Alfredo Contran
LEGGENDA DI UN
PATRIARCA
Panda ~ Edizioni
In copertina: Piove di Sacco nel '700 (Brillo).
Alfredo Contran
LEGGENDA DI UN
PATRIARCA (Mons. Pio Stievano)
Presentazione di Paolo Tieto
Panda ~ Edizioni
PRESENT AZIONE
Sono ancora molte a Piove di Sacco le persone che ricordano
monsignor Pio Stievano, l'abate dall'aspetto alto e maestoso come
quercia ma anche, e soprattutto, dal cuore sensibile e generoso,
incline e grande, autentica carità. Prerogative che hanno lasciato
traccia profonda nella memoria di chi ha avuto modo, sia pur
fugacemente, di conoscerlo e di beneficiare magari del suo buon
cuore, della sua splendida generosità. A darcene tutta la dimensione
sta un cumulo di episodi, che ancor oggi i vecchi raccontano, me t
tendone in risalto sÌ vivamente originalità e spirito da farli sembrare
spesso fantasiosa invenzione, favola più che autentici fatti accaduti.
Con certosina pazienza, assiduità e costanza mons. Alfredo Con
tran ha "registrato" - nel corso di diversi anni - da tale anedottico
florilegio gli episodi più significativi ed accattivanti, episodi che,
uniti ad altri di personale ricordo, costituiscono ora il contenuto di
questo originale, splendido voI umetto. Libro insolito in quanto deli
nea la vita di un uomo non seguendone passo a passo i diversi
momenti, le alterne vicende, bensÌ focalizzando le peculiarità intime,
l'eccezionale dimensione dello spirito; meraviglioso dappoi perchè di
agile tessitura, lineare nella strutturazione del pensiero, avvincente
nella narrazione, ricca ognora di nuovi risvolti, di imprevedibili
risoluzioni. La figura di sÌ straordinario personaggio, pur senza con
notazioni di ordine fisico (di proposito si è esclusa dal libro ogni
foto), si delinea pertanto chiara e precisa, a tutto tondo, nella poten
za di qualità etiche che la rendono granitica ed insieme soave, ferma
nelle proprie convinzioni e nel contempo ricca di umanità. Come
pure emergono scintillanti le acute intuizioni della sua perspicace e
dotta mente, l'efficacia della personalissima didattica, la fiducia nelle
capacità di riscatto della persona allorchè essa ha sbagliato. Dietro i
tratti di un volto senza parvenza mai di sorriso, di un atteggiamento
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inflessibile e austero, la narrazIOne lascia costantemente scorgere
l'animo di un fratello sempre proteso all'amore verso il prossimo, di
un prete coerente con le proprie scelte, ligio all'impegno di fedeltà a
Dio. Tutto senza forzature o accentuazioni. Poco, e solo a guida o a
precisazione, interviene il Contran; egli preferisce in vero riproporre i
fatti nella loro "storica" compiutezza, lasciando quindi al lettore di
valutarli e di trame eventuali indicazioni e ammaestramenti in base
ad una propria ottica, secondo una personale sensibilità. E l'insor
genza di interesse e di emozioni diviene fatto naturale, giacchè, pur
lontani gli episodi narrati sotto il profilo cronachistico, si rivelano
nell'essenza intima pregni di virtù, di genuina freschezza, in perfetta
sintonia con le istanze del tempo presente. Attualità che li rende
ancora discorsivi e palpitanti di vita, improntati, pur nell'antinomia
di passato e presente, a saggezza e guida, a godimento dell'animo.
Non poco certamente per giustificarne una rifioritura, la propo
sta di nuova, più vasta conoscenza.
Paolo Tieto
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PREFAZIONE
Si era sentito male durante la processione del Corpus Domini, ma sostenuto a braccio dai sacerdoti, volle camminare fino al Duomo pregando sottovoce. Don Giulio Rettore che gli era vicino gli disse: «Monsignore, la portiamo in canonica?» Il vecchio abate si scosse e guardando la folla che s'accalcava in chiesa gli rispose in dialetto: «Portéme dove che xe el Paron». Lo fecero sedere in prersbiterio, mentre il rito veniva concluso con la benedizione del Santissimo.
Dopo il «Dio sia benedetto», lui si alza e va alla balaustra. Ha il volto di un pallore impressionante e le mani gli tremano. La folla dalle navate lo guarda in silenzio. «No xe gnente - dice con voce alterata - no xe gnente. Ste tranquilli».
Furono le sue ultime parole, in pubblico. Tre mesi dopo mons. Pio Stievano, il 29 agosto 1939, chiudeva la sua giornata terrena.
Ricorre quest'anno il mezzo secolo dalla sua scomparsa e il ricordarlo non è solo un gesto di riconoscenza verso un arciprete che privilegiò nel suo lungo ministero l'amore ai poveri, ma una ripresentazione doverosa d'un personaggio che ha caratterizzato un 'epoca della lunga storia della Saccisica. Alla sua morte qualcuno scrisse che Piove di Sacco aveva perso il suo ultimo patriarca.
L'affermazione, a distanza di tempo, non ci pare esagerata se si pensa che lo Stievano muore proprio nell'imminenza dello scoppio della seconda guerra mondiale.
Era succeduto nella sede abbaziale di San Martino nel 1909 a mons. Roberto Coin nominato vicario generale della diocesi di Padova dal vescovo Luigi Pelizzo. Il suo arrivo a Piove fu per la popolazione un autentico trauma. Quanto il Coin era stato intraprendente, espansivo,eloquente, tanto don Pio (come lo chiamerà subito la gente) si presentava calmo, severo e di nessuna oratoria. Vi aggiungeva anche una nota di chiaro rifiuto per tutto ciò che poteva sapere di artificio e di supponenza.
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Era nato a Roncaiette il 18febbraio 1866 da una famiglia benestante, ma tutt'altro che chiusa ai problemi del mondo rurale. Divenuto sacerdote il 12 agosto del 1888, prosegui gli studi presso la facoltà teologica del Seminario Maggiore e l'università del Bo. Insegnò lettere e poi teologia morale rivelando doti didattiche e senso pratico non comuni. La sua nomina ad abate mitrato suscitò rimpianto tra i suoi allievi ma non fece molto scalpore, perchè lui non aveva nascosto il desiderio di fare il parroco.
Piove, nonostante le iniziative a carattere sociale promosse dal/'instancabile Coin, conservava i lineamenti di un centro ancora profondamente vincolato al passato. Le battaglie sociali e politiche del tempo, che pur avevano in città dei fieri animatori e sostenitori, non scomponevano il vasto territorio della Saccisica. Vi regnavano il latifondo, i casoni e parecchio analfabetismo.
Qualche anno dopo il suo ingresso, scoppiava la prima guerra mondiale e più tardi ilfascismo. La parrocchia continuava a restare il punto di riferimento e di aggregazione sociale, religiosa e in parte anche culturale. Piove conservava per tutto l'interland l'antico fascino del paese con i due giorni di mercato, le fiere franche, le scuole con la classe quinta elementare e un duomo dove nelle grandi solennità liturgiche l'abate, detto anche vescovo delle Basse, celebrava il pontificale circondato da tanti preti su un presbiterio pieno di luci.
Don Pio non era fatto per le rivoluzioni e capì subito che la strada da percorrere era quella di tener desta la fede della popolazione e aiutare le singole famiglie a maturare una nuova coscienza civile. E scelse di mettersi sulla loro giustezza d'onda in tutti i sensi. I Piovesi lo ricordano per il suo abituale uso del dialetto nella catechesi, per la predicazione costellata di battute tra !'ironico e il compassionevole, per la sua attenzione ad ogni singola necessità, per il coraggio neWimporsi ai padroni e agli anticlericali.
Quando morì gli trovarono in tasca 20 centesimi. Ma la cosa non sorprese nessuno, anzi servì a dare un tocco sublime ad uno stile di carità che lo aveva sempre accompagnato. La parrocchia
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era divisa in curazie e queste erano spiritualmente assistite dai rispettivi cappellani. Don Pio si riservava la visita annuale allefamiglie. Era un avvenimento per i ricchi e per i poveri, per i miscredenti e per i fervorosi. Si trattava di una specie di bilancio religioso, educativo, economico, demografico. Non usava cartelle o libriccini per appunti, perché registrava tutto in quella formidabile memoria che lo sorresse fino all'ultima ora di vita.
Le questue costituivano per lui il pretesto per un passamano della carità. Quello che riceveva da unafamiglia lo donava subito ad un'altra più bisognosa. Angelo Bacco, che lo accompagnò con la vecchia timonella per tanti anni in queste visite, era solito ripetere: «De qua venisti, de qua andasti», cioè, don Pio con una mano riceve e con l'altra dà via. Giuditta Marin, l'indimenticabile e laboriosa perpetua dell'antica canonica, più volte trovò che all'ora di pranzo era scomparso quanto aveva preparato sulla tavola: «Magnaremo stasera» era il commento dell'arciprete. E c'erano sempre i poveri in anticamera ad attenderlo, magari per trovare la soluzione ad uno sfratto incombente.
Don Pio aveva tutte le doti di una vera guida spirituale. Personalmente si riteneva servo inutile e peccatore e in confessionale si commoveva fino a piangere, quando una persona ritrovava la pace e la fede. Uomo di preghiera, era il primo ad arrivare in chiesa e ultimo ad uscirne. Severo con se stesso, non tollerava che si scherzasse sull'onore a Dio e sulla dignità delle persone. La domenica era sacra, come lo era il sacramento del matrimonio. Guai a chi li toccava.
Le sue prediche, in gran parte moraleggianti, andavano a segno e suscitavano lunghi commenti perchè le storie che raccontava erano vere. Sulla sua oratoria si potrebbero scrivere dei libri. Venivano da altri paesi per sentirlo parlare. Intercalava feroci reprimende ad osservazioni originali ed argute. Riservava la lingua italiana e i discorsi di cartello per le grandi occasioni e per la prima messa della domenica. Alla prima messa vi andavano le mamme di casa, le contadine semplici: «Queste - diceva - no le ga bisogno de tante
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spiegassion, parchè le conosse el catechismo». Il dialetto lo usava alla messa di mezzogiorno, quando arrivavano in chiesa quelli che lui, senza mezzi termini, chiamava "analfabeti de la piassa".
Passava lunghe ore in canonica a ricevere gente. La sua fama di consigliere e di educatore era notissima in diocesi. Autorevole fino a diventare proverbiale. Anche tra i ragazzi che baruffavano, era facile cogliere questa espressione: «Ti do una sberla che neanche don Pio te la cava».
L'aneddotica sull'arciprete di Piove è molto ricca. Vero o verisimile, non importa, ciascun fatto ci rimanda, a distanza di tanti anni, aspetti e momenti significativi della sua complessa personalità. I suoi rapporti con il fascismo, il suo modo di trattare con il pubblico, i segreti del suo successo pastorale., l'arte del dialogare con i suoi collaboratori, i suoi incontri con le autorità formano altrettanti capitoli di una storia che meriterebbe d'essere scritta. Dietro ad essa non c'è solo mons. Pio Stievano, ma l'ultimo spezzone di una vita millenaria piovese che ebbe il suo fulcro nell'area della Corte Milone.
Qualche settimana prima della morte egli chiedeva al cappellano don Lelio Bordin uno scapolare nuovo della Beata Vergine del Carmine: «Va' a tormene uno, benedissemelo, e po' te me lo porti. Parchè, andare davanti a la Madonna co on abitin vecio ... no, no!». Dopo averlo indossato, domanda: «Ch 'el me dura on toeo?». L'episodio ha la freschezza di un fioretto francescano, ma la domanda andava molto più in là. Don Pio sentiva che stavano per finire con lui molte altre cose.
Nell'ideare questo libro eravamo tentati di approfondire proprio quelle cose, quindi anche difare una biografia sistematica dello Stievano. Ne avrebbe avuto diritto, non fosse altro perchè sifosse reso omaggio attraverso di lui ai tanti arcipreti che lungo i secoli hanno onorato la Chiesa di Piove e sono stati maestri di fede per l'intera Saccisica.
Abbiamo preferito lasciare a ricercatori di professione e meno affettivamente coinvolti nel personaggio, uno studio più ampio e
lO
più colto. Noi abbiamo scelto un 'altra strada. Con pazienza certosina abbiamo raccolto ricordi, battute, epi
sodi, testimonianze di chi l'ha conosciuto direttamente o di riflesso. Ci siamo trovati di fronte ad un materiale enorme, che rifletteva al fondo una stima sconfinata per don Pio, ma era purtroppo affastellato in un amalgama di leggenda e di storia. La scelta non ci è stata facile.
Per rendere omaggio all'Abate della nostra preadolescenza (l'età delle impressioni più forti) e per non appesantire la ricostruzione della sua vicenda umana e sacerdotale con elaborate ricerche d'archivio, ci siamo orientati a presentarne la figura attraverso ciò che rimane di lui nel racconto dei Piovesi.
Non tocca a noi rispondere alla domanda se un uomo del genere potrebbe trovare spazio oggi. Sappiamo che lui è stato così grande da riempire di sè una lunga stagione della nostra comunità. Gli epi-
. sodi che qui presentiamo, letterariamente ritessuti, serviranno, specialmente a chi non ha avuto la grazia e la fortuna di conoscerlo, a rivelare qualcosa della sua grande statura morale. Non tutti sono importanti, ma ciascuno servirà a spiegarci chi era don Pio e perchè è diventato "leggenda".
Alfredo Contran
Il
Il terribile scioglilingua
Nel luglio del 1938 avevo deciso di entrare in seminario, ma chi aveva il coraggio di andarglielo a dire? Don Pio, pur tenendo mi d'occhio, non me ne aveva mai parlato, anzi, quando gli capitava l'occasione di strigliarmi: «Taca quea veste al ciodo (cioè: non risponderai messa) - e dighe a to mama che la vegna da mi». Mia madre andava, si parlavano tra loro, forse anche di me, che ero chierichetto puntuale della messa prima, la sua, insieme con Agostino Baron e Augusto Frison. Però, mai una soddisfazione, un complimento, un grazie, un incoraggiamento. Anzi.
Una mattina (ma accadde più volte), nell'alternare con lui il salmo Introibo ad altare Dei, inceppai nel micidiale versetto "et quare tristis incedo". Uno scioglilingua su cui, presto o tardi, tutti i chierichetti finivano con l'ingarbugliarsi, ma che a me suonava ostico, anche perchè nessuno me lo aveva mai insegnato. Non conoscevo il latino e figurarsi se Lui, attento anche alle sfumature, non se ne accorgeva. Me lo fece ripetere tante volte, che dieci anni più tardi, mentre mi trovavo sotto un bombardamento a Padova, di tutte le preghiere che sapevo, guarda caso, mi venne in mente bello, completo, esatto anche nelle sfumature, solo il terribile" Judica me, Deus" con quel perfido ritornello "quare me dereliquisti et quare tristis incedo dum affligit me inimicus?"!
Chiesi a mia madre di accompagnarmi in canonica dall'arciprete. Era verso sera. La Corte Milone con le vecchie case e i portici e il pozzo e gli alti ciuffi di piante, che conoscevo per nome, guazzava nella luce tagliata da ombre oblique.
Venne ad aprire l'immancabile Giuditta. Mamma mi fece un ultimo esame di coscienza: « Sei proprio deciso?». Stavo per rispondere, quando l'abate apparve sull'uscio. Aveva in testa il tricorno, con l'enorme fiocco viola: segno che doveva recarsi, come di consueto, all'ospedale. Attorno al pozzo si stavano rincorrendo quattro seminaristi. «Li vedito? - dice a mia madre - de quei, gnanca uno!».
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Mia madre era sì timida, ma aveva inteso bene la lezione e azzardò: «Allora, mi tengo a casa anche il mio?».
Entrammo in canonica e don Pio ripetè a me: «Quei no, ma ti, sì». C'era un tavolo indescrivibilmente pieno di carte. Lo aggirò come una trincea e andò ad accomodarsi su una specie di sediapoltrona. «Dunque, te voi entrare in seminario! Alora te provi e te fè».
Ero ragazzino, e il discorso mi parve senza costrutto. Pensavo che per entrare in seminario mi occorresse - e perchè no? - almeno un discorsetto speciale. Don Pio mi lesse negli occhi e, sicuro come quando durante il pontificale impugnava il pastorale, «Se fa - mi disse - e se rifà; bisogna pensarghe sul serio e rivarghe!».
Nel luglio del '48, come mi aveva predetto, ero prete.
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Una pedata, una lettera, una vocazione.
Soprattutto negli anni Trenta, si registrò a Piove un notevole fiorire di vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Allora si diceva: "Andare prete", "andare suora" e c'era in paese un rispetto profondo, quasi una venerazione, per il ragazzino o la ragazza che manifestava il desiderio di farlo.
A suscitare ed individuare la «vocazione» nessuno era bravo come don Pio. Lasciava fare ai cappellani, che di solito seguivano come direttori spirituali i ragazzi o le ragazze; ma la verifica periodica la faceva lui, a volte chiamandoli in canonica a quattr'occhi, a volte scambiando un po' di chiacchiere con i rispettivi genitori.
Quando il soggetto, a suo parere, era maturo, lo prendeva direttamente sotto il suo controllo. Se ragazza, l'affidava alla responsabilità personale della superiora della scuola materna (allora: asilo infantile), se ragazzo, lo voleva tra i chierichetti. Sceglieva tra questi, a "servire" la sua messa, proprio quelli che davano segni di vocazione. Li voleva presenti a tutti i riti liturgici, compresa la "messa prima" quotidiana, non tanto perchè fosse la più importante, quanto invece per allenare il ragazzo al sacrificio e alla puntualità.
Il «prima» e il «dopo» messa costituiva anche il momento prezioso per osservare più da vicino il comportamento del ragazzino. In sacrestia i chierichetti dovevano stare in silenzio assoluto, ma si sa che i ragazzi riescono a parlare anche con altri mezzi: l'alfabeto muto, gli spintoni, il farsi le boccacce, le pedate. Don Pio le conosceva bene queste gherminelle, forse se n'era servito anche lui da chierichetto nella sua chiesa di Roncaiette, e perciò faceva finta quasi sempre di non accorgersene. Ma fino ad un certo punto. Cioè fino alle .. . pedate.
Il caso che raccontiamo riguarda mio fratello Sergio e merita tutta l'attenzione perchè lo crediamo unico nel suo genere. È certamente rivelatore della grandezza pastorale e dell'eccezionale sensibilità educativa del vecchio arciprete.
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Siamo in sacrestia, è domenica. Noi chierichetti,com'è consuetudine, siamo allineati dietro il bancone centrale. Don Pio sta parlando con Narciso Briani, uno dei "cappati" più fedeli. Passa don Lelio Bordin, il cappellano a cui noi chierichetti eravamo particolarmente affezionati. Ci strizza l'occhio e fa cenno: continuate a stare in silenzio, se potete.
I più irrequieti sono quelli di mezzo alla fila, mio fratello Sergio e Giovanni Miante. Bisticciano tra loro prima a gesti, poi a spintoni, finchè il primo sferra un calcio al secondo. La scena è così rapida che nessuno di noi se ne accorge, ma non è sfuggita all'arciprete: «Sergio - dice - taca la veste al cio do e dighe a to mama che la vegna da mi». Il piccolo sa che è inutile imbastire difese, esce dal gruppo, si toglie la cotta e la veste di chierichetto e va a casa.
Qui papà, paziente, ascolta la storia e si rende conto che la pedata non era partita per caso. Andare dall'arciprete poteva essere la strada più semplice. Tra adulti ci si capisce subito in queste cose. Suggerisce invece a Sergio di scrivere a don Pio chiedendogli scusa e l'autorizzazione a rientrare nel gruppo.
Siamo nell'imminenza delle feste natalizie e il ragazzino si sentirebbe come uno straniero in terra se non fosse riammesso: la sacrestia, il duomo e la Corte Milone erano tutto per lui. Prende carta e penna e scrive a Don Pio. Frasi da ragazzo, ma piene di sentimento. E aspetta con ansia la risposta. Passano le feste e l'arciprete, quando incontra papà e mamma in chiesa, ha l'aria di essersi dimenticato della faccenda.
Invece, il 3 gennaio 1939, il postino recapita a casa nostra una lettera indirizzata «Al giovinetto Sergio Contran di Nicola - Piove di Sacco». Il foglio è intestato: «Chiesa arcipretale abbaziale di Piove di Sacco», proprio di quelli che don Pio usa per scrivere al Vescovo o al Podestà, o per mettere ... sull'attenti qualche persona che gira troppo allargo dalla canonica. Questo il testo: «Ti dispiacque di non servire la S. Messa a me nel giorno del S. Natale? A me pure disciacque; e non solamente per il S. Natale, ma per i giorni antecedenti e seguenti. Crederesti che io mi diletti a farti patire?
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Tu domandi perdono: quante volte me lo domandasti, e sempre peggio. Assicurati, che è solamente per il papà tuo e la mamma tua che ti sopporto, ancora, in sacrestia: i tuoi genitori! ai quali non ebbi il coraggio di dire che cosa abbia fatto ... e dopo tante promesse. Come si fa a pensare e a parlare di seminario con cotesto contegno?
Non dire che bisogna perdonare, perchè, nel caso tuo, altro è perdonare e altro è ammetterti di nuovo alle condizioni di prima, alla mia stima e alla mia fiducia. lo ti ricambio gli auguri di benedizioni copiose ed elette, a te, ai tuoi genitori, ai tuoi cari tutti, da parte del celeste Bambino. - Don Pio Stievano».
Conoscendo don Pio, a tanti anni di distanza non esitiamo a definire sublime questa lettera. Un uomo così grande non si sente per nulla umiliato nello scrivere ad un ragazzino, e tratta con lui con una serietà ed un rispetto quali si converrebbero a un destinatario adulto.
All'arciprete, quel ragazzo stava molto a cuore e il motivo vero lo rivela lui stesso con la domanda: «Come si fa a pensare e a parlare di Seminario con codesto contegno?», alla quale Sergio avrebbe data più tardi una precisa risposta, scegliendo la vocazione alla vita missionaria.
Tante storie per un calcio? Al Miante era sfuggita una parolaccia pesante nei confronti di nostra madre e mio fratello aveva reagito d'istinto. Don Pio aveva sentito e visto tutto. Era rimasto colpito dal fatto che, chiamato da lui a ... rapporto, al momento della sospensione del servizio di chierichetto, il ragazzo non si era giustificato né aveva accusato il suo amico. C'eIa del carattere, quindi, e della buona stoffa per farne un galantuomo e un prete. Valeva la pena di scrivergli una lettera, mandargli un segnale. Al di là delle righe e delle parole c'era un chiaro invito: torna, perché ti voglio bene.
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La strada pareva lunga
Nel '35 mia madre andò soggetta ad un forte esaurimento. Se lo portò dietro finché poté, poi ne parlò al medico di famiglia, dotto Lorenzoni. «Un po' di ricostituente, signora, e ... aspettare che paSSI».
Com'era sua consuetudine, andava ogni giorno alla messa prima, quella che l'arciprete celebrava all'altare del Santissimo. Ne usciva che l'alba si affacciava sui grandi rosoni della navata centrale. D'estate mandavano barbagli di porpora e lilla anche le stazioni della Via Crucis. Le ultime ombre se ne andavano dalla porta del coro grande, quando Milio spegneva le candele del catafalco per l'immancabile ufficiatura.
Una mattina, mamma uscì dalla "bussola" che dà verso il campanile. Qualcosa però non le quadrò subito. Le cose sfumavano, la piazza sembrava lontanissima. Un capogiro, un breve pallore in faccia. Poi tutto tornò a ricomporsi. All'angolo del panificio di Osti infilò la strada di casa, la riconobbe subito, ma come le parve insolitamente lunga! Non ricorderà più quanto tempo vi abbia impiegato a percorrerla. «Forse il solito tempo, forse ... sto camminando ancora», era solita dire.
Con mio padre non ne fece parola: aveva in quei mesi, pover'uomo, altri gravi pensieri. La mattina dopo, puntigliosamente, tornava alla messa. Al sanctus la prese una strana vertigine. Il "Massime eterne" era diventato illeggibile e le fiammelle sui candelabri d'ottone continuavano a moltiplicarsi a dismisura. Tenne saldo, e alla fine della liturgia si alzò per andarsene verso casa. Ma dov'era la strada?
Uscita sulla piazza non si racapezzò più; attorno non c'era nessuno, l'acqua della fontanella, più in là, continuava a gorgogliare tranquilla. Ebbe un'idea: vado da don Pio. Lo trovò in sacrestia, seduto sulla vecchia poltrona di damasco rosso ormai liso. «Cossa feto qua a' sta ora?». Mia madre non rispose, aveva un nodo alla gola e non sapeva perché. L'arciprete era il suo confessore. «Vien
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co mi, vien drio e varda dove che mi camino», le disse con una voce che esigeva d'essere ascoltata.
L'abate aveva capito di che cosa si trattava: esaurimento dovuto a stanchezza. «Andammo in canonica - raccontava mia madre -. Seduto al tavolo dell'anagrafe stette raccolto in preghiera per oltre dieci minuti. Teneva la faccia nascosta tra le mani. poi chiese: cossa gheto? - Risposi che non riuscivo a trovare la strada di casa».
Si alzò, la benedisse e aggiunse: «Ti la strada, te la trovaré sempre». Infatti, mia madre non la sbagliò più, nemmeno quando la nebbia era così fitta da far scomparire i grandi platani della strada Sanvio.
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Una grazia su ordinazione
Agli inizi degli anni Trenta, ci furono in Duomo alcune liturgie a ricordo del centenario del Voto, cioè dell'impegno assunto ufficialmente tre secoli prima dai maggiorenti della comunità di Piove, di recarsi ogni anno in pellegrinaggio con la popolazione al santuario della Madonna delle Grazie, offrendo un consistente quantitativo di cera.
Mio padre, che era confratello del Santissimo, vi andò con il camice bianco, la mantella rossa e il grosso distintivo sulla sinistra. Aggrappato ad una scranna di legno robusto io guardavo verso l'altare. Di là venivano tanta luce e tante volute d'incenso. Cantavano il Te Deum, ma non capivo donde giungesse la melodia. Pareva che le note fiorissero dovunque e l'organo le raccogliesse per rilanciarle tra le navate.
Al termine della funzione, l'arciprete mandò a chiamare mio padre che si era appena tolto la divisa di cappato nell'oratorio del "paradiso" .
«Senti, Nicola, dove xea la Clementina?». Mia madre era a letto con una broncopolmonite e proprio quella sera il termometro aveva toccato i 40 gradi. Cose serie, tanto che mio padre, qualche anno più tardi mi confidava che era andato in chiesa per chiedere il miracolo alla Madonna. «Monsignor - rispose - va sempre peggio. Mi raccomando, preghi per lei». Don Pio girò lo sguardo, come per cogliere un'ispirazione e battendogli su una spalla: «Va' tranquillo - gli rispose - la sta za mejo».
Di ritorno trovammo la mamma seduta sul letto, serena e sfebbrata. Qualche giorno dopo, l'arciprete incontra mio padre: «A che ora xea sta mejo la Clementina?». La voglia di ringraziare era tanta e mio padre ne approfittò per dirgli: «Monsignore, le sue preghiere hanno fatto effetto». E lui: «Te domando a che ora che la xe sta mejo?».
«Quando son tornato - precisa mio padre - era già un' altra». «Va ben, va ben - concluse l'arciprete - gheto visto che la
Madonna le grassie le fa subito!?»
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I due fratelli cappellani
Nel 1906 arrivava a Piove di Sacco come cappellano don Primo Dalla Zanna. Aveva in comune con suo fratello gemello, don Secondo, la licenza della maturità classica, ma non la stessa vivacità d'intelligenza. Era stato richiesto espressamente dall'arciprete mons. Roberto Coin il quale sperava che, presto o tardi, la Curia avrebbe mandato come cooperatore anche don Secondo, visto che i due fratelli si comportavano molto bene sul piano pastorale. Don Secondo giunge solo due anni dopo, proprio quando a mons . Coin subentrava don Pio. Lo Stievano li aveva avuti tutti e due come scolari in seminario alle lezioni di teologia morale, ne conosceva quindi il diverso livello culturale.
Erano tempi relativamente tranquilli per la Saccisica, ma non per il cosiddetto «centro» di Piove dove una pattuglia di intellettuali e di radicalsocialisti sosteneva le idee che Podrecca e Galantara diffondevano attraverso "L'Asino", la più nota rivista satirica dell' epoca. Nessuno dei due Dalla Zanna era tagliato per far mischie ideologiche: o, forse, solo don Secondo. Ma l'arciprete non volle mai che i cappellani si impegolassero in faccende politiche. Preferiva avocare a sé ogni questione che avesse un risvolto sociale e raccomandava ai due di interessarsi di liturgia, di catechismo e di confessioni.
Non riuscirà, però nel 1910 a tener a freno il nuovo cappellano, don Aldo Martinati, che cresciuto come maestro di camera dei vescovi Callegari e Pellizzo, portava a Piove la creatività e lo spirito battagliero del corporativismo cattolico. Costui rimise in piedi tutte le associazioni e i gruppi di impengno sociale promossi, vent'anni prima, dal Coin e in più si divertì a spiazzare le iniziative dei cosiddetti «anticlericali» con manifestazioni che allora ebbero grandissima risonanza.
Celebre è rimasta la beffa giocata proprio al Podrecca, il quale, invitato a parlare sulla piazza erbosa di Arzerello dalle società cultural-operaistiche del mandamento, si trovò di fronte a centinaia
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di contadini che tenevano al guinzaglio capre e maiali di tutte le taglie. Mons. Pio, quando lo seppe, perse la pazienza e rimproverò il focoso collaboratore, ma fece poi sapere agli amici del Seminario che la cosa non gli era dispiaciuta.
Dunque, i fratelli Dalla Zanna erano cappellani su misura dello stile pastorale dell'arciprete: ma non del tutto. Il primo gli pareva povero di spirito o, per dirla schietta, semplicione; l'altro dotto, ma con la testa fra le nuvole.
Un pomeriggio, uscendo di canonica, si imbatte in don Primo e lo apostrofa: «Don Primo, gheto visto don Secondo?». E l'altro, subito «Si, monsignor, era qui cinque minuti fa». Alla sera, dopo, la recita del rosario, torna alla carica: «Don Primo, gheto visto don Secondo?» E quegli, ignaro di dove andasse a parare il discorso, senza riflettere un attimo, risponde: «Si monsignor, è appena andato da un ammalato all' Albora». L'abate scoppia: «Gheto visto don Secondo che stamatina el ga dito messa con la bareta in testa?» Poi, fingendosi preso da un atroce sospetto, aggiunse: «O ve scambièo, ogni matina, bareta e testa?»
I due fratelli non fecero molta strada a Piove, perché l'abate, appena poté, li spedì ad altra destinazione.
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Una lettera sofferta
Nel gennaio del '141'0n. Finocchiaro Aprile, notoriamente framassone, presentava alla Camera una proposta di legge tendente ad innovare la prassi matrimoniale italiana. In pratica, l'esimio parlamentare chiedeva che il matrimonio civile precedesse quello religioso, rivoluzionando una prassi che aveva le sue profonde motivazioni religiose.
Il vescovo di Padova pubblicò sui giornali locali una lettera e invitò i vicari foranei a rivolgersi ai parlamentari delle loro rispettive circoscrizioni chiedendo di farsi interpreti "in alto loeo" del profondo senso di disagio del mondo cattolico padovano.
Il deputato della Saccisica era Romanin Jacur, ebreo, di viva sensibilità sociale e attento interprete dei problemi della gente. Lo Stievano gli scrive, in data non precisata, una lettera di cui si conserva la malacopia nell'archivio parrocchiale di Piove. Il testo presenta una decina di correzioni, segno che l'autore ha voluto soppesare anche le virgole. L'arciprete, pur essendo stato insegnante di lettere e di morale, non mostrava molta simpatia per la lingua italiana. E anche qui ha un linguaggio asciutto e quasi sofferto.
Questo il contenuto: «Illustrissimo Signore, in ordine alla minacciata legge, che imporrebbe la precedenza del rito civile al matrimonio religioso, con i miei sacerdoti avemmo occasione di parlare più volte in chiesa. Ieri, poi, venne da Padova a parlare in chiesa, in mio luogo e a mio nome, un sacerdote che fece un commento all'accennato progetto di legge; quindi si fece l'esposizione e dinanzi a nostro Signore si cantò il miserere per implorare da Dio benedetto che non si permettesse questa nuova offesa alla religione e alle anime cristiane».
Perché il parlamentare non sospettasse di complotti politici organizzati con pretesti pastorali, don Pio aggiunse: «Una funzione religiosa, nient'altro che religiosa, dopo della quale fu mandato un telegramma in relazione al progetto, uno all'ono Vicepresidente del
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Consiglio e uno appunto all'ono Romanin Jacur. Tanto mi pregio di significarLe egro ill.mo Signore.»
La lettera conclude con una dichiarazione di stima per il parlamentare, ma nel contenuto con una riaffermazione dell'incomprensibilità dell'iniziativa di Finocchiaro Aprile.
Non possediamo la risposta dello Jacur, ma la lettera di don Pio assieme alle tante altre arrivate al governo fecero decadere la temuta proposta.
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Spumante e dolce ogni giorno
Nel 1926 mons. Bartolomeo Co demo predica, con il celebre vescovo di Città di Castello mons. Carlo Liviero, le Missioni a Piove. «Al quinto giorno - racconta - sono in confessionale. Fuori c'è una doppia fila di penitenti. Sento battere su una delle grate e penso si tratti del sacrestano. Manca un'ora al pranzo e, come tutti gli altri giorni, è il momento degli incontri a tu per tu in sacrestia con le persone che hanno problemi da risolvere.
È, invece, il parroco di Boion: "Senti - mi dice - oggi vieni a pranzo a casa mia. Fuori c'è la carrozza pronta". Il Co demo non si fa ripetere l'invito e prega il sacrestano di avvertire la Giuditta in canonica che non sarebbe stato a pranzo con don Pio.
Alla sera questi, bofonchiando, si rivolge al Liviero e agli altri sacerdoti: «Oh, i xe 'da a Boion on quo; a Boion. Cossa ghe gera de bèo a Boion?».
Mons. Codemo, punto sul vivo e stufo dopo una giornata di confessioni, ribatte: «C'era una minestrina con un brodo eccellente, un lesso squisito, un arrosto meraviglioso».
E dopo? - insiste l'arciprete. «E poi, finito tutto - continua il Codemo - c'era una bottiglia e un dolce che qui non ho mai visti».
Lo Stievano sapeva incassare con un'abilità imprevedibile. E tacque. Ma, da quel giorno, per l'intero corso delle Missioni, volle che in tavola, a mezzogiorno e sera ci fossero lo spumante e il dolce.
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Una predica fuori tono
Quell'anno (1935) nella chiesetta di sant'Anna vollero fare le cose in grande. La festa della patrona, il 26 luglio, di solito si celebrava con tre messe al mattino e i vesperi alla sera. L'organizzazione spettava al titolare della curazia, il quale doveva procurare i paramenti e provvedere al rinfresco per i sacerdoti.
Fu proprio don Alessio Ferraro, il curato in carica, ad interessarsi che per la liturgia pomeridiana della nonna del Signore ci fosse qualcosa in più. C'era pure un cabaret di pasticcini per noi chierichetti, che ci saremmo accontentati anche della semplice ma impagabile soddisfazione di suonare l'unica campanella dell'oratorio. Il battaglio menava colpi in falsetto ad ogni strattone che davamo allungo zinco che fungeva da corda. Ci si spellava le mani, ma a noi pareva che da Sanvio, dai Ramei e dalla Scardovara la gente uscisse in strada per sentire la più piccola campana della Saccisica.
La vera novità fu un'altra. Di solito, al vespero, don Pio riassumeva per i presenti (ci voleva poco a riempire la navatina spoglia di tutto) le invocazioni fatte da don Alessio durante la novena. Immancabilmente concludeva il suo fervorino: «O Sant' Anna, chi prega si salva, chi non prega si danna!».
Quella volta, invece, prese la parola don Annibale Tonon: cotta ricamata, stola con fregi, mani enormi e una faccia scavata da rughe molto profonde. Andò per le lunghe, troppo: più di don Pio che, per queste circostanze, di solito infiorava il discorso con tante raccomandazioni alle nuore, alle suocere, alle vedove, non dimenticando le donne che portavano il nome di Anna.
Don Annibale era l'uomo più riservato dell'universo. Noi chierichetti gli volevamo bene, perché ci regalava venti centesimi quando "rispondevamo messa". Ai più diligenti aggiungeva una carezza e un «ciao» pieno di malinconia.
Attaccò il discorso sulla madre di Maria Santissima, e si capì immediatamente che le cose si mettevano male perchè scomodò subito i vangeli apocrifi (fu la prima volta che sentii quella parola)
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e poi volò a Saint Anne de Beaupré del Quebec, dove c'è un grandissimo santuario a lei dedicato e si dilungò a descriverlo.
Mons. Pio, prima lo ascoltò con attenzione, poi con impazienza, quindi con certe strane contorsioni della bocca, come per dire: «Adesso hai superato il segno». Noi chierichetti non ci accorgevamo di nulla e continuavamo ad adocchiare le piccole braci del turibolo che fumigavano vicino alla porta della sacrestia.
La sagra finÌ con i mortaretti e, appunto, con il rinfresco, durante il quale l'arciprete (ce lo raccontò molti anni più tardi mons. Antonio Schiavo) disse al Tonon: «Fin che mi son abate de Piove, ti no te predicarè più». Pare che don Annibale, elogiando sant' Anna, durante il discorso l'avesse più volte definita "vergine e martire".
Vera o falsa la cosa, da quel giorno fino alla morte, lui a Piove non predicò più.
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Il congresso dei «moccoli»
Nel 1936 ci fu a Piove il congresso vicariale dei chierichetti. Su questi ragazzi, detti comunemente "zagheti", la gente aveva delle strane opinioni. Vestiti con la talare nera e la cotta bianca facevano un bel colpo d'occhio durante le solenni liturgie. Qualcuno aveva anche una voce stupenda da soprano e lo si sentiva cantare da solo i versetti dello Stabat Mater della Via crucis nei venerdì di quaresima o le litanie del Sacro Cuore nel mese di giugno.
Parecchi dimostravano l'inclinazione ad "andare preti" ed erano i più seguiti dai cappellani. Ma fuori di chiesa, e cioé in sacrestia e in Corte Milone, apriti cielo! si scatenavano come tante piccole furie. A Piove, come altrove, correva il proverbio: «1 zagheti de sacrestia xe i peso che ghe sia». 1 chierichetti erano la disperazione dei sacrestani perchè uscendo per il canto del Te Deum con le grosse torce facevano delle enormi chiazze di cera calda sul tappeto rosso dell'altare maggiore. Ed era poi una tribolazione da morire per toglierle via senza sciupare il tessuto.
Quella volta a Piove convennero dall'intera forania quasi ottocento "mocoli" (li chiamava così don Bordin che aveva in mano l'intera organizzazione del raduno). Vi fu una messa con i fiocchi e poi una processione sul sagrato con il Santissimo portato da don Pio.
Unica nota stonata nel corso della giornata il comportamento estremamente indisciplinato dei "zagheti" del capoluogo. «Avevano l'argento vivo addosso, sembravano addirittura scatenati - racconta il Bordin -. Alla sera, commentando la manifestazione, me ne lagnai con l'arciprete, dicendogli: monsignor, ha visto gli altri? Mani giunte, in fila due a due, facce serie, non una parola; i nostri mvece ... »
Don Pio non lo lasciò nemmeno finire e disse: « ... i nostri inves se i va preti; gli altri no. Non basta le man xonte a far i boni putei».
l fatti gli dettero ragione: l'anno successivo, quattro di quei ragazzi entrarono in seminario.
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AI demonio ci credeva
Aveva delle parole latine che pareva gustare nel pronunciarle. Nell'oremus del Te Deum c'era il "pro collatis donis"; durante i funerali, al salmo Te decet hymnus, Deus, in Sion, quasi declamava lo stupendo versetto' 'multiplica genimina eius, et in stillicidiis eius locupletabitur germinans". Naturalmente noi chierichetti non capivamo nulla, ma, a furia di sentirle quelle parole sono entrate nella nostra memoria ed evocano, anche a oltre cinquant'anni di distanza, fantasmi e risonanze.
Il pezzo classico era costituito dal "Sancte Michael Arcangele" , la preghiera conclusiva della messa, che veniva recitata in ginocchio sull'ultimo gradino dell'altare. Mons. Pio la sentiva congeniale al suo temperamento. Quella spada sguainata nei cieli a menar fendenti sugli angeli ribelli e sui nemici della chiesa, sembrava balenargli davanti corrusca. E vedeva satana precipitare all'inferno con la sua scorta, infoltita di ali contestatrici. Lui le accompagnava sillabando le parole gravide di minaccia: "Satanam aliosque spiritus malignos ... in inferno detrude".
Al demonio ci credeva, eccome! Nel '35, su proposta di don Giulio Rettore, si recò a San Michele delle Badesse. Non accettava volentieri di uscire dalla parrocchia, prima perché sapeva di non essere oratore di cartello, e poi perché aveva già da fare abbastansa a Piove.
«Fu - ricorda mons. Giovanni Foffani - in occasione della festa di Sant'Agnese, patrona allora della gioventù femminile. Parlò della verginità della santa, della fede e del matrimonio, ma con una postilla tutta particolare sul demonio». L'argomento era troppo serio perché don Pio usasse il dialetto e disse: «Guardate che il demonio c'è. Bisogna credere che c'è, per rigettarlo. La Chiesa c'insegna a respingerlo sempre ... in infernum detrude! Sapete cosa vogliono dire queste parole! Caccia dentro all'inferno il demonio. La Chiesa non finisce mai la sua messa se non ripete: In infernum detrude! Il demonio c'è, bisogna sconfiggerlo».
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L'arciprete non era un uomo da crearsi fisime o credere scioccamente a tutti i passaggi del diavolo che gli venivano segnalati dai penitenti o dai confidenti. Però di qualche storia infernale doveva essere a conoscenza, se sul letto di morte ebbe a ripetere più volte: «Madonna delle Grazie, fa' che io venga a cantare le tue lodi a confusione dei tristi del mondo». Non si trattava delle anime sbandate, anzi per costoro non usò mai parole dure e fu largo di misericordia e comprensione. Alludeva forse a coloro che alla predica dei vesperi pontificali della Pasqua del '37 aveva definito "devastatori di coscienze"?
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Dopo la visita pastorale
La visita pastorale del '36 a Piove riuscì benissimo.Per la circostanza furono, tra l'altro, rilucidati i mobili della sacrestia e acquistata la cassaforte per i vasi sacri. Il vescovo Agostini espresse, a conclusione dei quattro giorni di incontri e verifiche, il suo apprezzamento all'arciprete, che sentì il bisogno di darne notizia ai fedeli. Naturalmente a suo modo.
Questo, a un dipresso, il discorsetto che tenne una domenica a "messa ultima": «Dunque, sua ecelensa me incarica de dirve che el xe sta contento, tanto contento. Si, parché el vescovo el xe on orno de creansa, quando ch'el parla e ch'el scrive. Mi, però, non posso dire d'essere sta proprio contento del tuto. Ansi ve digo che non so sta contento». (Sua eccellenza m'incarica di dirvi che è rimasto soddisfatto, tanto soddisfatto. Certo, perché è una persona educata sia quando parla come quando scrive. lo, però, non posso dire altrettanto, anzi vi dico che non sono stato soddisfatto.) E aggiunse una sfilza di osservazioni sui pregi e i difetti dei piovesi che servì di esame di coscienza a parecchi dei presenti.
C'è un'altra versione dello stesso episodio. Il vescovo Agostini nel corso del suo saluto ai piovesi, a conclusione della visita pastorale, sentì il dovere di felicitarsi con la buona popolazione per quanto visto. Del resto, gli stessi sentimenti li esprimerà per iscritto in una lettera all'arciprete il giorno dopo. Colpirono le sue parole di elogio tutto speciale che egli volle riservare allo Stievano. Si capiva che non erano frasi convenzionali e che il presule coglieva quella occasione per dire all'abate di Piove tutta la sua gratitudine anche per quell'importante lavoro di consulenza spirituale che questi esercitava a favore delle persone ed in particolare dei preti.
La domenica successiva, sempre al vespero, don Pio, di fronte ad una chiesa pure affollatissima (si voleva sentire cosa pensasse lui della visita pastorale), incominciava il suo discorso: «Sì, sì, tutto puito, tutto a posto. E invesse i va a ci amare el prete quando ch'el moribondo xe imbessile e no'l capisse pi' gnente. El vescovo
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ga dito ch'el ga visto tanta zente ai sacramenti. Invesse, qua a Piove, se bateza i putei dopo mesi, ghe xe zente che non se confessa da 15, da 20 e anca da 30 ani, i se sposa come che i voe»
(Sì, sì! Tutto bello, tutto bene, tutto a posto. E invece, si va a chiamare il prete quando il moribondo ha perso conoscenza e non può capire più nulla. Il vescovo ha affermato di avere visto tante persone accostarsi ai sacramenti. Invece, qui a Piove, i bambini vengono battezzati dopo mesi dalla nascita, ci sono persone che non si confessano da quindici, venti e anche da trent'anni e che si preparano al matrimonio a modo loro).
E continuò con il lungo elenco delle magagne morali dei suoi parrocchiani, aggiungendo che gran parte delle responsabilità era delle famiglie. «Adesso - concluse, sempre in dialetto - me dirì ch'el vescovo non ga miga parlà cussì, ansi ch'el ga dito tuto el contrario. Mancaria altro ch'el vescovo no'l gavesse creansa. Parché qua'l xe me ospite» (Ora, mi direte che il vescovo non si è espresso così, bensì che ha detto tutto l'opposto. Ci mancherebbe che il vescovo non si comportasse in maniera educata. Qui è mio ospite.)
Sfumature di particolari, ma la sostanza era che lo Stievano non si lasciava incantare né da elogi, né da successi personali.
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Lui lei e l'altro
Tempo di cresime. Le mamme fanno la fila nel corridoio a pianterreno della vecchia canonica. «Una alla volta», aveva raccomandato in chiesa l'arciprete, che adesso è là nell'ufficio che ripassa il catechismo a ciascuna delle buone donne venute a ritirare il certificato per il bambino o la bambina da "mettere in cresima".
«El vescovo - aveva detto nella predica della messa ultima -noI ga tempo de domandare se ve ricordé i comandamenti. Me toca mi; cussì me disì anca come che va la fameja». ( Il vescovo non ha il tempo per chiedervi se vi ricordate i comandamenti. Spetta a me; così mi dite anche come va la famiglia).
Parlava anche di altre cose. L'occasione era buona per chiarire a quattr'occhi certe storie che lui coglieva nell'aria e non si poteva dire in chiesa. Era ruvido, ma giammai indiscreto.
È il turno della signora X. «Disito le orasion matina e sera?» (Preghi mattina e sera?)
«Sì, monsignor!» «To mario vienI o a messa? 'ndeo d'accordo in casa? To missié
re gaIo ancora la tosse?» (Il marito frequenta la messa? C'è buona armonia in famiglia? Il suocero ha ancora la tosse?)
La donna risponde con precisione e lui scrive. Il rettangolo del certificato gli è là davanti: poche righe con tanti puntini da completare. Poi alza gli occhi: «Senti: chi xea la sàntola de la to putea?» (Senti, chi è la madrina della tua bambina?)
«Monsignor, lo go za dito l'altro giorno» «Ah no, ciò! - risponde duro l'abate - quela proprio no!
La donna trasecola e ribatte: «Monsignor, come femo adesso?» «Se fa sensa sàntola, o te ghe ne trovi 'n'altra» L'interlocutrice non si rassegna e tenta la carta della compas-
sione. «Arsiprete, lu sa che semo poaréti; la santola ga za comprà el vestito, le scarpe, el veo, i guanti, la caenina. E po', cossa dirai in giro? Come fasso, cussì, so do pié?». «Gnente, te trovi 'n'altra santola, parchè quela no poI farla»
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La donna se ne va indispettita e corre dalla mancata "comare": «Monsignor me ga dito che ti no te poi fare la sàntola».
Apriti cielo: quella si cambia vestito ed esce di casa: «Adesso vado mi, a védare. Chi soi, mi». (Ora vado io a vedere. Chi sono, io?)
Entra in canonica. Ormai la fila delle mamme si è assottigliata. Quando è il suo turno si piazza davanti all'arciprete. «Monsignor, so vegnua a védare parcossa che noI voe che fassa da santola» .
L'abate, senza muovere ciglio e come se si trattasse dell'affare più semplice dell'universo, dichiara: «Ti la sàntola non te la fé. Parché de no. Go dito de no». La donna insiste: «E mi ghe mando me mario». Don Pio si alza dalla sedia rossa. « Sì, sì, manda to mario, che lo speto». (Manda pure tuo marito, che lo aspetto).
Passano due mesi, il vescovo viene per la cresima e la mamma della bambina la cui "santola " era stata contestata dall'abate, provvede alla sostituzione con un'altra "comare".
La mattina dopo, la mancata "santola" va a portare il suo bambino all'asilo dalle suore·. L'asilo distava quattro passi dalla canonica ed aveva l'ingresso dalla corte Milone. Mentre quella sta per entrare in portineria, don Pio esce accompagnato, fin sulla porta, dalla superiora su or Angiolina Previtali. Il passaggio sul marciapiede è stretto e la donna, diventata tutta mansueta, si tira in disparte e fa cenno all'arciprete «Monsignore, el passa lu, che mi 'speto».
Cortesia vorrebbe un grazie o almeno un cenno di simpatico riscontro. «No, béa - risponde lui - so mi che 'speto to mario, da sié mesi, par domandarghe de chi che te si so mojere!». (No, bella. Sono io che aspetto tuo marito da sei mesi, per chiedergli di chi tu sei la moglie!) Adesso era chiaro il perché del rifiuto.
Naturalmente la donna si era ben guardata dal dire al marito che l'arciprete non l'aveva voluta per "sàntola".
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La radio in prestito
I cappellani avevano, ciascuno, la propria abitazione; alcuni negli ambienti fatiscenti della corte Milone, il curato di San Rocco, invece, in un edificio d'angolo di via Stamperia. Qui c'era don Lelio Bordin. L'arciprete preferiva che i suoi collaboratori fossero indipendenti perché imparassero a gestire la propria casa e, forse, perché anch'egli riconosceva di avere un carattere tutt'altro che facile. Entrava di rado nelle loro canoniche; se lo faceva, voleva dire che c'era aria di burrasca in giro o qualcosa di urgentissimo.
Venne un giorno a casa mia - racconta don Bordin - era ora del pranzo e la domestica ai convenevoli, che ritenne opportuno fargli, aggiunse: «Se si degna, un boccone glielo preparo, monsignore».
«Ghe xe don Lelio?» chiede questi, guardando qua e là compiaciuto che il giovane pretino sia riuscito a dare un certo decoro al vecchio stambugio. Don Lelio sta sfogliando il giornale e gli va incontro: «Oh, monsignore, lei quì? Ha bisogno di qualcosa?»
«A so vegnù vedare che ora che xe - dice l'abate, mentre tira fuori dal taschino il vecchio orologio - a so vegnù a vardare che ora che xe con la radio, non con l'orologio».
Il cappellano di San Rocco era l'unico dei preti in servizio a Piove che poteva permettersi quel lusso. «Un regalo di famiglia - precisa don Bordin - cui sono particolarmente affezionato perché mi consente la sera di sentire le ultime notizie e di godermi un pò di mUSica».
Ma all'arciprete quell'aggeggio dava fastidio perché, secondo lui, disturbava il silenzio della casa di un prete e poi costringeva l'interessato a spostare gli orari degli impegni pastorali. Aveva paura, soprattutto, che il curato non si alzasse con puntualità al mattino per le confessioni.
Entra nella sala da pranzo del cappellano, vede la radio, la guarda per qualche minuto, poi dice: «Belo, proprio belo! Pòito prestarmelo anca a mi?»
Al Bordin, lontanissimo dal pensare quale fosse il vero scopo
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della richiesta, parve di toccare il cielo con un dito. L'onore di prestare la radio all'arciprete gli fa dire: «Gliela porto subito».
«Va ben!» fu il commento dell'ospite, il quale se ne andò non prima di aver raccomandato alla domestica di non ricevere in casa i chierichetti che, invece di servir messa, andavano da don Bordin a giocare a "dama" e "cavacamisa".
Ci fu un piccolo disguido, per cui la radio arrivò all'arciprete verso sera. «La collocai nella sua sala da pranzo - ricorda il Bordin - dietro ad una delle tante cataste di libri, senza che lui mostrasse di accorgersene. Il mezzoggiorno successivo gliel'accesi a pieno volume, ma lui continuò a mangiare come se la nuova presenza non lo riguardasse». Il giorno dopo l'arciprete incontra ancora il Bordin: «La va ben. Bela roba, ciò! Poito imprestarmela anca doman?».
La filastrocca proseguì ininterrottamente per oltre mezzo mese. Ma don Pio la radio non l'ascoltava mai. Il Bordin, saputa la cosa, si spazientì e corse a sfogarsi con la Giuditta che, saggia com'era, gli spiegò in due parole il senso dell'antifona: «La porti via, prima che la ciapa la polvere».
Don Lelio prese sottobraccio il suo Phonola e andò a svenderlo a un amico commerciante della Piazza.
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U Da memoria formidabile
Non doveva accadere: primo, perché lui era una specie di sorvegliato speciale di don Pio che lo sapeva ritardatario abituale e poi perché quella mattina era giorno dell'Epifania. In duomo, vicino al suo confessionale già dalle sei c'era la fila delle penitenti, ma don Lelio Bordin era ancora a letto. Lo svegliò una scampanellata lunga e convulsa come un disperato richiamo d'allarme. Era Gigio campanaro, al quale don Pio aveva detto: «Va a chiamare don Lelio. Dighe se 'l se degna de vegnére zo». (Va a chiamare don Lelio. Chiedigli se si degna di alzarsi). Non ci fu bisognio d'altro, perché don Bordin in un batter d'occhio si infilò la veste, si rase la barba, uno spruzzo d'acqua di colonia, e via in chiesa. «Entro in confessionale - racconta - e vedo monsignore che si sta allontanando verso la navata centrale. Me fortunato, penso, che non si é accorto e non ha fatto scenate davanti alla gente».
La festa trascorre tranquilla; i due, più tardi, si salutano. Addirittura, in tono scherzoso, l'abate gli chiede se ha visto passeggiare la Befana nei paraggi di casa. Passa anche l'ottava dell'Epifania e don Lelio si dà da fare per smontare il presepio in chiesa. È contento che l'episodio del ritardo non abbia lasciato strascichi; lo dice all'avvocato Alfredo Zago (Puàn) suo amico e prossimo ad orientarsi al sacerdozio. Più tardi a casa, di nascosto brindano al passato pericolo.
L'anno dopo, alla vigilia dell'Epifania, l'arciprete manda la Giuditta: «Dighe a don Lelio ch'el vegna in canonica da mi». Il Bordin stava per cenare, pianta tutto e va di corsa. Lungo il brevissimo tragitto fa l'esame di coscienza. «Entro in sala da pranzo - ricorda - e lui sta leggendo il giornale. Mi fermo in piedi, sulla porta, in attesa, ma l'abate non si scompone e sembra che non gli interessi per nulla la mia presenza. Mette giù il giornale e prende in mano la rivista "Civiltà cattolica"».
Don Lelio ogni tanto stropiccia i piedi per far capire che è là.
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Dopo un tempo che parve un'eternità, don Pio chiama la Giuditta e si fa portare le pantofole. «Le infila e poi balza in piedi - ricorda il Bordin - come un giovanotto di vent'anni e mi dice, mezzo in italiano e mezzo in dialetto: "È inaudito, hai capito? è inaudito!"». Che cosa? Risponde l'altro, quasi spaventato e convinto che si trattasse di una notizia grave. «È inaudito - continua l'abate - che se se fassa la barba la mattina dell'Epifania. È inaudito».
Era passato un anno esatto dall'altra Befana, e l'arciprete non aveva dimenticato. Commenta il Bordin mezzo secolo dopo: «Credetemi, da quella volta ho giurato che non mi sarei più sbarbato il giorno della "Striga". Non l'ho fatto neppure quest'anno.
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Qualcuno andò in curia
La storia della sua risposta al vescovo ha fatto il giro del mondo, tanto che ne esistono diverse edizioni. Che sia vera non c'è dubbio. Mons. Pio non aveva paura di nessuno, né lo intimidiva l'autorità di chichessia. Aveva però un debole per alcuni amici sacerdoti con i quali si lasciava andare. Il privilegiato era mons. Bartolomeo Coderno, uno degli ultimi suoi scolari di quando teneva cattedra di teologia morale in Seminario.
«Con Stievano - racconta mons. Codemo - avevamo come docenti anche il Roncato ed il celebre latinista Perin. Ma don Pio era insuperabile per severità ed arguzia. Chiese una volta ad un mio compagno di terzo anno di teologia: "Che cosa daresti come penitenza ad uno che venisse a dirti in confessionale che ha perduto la messa alla domenica?". L'altro rispose sicuro: "Almeno un rosario, professore" . Lo Stievano sbiancò in volto e poi con una specie di sarcasmo ribatté: "El rosario te lo disi ti. El rosario te lo disi ti. Par lu, basta ch'el diga 'na avemaria. Tosi! I poareti xe poareti anca quando che i sse confessa». (Il rosario lo reciti tu. Lui basta che dica un'avemaria. Ragazzi, i poveri sono poveri anche quando si confessano).
Dunque, il racconto più verosimile della risposta data da don Pio al vescovo è quello fattoci proprio dal Codemo. Lo riferiamo come l'abbiamo registrato nel maggio del '78 a Villa Immacolata di Torreglia. «Premetto dichiara il Codemo - che lo Stievano non aveva un carattere facile. Appariva invadente, anche se non indiscreto. Sapeva tutto di tutti. Forse troppo, per alcuni, specialmente per quelli ai quali urtava il suo modo brusco di liquidare i problemi. Qualcuno andò in curia a lagnarsene. «L'arciprete, dissero" non è malleabile, non ascolta ragioni, ha un temperamento forte».
Il Codemo, a questo punto, assicura che lo Stievano era venuto a conoscenza anche dei nomi delle persone che s'erano presa la briga di andare dai superiori ecclesiastici. Il vescovo Dalla Costa (non
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quindi mons. Luigi Pellizzo, né tantomeno mons. Carlo Agostini) lo convoca a Padova. «Son qua, ecelenza - gli dice il massiccio abate senza inframettere altri preamboli - s'el desidera qualcosa?».
Il presule era un santo, ma sapeva di avere a che fare con una vecchia volpe. Non poteva giocare a nascondino.
«Avremmo pensato, d'accordo con il Capitolo, di nominarla canonico della Cattedrale. Ecco, monsignore, noi vorremmo che lei, per le sue doti, le sue qualità potesse restare qui a Padova in nostro aiuto, a servizio della diocesi».
Dunque, si trattava d'una esplicita proposta di lasciare la prestigiosa sede della parrocchia abbaziale di Piove di Sacco.
Di passaggio, accenniamo qui ad una curiosa discussione sorta in Seminario nell'autunno del 1908, quando lo Stievano fu officiato per Piove. Gli insegnanti suoi colleghi si domandavano se fosse più importante tenere cattedra di morale agli studenti di teologia o essere arciprete di Piove. Tutti optarono per la prima tesi: l'unico che ebbe il coraggio di dire che «un parroco vale più di tutti gli insegnanti del mondo» fu don Giacomo Dal Sasso, futuro docente di filosofia.
«Perché 'sto provedimento, ecelensa?» insistette, tra il sornione e il divertito lo Stievano. Dalla Costa aveva voglia di andare fino in fondo alla faccenda e precisò: «Perché è venuta gente - mi permetta, monsignore, di non far nomi - ci sono stati dei lamenti. .. , delle proteste. Me lo lasci dire, hanno chiesto anche la sua rimOZIOne».
L'abate sembrò dapprima bisbigliare tra sé e sé: «Ah, ghe xe dei lamenti a mio carico, a mio carico, a mio carico!», poi, come se fosse tornato all'antica cattedra di scuola, dice senza scomporsi: «A go capio. A go capio ben! Senta, ecelensa, me consta che ghe xe, in diocesi, anca molti lamenti a vostro carico!»
Il Vescovo, abitualmente serio, scoppia in una risata e lo congeda: «Vada a Piove, vada a Piove!».
Dell'episodio, un po' di amaro rimase in bocca allo Stievano, che più di una volta se ne dolse in forma indiretta con i suoi cap-
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peli ani. Mons. Antonio Schievano, accennandogli (eravamo nel 1937) alle voci che circolavano anche nella nostra diocesi sulla santità del Dalla Costa, arcivescovo di Firenze, si sentì rimbeccare dall'arciprete con questo commento: «A go visto che miracoli ch'el ga fato a Padova!».
Un pizzico di malizia o uno sfogo di sincerità? Forse né l'uno né l'altro. Era un uomo libero e, pur obbedientissimo, non rinunciava alle sue idee. D'altra parte, anche la sua santità era discutibile.
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AI cimitero sotto la pioggia
Dev'essere stato nel '36. Il 4 novembre, come di consueto, la folla si raduna in piazza Vittorio Emanuele. Piove a dirotto, ma gli ombrelli aperti sono pochi, perché nel clima politico che si respira è disdicevole proteggersi dall'acqua.
«Molti di noi ragazzi - racconta Enzo Gasparini - eravamo (con tanto di divisa, naturalmente) assiepati sotto i portici della piazza. Solita sfilata, solita lettura del bollettino della vittoria firmato Diaz, brevissimo discorso del solito oratore ufficiale avv. Mario Romanelli, in divisa.
Don Pio, che è presente con i suoi sacerdoti e chierichetti, benedice il monumento ai caduti, recitando il De profundis. A questo punto la cerimonia è conclusa, ma tradizione vuole che si proceda a piedi fino al camposanto per deporre i fiori e una corona d'alloro al cippo che ricorda i caduti di tutte le guerre. Vi sarebbe stata colà anche una seconda benedizione.
La pioggia batte con violenza, tanto che si assiste ad un fuggi fuggi generale. Le stesse autorità si rifugiano di corsa sotto i portici. «Ma l'arciprete - ricorda il Gasparini - con la voce potente si mette ad urlare: I nostri soldati non avevano certo paura dell'acqua e della neve nelle trincee del Carso. Vegnì con mi, al simitero».
Era un invito, ma parve un ordine, e tutti si accodarono al gruppo già incamminato, don Pio in testa, verso il camposanto. «Ricordo l'imbarazzo delle autorità, che dovettero far buon viso a cattiva sorte e mettersi in fila sotto il ... diluvio».
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Chi ha perduto le chiavi di casa?
Una casa in campagna, che non fosse un casone, costituiva negli anni '30 una rarità. Chi ce l'aveva, o era un fittavolo "in manica" del padrone, o gas tal do di qualche fattoria. Al tempo della guerra dell' Abissinia, nonostante le sanzioni, più d'un contadino riuscì a farsi una casetta con relativa stalla e pollaio. Roba da pochi soldi, con muri da una spanna e tegole di riporto, ma pur sempre un edificio di mattoni.
La cosa più importante era la porta. Anche nei vecchi casoni doveva essere robusta, con catenacci, per la solita storia dei ladri che nel piove se erano più attivi che altrove.
Ma nelle nuove case la porta s'era arricchita della piccola civetteria della serratura e della chiave. Avere la chiave di casa in tasca costituiva l'ambizione più grande della gente dei campi. Voleva dire essere padroni almeno dei propri sogni e poter dire: dietro quella porta facciamo quello che vogliamo noi. Di solito la tenevano in tasca le donne sotto i grandi grembiuli, pronte a cederla soltanto ai mariti quando questi uscivano per andare ai filò d'inverno. Chi avrebbe potuto sospettare che la chiave sarebbe finita tra gli argomenti della predicazione dello Stievano?
Il catechismo al ves pero della domenica sulla vicenda di una di quelle chiavi durò un bel pezzo, e sono ancora in molti a ricordarlo, anche se con interpretazioni e fronzoli diversi.
Un pomeriggio, dopo il canto dei salmi, l'abate sale sul pulpito a metà chiesa e attacca: «È stata perduta una chiave. Una chiave di casa».
L'esordio é chiaro, anche se non si riesce di colpo a capire dove la storia conduca. La gente si guarda. In chiesa c'é anche Angelo Bacco, il birocciaio che lo accompagna alle questue, Tommasi il lattaio che fa delle creme squisite, la signorina Gasparini con la veletta, la superiora suor Angiolina, solenne tra le suore come una regina a corte. Sono loro, più qualche altro, la clientela delle "Funzioni" .
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Più tardi, quando i campanari suoneranno per la benedizione, il gruppo dei devoti ingrosserà, tra l'ultima fila di banchi e la porta centrale.
«Chi ha perduto la chiave di casa?» L'abate ripete la domanda nel dialetto che gli è più congeniale: «Chi xéo sta l'orno che ga perso la ciave? No 'l xe sta on orno, perché i omani no se mete la ciave in scarsea sensa el permesso de so mojére. Allora, chi xéa sta quea dona che ga perso la ciave de casa? No, na dona, no, parché le done no perde mai gnente. La ciave la ga persa la tosa. La tosa! Savio cossa che xe la ciave de casa? La xe la ciave de la me stansa, del me tavolin, del me casseto, de le me letare. La xe la ciave de i me segreti, de le me lagreme, de le me robe».
L'aneddoto della chiave perduta fece il giro del paese e, chissà come, dopo un po' di tempo, don Pio venne a sapere che i proprietari avevano ritrovato il misterioso oggetto.
La domenica successiva, secondo capitolo della predica, dal titolo: la chiave ritrovata. «Na volta, nesun gaveva la ciave de casa. Adesso: sior, quando che xe sera, so stufa, e ghe dago la ciave a la tosa. E la tosa sta fora a la note, e la perde la ciave».
Il discorso, naturalmente è colorito di inflessioni, di pause, di gesti, di stupori, così che i fedeli pensano che questa è la volta buona per sapere chi è il proprietario della chiave famigerata.
Ma l'arciprete devia e conclude la sua arringa: «Senti, bona mare! Le galine, le gheto contà prima de 'ndare in leto; i polastri, li gheto contà prima de 'ndare in leto?; le galine e i polastri se conta, ma i fioli no! Tanto, lori ga la ciave in scarséa!»
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La festa oltre le barene
Gli rimproveravano di avere sì il senso della puntualità, ma non quello del tempo. L'incredibile accadde a Cantarana ed ebbe testimone padre Valentino Saoncella, missionario comboniano, allora seminarista nel liceo del seminario maggiore di Padova. Parroco di quel paese era don Augusto Borin, nativo di Merlara, il quale si era affezionato al Saoncella per una vecchia amicizia con suo padre. Lo invitava durante i mesi delle vacanze a tenergli compagnia, anche perché il villaggio era allora fuori di ogni geografia: «Per arrivarci - racconta padre Valentino - facevo tanti chilometri in bicicletta che mi pareva di attraversare la savana».
L'odore salmastro delle barene giunge a zaffate sulle prime ore del mattino, quando il vento viene dal mare e piega i ciuffi dei falaschi sullo sfondo dell'argine dell' Adige.
Cantarana aveva solo due case con tegole, la canonica e la casa del "paron". Era il periodo del dopopasqua e si celebrava con una certa solennità la festa di san Francesco di Paola, patrono della comunità parrocchiale. Fu invitato a solennizzare la circostanza mons. Stievano, che arrivò da Piove con una carrozza condotta da Bacco alle nove e mezza.
Dopo i convenevoli passò in sacrestia e si apparò. Il Saoncella si vestì da suddiacono con la tunicella ricamata; siccome però non aveva ricevuto neppure gli ordini minori, non indossò il tradizionale manipolo e durante la messa non toccò mai la patena.
La messa uscì puntualmente alle lO e 30. La chiesa, piccola, era zeppa, tanto che la corale che eseguì le parti fisse della liturgia con una magistrale messa del Perosi stentava a trovare posto. Al vangelo don Pio prese la parola. Il tema era sul santo del giorno, ma egli prese un giro molto largo e partì dall' Antico Testamento, infiorando il linguaggio di dialetto schietto e di italiano puro.
In chiesa faceva caldo e i vecchi, dopo mezz'ora, tirarono fuori dal taschino del gilé gli orologi marcati "ferrovia", con le ore nerissime incise sui piccoli dischi di maiolica. Cominciarono a bisbi-
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gliare: «Chissà che la finisca». Qualcuno tentò anche di tossire e di stropicciare i piedi. Tempo perso. Mons. Pio imperterrito continuava come se tutti pendessero dalle sue labbra.
Ad un certo punto i campanari, fedeli alla consegna, suonarono il mezzoggiorno; fecero anche la ribotta, il suono si rovesciò in chiesa dalle finestre spalancate, ma lui ad insistere e a spiegare che era inutile festeggiare san Francesco di Paola se non si educano i figli al timor di Dio.
Finalmente qualcuno prese il coraggio a ... due piedi ed uscì. Qualche altro, e furono parecchi, lo imitò. L'oratore capì 1'antifona, ma per non perdere completamente la partita, chiuse il suo discorso dicendo: «Vi aspetto al pomeriggio, che vi devo finire la storia». Al pomeriggio, alle funzioni, la gente c'era ancora, imperterrita.
Ma per sua fortuna, stavolta, la predica fu breve.
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La puntualità è una virtù
Sulla puntualità non ammetteva eccezioni. Al maestro Rioda, arrivato in ritardo per accompagnare all' organo la messa delle dieci, precisò senza mezzi termini: «Par mi, quando che te rivi dopo, xe come che no te ghe fossi». Con i cappellani, poi, era addirittura implacabile.
«Una mattina - raccota don Bordin - non sentii la sveglia, e arrivai in coro qualche minuto in ritardo per l'ufficiatura». Don Lelio aveva una voce discreta, bene intonata e per designazione comune degli altri cappellani, spettava a lui l'avvio della salmodia: «Regem cui omnia vivunt, venite adoremus».
Erano presenti nei loro stalli canonicali don Ettore Fabris, don Antonio Gusella e don Giulio Rettore; più sotto, sulle panche, il solito nugolo di chierichetti mattinieri.
Nei lunghi minuti (cinque o dieci?) di attesa dell'arrivo del Bordin, si affaccia due o tre volte alla porta del coro Milio, il sacrestano dal cuore d'oro e dall'obbedienza reverenziale per il suo arciprete. Guarda, riguarda nella penombra, cerca inutilmente l'assente. Finalmente don Lelio arriva, attraversa il presbiterio con quella falcata lesta e molleggiata che i giovani del circolo cattolico gli invidiavano, e va al suo posto.
Lo stallo dell'ebdomadario era collocato sotto quello dell'arciprete. Prima del Bordin era stato occupato da don Gelindo Guolo, curato di sant'Anna, l'uomo più mite della terra, con un paio di occhiali cerchiati d'oro e un'ugola fatta per il canto gregoriano. Don Lelio si è appena sistemato nello stallo; arriva don Pio con cotta a maniche merlettate sul raso rosso. L'abate va al centro coro e incomincia: «Ala mattina, non bisogna ciaparse in leto. E par non ciaparse in leto ala matina, bisogna 'ndare in leto presto la sera, e non star su a'scoltar la radio».
Tutto parve finire lì e l'ufficiatura ebbe normale svolgimento. La prima lettura biblica spettava di solito al Fabris, che aveva il vezzo di storcere un po' la bocca quando pronunciava la vocale "e";
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la seconda era di assoluta competenza del Gusella, che se era, come si suoI dire, in vena, infiorava la lettura con una cadenza ampollosa da letterato d'altri tempi.
Passa qualche giorno, e preti e chierichetti si trovano in sacrestia pronti per la celebrazione del vespero. Mons. Pio è, come il suo solito, seduto sulla poltrona, tra la finestra e il vecchio orologio, passa con lo sguardo in rassegna i presenti; poi, alzandosi di botto, dice a don Rettore: «Va' a leto bonora, invesse de stare a 'scoltar la radio». Questi ribatte: «Monsignor, mi no go la radio». E l'altro insiste rivolgendosi a don Gusella: «Va' a leto bonora invesse de star su a 'scoltar la radio». Figurarsi se Gusella poteva tacere. «Monsignor, mi no go gnanca la corente». La sua casa infatti consisteva in una specie di tugurio illuminato più dalla finestra che , dava sul portico che dalle candele che Milio, il sacrestano, gli pas-sava di sottobanco.
Ma l'abate prosegue con la sua raccomandazione anche agli altri presenti. Quando arriva al Bordin, fa un sospiro e gli bisbiglia, non tanto sottovoce che tutti non possano capire: «A ti, no te digo gnente, perché ti te si sempre puntuale».
Due lezioni in una volta, perché ad avere la radio e ad arrivare in ritardo era soltanto don Lelio.
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Rimprovero e penitenza
Aveva introdotta la "piccola adorazione" del giovedì pomeriggio. Si recitavano alcune invocazioni eucaristiche, intervallate da alcuni momenti di riflessione comunitaria. Le persone devote vi potevano intervenire, ma i sacerdoti non dovevano assolutamente mancare. Mons. Pio ne faceva una questione di principio. «Dovemo darghe buon esempio a la gente - era solito dire - . I vede che preghemo e che se volemo ben!».
Un giovedì don Bordin prende la bici e va a gironzolare fino alla via Rusteghello. Non c'era un motivo particolare, solo la voglia di sgranchirsi le gambe e pigliare una boccata d'aria.
Si spinge anche più in là, infila via Breo, passa davanti alle scuole elementari, guarda all'angolo il ve~chio palazzo Morosini, poi continua a pedalare senza controllare l'ora e le strade. Arriva al duomo che è tardi. I suoi amici cappellani stanno uscendo di chiesa e uno gli fa cenno che l'arciprete è nei paraggi. Meglio affrontare il pericolo che scappare. Anche se lo tentasse, non servirebbe a nulla perché l'onnipresente abate gli é già davanti. «Dove sito sta?». La domanda è a caldo, ma precisa. Don Lelio risponde secco secco: «All'ospedale, monsignor». Era una bugia bella e buona, tanto più grossa, quanto più immediata.
L'altro continua: «Cossa ghe xe a 'sta ora in ospedale?» «Sono stato a trovare un'anziana signora che è grave», precisa con sfrontata semplicità il curato imbroglione. Mons. Pio intuisce tutto, ma tace e va verso la canonica dalla porta meridionale del duomo. Neanche a farlo apposta, dopo cinque minuti, capita in Corte Milone il cappellano dell'ospedale don Ettore Fabris. Battute rapide tra i due: «Chi ghe xe de malà, all'ospedale, de grave?». Il Fabris, con la modestia che gli è consueta, si premura di assicurarlo che non c'è nessun caso urgente. «Come? ribatte quello - se xe pena sta don Lelio».
Don Ettore fa per un attimo mente locale, rivede i letti delle corsie e dice sicuro: «Monsignor, mi son fermato a parlare fino a un quarto
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d'ora fa con il prof. Zanetti e non ho mai visto don Lelio». Il buon uomo pensa solo di dare un'informazione esatta, invece offriva un prezioso elemento di prova a ciò che don Pio sospettava.
La cosa però parve chiudersi lì. La mattina seguente, monsignore è seduto in sacrestia sulla poltrona dalle borchie d'ottone ossidato, legge come di consueto il breviario, ma di quando in quando alza gli occhi per vedere se l'incriminato arriva.
A un certo momento - sono le sei e quarantacinque - entra don Lelio, ciuffo a spazzola e occhi pieni di sonno. Ci siamo. L'arciprete scatta in piedi e con la faccia adirata gli va incontro: «Dove sito sta ieri dopo le quatro!». E l'altro, impenitente: «All'ospedale, monsignor».
Apriti cielo! «N'altra busia - urla l'arciprete - qua, a mi, in sacrestia, ti, prete zovane come che te sì! ».
Gliene disse tante che il Bordin scoppiò a piangere a dirotto. I chierichetti presenti allo spettacolo si defilano uno dietro l'al
tro verso la sacrestia. Improvviso cambio di scena. «Don Lelio, vien qua!». Quasi lo
trascina fuori di sacrestia, apre la porta di uno degli sgabuzzini adibiti a confessionale degli uomini e si inginocchia sul genuflessorio: «Confèssame» - gli dice, consegnandoli la stola.
Don Lelio è così stordito per quanto sta accadendo, che non ha nemmeno la forza di reagire. «Confèssame», ripete l'arciprete.
E il cappellano ascolta in silenzio l'accusa del suo abate e gli impartisce l'assoluzione. Ha un nodo alla gola che lo costringe a dire a spizzico le parole della formula.
Don Pio aspetta paziente le ultime frasi: «quidquid boni feceris et mali sustinueris sit tibi in remissionem peccatorum, augmentum gratiae et praemium vitae aeternae. Amen», poi si alza (adesso nella penombra, pare anche più alto e massiccio) e grida a don Lelio: «Qua, qua, son un pecatore anca mi, come tuti i altri. Ma in sacrestia, so el to arsiprete!».
Il giovane curato scappò a casa e pianse di commozione a lungo.
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Quella notte in Corte Milone
Sui rapporti di mons. Stievano con i fascisti c'è una pagina inedita. La raccontiamo così come ce l'ha riferita Vincenzo Bertipaglia, amico di Silvio Campioni. Quest'ultimo va una domenica in "littorina" a Venezia. Mentre leggicchia il giornale, gli si avvicina un signore che si qualifica per professionista, con studio a Cavarzere. Attacca il discorso: «Lei è di Piove?». Avutane la conferma, continua: «lo ho un ricordo personale del vostro paese, di un arciprete alto e maestoso».
Eravamo al tempo delle cosiddette spedizioni punitive. Le squadracce, per non farsi riconoscere, cambiavano paese, bastonavano, minacciavano e, dove potevano, caricavano sul camion le persone da "rieducare" e le lasciavano più tardi, mezze morte, in campagna. Una pattuglia di Cavarzere, di cui faceva parte lo sconosciuto interlocutore, aveva deciso di dare lezione all'abate di Piove. Tenevano in serbo l'olio e il bastone di cuoio. Arrivarono in Corte Milone ch'era notte inoltrata e piazzarono il camion sul marciapiede davanti alla canonica.
Dal campanile il vecchio orologio segna la mezzanotte: uno della combriccola batte alla porta. Nessuno risponde; suona allora il campanello. Dopo qualche minuto arriva la Giuditta, la domestica che dorme con un occhio solo per essere pronta ad ogni chiamata. «Chi è?» - chiede prima di aprire. Dal di fuori qualcuno risponde con voce contraffatta: «Abbiamo bisogno di parlare con l'arciprete». Mons. Pio è ancora sveglio, s'affaccia al balcone e capisce al volo che sta accadendo qualcosa di brutto. Scende, apre la porta e si trova di fronte ad alcuni figuri in divisa.
«Siamo noi - dice uno, con un tono che non vorrebbe ammettere repliche - siamo venuti a prenderla e a portarla da ... ». L'arciprete accosta la porta e dice. «Si, si, adesso vengo subito». Quelli pensano che voglia scappare e ribattono: «No, lei viene adesso, con noi». L'abate ritrova il tono perentorio che usa solo quando vuole, essere ascoltato: «Vi dico di aspettare, vengo subito» e grida forte:
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«Giuditta, impissa tutte le luci de la sala». Sgattaiola su per le scale e dopo qualche minuto scende con la veste paonazza, il rocchetto e la croce pettorale (un altro testimone, che evidentemente non se ne intendeva di abbigliamenti liturgici, parla di paramenti pontificali).
Gli scalmanati restano colpiti dalla figura ieratica e imponente, poi uno si fa avanti urlando: «Via questi stracci. Noi vogliamo l'orno». Mons. Stievano ha capito che sono dei vili e ribatte in dialetto: «Mi ve digo che so' quèo che vedì e questo, se volì, porté via».
Lo prendono per le braccia e lo spingono sul camion. L'automezzo non parte. Si prova e riprova. La masnada infuriata spinge l'automezzo lungo la Corte Milone. Niente da fare. Una voce dal gruppo bisbiglia in italiano: «Beh, lasciamolo andare; verremo un'altra volta».
L'arciprete, come niente fosse accaduto, rientra in canonica e ripete l'abituale comando: «Giuditta, sàra ea porta e stua le luci». La domestica non ha ancora dato un giro di chiave, che fuori in cortile il motore del camion degli squadristi si mette a ronzare.
«Da quella sera - confessò l'illustre ignoto di Cavarzere al Campioni - io quell'arciprete l'ho sempre davanti. Non riesco a dimenticarlo».
Può darsi che la storia sia vera solo in parte, ma il Campioni assicurava - e non ci sono motivi per non credergli - che lui non aveva in alcun modo chiesto al testimone oculare di raccontargliela.
Di vero c'è sicuramente che quando spiegava il quinto comandamento don Pio diceva: «No se pòe amazzare, ma no se pòe gnanca bastonare, malmenare, offendere, portare via e persone». E gli uditori capivano benissimo a chi alludeva.
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I famosi preti del chinino
Ho chiesto una volta a don Giulio Rettore: «Quale atteggiamento ebbe don Pio nei confronti del fascismo?». Risposta: «Non gliene importò mai niente. Quando c'era qualcosa da sistemare mandava me». Don Rettore non era un cappellano da mettere sotto i piedi; gli piaceva l'ordine e non sopportava la protervia. A chi cercava di imbrogliarlo non dava requie. Don Pio si fidava di lui completamente.
Una volta il segretario politico mandò una lettera di rimprovero al parroco di Tognana don Pietro (comunemente: don Piero) Lazzaro. Il tono dello scritto era talmente intimidatorio che il povero prete corse dall'abate da Piove. «Va da don Giulio e dighe ch'el se rangia lu'. Quei i ghe fa paura al prossimo, parchè i ga paura lori».
Don Pietro, durante la predica, aveva detto, grosso modo, di essere lieto di fare il curato di campagna, perché respirava "aria libera". L'allusione era chiara e qualcuno si incaricò di andare al partito a Piove e riferire. Don Rettore prende la lettera e, dopo aver congedato il Lazzaro con: «Macaco, te perdi i soni par cossì poco!», va difilato dal segretario del fascio: «I casi sono due -gli dice - o la smetti di scrivere queste sciocchezze o domenica ti chiamo io, per nome, in chiesa».
Ricordo qui, per inciso, che il Rettore era stato in precedenza ad Arquà Petrarca, come cappellano di un parroco che alcuni facinorosi avevano spaventato a tal punto che quasi non si arrischiava più di parlare in chiesa. Il Rettore si presentò una domenica all'ambone per la lettura del vangelo, ma, prima di incensare il libro, pose sulla balaustra una doppietta da caccia sillabando queste parole: «Non crediate che ci sia un secondo prete qui che ha paura».
Lassù, sui dolci pendii delle colline care al Petrarca, nessuno più si azzardò di aprir bocca.
Don Giulio aveva buona memoria anche per quanto era accaduto nella Saccisica: a Conche avevano "oliato" don Luigi Corradin; a Codevigo il cappellano don Gelindo Rizzolo, più volte mi-
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nacciato, era stato trasferito; don Alessandro Vendrasco, durante la sua permanenza a Conche, aveva subito violenti insulti dagli squadristi di Codevigo; l'arciprete di Arzergrande, don Giuseppe Segalla, aveva patito le pene dell'inferno a causa di infami calunnie messe in giro da quelli del fascio, sul suo conto. Erano i famosi preti del "chinino", cioè i parroci che, pur di stare con la loro gente, s'erano buscata la malaria e ne limitavano le conseguenze ingerendo massicce dosi di solfato o idro clorato di chinino. Uomini con i quali i piccoli dittatori terrieri e politici locali dovevano fare i conti.
Un perseguitato dai fascisti a Piove fu don Luigi Pipinato. La faccenda, anche a distanza di anni, appare davvero ignobile, se si pensa che a costringerlo a bere l'olio per motori furono due suoi ex allievi delle piccole classi ginnasiali della Corte Milone. Non si erano limitati a questo. Prima di uscire dalla casetta del sacerdote compirono tali sconcezze che egli si sentì in dovere di dire: «Giovanotti, guardate che Dio non paga al sabato».
Uno dei due figuri (ne possediamo il nome e il cognome) rispose sarcasticamente: «Se non paga al sabato, pagherà la domenica». Quarant'anni dopo, costui, durante la guerra, lavorava presso lo zuccherificio di Pontelongo, quando improvvisamente le sirene suonarono l'allarme.
Assieme ad un altro operaio, corre attraverso la campagna in cerca di un fossato per proteggersi. Poi ci ripensa e dice: «lo mi fermo dentro questo cunicolo». Dall'alto gli aerei cominciano a sganciare bombe e spezzoni incendiari e lui si rannicchia a ridosso del rifugio di fortuna. Uno spezzone cade a filo proprio sul cunicolo schiantando l'uomo in modo impressionante.
Non ne troveranno che pochi resti. Fuori del rifugio, intatti, la bicicletta, il contenitore della mine
stra, la pagnotta e il cucchiaio. Strana coincidenza: era di domenica, come aveva urlato al Pipinato. Era stato preso in parola.
Don Lelio Bordin confidò un giorno a don Pio: «La gente dice male del fascismo e del Duce. Come dobbiamo regolarci?» L'abate fece un risolino e gli rispose: «Dentro da 'na recia e fora da s1' altra».
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Lo Stievano era una di quelle autorità che si impongono con la sola presenza. Gli habituès del Caffé Grande di Piove, proprio quelli dai quali erano partiti lazzi e insulti a don Pipinato, si alzavano in piedi quando passava lui. E lo temevano.
Nel 1931 ricorreva il terzo secolo dal Voto per la peste e molti incominciarono ad insistere perché si facessero le cose in grande. Fu mandato, a nome di un gruppo di persone influenti della piazza, un noto avvocato, simpatico, dalla loquela accattivante. Costui illustrò a don Pio il suo progetto di comitato e di programma per le feste del centenario. «Si potrebbe fare - disse - un comitato cittadino di tutte le autorità (fascio compreso). Il tutto potrebbe fare capo a tre persone che dovrebbero rispondere dell'intera organizzazione. Che ne direbbe lei?».
La risposta è immediata: «Ghe digo subito, sior avocato: l'arsiprete de Piove, l'abate de Piove e don Stievano. Questo xe el comitato che fasso mi: no i se staga disturbare».
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I soldi per la permanente
A sentirlo predicare venivano anche da Padova. Mons. Riccardo Ruffati, allora direttore de "La Difesa del popolo", riferì questo discorso tenuto da mons. Stievano alla messa ultima. «Tosi, ve ne go da contare una. Savìo cossa che ga fato el vostro arsiprete? No podì gnanca pensarlo. A ghe go da' i schei a 'na tosa parché la se fassa la permanente!
Ma adesso ve spiego. Xe vegnùa so mama, piansendo: monsignor: la tosa, per andare a lavorare bisogna che la se toga 'na bicicleta. E noialtri no gavemo schei.
Tanto la ga pianto, che mi ghe go da' i schei, quei che gavevo in scarsea. Tuti, parché capì anca voaltri che 'na mare che pianze par so fiola la xe na roba granda. Ciò, la tosa perdeva el posto se no ghe jera la bicicleta.
Chi xe che pensava che i schei, invesse, 'ndava da 'n'altra parte! El giorno dopo vegno a savere che la tosa se gavea sì comprà
!ti bicic1eta, ma non so con che schei. Con quei che ghe go da' mi, invesse, la se ga fato la permanente. La permanente! Siché, l'arsiprete de Piove ghe ga dà i schei a 'na tosa, parché la se fassa la permanente!
Voaltri savìo cossa che xe la permanente? Ve lo spiego mi. La xe la roba che le mare ga inventà par mari dare le tose».
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La predica in farmacia
Muore il farmacista Comin, uno di quelli che allora si dicevano "pezzi grossi del centro". Il funerale é di prima classe. Sono presenti i cappati, i chierichetti, i bambini dell'asilo, i cinque "penelli". In Duomo è preparato il catafalco a tre ripiani con il grande tappeto nero, fregiato ai bordi da quattro teschi biancastri. Per motivi di praticità, la camera ardente è stata allestita in farmacia, tra il bancone e le vetrine su cui s'affaciavano i bellissimi vasi di ceramica con sovrascritti gli antichi nomi latini dei vari unguenti.
Arriviamo quando il pubblico è già folto. Vi sono tutti i personaggi importanti della Piove che conta. Tra gli altri, il primario dotto Lupo Zanetti Colleoni.
L'arciprete ha una cotta lunga e la sua solita stola violacea; io tengo in mano il secchiello dell'acqua santa. Si fa improvvisamente silenzio.
L'arciprete entra in farmacia per primo, guarda la salma a lungo. Si tratta di attimi, ma paiono secoli dilatati oltre il tempo. Poi gira lo sguardo sulle scansie con i medicinali: boccette, ampolle, fiale, confezioni colorate gli scorrono davanti agli occhi diventati improvvisamente curiosi. Infine, squadra ad uno ad uno i medici dell'ospedale presenti: li conosce tutti per nome e cognome e per tante altre cose.
Ancora silenzio. Poi, quasi ad accentuare la predica sulla morte che sta facendo (per chi vuole capire!), butta l'acqua santa sulla salma e attacca: «Si iniquitates observaveris, Domine, Domine, quis sustinebit?» Signore, se t'impunti a tener conto delle nostre cattiverie, chi potrà salvarsi?
Usciamo dalla farmacia per dare il via alla processione funebre e colgo questo commento: «Ce n'è per tutti, stamattina!»
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La predica in farmacia
Muore il farmacista Comin, uno di quelli che allora si dicevano "pezzi grossi del centro". Il funerale é di prima classe. Sono presenti i cappati, i chierichetti, i bambini dell'asilo, i cinque "penelli". In Duomo è preparato il catafalco a tre ripiani con il grande tappeto nero, fregiato ai bordi da quattro teschi biancastri. Per motivi di praticità, la camera ardente è stata allestita in farmacia, tra il bancone e le vetrine su cui s'affaciavano i bellissimi vasi di ceramica con sovrascritti gli antichi nomi latini dei vari unguenti.
Arriviamo quando il pubblico è già folto. Vi sono tutti i personaggi importanti della Piove che conta. Tra gli altri, il primario dotto Lupo Zanetti Colleoni.
L'arciprete ha una cotta lunga e la sua solita stola violacea; io tengo in mano il secchiello dell'acqua santa. Si fa improvvisamente silenzio.
L'arciprete entra in farmacia per primo, guarda la salma a lungo. Si tratta di attimi, ma paiono secoli dilatati oltre il tempo. Poi gira lo sguardo sulle scansie con i medicinali: boccette, ampolle, fiale, confezioni colorate gli scorrono davanti agli occhi diventati improvvisamente curiosi. Infine, squadra ad uno ad uno i medici dell'ospedale presenti: li conosce tutti per nome e cognome e per tante altre cose.
Ancora silenzio. Poi, quasi ad accentuare la predica sulla morte che sta facendo (per chi vuole capire!), butta l'acqua santa sulla salma e attacca: «Si iniquitates observaveris, Domine, Domine, quis sustinebit'!» Signore, se t'impunti a tener conto delle nostre cattiverie, chi potrà salvarsi?
Usciamo dalla farmacia per dare il via alla processione funebre e colgo questo commento: «Ce n'è per tutti, stamattina!»
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Il maresciallo in canonica
Manda a chiamare il marescialo dei carabinieri. La caserma è al di là della piazza, sotto il portico di via Carrarese. L'interessato sa che all'abate si deve dire di sì anche se non è il suo superiore.
Va in canonica in divisa, accompagnato dall'appuntato. Dopo i convenevoli, don Pio lo fa passare in ufficio. «El scusa, marescialo, sensa che perdemo tempo tuti do, vegno al quia. Go sentio che a ... i ga piantà la pista da baIo; salo gnente lu?»
Questi, che ha altri problemi di ordine pubblico per la testa, quasi sorpreso risponde: «No, monsignore, non so niente, non mi consta».
Ribatte implacabile l'arciprete, questa volta in italiano spiccato a tutto tondo: «Se non le consta, sa cosa le dico? Faccia a meno di fare il maresciallo».
Un attimo di silenzio, i due si guardano negli occhi e si capiscono al volo.
Qualche ora dopo, della pista da ballo non c'era più traccia.
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L'instancabile Giuditta
La Giuditta Marin era la domestica di cui poteva fidarsi ad occhi chiusi. Quando arrivava un ospite di riguardo, don Pio la chiamava dall'ufficio con questo intercalare: «Giuditta, porta, la porta». Cioé: prepara il caffé per me e per la persona qui presente e poi chiudi la porta.
Nessuno ha mai saputo a quanto ammontasse la retribuzione mensile (non diciamo lo stipendio) che essa riceveva per un lavoro che non aveva né misura né soste. Ma tutti ricordano che l'arciprete era puntualissimo a pagarla alla fine del mese, aggiungendovi un po' di mancia: «Tien. Se te fe ben te tegno, se no, te ve via».
Dopo cena, don Pio passava nel salotto rosso, a ricevere qualche persona, leggeva libri, la rivista Civiltà cattolica. Intanto la Giuditta, piena di sonno, s'appisolava davanti al focolare.
Di lei, don Pio era solito raccontare: «Quando so rivà a Piove non gavevo nessuno per la canonica. Me ocoreva 'na persona per le facende e i me ga mandà sta doneta. Ghe go dito: senti, te ste qua 15 giorni in prova. Passà questi, se no te me comodi, te lo digo; se no te comodo, te me lo disi».
I quindici giorni durarono una vita. L'abate le era, a suo modo, affezionato, e ne apprezzava il lavoro anche se sembrava non rendersi conto di quanto essa lo temesse.
Un giorno si faceva bisboccia in canonica tra i giovani del Circolo cattolico. Uno dei ritardatari si presenta all'arciprete con un dolce appena sfornato dalla pasticceria. «È permesso? È permesso?» dice, facendo il gesto di consegnarlo all'arciprete. E questi, tra il serio e il faceto: «No, bèo, la persona la xe là». Si trattava appunto della Giuditta.
Il giovanotto incalza: «Ma non è lei il padrone di casa?». Don Pio Stievano scoppia a riòere, «Paron mi? Ah no. Noaltri do 'ndemo d'accordo parchè ea la fa un terso, un quarto de quelo che ghe digo mi. Allora 'ndemo sempre d'acordo».
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Vecchio sÌ, ma non stupido
Esigeva che i cappellani fossero in chiesa all'ora della messa prima. In pratica alle sei.
La vecchia scuola francese di spiritualità, alla quale era stato educato in seminario, suggeriva, tra l'altro, che all'alba si facesse meditazione e si recitasse la prima parte del breviario. La giornata del prete, se non comincia con le "pratiche di pietà" non ha senso, non dà soddisfazione.
Don Antonio Gusella, a questo proposito, era solito raccontare che un cappellano (forse don Cesaro o don Bordin), deciso di prolungare il sonno di una mezz'ora, ricorse all'espediente di mettere sul banco antistante il proprio confessionale il berretto ed il breviario . Voleva far credere all'arciprete che al di là della tenda e della grata c'era anche la persona.
Ma l'abate se ne accorse subito e, una mattina, dopo messa, quando tutti i collaboratori erano raccolti in sacrestia per gli ordini della giornata, soffiò più volte e, stringendo fra le dita il grosso breviario, brontolò: «So vecio, ma non ancora imbessile».
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Vorrei sposarmi alle Grazie
«Monsignore, vorrei sposarmi». «Quando?» «Sono qui per decidere con lei la data e il luogo». Il richiedente è Primo Crivellari. Siamo nel maggio del 1938.
Don Pio alza gli occhi sopra le tante carte che ha sul tavolo da studio, squadra il giovane parrocchiano e gli dice: «Per la data facciamo presto: Il prossimo 25 agosto, dieci giorni dopo l'Assunta, dieci giorni prima della sagra di Legnaro. Per il luogo: il solito di tutti gli altri: l'altare dell' Addolorata, in Duomo. Mi raccomando: puntualità. Confessarte, tì e éa».
Il Crivellari osserva: «Ma io vorrei sposarmi al santuario dellé Grazie. Sa, monsignore, sono mesi che "da morosi" facciamo quattro passi, ogni domenica, fin là».
L'arciprete si alza in piedi con un tono che non ammette ribattute: «No, go dito de no. Parchè là ghe xe n'altra parochia».
Il Crivellari insiste: «Monsignor, ma le Grazie non sono una parrocchia; e poi, don Andrea Baraldi non ha difficoltà a sposarci». Don Pio conclude: «Te te sposi in Domo; e ricordate che, par 'na roba importante, come el matrimonio, no se va in casa de altri».
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Sono maniere, queste?
La osserva da due domeniche. La signora entrava a messa iniziata, si metteva nell'ultimo banco della navata centrale. Nulla di strano, se non fosse stato per quelle braccia scoperte che stridevano con il loro biancore tra tante giacche grigie e tailleurs seriosi.
Don Pio, alla terza domenica, scende dal presbiterio, infila il corridoio tra gli scranni della navata sinistra, aggira la signora alle spalle e la spinge alla porta d'uscita davanti all'altare di sant' Antonio. La gente guarda, bisbiglia sottovoce: «Sono maniere, queste?».
Lui, impassibile, ritorna alla balaustra dell'altar maggiore e, senza preamboli e conclusioni, dice forte: «La go fata e son contento d'averla fata».
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Aveva l'occhio clinico
Un pomeriggio ,C<.lpit? a Piove il vescovo Agostini. Chierici, seminaristi, sacerdoti, chierichetti si fanno attorno. Don Pio gli sta sulla destra e gli presenta i suoi diretti collaboratori.
Aveva letto sul Bollettino diocesano, qualche settimana prima, un articolo sulla scelta delle vocazioni, che non gli era andato giù. Vi si diceva, tra l'altro, che per individuare le vocazioni al sacerdozio bisogna avere "l'occhio clinico".
L'aggettivo non gli era piaciuto perchè lo sentiva quasi un rimprovero, proprio lui che aveva ogni giorno d'estate il coro pieno di allievi del seminario. «Qui, ecelensa - dice con aria inconsuetamente sbarazzina -lu ch'el ga l'occhio clinico ... , quanti di questi (e indica i chierichetti) va preti? Lu ch'el ga l'occhio clinico, el me d· I 19a. ».
Il vescovo non se l'aspettava una domanda del genere, tantomeno davanti ad un simile pubblico e sviò il discorso dicendo: «Monsignore! Qui a Piove c'è qualche altro che ha l'occhio clinico».
Il riferimento all'abate era evidente.
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I capelli a spazzola
Don Lelio Bordin portava i capelli abbastanza corti e tirati su a spazzola. In mezzo, la solita riga che teneva registrata con un piccolo pettine tascabile. Si accorge (era a Piove ormai da due mesi) che l'arciprete, quando lo incontra, schizza le labbra in fuori, come fosse preso da un soprassalto di disgusto.
Dice a don Giulio Rettore: «Ho impressione che don Pio abbia qualcosa da dirmi e se ne faccia un certo riguardo».
«Non aver paura - gli risponde il Rettore - quello, non manda a dire ciò che pensa per interposta persona: vedrai». Infatti, qualche giorno dopo, don Pio blocca don Lelio sulla porta della sacrestia: «Cossa xela sta righetta che te tien in testa?» Preso alla sprovvista, il cappellano diventa rosso come il fuoco e gli dice fra il vergognoso e l'incerto: «La discriminatura, monsignorI ».
L'abate, tutto giulivo, come se avesse scoperto per la prima volta la luna: «Ah, la discriminatura, la discriminatura. Dimela 'n'altra volta sta parola! La discriminatura! Adesso che so cossa che la xe, a son contento».
Poi, cambiando improvvisamente tono, gli punta l'indice destro: «E ti, con la to discriminatura, te vè dove che te voi, e mi bisogna che tasa. Ah sì, bisogna che tasa. Anca parchè a Piove no ghe xe barbieri!».
Prima di sera il Bordin si fece radere i capelli come un monaco nOVIZIO.
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Per un'assoluzione rifiutata
«No so come - racconta don Bordin - è accaduto anche a me. Ero andato a confessare fuori parrocchia ed avevo rifiutato l'assoluzione ad un persona. Di ritorno, prima mi prende un certo scrupolo, poi un rimorso così grande, che ritengo di doverne parlare all'arciprete subito. Monsignor, gli dico, ho rifiutato l'assoluzione ad un penitente.
«Questi finge di non sentire e sposta intanto alcune carte sulla scrivania davanti alla quale è seduto. Poi mette una mano in tasca, fruga a lungo e tira fuori il vecchio portafoglio. Ciapa - mi dice, consegnandomi una colombina (cinque lire di allora) - tote el tran e va' a confessarte da Padre Leopoldo».
La mattina seguente dopo la messa don Lelio affida a don Rettore i ragazzi della prima ginnasio ai quali fa scuola e va a Padova.
«A S. Croce mi metto in fila - ricorda - davanti al confessionale di Padre Leopoldo. Quando è il mio turno entro nello sgabuzzino, che mi parve allora semibuio e, inginocchiandomi, faccio presente al padre che ho un grosso problema da sottoporgli. Mi chiede: dov'é cappellano lei? Saputo che ero a Piove, mi batte sulla spalla: Ha un grande arciprete ... , e non aggiunge altro, lasciandomi intendere che bastava il parere di don Pio a mettermi tranquillo.
«Allora chiedo, dato che sono là, che mi dia l'assoluzione. Sì, sì, ho capito tutto - mi risponde - vada. Si alza e mi accompagna alla porta e aggiunge: Se è venuto qui, vuoI dire che è dispiaciuto di ciò che ha fatto; l'elemento principale della confessione è il pentimento».
Di ritorno a Piove corre in canonica a riferire a don Pio l'esito dell'incontro padovano. Risposta: «Mi no vojo saver gnente. Gnanca quel o ch'el te ga dito. Ma mi xe trent'anni che confesso, e no go mai rifiutà l'assolussion a nessun. Gheto capìo? A nessun, mai».
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La pattuglia dei timidi
Avevamo deciso _ . racconta il professore mons. Ireneo Daniele - che per il nuovo anno scolastico si sarebbe dato avvio in seminario al gruppo "Amici delle missioni". C'era bisogno di denaro e per raccogliere qualcosa pensammo di organizzare in parrocchia a Piove una pesca di beneficenza. Naturalmente occorreva il permesso dell'arciprete. Chi glielo avrebbe chiesto?
Ci accordammo di andare in canonica tutti insieme: il sottoscritto, Sante Miotto, Tarcisio Masiero, Zelindo Marigo, Giovanni Favarato, Giuseppe Zatta. Avrebbe preso la parola il Miotto, il quale però, trovatosi di fronte a don Pio, fu preso da una paura tale che non riuscì a sbucciare una frase intera. Lo soccorse il Masiero che, alla meno peggio, illustrò il motivo della loro presenza: «Monsignore, vorremmo che lei ci permettesse di fare la pesca per il costituendo gruppo degli amici delle missioni». L'arciprete ascolta. «No, no - dice - non ve lo concedo, ve lo comando».
Una scampagnata amara
Don Antonio Gusella è stato uno dei sacerdoti piovesi che più di una volta ha ricevuto caustici richiami da mons. Stievano. Era un prete intelligente, di ricca cultura umanistica. Pur fedele ai suoi doveri sacerdotali, usava spesso modi sbrigativi nelle celebrazioni liturgiche.
All'arciprete non garbava molto che i cappellani, soprattutto quelli appena arrivati a Piove, lo frequentassero. «Un pomeriggio - racconta mons. Antonio Schiavo - uscii a fare una scampagnata in bicicletta con Narcisio Briani, il dottor Giovanni Buia e, appunto, don Gusella. Andammo ad Arzergrande per via Puniga, così, senza fretta e senza discorsi programmati.
«Il Gusella ci parlò dell'etruscologo Minto e del poeta Diego Valeri. Non conosceva di persona il primo, ma del secondo aveva letto "Annunciazione", la poesia che stavo insegnando ai ragazzi della seconda ginnasiale delle famose scolette di Corte Milone. Gli dissi che al Valer i mancava il coraggio di professarsi cristiano. Lui mi ribatté che la poesia è già dentro nella fede.
«Di ritorno - era un pomeriggio di giugno - ci fermammo a guardare all'altezza di San Rocco uno stormo di rondini che volava a triangolo: "Vedi - mi disse il Gusella - anche quelle senza andare in chiesa, cantano la gloria del Signore". Più tardi sentii suonare il campanello di casa. Era la Giuditta: "Don Antonio, l'arciprete la vuole in canonica". La mia casa sorgeva sulla stessa Corte Milone a dieci passi da quella abbaziale. Appena metto piede dentro: "Vien qua - mi sento dire, e la voce arriva non so da quale stanza - ti te credi de convertire lu', ma lu' te converte ti. Gheto capio?"
«Nella mia ingenuità - prosegue nel suo ricordo lo Schiavo -andai poi a raccontare la cosa a don Gusella il quale, in un primo tempo s'inquietò, poi: "lascia perdere - mi disse - don Pio è dappertutto come Dio. Non ce l'ha con me, ma con la poesia».
Ma l'interpretazione non era esatta. Il Gusella celebrava la messa
ultima nei giorni feriali e, spesso, anche di domenica. Poteva quindi allungare il sonno al mattino. I cappellani invece dovevano essere puntuali alla messa dell'alba per fare meditazione o confessare.
Un giorno lo Schiavo arrivò in ritardo e don Pio lo affrontò in sacrestia dicendogli: «Sti nobili veneziani che se alsa tardi a la matina parchè i va in leto tardi a la sera! ». L'allusione era al Gusella, che notoriamente non aveva mai ore alla sera.
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Un'ernia antica
Non aveva molta simpatia per i medici o, meglio per farsi curare da loro. Eppure, da Maffei a Lorenzoni a Zanetti, non ce n'era uno che non avesse cara la sua amicizia. Commovente, addirittura, era la reciproca stima e deferenza tra lo Stievano e lo Zanetti.
Quest'ultimo aveva nome Lupo e lo era anche per certi atteggiamenti "mastini", specialmente quand'era impegnato in interventi chirurgici ad alto rischio. Era decorato di medaglia d'argento al valore militare e sociale per avere prestato la sua opera di chirurgo nella prima guerra mondiale a ridosso della prima linea. Alcuni vecchi militari piovesi ricordavano di averlo visto «tagliare, squartare, cucire» sotto una tenda da campo allume di candela. Duro, a volte violento, ma con un cuore grande così.
Si trovava a suo agio con l'abate, forse perché ambedue leali fino in fondo. L'amicizia tra i due nacque da una "visita" che lo Stievano dovette subire. Aveva da sempre un'ernia che via via andava ingrossando. Zanetti palpò, esaminò e ... sbottò: «Ma non l'è mai venuto in mente di togliersi, una volta per tutte, questo fastidio? Adesso mi costringe ad un intervento complicato».
E lui, tra l'indifferente ed il preoccupato, risponde in dialetto: «Sì, professore, ghe gavevo pensà tante volte. Ansi, ghe conto 'na storia. El suo predecessore prof. Maffei, 'na volta el gaveva dito:« se lei viene qui una mattina, a digiuno dal giorno prima, noi la portiamo in sala operatoria, la mettiamo sul lettino, le diamo un giornale da leggere e, finché lei legge il giornale, io le opero l'ernia. Andrà tutto bene».
«E perché lei non l'ha fatto?» - chiede lo Zanetti. Risposta: «Parchè non so sta bon de trovare el giornae che me comodava».
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Un'involontaria profezia
Nell'estate del '38 furono organizzate alcune manifestazioni per ricordare i 50 anni della sua ordinazione sacerdotale. «Lascia perdere - aveva detto a don Giulio Rettore - lo so che me volì ben, ma me bastaria che pregassi par la me anema».
Invece fu fatto per tre giorni "campanò" e sul presbiterio dell'altare maggiore comparve il trono con il baldacchino per il pontificale. Mons. Pio accettò di buon grado la festa che si concluse con un simpaticissimo banchetto presso l'asilo delle suore. La superiora suor Angiolina Previtali volle servire personalmente l'illustre e venerando ospite.
Com'era consuetudine, a metà pranzo si alzò a parlare don Antonio Gusella, il poeta dalla vena facile e dalla parola ridondante. Prima di lui, don Giulio aveva dato lettura di alcuni telegrammi, tra i quali quello del vescovo di Padova Agostini e dell'arcivescovo di Firenze Dalla Costa. L'arciprete di soppiatto allungò la mano, senza che il Rettore se ne accorgesse e prese una lettera che portava sul frontespizio la scritta "Seminario minore di Thiene".
Più tardi chiamerà in canonica i piccoli seminaristi per dire loro: «El vostro pensiero me ga piasso tanto, anca parché go visto che si boni scrivere. Grassie de le vostre preghiere. El Signore ve benedissa» .
Gusella tira fuori un grosso rotolo e lo svolge. È la pergamena da lui scritta e fatta stampare per la circostanza. In piazza già la conoscono, perché le varie copie listate di rosso e oro sono state esposte nelle principali vetrine da giorni.
Il testo è splendido; forse la meglio riuscita di tutte le composizioni del poeta domestico. Incomincia così: «A mons. dotto Pio Stievano - abate mirato - che - nel luglio odorante di messi mietute - celebra - vestito sol di modestia -le fauste nozze d'oro sacerdotali - Piove di Sacco - aderge -l'ala del pensiero - e l'onda dell'affetto» . Nella dedica il Gusella vi aveva inserito una serie di elogi al festeggiato, senza, questa volta, strafare.
Don Pio ne ascolta attentamente la lettura e ad ogni passaggio letterario scuote la testa. Ma non è ancora terminato l'applauso all'oratore, che si alza e, dopo un lungo gesticolare con le mani, come per dire: avete sentito bene?, commenta sarcasticamente: « ... e a sa da cassa da morto, e a sa da cassa da morto».
E fu profeta, forse involontario. L'anno seguente, nello stesso mese, si mise a letto e non si alzò più.
I suoi ultimi giorni
Esiste un diario dei suoi ultimi giorni. Ne è autore don Gaetano Forin, allora seminarista. Una ventina di paginette svelte, che colgono le espressioni e i momenti più significativi della fede di don Pio di fronte alla morte.
L'illustre infermo si era messo definitivamente a letto il 29 luglio 1939. «Mi raccomando a voi due - disse rivolgendosi al prof. Zanetti e a don Giulio Rettore - non nascondetemi nulla». Era sempre sereno anche se consapevole della gravità della sua situazione. Quando chiede il Viatico raccomanda: «Venite cantando soltanto il Miserere».
Nelle ore in cui il male gli dà tregua, trova il suo buon umore e a don Rettore che gli amministra l'unzione degli infermi bisbiglia: «Mi raccomando non mettetemi in cassa vivo». Alla nipote suora che gli suggerisce le litanie del Sacro Cuore: «No, cara, lassa che le diga mi».
Alternava il dialetto all'italiano a seconda delle persone che gli facevano visita. Al vescovo Agostini che gli impartisce la benedizione e lo informa che molte persone in diocesi stavano pregando per l'arciprete di Piove, stringe e bacia la mano piangendo: «Quale grazia, quale grazia!».
Attraverso la porta della sua stanza che dà sul corridoio vede una fila di persone inginocchiate. Le guarda a lungo e poi dice: «Go caro che si vegnù a vedare come che more el vostro arsiprete».
Il giorno dopo la visita del vescovo giunge in canonica una telefonata della Curia di Padova: «Qui, il vicario generale. Senta, verso sera arrivo con un treno a Piove e faccio una visita a monsignore». È una delle nipoti dell'abate a ricevere la comunicazione. Però, dato lo stato di prostrazione in cui lo zio si trova, è indecisa se avvertirlo o no. Va in stanza, lo guarda un po': è disfatto e impresentabile a qualsiasi visitatore, figuriamoci al vicario generale.
Si fa coraggio: «Zio - gli dice - siccome stasera verranno persone importanti, c'è in corridoio il barbiere. Se vuoi, in un minuto
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ti mette a posto. Lui, Adamo, lo sai, fa presto». Don Pio, mezzo assopito, tra i dolori e le preghiere, risponde: «On minuto! Dighe al barbiere che so drio morire, e che no go tempo».
Una settimana prima di chiudere gli occhi per sempre, fu preso dagli scrupoli. Mandò a chiamare Toni Palleva e Riccardo Bada, i suoi due autisti di piazza. Da qualche anno non andava più a Padova in treno e si serviva ora dell'uno, ora dell'altro. Non pagava subito il servizio, perché non aveva soldi, ma a tempo opportuno saldava i debiti. Quando se li vede vicini alletto: «Tosi - dice -vanséo calcossa da mi?».
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Lo scapolare nuovo
L'amore alla Madonna lo accompagnò fino all'ultimo giorno. «Un pomeriggio - racconta don Lelio Bordin - vado su in stan
za a salutarlo. È seduto sui gomiti e sembra aver trovato finalmente un po' di pace. Mi dice: vojo domandar te se te ghe un abitin de la Madona dei Carmini».
Don Lelio, essendo cappellano della "cura" di San Rocco, era anche l'assistente ecclesiastico della confraternita, allora fiorentissima, dei devoti della Madonna, onorata col titolo del Carmelo. Risponde: «Sì, monsignor». «Va tòrmene uno, benedissemelo, po' te me lo porti».
Quando il Bordin gli consegna lo scapolare nuovo don Pio si commuove e, prendendolo in mano bisbiglia: «Parché, andare davanti a la Madona con on abitin vecio ... no ... no ... ».
Povero e generoso
Quando morì, gli trovarono nelle tasche della veste venti centesimi. Don Giulio Rettore, suo esecutore testamentario, commentò: «Non sono mai riuscito a capire come facesse lui, così povero, ad essere tanto generoso con tutti i poveri».
C'e un piccolo particolare che ci aiuta a capire ancor meglio il cuore che egli aveva. Faceva "carità" anche in chiesa; cioé quando i campanari passavano a raccogliere le offerte, metteva la sua elemosina nelle loro "buste". Un giorno Gigio, il campanaro, si permise di esprimere il suo disappunto: «Monsignor, noI par bon!» don Pio lo guardò incuriosito: «No paro bon? E invesse mi son convinto che i preti, scomissiando da mi, ga da dare bon esempio. I schei no xe nostri, xe dei poareti».
CENNI BIOGRAFICI DEI SACERDOTI CITATI
Stievano mons. dotto Pio
Nato a Roncaiette nel 1866, ordinato nel 1888, fu insegnante di lettere nel collegio vescovile di Thiene. Dal 1895 docente di teologia morale nel Seminario maggiore di Padova. Dal 1908 arciprete abate mitrato e vicario foraneo di Piove di Sacco. Era laureato in lettere, filosofia e sacra teologia. Esaminatore prosinodale e parroco consultore. Morì a Piove il 29 agosto 1939.
Agostini mons. dotto Carlo.
Nato a S. Martino di Lupari il 22 aprile 1888, ordinato sacerdote a San Donà di Piave il 24 novembre 1910, rettore del Seminario di Treviso nel 1925, è eletto vescovo di Padova il 30 gennaio 1932. L'8 febbraio 1949 è Patriarca di Venezia. Tre anni e mezzo dopo si ammala; gli giunge la nomina a cardinale sul letto di morte. Muore a Venezia il 28 dicembre 1952.
Baraldi don Andrea
Nato a Piove 1'8 maggio 1871, ordinato nel 1897. Cooperatore a S. Croce in Padova, parroco a Saccolongo dal 1902 al 1933. Predicatore efficace, dettò in moltissime parrocchie della diocesi corsi di missioni e di esercizi. Nel '33 passa a Piove come Rettore del Santuario della Madonna delle Grazie. Nel' 45 è nominato cappellano delle suore della casa di Ricovero. Muore il 21 novembre 1948.
Bordin don Lelio
Nato a Cogollo del Cengio 1'11 novembre 1906, ordinato sacerdore il 3 luglio 1932. Fu vicario cooperatore nelle parrocchie di Montegrotto Terme, Monselice, Solesino, Piove di Sacco e di Zugliano. Dal 1941 presta la sua opera di cappellano militare fino al 1971, quando si ritira a vita privata. Muore a Cogollo il 3 marzo 1987.
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Cesaro don Narciso
Nato a Ronchi di Casalserugo il6 aprile 1900, fu ordinato sacerdote il 20 luglio 1924. È cooperatore a Monselice, Ospedaletto, Piove
di Sacco. Curato a Schiavonia, nel '37 è parroco di San Nazario e nel 1947 a San'Angelo di Sala. Nel 1970 rinuncia alla parrocchia ed ha la nomina di cappellano del Noviziato delle suore salesie (Colmirano di Campo di Alano). Muore il 23 Maggio 1975.
Codemo mons. Bartolomeo
Nato ad Alano di Piave il 2 Giugno 1884. Ordinato sacerdote 1'8 giugno 1908. Cooperatore a Rotzo, nel 1913 è nominato arciprete
e vicario foraneo di Enego e nel 1925 arciprete di Torre. Nel 1932 ha la nomina di prevosto di Rovigno (diocesi di Parenzo e Pola),
dove nel '39 diventa canonico teologo della cattedrale, cancelliere di curia, delegato vescovile dell' Azione Cattolica e insegnante in Seminario. Nel 1958 è direttore spirituale presso l'istituto Fatebenefratelli di Romano d'Ezzelino. Nel '62 ha la nomina di assistente
spirituale alla Casa di Esercizi spirituali Villa Immacolata di Torreglia. Muore il 23 marzo 1979.
Dalla Costa card. Elia
Nato a Villaverla nel 1872, ordinato sacerdote a Schio nel 1895, insegnante in Seminario a Vicenza dopo essersi laureato in lettere al
l'università di Padova. Parroco a Pozzoleone e quindi arciprete di Schio. Consacrato vescovo nel duomo di Schio il 12 agosto 1923, fece il suo ingresso a Padova il 7 ottobre 1923 (festa del Rosario e di S. Giustina). Nel 1932 viene eletto arcivescovo di Firenze e il
13 marzo del '33 è creato cardinale. Partecipa a due conclavi (1939 elezione di Pio XII: 1958 elezione di Giovanni XXIII). Muore a Fi
renze il 22 dicembre 1961.
Dalla Zanna don Primo
Nato a Sant'Eulalia di Borso del Grappa ilIO giugno 1882: ordinato sacerdote nel 1906, fu successivamente cooperatore a Piove di Sacco, Teolo, Semonzo, Fellette e infine a Borgoricco S. Leonardo, dove morì il 5 febbraio 1947 .
Dalla Zanna don Secondo
Nato a Sant'Eulalia nel 1882, e gemello di don Primo. Ordinato sacerdote nel 1906 fu cooperatore a S. Giustina in Padova e a Piove di Sacco dal 1908 al 1910, anno in cui viene nominato insegnante presso il Collegio vescovile di Thiene. Dal 1915 al '19 è cappellano militare. Nel 1919 passa ad insegnare nel Collegio Barbarigo, nel '20 è nuovamente a Thiene e dal '21 al '37 insegna lettere nel Seminario Minore (Thiene). Dal 1937 è parroco a Borgoricco S. Leonardo, dove muore il 23 dicembre 1961.
Ferraro don Alessio
Nato ad Este il 15 maggio 1898, riceve la consacrazione sacerdotale il 20 luglio 1924. È successivamente cooperatore ad Albignasego, Marsango, Piove di Sacco, Veggiano. Tre anni dopo si ritira a vita privata a S. Marco di Camposampiero. Muore ad Este il lO febbraio 1969.
Guolo don Gelindo
Nato a Correzzola nel 1896, fu ordinato sacerdote nel 1922. Cooperatore a San Daniele in Padova, Enego e Piove di Sacco. Dopo essere stato per alcuni mesi vicario economo di Fossaragna, nel 1935 divenne arciprete di Cona e nel 1952 di Rivale di Pianiga. Nel 1962 si ritira a vita privata a Correzzola. Muore all'ospedale di Padova il 1 luglio 1963.
Gusella don Antonio
Nato a Piove di Sacco nel 1876, cooperatore a Candiana, Rossano, S. Maria delle Grazie in Este, Anguillara, Carrara S. Giorgio, Stanghella, Solagna. Nel 1918 si ritira a vita privata a Piove dove muore il 28 luglio 1964.
Martinati mons. Aldo
Nato a Colà di Lazise il 13 marzo 1885, fu ordinato sacerdote il 21 settembre 1907. Cappellano in Seminario e prefetto, nel 1908 ricevette l'incarico di maestro di camera del vescovo Luigi Pellizzo e successivamente di cooperatore ad Arzerello e poi di coadiutore a Piove di Sacco. Nel 1914 fu nominato arciprete di Selvazzano, dove rimase fino al 1929. Nel '32 diventa assistente diocesano delle associazioni cattoliche femminili. Nel 1946 ha il titolo di canonico onorario della Cattedrale e nel 1950 è nominato delegato vescovile per la casa Mater boni consilii. Muore a Padova il 30 agosto 1979.
Masiero don Tarcisio
Nato a Piove di Sacco nel 1906, ordinato sacerdote nel 1931, fu per due anni vicario coadiutore presso la parrocchia dell'Immacolata in Padova, un anno cooperatore a Lugo Vicentino. Nominato cappellano militare, prestò servizio durante la guerra etiopica presso diversi ospedali da campo. Morì ad Asmara il 23 giugno 1937.
Miotto mons. Sante
Nato a Piove di Sacco 1'8 novembre 1904, ricevette l'ordinazione sacerdotale il15 luglio 1928. Cooperatore ad Asiago per 5 anni, nel '33 è nominato dal vescovo Agostini parroco di S. Caterina di Lusiana. Nel '36 diventa arciprete di Castelbaldo. Dal 1954 fino al 1971 regge la parrocchia di Rossano Veneto. Si ritira quindi a Piove di Sacco, dove svolge l'ufficio di penitenziere in Duomo. Muore il 7 gennaio 1984
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Pipinato don Luigi
Nato a Pontelongo nel 1877, ordinato sacerdote nel 1907, fu sempre a Piove di Sacco quale sacri sta e coadiutore. Muore il 24 ottobre 1931.
Rettore don Giulio
Nato a S Michele delle Badesse nel 1901, ordinato sacerdote il 18 luglio 1926, è cooperatore ad Arquà Petrarca e quindi a Piove di Sacco. Fu il cappellano più amato da mons. Pio Stievano per le sue doti di equilibrio e di intraprendenza amministrativa. Nel 1940 è arciprete di Vigodarzare e vicario foraneo. Muore a Padova il 25 novembre 1970.
Rullati mons. Riccardo
Nato a Casalserugo nel 1879. Ordinato nel 1903, fu cooperatore per 7 anni ad Alano di Piave. Da qui venne chiamato in centrodiocesi, dapprima come collaboratore e poi come responsabile della stampa cattolica. Diresse «La libertà» e «La Difesa del Popolo», Nel 1922 è nominato canonico onorario della Cattedrale. Nel 1925 è presidente della giunta diocesana dell' Azione cattolica. Nel 1935 è canonico residenziale. Muore a Padova il 7 giugno 1940.
Schiavo mons. Antonio
Nato a Montagnana l' 11 agosto 1904, ordinato sacerdote il 24 luglio 1927. Fu cooperatore a Montagnana e a S. Giustina in Colle. Nel '36-'37 è cappellano a Piove di Sacco della curazia di S. Nicolò. S'interessa dell' Azione cattolica giovanile e insegna lettere presso la "scoletta" ginnasiale di Corte Milone. Nel '38 è parroco a Polverara, dove rimane per otto anni, dopo i quali assume la responsabilità della comunità di Casale Scodosia. Nel 1977 lascia la parocchia ed è insignito del titolo di Canonico residenziale della Cattedrale di Padova. Muore il 25 agosto 1983.
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Tonon don Annibale
Nato a Piove di Sacco nel 1871. Ordinato sacerdote nel 1907, fu cooperatore e curato in molte parrocchie della diocesi. Ha lasciato · un profondo ricordo della sua carità e generosità a Rubbio, dove fu curato negli anni del dopoguerra ('19-'20). Nel '36 si ritira in famiglia a Piove, dove muore il 25 novembre 1939.
INDICE
Presentazione (Paolo Tieto)
Prefazione (Alfredo Contran)
Il terribile scioglilingua
Una pedata, una lettera, una vocazione
La strada pareva lunga
Una grazia su ordinazione
I due fratelli cappellani
Una lettera sofferta
Spumante e dolce ogni giorno
Una predica fuori tono
Il congresso dei "moccoli"
AI demonio ci credeva
Dopo la visita pastorale
Lui, lei e l'altro
La radio in prestito
Una memoria formidabile
Qualcuno andò in Curia
AI cimitero sotto la pioggia
Chi ha perduto le chiavi di casa?
La festa oltre le barene
La puntualità è una virtù
Rimprovero e penitenza
Quella notte in Corte Milone
] famosi preti del chinino
I soldi per la permanente
La predica in farmacia
pago 5
pago 7
pago 13
pago 15
pago 18
pag.20
pago 21
pag.23
pago 25
pag.26
pago 28
pago 29
pago 31
pago 33
pago 35
pago 37
pago 39
pag.42
pago 43
pago 45
pag.47
pag.49
pago 51
pago 53
pago 56
pago 57
Il maresciallo in canonica
L'instancabile Giuditta
Vecchio sì, ma non stupido
Vorrei sposarrni alle Grazie
Sono maniere, queste?
Aveva l'occhio clinico
I capelli a spazzola
Per un'assoluzione rifiutata
La pattuglia dei timidi
Una scampagnata amara
Un'ernia antica
Un'involontaria profezia
I suoi ultimi giorni
Lo scapolare nuovo
Povero e generoso
Cenni biografici dei sacerdoti citati
pago 58
pago 59
pago 60
pago 61
pago 62
pago 63
pago 64
pago 65
pago 66
pago 67
pago 69
pago 70
pago 72
pago 74
pago 75
pago 77
Finito di stampare nel mese di Novembre 1989
nello stabilimento grafico IT ALGRAF di Noventa Padovana
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