle reazioni e agli eventi avversi.
o Alle comunicazioni che lo sponsor ha l’obbligo di
trasmettere al Ministero della Sanità relative all’inizio,alle
eventuali rinunzie o interruzioni e alla conclusione delle
sperimentazioni.
o Alla correttezza di assunzione delle spese aggiuntive,
sostenute da istituzioni o pazienti.
o Alla riservatezza dei dati relativi ai soggetti reclutati e alla
confidenzialità dell’intera procedura di consultazione
prestata.
Sicuramente, va riconosciuto al Comitato etico un ruolo di
pubblica garanzia relativa ai diritti, alla sicurezza e al benessere dei
soggetti, che partecipano ad una sperimentazione clinica dei
medicinali, ma anche una funzione di garanzia esterna al rapporto
deontologico tra sperimentatore e soggetti coinvolti nello studio da
parte di attori imparziali e indipendenti, i quali si fanno espressione
della competenza dello sperimentatore e dell’eticità dello studio,
nel coerente rispetto delle norme deontologiche, le quali governano
un equilibrato comportamento del ricercatore nei confronti del
soggetto che partecipa allo studio e della stessa collettività cui, in
definitiva, oltre al paziente, sono destinati i prevedibili vantaggi
della sperimentazione.
Infatti, essi, tra i compiti del Comitato, indubbiamente, offrono un
approfondimento tematico e una riflessione sui problemi di natura
etica e giuridica, che emergono con il progredire delle conoscenze
nel campo delle scienze della vita. Lo stesso, inoltre, esprime
pareri anche su richiesta di organismi istituzionali o su questioni di
attualità di particolare rilevanza etica e sociale. Questi pareri,
solitamente più sintetici, assumono la forma di comunicati o
dichiarazioni ufficiali. Un dubbio però permane. Tali pareri non
sono esaustivi, e molti problemi quindi, restano aperti. Per
esempio, l’esigenza che il ruolo dei Comitati etici si estenda anche
ad altri tipi di sperimentazione,oltre a quella sui farmaci, e
influisca in questo modo maggiormente sugli orientamenti bioetici
dei servizi sanitari,senza pur tuttavia interferire nelle singole
decisioni cliniche,le quali sono sicuramente di pertinenza degli
operatori e devono essere assunte nel rispetto dell’autonomia dei
pazienti. A tal proposito, quindi, si può dire che il principio del
“consenso informato”, un principio che è ampiamente
riconosciuto, ma che spesso è svuotato di quel contenuto dialogico
che dovrebbe caratterizzare il rapporto medico-malato, può valere
anche, su scala più ampia, per il rapporto fra la ricerca scientifica e
i cittadini.
Il creare un “consenso sociale, informato alle priorità delle ricerche
biomediche, ai loro metodi e alle loro applicazioni, può svolgere
una funzione di garanzia e di promozione della scienza, in un
periodo nel quale i suoi quotidiani progressi suscitano speranze e
progetti crescenti. Nel 2000, a causa di una legislazione lacunosa
riguardante la disciplina dei Comitati, indusse lo stesso Comitato a
presentare nell’Aprile del 2000 un documento orientativo, volto a
porre l’attenzione sulla situazione attuale dei Comitati Etici in
Italia, nella prospettiva di un eventuale riordino della materia,
finalizzato a porre questi organismi in grado di assolvere al meglio
ai compiti a essi assegnati. Le problematiche indicate dal CNB
come elementi di un diffuso “malessere” nella vita dei Comitati
etici, come ad esempio i rischi di burocratizzazione, le difficoltà a
svolgere puntualmente l’ampio ventaglio di compiti previsti, le
incertezze circa i rapporti con le istituzioni di riferimento e le
ambiguità circa la natura giuridica di tali rapporti, come pure
l’efficacia dei pareri emessi dai CE e la connessa questione della
responsabilità dei membri del CE, hanno trovato puntuale riscontro
nelle risposte fornite successivamente.
Sicuramente, nella prospettiva di un possibile riordino della
materia, si deve far riferimento alla fondamentale direttiva europea
2001/20 che, avente come scopo il riavvicinamento delle
legislazioni degli stati membri in relazione all’applicazione della
buona pratica clinica nella conduzione degli studi sui farmaci,
prevede (art. 7) che, nel caso degli studi multicentrici, dovrà essere
emesso un solo parere, qualunque sia il numero dei CE(nel caso di
studi coinvolgono più Stati, un solo parere per ognuno degli
Stati).Infatti, nel corso del tempo, si è avvertita l’esigenza di
approfondire questioni relative alla sperimentazione su alcuni punti
fondamentali:
o Innanzitutto, devono essere specificati natura, limiti e modalità di
svolgimento del "monitoraggio permanente", il quale è affidato al
CE, nell'ambito dell'esecuzione degli studi. A questo fine occorre
che nel corso della sperimentazione i soggetti siano informati
tanto delle eventuali modifiche al protocollo, quanto dei fatti
nuovi che incidono sulla sicurezza dei soggetti stessi, e di ogni
aumento significativo del grado di rischio.
o Deve essere prevista, inoltre, la competenza del CE per
l'approvazione dei protocolli relativi alla sperimentazione sugli
animali, in ordine al rispetto delle norme vigenti (D.lg. 116/1992 e
circolare n. 14 del 25 ottobre 1996, pubblicata in G.U. n. 286 del
10 dicembre 1996, relativa alla sperimentazione dei farmaci ad
uso veterinario) e delle regole di protezione del benessere animale.
Il CE deve essere altresì integrato con uno zoologo ed un clinico
veterinario.
o Anche alla luce della Direttiva europea 2001/20, occorre definire
chiaramente il profilo delle responsabilità ascrivibili al CE e ai
singoli membri, poiché le loro funzioni non possono essere
assimilate a quelle dei membri di una commissione meramente
tecnica. Per i membri dei CE, infatti, nell'esercizio della loro
funzione e nell'ambito della sperimentazione, deve essere prevista
una forma di copertura assicurativa, da porre a carico delle
istituzioni di riferimento.
o Come già in parte previsto dal punto 2.5 delle Linee guida allegate
al DM 18 marzo 1998, deve essere inoltre posto, a carico di tutti
gli enti, che istituiscono CE per la sperimentazione e/o per altri
compiti, l'obbligo di dotarli di una segreteria scientifica e di una
segreteria tecnico-amministrativa, i quali abbiano una propria
indipendenza funzionale e siano composte da personale
adeguatamente qualificato. Deve, inoltre, essere precisato, anche
in relazione alla protezione dei dati, che un CE non può iniziare la
propria attività, prima che tali uffici di segreteria si siano insediati.
o Deve essere più chiaramente determinata l'indipendenza dei CE, e
individuate procedure di nomina dei membri che la garantiscano
pubblicamente. A proposito dell'indipendenza dei membri, i D.M.
del 1998 affermano che, con tale termine, si intende anche
l'assenza di rapporti-contratti di consulenza con l'istituzione. Si
auspica inoltre, che gli statuti dei CE prevedano una rotazione
completa dei membri nel giro di alcuni anni, in modo da garantire
ad un tempo continuità e rinnovamento dei CE. Si raccomanda
infine di affidare la presidenza dei CE a componenti indipendenti
dall'istituzione.
o Per questo, fatto salvo il rispetto della privacy, deve essere
garantita la massima trasparenza nell'attività dei CE, che ne
consenta un pubblico controllo sia sotto il profilo etico che sotto
quello scientifico. Nella nomina dei membri deve essere
promossa, per quanto possibile, la massima apertura a competenze
disciplinari e a orientamenti culturali diversi.
o Ogni CE è autonomo nella propria attività. I collegamenti fra
Comitati etici delle singole strutture, e fra questi e i comitati
collocati a un altro livello territoriale (Comitati regionali,
Comitato nazionale per la bioetica, etc.) non possono limitare la
loro autonomia e non rispondono ad alcuna concezione di ordine
gerarchico.
o Il CNB auspica infine che lo sviluppo dei CE prosegua nelle
direzioni indicate e che la discussione si sviluppi anche in rapporto
a due importanti novità. Una è l'adozione da parte del Parlamento
Europeo e del Consiglio dell'U.E. della direttiva 2001/20 del 4
aprile 2001, entrata in vigore il 1° maggio 2001, concernente il
ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed
amministrative degli Stati membri relative all'applicazione della
buona pratica clinica nell'esecuzione della sperimentazione clinica
di medicinali ad uso umano. L'altra è la bozza di Protocollo sulla
ricerca biomedica, formulata dal Comitato direttivo per la bioetica
(CDBI) del Consiglio d'Europa, attualmente all'esame del
Consiglio dei ministri e dell'Assemblea Parlamentare del
Consiglio d'Europa.
Sicuramente, ancora oggi possiamo dire con certezza, che molti dubbi
sussistono ancora in relazione a questi organismi e alla loro funzione
precisa, dubbi naturalmente non ancora risolti.
Di certo si può dire che oggi la revisione dei protocolli di
sperimentazione farmacologia è la funzione di gran lunga prevalente nel
lavoro dei CE, almeno a livello internazionale. Per quanto riguarda
l’Italia essa rischia anche di diventare la funzione assorbente, tale da
impedire che i CE, nella loro attuale composizione, possano assolvere
alle altre funzioni precedentemente descritte nel documento. Il timore è
che l’appiattimento sulla funzione di revisione dei protocolli
comprometta la crescita e il consolidamento di una movimentata
prospettiva di maggior interesse, la quale consiste nell’approfondimento
del complesso dei problemi bioetici sollevati dalla ricerca e dalla pratica
biomedica.
Inoltre,ancora oggi non vi è una vera e propria responsabilità del
Comitato etico,preso nella sua individualità. Infatti la sua
responsabilità,essendo chiamato ad esprimere un parere vincolante e
decisionale,come quello espresso dagli organi di governo dell’ente
ospedaliero,non sarà mai una responsabilità esclusiva,ma sempre solidale
con quella dello sperimentatore e dello sponsor. In Comitato
quindi,essendo un organo di controllo, potrebbe essere chiamato a
rispondere per il risarcimento di eventuali danni solo in forza della
solidarietà dell’obbligo risarcitorio e solo nel caso in cui risulti accertata
l’esistenza di un nesso eziologico,che comporti una riferibilità certa
dell’evento dannoso ad un comportamento colpevole del Comitato,da
rinvenire in fatti connessi all’attività di controllo e quindi a fatti
prevalentemente omissivi.
In conclusione,posso affermare che naturalmente,per accertare una
responsabilità dell’organo di controllo,sarà necessario dimostrare che vi
sia stato un comportamento colpevole nell’iter di approvazione della
sperimentazione e che tale condotta abbia cagionato un danno ingiusto.
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