Titolo: Le cose, le cose, le cose. Le cose. Svuotamento e stallo nella poesia recente Autore: Davide Castiglione
Edizione a cura di: In realtà, la poesia
Anno: 2013
Vol.: 15
Il presente documento non è un prodotto editoriale ed è da intendersi a scopo
illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.
Le cose, le cose, le cose Le cose. Svuotamento e stallo nella poesia recente
di Davide Castiglione
In realtà, la poesia
2013
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Premessa
Si parla spesso di un ritorno alla realtà - nel senso comune
di ‘concretezza’, ‘quotidianità’, importanza dell’esterno -
nella giovane poesia, quella scritta dai nati negli anni ’70 e
’80. Questo è, per esempio, uno dei cardini attorno ai
quali ruota l’introduzione all’antologia La generazione
entrante (Ladolfi, 2011), ma la situazione è generalizzabile,
dato che pochi difendono apertamente un paradigma
antagonista (con tensioni orfiche o enfasi su un
astrattismo anti-sentimentale). È davvero questo il caso?
Se per una volta interrogassimo i testi poetici piuttosto
che le intenzioni o le razionalizzazioni dei loro autori, ci
renderemmo conto che la situazione è più sfaccettata.
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Ci renderemmo conto che la realtà è più inseguita che
raggiunta, e spesso si presenta nella forma debole di un
minimalismo senza ambizioni né peso, non a torto
avversato da Giorgio Linguaglossa (ma solo da lui, a
quanto pare).
Un sintomo di questa debolezza generale è l’uso del
sostantivo generico ‘cose’, assolutizzato dall’articolo
determinativo e quasi sempre a fine verso: questo termine
è esemplare perché da un lato è indice di realtà, di legame
con la cosalità della Linea Lombarda; dall’altro ha
ascendenze filosofiche, e sembra riassumere l’immateriale.
Nella pratica scrittoria, tuttavia, il suo uso insistito e
spesso ornamentale lo trasforma in uno stilema estenuato,
un indice del poetico che assolve a una funzione
contraria, di pigro lirismo; un estetismo spesso gratuito,
uno specchietto per le allodole insomma (altre parole-
chiave che andrebbero studiate sono ‘corpo’, ‘parola’,
‘respiro’ e adesso anche ‘casa’, anche e forse soprattutto in
area sperimentale… è per via di una perdurante
ascendenza heideggeriana?).
Senza pretese di esaustività (molti altri testi potrebbero
essere inclusi nell’analisi) ma in un tentativo di
sistematicità, il presente saggio si propone di studiare
questo fenomeno, nella persuasione che nei testi, in
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particolare nelle loro strutture o minuzie più inavvertite
agli autori stessi, stia il sintomo di un’inerzia compositiva
che a volte non risparmia nemmeno i migliori.
Mi propongo cioè di identificare ed analizzare un
problema, non di dare o togliere una patente di qualità agli
autori che analizzo - alcuni dei quali, anzi, stimo molto.
Procederò nel seguente modo: 1) costruirò e contrasterò
alcuni concetti di ‘realtà’, mutuandoli dal modello dei
‘mondi’ di Karl Popper; 2) inquadrerò il sostantivo ‘cose’
all’interno di questi concetti; 3) analizzerò alcune
ricorrenze in cinque maestri più o meno in ombra del
Novecento di diverse tendenze (Calogero, Sereni, Cattafi,
Spatola, Balestrini); 4) analizzerò le ricorrenze in una
dozzina di autori successivi, soprattutto delle ultime
generazioni; 5) valuterò il cambiamento in atto,
articolando i nodi già presentati in questa sinossi.
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0. Quale ‘realtà’ per la poesia?
Il recente e pervasivo dibattito sulla realtà in letteratura
soffre di un limite intrinseco: un malcelato culto
dell’irrazionale. Poco di cui meravigliarsi, se teniamo
conto del debito contratto dalla critica italiana più in vista
dall’anti-positivismo crociano prima e dai vari post-
strutturalismi poi; e, per converso, la sua indifferenza se
non ostilità verso le tradizioni analitiche: fino a che punto
l’allarme lanciato da Cesare Segre in Notizie dalla crisi già
nel 1993 è stato accolto? E i dovuti omaggi a Contini
sono più formali che sostanziati in una pratica critica che
osi ripartire da lì?. Tradizioni, queste, che fondano alcune
delle punte d’eccellenza dell’accademia italiana, tra
filologia, stilistica, storia della lingua e semiotica
strutturale (Pavia, Padova, Siena, Pisa).
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Il problema è tutto nella fallacia ontologica in cui cade, prima
di cominciare, qualsiasi dibattito critico proprio in quanto
dibattito divenuto indipendente dalle analisi e dai risultati
delle analisi: sembra anzi che l’idea stessa di dibattito
fatichi a sussistere senza tale fallacia.
Per fallacia ontologica intendo la tendenza a trattare i
concetti come fossero delle essenze, degli assoluti. Il
paradosso è questo: nella teoria della letteratura si ha acuta
coscienza del fatto che i concetti (come quello di ‘realtà’,
ma anche le definizioni estetiche di ‘realismo’, ‘influenza’,
‘poetica’, ecc.) sono delle variabili, storicamente e
socialmente costruite; eppure vengono gettate nell’agone
del dibattito facendole passare per immanenti, per reali;
per costitutive, anziché per derivate. C’è una scollatura
astuta tra premesse tacite e pratiche scritte.
L’irrazionale segue con la certezza di un corollario: se i
concetti di cui dibattere in letteratura sono delle essenze
precostituite, allora sono inconoscibili, o conoscibili
parzialmente e forse solo per deduzione o sensibilità
personale! Avranno quindi sempre un residuo d’irrisolto,
di mistero - un residuo teologico anche quando si traveste
laicamente, mi verrebbe da dire. Questo consente di
accapigliarsi senza fine, con acribia argomentativa ma
spesso senza esplicitare limiti e premesse.
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Con inappuntabilità tautologica, vince l’idea vincente e
retoricamente più persuasiva, non quella di maggiore
coerenza interna e potere esplicativo. Tanto la datità del
materialismo quanto l’astrattezza della formalizzazione
sono accantonati in un’abile mossa. Non era così in
Fortini, e in molta della pratica critica tra anni ’60 e ’70,
alla quale mi richiamo.
In questo saggio, e nella mia pratica in generale, propongo
un correttivo di cui si parla poco: il senso del limite, del
rinunciare tatticamente all’ontologia (senza per questo
negarne l’esistenza) come punto di partenza di ogni
indagine.
Più a mio agio nelle premesse della filosofia analitica che
di quella continentale, mi propongo cioè di concentrarmi
su quanto è possibile conoscere in maniera soddisfacente.
Il punto allora non è più affermare che la realtà è
inconoscibile e complessa (cosa scontatamente
condivisibile, ma inutile in vista di una qualsiasi prassi); il
punto diventa proporre uno o più modelli di ‘realtà’ che
resistano schematizzazioni troppo estreme e che però
siano al tempo stesso abbastanza intuitivi da essere accolti
senza troppi problemi dalla maggior parte dei lettori,
preferibilmente non specialistici.
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Penso a una rivalutazione del senso comune, del dato di
fatto sensoriale, e anche a una rivalutazione della facoltà
di pensare a un livello più astratto.
Benché fondato sull’epistemologia, il modello pluralista e
interattivista dei tre mondi di Karl Popper in Objective
Knowledge (1994 [1979]) mi offre la piattaforma teorica di
cui ho bisogno. Cerco di delinearlo qui sotto in breve,
adattandolo al concetto (costruzione) di realtà a cui
cercherò di restare fedele, nella pratica analitica, qui così
come nei saggi futuri.
Popper postula tre mondi che interagiscono tra loro e che
sono gerarchicamente organizzati: 1) il primo mondo,
conoscibile con i nostri sensi, ovvero la datità, gli oggetti
(il buon senso dell’empirismo); 2) il secondo mondo,
quello della mente soggettiva (consciousness) fino ad allora a
fondamento di ogni epistemologia e del dualismo corpo-
mente; 3) il terzo mondo, quello ‘oggettivo’ (nel senso di
‘pubblicamente discusso’ dato a questa parola da Popper),
ovvero l’insieme delle teorie, opere d’arte e prodotti del
genere umano a fondamento della nostra conoscenza, al
di là del sapere limitato del singolo. Le biblioteche, ma
anche internet, sono incarnazioni di questo terzo mondo.
La gerarchia dei tre livelli è biunivoca: da un lato, il primo
mondo interagisce col secondo e il secondo col terzo;
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dall’altro, il terzo interagisce col secondo e ha impatti sul
primo (come una scoperta scientifica ha un impatto sulla
tecnologia che viene prodotta, e questa sugli effetti
psicologici e fisici che può causare).
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1.1 Realtà come immanenza dei realia
Semplificando, non è difficile rileggere il concetto di realtà
seguendo queste coordinate.
Il primo livello corrisponde, sul piano letterario, alla
mimesi dei referenti esterni (per es. il fatto che in una
poesia riconosciamo degli ambienti, un senso di
concretezza dato dall’uso di realia come ‘rubinetti’ o
‘monete’). In questo quadro, chi prende parola sono
personaggi riconoscibili (come in Pagliarani) o un alter-
ego del poeta (si pensi a Raboni o Giudici), oppure l’io
empirico che coincide con l’io biografico (per esempio
Sereni). Comune a questi maestri - tutti non a caso
riconducibili alla Linea Lombarda - è l’immanenza del
soggetto, il suo essere in situazione, quasi scolpito in tre
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dimensioni: di comune vi è un resistere alla trascendenza,
che però viene comunque, e per fortuna, raggiunta in
qualche forma1 - altrimenti anche i maestri scadrebbero in
un diarismo fine a sé stesso, che non potrebbe pretendere
lo status di grande poesia, di poesia che rimane e viene
tramandata.
Solo un tale intendimento riduttivo del concetto di ‘realtà’
farebbe coincidere quest’ultima, tout-court, con il mondo
sensibile esperito dal soggetto; e tanto più limitante
sarebbe farlo per la poesia, che naturalmente aspira, nei
suoi momenti maggiori, a uno stato di permanenza, di
universalità (anche gli effimeri palloncini d’elio di Pietro
Manzoni sono ricordati dalla storia dell’arte, e vedo
difficile che un artista si auguri di essere dimenticato).
I poeti autentici condividono questa insoddisfazione,
questa tendenza verso una qualche forma dell’oltre: così
Montale scrive, negli Xenia «né più mi occorrono / le
coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni di chi
crede / che la realtà sia quella che si vede». Una negazione
netta, quest’ultima, del paradigma naturalistico e mimetico
cui ho accennato sopra. Più radicale, e - se posso
permettermi - più potente è l’accusa amara allo stesso
1 Per esempio, semplificando al massimo: il coincidere di soggetto empirico e soggetto storico, nonché il senso del tragico, in Sereni; l’ironia di Giudici, che recita consapevolmente; l’affresco psicologico e sociale di Pagliarani; i conti con l’irrazionale (i morti, il desiderio) nell’urbanissimo Raboni.
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paradigma, affermato con rabbia trattenuta da questi versi
di Fortini, tratti appunto dalla poesia La realtà, ne L’ospite
ingrato (1966): «Le dattilografe mettono la copertina sulla
contabile. / I gatti si occupano dei fatti loro. / Nel garage
puliscono carburatori. Questa / è la realtà. Se lasci cadere
un giornale / esso volteggia e raggiunge le ortensie».
Se la realtà come datità che deve passare per un soggetto
sensibile fosse accettata come l’unica via possibile, allora -
per paradosso - ciò di cui non abbiamo diretta esperienza
risulterebbe irreale: e quindi, per proprietà transitiva e
radicalizzando, non esisterebbe. Sarebbe come dire che le
guerre mondiali sono esistite ‘solo’ per i milioni di
persone che le hanno subite, e non per noi (qui c’è una
tangenza con il concetto di simulacro come realtà
mediatizzata in Baudrillard, in riferimento alla guerra del
Golfo).
Una poesia che cercasse di ridurre la realtà che
rappresenta alla sola datità esperita da un unico soggetto o
uno sparuto gruppo di soggetti sarebbe debole e non
potrebbe parlare al di là di se stessa e del suo autore.
Sarebbe, insomma, una poesia ‘realista’ o ‘verista’ nel
senso riduttivo del termine, ma non una poesia adeguata a
porsi in modo maturo di fronte alla realtà - agli altri due
livelli della realtà (vd. 1.2 e 1.3). E però è un’illusione che
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funziona perché inseparabile dai nostri meccanismi
percettivi: ciò che abbiamo esperito ci sembra, di regola,
più ‘reale’ di quanto abbiamo sentito in differita; e ciò di
cui non abbiamo mai avuto notizia ci sembra ‘irreale’.
In questo senso dovremmo far nostra la massima
fortiniana del mutare in coscienza la maggior quota
possibile di esperienza. E con l’accenno alla coscienza, è il
momento di passare al secondo livello: quello della realtà
come esperienza soggettivamente attraversata.
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1.2 Realtà come coscienza del soggetto
La realtà non è dunque «solo quella che si vede»: c’è un
passo ulteriore che allontana dal fenomenologico. Questo
passo fu programmaticamente compiuto dai maggiori
modernisti (Eliot, Joyce, Woolf, Faulkner…) che
propugnarono questa scelta come loro vessillo, nel deciso
distacco rispetto ai modi naturalistici ottocenteschi.
La realtà diventa questione di percezione individuale,
mescolata a impulsi, al non detto, a desideri in conflitto
(l’influenza di Freud fu inestimabile in questo
mutamento). Ecco allora il monologo interiore, lo stream of
consciousness, l’interesse per il ritratto psicologico,
l’incarnarsi del narratore in voci dagli stili molto diversi.
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In questa estensione delle possibilità autoriali c’è una forte
tensione alla totalità, c’è il ragionamento che la realtà è
complessa e irriducibile a un'unica versione onnisciente.
Di qui la polifonia bakhtiniana delle voci spesso in
conflitto, le possibilità offerte dagli accostamenti analogici
e ai meccanismi di incompatibilità semantica esplorati dal
surrealismo.
La lezione modernista è stata assorbita molto tardi in
Italia, probabilmente per via del ‘tappo’ dell’ermetismo
prima e del neorealismo (più incline alla prima mimesi che
alla seconda) poi. Perfino in Montale, ammiratore e
traduttore di Eliot, non troviamo nulla di simile alla
complessità e alle rifrazioni, al gioco dei personaggi, che
costituiscono il tessuto lacerato di The Waste Land: gli Ossi
sono poco complessi al confronto, e Le occasioni tornano a
un monolinguismo petrarchesco che non fu certo del
primo Eliot. Bisognerà, a mio parere, aspettare gli anni ’60
con i poemetti purgatoriali di Sereni e Luzi (da Gli
strumenti umani e Nel magma) per ritrovare una simile
varietà tonale e una simile drammatizzazione della scena,
che Eliot a sua volta mutuò probabilmente da Browning.
Il dialogismo in Sereni - spesso un monologo interiore
drammatizzato - e la varietà ritmica e tonale, mimetica dei
moti psicologici (il ghigno, il risentimento, la
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tenerezza…), lasciano intendere che egli non è, non può
essere, semplicemente il poeta attento «alle cose», il poeta
della domesticità, come vuole la vulgata addomesticante e
vincente, già presagita da Fortini quando affermò che la
poesia di Sereni doveva essere difesa dai suoi stessi
ammiratori. Che cos’è, ad esempio, il capolavoro Un posto
di vacanza (1971) se non anche la mimesi della mente e del
processo creativo? E cosa dire dei risvolti gnomici, a un
passo dal religioso, della poesia La spiaggia a sigillo de Gli
strumenti? A volte ho il sospetto che molti giovani, quando
si richiamano a Sereni, si arrendano a quella vulgata
riduttiva di cui sopra, al dogma delle famigerate «cose».
Da qui a un minimalismo che rinuncia a interrogare e
interrogarsi, il passo è breve, ed è Sereni stesso a sentirsi
soffocato dall’etichetta di poeta “delle cose”:
Non mi garbava per niente, eppure ho finito col tirarmi
dietro quell’etichetta quasi fossi stato io a premere per averla
addosso. Proprio il mio dissenso ha parecchio raffreddato
allora i miei rapporti con Anceschi; eppure per molti io
sono ancora quello della “linea lombarda”2.
2 Sereni a Bertolucci, lettera del 22 aprile 1965, Una lunga amicizia, Garzanti 1994, p. 222.
22
1.3 Realtà come stato ‘oggettivo’
Il terzo livello è quello più complesso da catturare e più
vicino, anche, alla concezione corrente e indipendente
dalle ridefinizioni teoriche: realtà come oggettivo stato di cose,
come entità complessa in cui siamo immersi e agiamo (e da cui siamo
agiti).
In Popper è il mondo oggettivo, la somma dei prodotti
della mente umana che hanno rilevanza collettiva (teorie
scientifiche, opere d’arte…). Siccome però Popper si
occupa di epistemologia, occorre forse allargare il
concetto fino a coprire, virtualmente, tutto ciò che fino ad
ora è stato esperito, intuito o creato da qualcuno e i cui
effetti sono percepiti (per es. internet) e anche tutti i
processi e state of affairs non prodotti, neanche
indirettamente, dall’uomo.
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Mi ha colpito molto, leggendo Popper, la nozione che il
terzo mondo è autonomo, che va oltre il controllo del suo
stesso creatore (sia egli scienziato o poeta); è possibile che
i meccanismi finanziari del tardo capitalismo si siano resi
autonomi allo stesso modo, siccome è verosimile che chi
li cavalca ne sia anche cavalcato, non ne abbia pieno
controllo. Un po’ come un incendio che necessita di una
dose iniziale di agenza umana (la classica sigaretta gettata
ancora accesa) per poi svilupparsi indipendentemente.
La realtà così concepita è inconoscibile non perché abbia
una misteriosa essenza (culto dell’irrazionale…) ma
semplicemente perché è troppo per le nostre facoltà
cognitive, non solo individuali. Non si oppone,
strettamente parlando, alla finzione (lo farebbe la realtà
del primo livello): opposizione che ci ha dato un
capolavoro amarissimo e divertente come il Don Quijote. Lì
la creazione letteraria era smentita dalla più bieca realtà
fenomenica; ma al terzo livello è la creazione (letteraria e
non) a plasmare la realtà fenomenica, come il marxismo -
una dottrina, quindi una creazione concettuale - ha reso
possibile l’esistenza di un modello alternativo, per quanto
misinterpretato e a volte brutalmente imposto sulla
società.
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Il terzo mondo popperiano, intermediato dal secondo, ha
effetti sul primo: con una mossa che si libera dal
meccanicismo materialista a senso unico (le idee nascono
da uno stato di contingenza, che le plasma ma dalle quali
non viene plasmato) e si ripristinano nientemeno che
alcuni aspetti dell’idealismo platonico: il fatto che il
mondo fenomenologico è controllato dal mondo delle
idee, come il disegno architettonico di un edificio dirige la
costruzione materiale dell’edificio stesso.
Questo terzo livello di realtà è costituito dalle strutture
soggiacenti alla società, all’economia, alla conoscenza
stessa. Forse è da questa maggiore complessità che deriva
il maggior grado di scientificità delle discipline applicate al
primo e meno complesso livello di realtà (per es. fisica,
biologia, geologia, zoologia) rispetto a quelle applicate al
secondo livello (per es. psicologia, linguistica) e al terzo
(storia, antropologia, economia, filosofia).
La poesia, ovviamente, non è una disciplina, ma in quanto
prodotto cosciente eppure non utilitaristico dell’uomo
può svelare qualcosa di ogni livello: le poesie che
incorporano e problematizzano il processo creativo e
percettivo (per es. Un posto di vacanza o l’intera opera di
Wallace Stevens) oscillano tra il secondo e il terzo livello,
essendo creazione individuale ma capace di interrogarsi
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sull’intorno che ha permesso al soggetto di esprimersi,
fino a sostituire lo stimolo iniziale (fenomenico) con la
realtà costruita dall’opera stessa, che in Stevens (ma al
contrario in Sereni) si vuole indipendente e assoluta.
Col terzo livello si sono confrontate le opere più
apertamente ambiziose, dai Cantos di Pound alla Beltà di
Zanzotto: centrale in queste opere è la riflessività sulla
forma stessa dell’espressione, che non è dunque
necessariamente un vezzo, un estetismo.
Si capisce allora l’importanza data da Fortini al metro e
alle forme chiuse, come convenzioni che però, proprio in
quanto tali, regolano la tradizione e salvano dallo
psicologismo (che non mancava di rimproverare a Sereni)
e quindi da una epistemologia fondata sull’espressività
individuale.
L’ordine prefigurato dal sistema del testo, in Fortini, è un
modello che anticipa l’ordine nuovo da fondare (il
comunismo), come argomenta Balicco (2011). Quindi c’è
una convergenza tra il profetico (l’avvento del nuovo) e lo
scientifico (la messa a punto di modelli scientifici passibili
di applicazioni future, non prevedibili con gli strumenti
oggi a disposizione). Sembrerebbe dunque che la
formalizzazione abbia una fortissima potenzialità
conoscitiva: è questa a rendere, ad esempio, alcune delle
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poesie di Giovenale (quelle in cui il radicalismo sintattico
non copre il fondo tragico e non diventa da questo
indipendente) tra le più promettenti (e rischiose) di questi
tempi, almeno in Italia e secondo il mio gusto personale.
Questo livello è solo abbozzato, ovviamente; e non mi
sento all’altezza, al momento, di capire e mostrare in che
modo la poesia lo possa affrontare nel corpo del proprio
testo (per usare una parola oggi di moda - ‘corpo’, non
‘testo’, ovviamente). Pertanto, dopo questa piattaforma
teorica, nel resto del saggio mi dedicherò a indagare in che
modo il primo livello (i realia) sia gestito dalle nuove
generazioni, per vedere se l’immanenza viene evocata
come fine a sé stante oppure nell’esplicito tentativo di
trascenderla.
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2. Le ‘cose’
Rassicuro potenziali detrattori e apostoli della fallacia
ontologica sul fatto che quello sopra delineato è un
modello euristico per la realtà; come qualsiasi modello, è
una finzione utile e non la definizione di un’essenza.
Come accennato nella premessa, analizzerò varie ricorrenze
del sostantivo ‘cose’ in poesia. Avrei potuto scegliere altre
parole, ma ‘cose’ effettivamente sta diventando (è già) un
problema espressivo (uno stilema fine a se stesso) nonché
una parola bifronte, indice di referenzialità nel linguaggio
corrente ma con profonde implicazioni in quello
filosofico.
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A proposito, recensendo il libro di Remo Boidei La vita
delle cose (Laterza 2009: ecco l’occorrenza già nel titolo!),
Stefania Pietroforte esplicita la distinzione netta tra
‘oggetti’ e ‘cosa’:
L’italiano ‘cosa’ (e i suoi correlati nelle lingue romanze) è la
contrazione del latino causa, ossia di ciò che riteniamo
talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua
difesa (come mostra l’espressione “combattere per la
causa”) … “Cosa” è, per certi versi, l’equivalente
concettuale del greco pragma, della latina res o del tedesco
Sache (dal verbo suchen, cercare), parole che non hanno
niente a che vedere con l’oggetto fisico in quanto tale…3
Senza addentrarmi in un discorso filosofico che non mi
compete, è comunque evidente che dietro alla parola
‘cose’ c’è molto di più che un indice di referenzialità: c’è
tutta una tradizione filosofica, e verrebbe da chiedersi
quanto la poesia sia influenzata da questa matrice.
Il titolo del libro di Bodei finisce con ‘cose’ come il
celebre libro di Foucault Le parole e le cose e come molti
versi dei poeti (e titoli di libri di poesia: Il mondo delle cose di
Nadia Agustoni, Umane cose di Veronica Fallini, Le cose
senza storia di Pusterla…).
3 Stefania Pietroforte, recensione a La vita delle cose
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Il punto che mi interessa è vedere che significato
contestuale e che implicazioni di poetica assume questa
parola nei passaggi poetici che analizzerò presto.
En passant, può non essere un caso che l’ultimo libro di
Giovenale si intitoli proprio In rebus (nelle cose, nelle
cause, con anche il significato di ‘enigma’ che rebus
comporta: polivalenza tipica della tradizione poetica,
quindi al di qua, nell’elemento ordinatore del titolo, di un
nuovo paradigma ancora tutto da verificare); e, per restare
al latino, In re ipsa di Giulio Marzaioli e, prima nel tempo,
Res amissa di Giorgio Caproni.
Su tutt’altro versante, ‘le cose’ è un’espressione ricorrente
nel linguaggio parlato: ‘bisogna cambiare le cose’, ‘le cose
non mi stanno andando granché bene’, e così via. In
questo caso, però, l’uso di ‘cose’ è convenzionale,
fossilizzato, un escamotage del discorso che fa della
vaghezza la sua stessa bandiera: ‘faccio cose, vedo gente’,
come recita la celebre battuta di Ecce Bombo. Potremmo
dunque a ragione aspettarci che nella poesia più
fenomenologica, più mimetica, il termine venga usato in
questa accezione.
Le ‘cose’, comunque le si intenda, sembrano dettare una
forte direttiva alla poesia odierna. Prima di iniziare l’analisi
dei casi singoli, una premessa: gli esempi sono tratti quasi
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a caso dalle letture che ho fatto di recente, e sono - per
così dire - “venuti a me” senza che io mi impegnassi
particolarmente a cercarli; questo è indicativo
dell’epidemia stilistica in corso (parecchie occorrenze le
ho trovate anche in Gabriel Del Sarto e in chissà quanti
altri autori se ne potrebbero trovare!)
Per chiarezza espositiva, il sintagma nominale ‘le cose’ (o i
corrispettivi preposizionali ‘nelle cose’ o ‘delle cose’) è
evidenziato con sottolineatura.
In verità, per una discussione veramente esaustiva
occorrerebbe utilizzare un software per l’analisi testuale
(come Wordsmith Tools), caricare i testi di tutte le raccolte
ritenute significative di questi ultimi anni, e analizzare
ogni occorrenza automaticamente trovata della parola
cercata.
Non escludo che si possa farlo in futuro; tuttavia,
decidere quali sono i libri più rappresentativi dovrebbe
essere un compito di squadra, dovrebbe derivare da un
comitato di specialisti della letteratura italiana dell’ultimo
decennio (fatto su cui sono poco fiducioso a giudicare
dall’attitudine di specialisti di generazioni precedenti la
mia: vedi questa discussione sulle aspirazioni scientifiche
della filologia d’autore, su Le parole e le cose).
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2.1 Le ‘cose’ in Calogero, Sereni, Cattafi, Spatola e
Balestrini
La mia attenzione per questi poeti è duplice: oltre al fatto
di essere relativamente trascurati dall’attenzione critica
(soprattutto Calogero, Cattafi, Balestrini e Spatola),
costituiscono un continuum di allontanamento dalla linea
lombarda: da uno dei capostipiti più illustri (Sereni,
malgrado il suo fastidio per l’etichetta) a un poeta assai
più metaforico e però legato dall’amicizia per i maestri
lombardi (Cattafi), a un poeta più marcatamente filosofico
(Calogero) fino due avanguardisti del Gruppo 63’,
successivi di due generazioni rispetto a Sereni.
Ben quattro dei sei stralci tratti dai cinque poeti vengono
da raccolte coeve: Gli strumenti umani, di Sereni, è del 1965;
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L’osso, l’anima di Cattafi del 1964; L’ebreo negro di Spatola
del 1966; Come si agisce, di Balestrini, copre gli anni 1961-
1963: un confronto dovrebbe dunque essere altamente
significativo delle diverse tendenze di un’epoca, anche
ricordando la freddezza o distanza di Sereni rispetto al
Gruppo ’63 (tra parentesi, è ironico che quest’anno
ricorra sia il cinquantennale del gruppo sia il centenario
della nascita di Sereni).
In ordine cronologico, però, la prima occorrenza che ho
trovato è in Calogero, dalla raccolta del 1956 In dittico:
[1] La lievità commosse le cose.
Nell'infingardo spazio l'acredine
scorre, fitto nudo nodo di gioia,
e appena mosse le vene e le onde.
(Lorenzo Calogero, 1956)
Riconosciamo in [1] i referenti astratti in funzione di
soggetto, quelli di circostanza decontestualizzati (quale
infingardo spazio? Di chi le vene, dove le onde?).
Le cose è qui paziente semantico di un nome astratto
(lievità) e come tale non è interpretabile nel senso realista
di una poesia degli oggetti.
Qui interpreterei le cose come uno sfocato insieme di
elementi sensoriali e visivi, preferibilmente non fisici, e
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insomma possibile antecedente di tutto ciò che viene
dopo (lo spazio, l’acredine, il nodo di gioia, le vene, le
onde).
Le marche stilistiche di [1] sono di matrice smaccatamente
ermetica, anche se meridionale è la sensorialità che invece
mancherebbe in un Luzi (scorre, nudo, mosse). La datazione
di [1] ne fa un (attardato) esempio di lirismo, quando il
neorealismo era ormai in ascesa (accuse di tradizionalismo
furono perfino rivolte al coevo La bufera e altro di
Montale!).
Nell’arco però di pochi anni, Sereni restringe il campo
semantico di cose a una referenzialità fisica e concreta,
come in questo passaggio tratto dalla poesia Il muro, ne Gli
strumenti umani (1965):
[2] Scagliano polvere e fronde scagliano ira
quelli di là dal muro -
e tra essi il più caro.
«Papà - faccio per difendermi
puerilmente - papà…».
Non c’è molto da opporgli, il tuffo
di carità il soprassalto in me quando leggo
di fioriture in pieno inverno sulle alture
che lo cerchiano là nel suo gelo al fondo,
se gli porto notizia delle sue cose
se le sento tarlarsi (la duplice
la subdola fedeltà delle cose:
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capaci di resistere oltre una vita d’uomo
e poi si sfaldano trasognandoci anni o momenti dopo)
su qualche mensola
in Via Scarlatti 27 a Milano.
(Vittorio Sereni, 1965)
Come in altri luoghi del libro, l’incontro con i morti in
stato di dormiveglia o sogno si trasforma in accusa -
richiamo alla responsabilità, senso di colpa storico ed
esistenziale - nei confronti del vivo.
La prima occorrenza di cose appartiene a quell’uso della
lingua corrente a cui ho accennato nella sezione
precedente: non è infrequente dire frasi del tipo ‘puoi dare
un’occhiata alle mie cose, di tanto in tanto?’. Questo
perché cose è specificato dall’aggettivo possessivo sue, e
pertanto il possibile spettro di referenti di cose in [2] è assai
più ristretto che in [1]. Questo esempio è dunque una spia
della mimesi del parlato che costituisce il più deciso
rinnovamento formale della maggiore poesia del secondo
novecento.
Qualcosa però già cambia nella seconda occorrenza di [2]:
le cose sono generalizzate, di primo acchito allontanate
dall’immanenza, appartenenti non più soltanto al padre.
Eppure, con una mossa che le riavvicina a chi le possiede,
acquisiscono qualità umane: fedeltà, capacità di resistere.
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Attributi, per inciso, che bene si adatterebbero al Sereni
uomo e poeta, tanto da poterle leggere come un
correlativo oggettivo di un’ideale perseguito dal poeta
stesso.
Inoltre, è bene sottolinearlo, queste cose sono cose
fenomeniche: sono oggetti tridimensionali, non res.
Vero, mancano referenti precisi: e però la menzione della
mensola e dell’indirizzo dove abitava il poeta (Via Scarlatti
è anche il titolo della poesia che apre Gli Strumenti umani),
fanno intendere che le cose hanno funzione di antecedente
di oggetti materici, tanto più che è possibile sentirli
‘tarlarsi’ (verbo usato in genere per il legno del mobilio,
infatti menzionato mediante iponimo: ‘mensola’).
Questa analisi ha rivelato come in Sereni ci sia effettiva
immanenza e individuabilità dei referenti: una vicinanza
che permane anche nei momenti più gnomici, come in In
una casa vuota, dove il nostro sostantivo nel verso ‘che
spero io più smarrito tra le cose’ si riferisce testualmente
alla scena di inerzia tratteggiata nei versi precedenti.
E passiamo ora a due estratti da Cattafi - il primo da Come
vanno le cose (in L’osso, l’anima, 1964), il secondo l’intera
Nebbia a Cimbro (in Chiromanzia d’inverno, 1983, postumo):
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[3] Ti spiattello in faccia come vanno le cose:
vanno male.
Benché abbia perso lo spirito e la lettera
della fede in quella
sfera che tu conosci,
sono ancora inquieto.
(Cattafi, 1964)
[4] Scende densa la nebbia
su cimbro frazione
di vergiate provincia
ai varese via
aprile venticinque al numero
diciotto la nebbia nidifica in lunghezza
profondità larghezza
VARESE CIMBRO VERGIATE
assieme assegna APRILE
coi numeri DICIOTTO VENTICINQUE
sono però così disincarnato
da svincolarmi
pago d’un paio di cose
confuse larvali innominate.
(Cattafi, 1983)
In [3] - un testo coevo al precedente analizzato di Sereni -
le cose viene usato nel senso più comune, di linguaggio
corrente: la mimesi del parlato è ancora più esibita che in
Sereni.
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Il soggetto poetico sceglie una dizione rasoterra, e svuota
cose del residuo psicologico che ancora resiste in Sereni: le
cose sono solo un vizio del discorso comune, una
scorciatoia di comodo richiesta dall’economia della lingua.
Nel senso che ha in [3] alla luce di quanto scritto dopo,
cose corrisponde alla totalità del conoscibile, allo stato delle
cose: al terzo livello di realtà (benché svuotata dalla
convenzionalità bruta dell’espressione), mentre le due
ricorrenze di Sereni si attestano, rispettivamente, al primo
livello (fenomenico) e al secondo (personale, psicologico).
In Calogero l’indeterminazione è tanta che cose può qui
corrispondere sia al primo che al secondo mondo
(fenomenico e psicologico), donde il suo sentore
filosofico.
In [3] le ‘cose’ sono elusive, privatissime, e addirittura
decostruiscono il fenomenologico: l’espediente è la nebbia
che annulla i contorni e rende anche il personaggio
poetico ‘disincarnato’. Da qui l’uso iconico dell’assenza di
interpunzione e la rinuncia alle maiuscole in ‘varese’,
‘cimbro’ e ‘vergate’.
Tra parentesi, è utile ricordare che anche Sereni, in una
poesia dove protagonista è la nebbia (qui una mia lettura
testuale) rinuncia all’interpunzione, benché i confini della
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città in Sereni rimangano comunque più netti, meno
concettuali, di questi in Cattafi.
A differenza dell’uso per me un po’ ornamentale in
Calogero [1], la vaghezza di cose in [3] è felicemente
funzionale al testo, è una precisa scelta rinforzata dalla
triade aggettivale con climax ascendente ‘confuse larvali
innominate’.
Cattafi rovescia un luogo comune della poesia, qui: quello
per cui le cose (ma quali cose?), per essere, hanno bisogno
di essere nominate. Solo il non nominarle, l’impossibilità
di conoscerle per intero, le preserva.
C’è un senso del limite, del rispetto quasi religioso per
l’inconoscibile, che dà conto dell’ultima fase della poesia
di Cattafi, più apertamente spirituale. Siamo ben lontani
da un estetico culto dell’irrazionale: non c’è esaltazione,
c’è invece una calma accettazione, c’è un arrendersi
consapevole e finemente giocoso all’irrelatezza
riconquistata dai referenti, che approssimano ora le
parole.
Il rammarico di Sereni (‘freddati nel nome che non è / la
cosa ma la imita soltanto’, in Un posto di vacanza, 1971)
diventa dunque possibilità per Cattafi: sono le cose,
adesso, che si affannano per imitare le parole e i concetti
che le sottendono.
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Non è, ripeto, apoteosi della sparizione del reale come nel
paradigma decostruzionista: nel Cattafi di Nebbia a Cimbro
l’evento che rende possibile questa libertà è epifanico
come la nebbia, non è costitutivo del nostro modo di
vivere e di conoscere.
C’è un’etica modernista che lo rende compatibile al se
stesso di [3], dove il contrasto apparente con [4] non
potrebbe essere maggiore: dopo aver ‘spiattellato in faccia’
le cose, ora il poeta le preserva inconoscibili con la
complicità della nebbia, cioè di una situazione presentata
come irreale ed eccezionale, quasi salvifica (di nuovo, c’è
un che di religioso, eppure non teleologico).
Le cose in [4] potrebbero appartenere, simultaneamente, a
tutti i livelli di realtà: potrebbero essere oggetti concreti,
referenti intravisti o immaginati dietro la nebbia a Cimbro
(un gatto, una rosa, una finestra); sono senz’altro
interiorizzati dal poeta, che se ne dice ‘pago’ - e quindi
appartengono al secondo livello; infine, potrebbero
riferirsi all’epifania stessa in atto nella poesia, ovvero nella
trasformazione delle cose in concetti, del minuscolo in
maiuscolo, quasi verso l’idea platonica: un processo
fondante del reale (la nostra capacità di astrarre e di
immaginare, che ci ha portato, volenti o meno, al
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progresso scientifico) pienamente compatibile col terzo
livello, o mondo, popperiano.
Passiamo ora in area avanguardistica, con Balestrini e
Spatola, per vedere come cose viene trattato da loro.
Comincio da questo estratto da Sterilità e metamorfosi di
Spatola (in L’ebreo negro, 1966), già discusso da Guido
Guglielmi qui:
[5] riga che cresce e che sale sul foglio
fuoco che danza nel volto contro se stesso
mentre distesa sul fianco la città s’addormenta
e semino capelli e dita nel ventre che arai
e il ventre è questa parete che scivola sopra di me
e come sappiamo da sempre da tempo bambini gridano in piazza
luce che si consuma nel pesce che ruota dentro la testa
tela bianca che strappo con l’unghia affilata
unghie spezzate contro la tenera carne
la tua colpa colomba rossa che sale dall’intestino
è la mia colpa dispersa nel ventre di alcune madri
e nel tuo ventre il nodo che lega alle cose
pesce che s’alza nell’aria e che l’aria consuma
(Spatola, 1966)
L’influenza del surrealismo di [5] è nella sequenza di
immagini irrelate, alcune violentemente anti-referenziali
(‘pesce che ruota dentro la testa’ che rimanda al De
Angelis di ‘il grembiule è rinchiuso nella testa’, in Distante
un padre, 1989), ciascuna delle quali occupa un verso che è
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anche unità tonale in sé compiuta: le immagini sono
assolutizzate e quindi svincolate dalla referenzialità: riga,
foglio, fuoco, volto, città e così via sono solo parole, resistono
l’integrazione nel discorso. Ogni verso inaugura un nuovo
soggetto che subito lascia il posto ad altri soggetti, così
che l’io poetico non ha statuto di controllo, a differenza
che in Sereni [2] e Cattafi [3] e [4], e si ricollega invece più
alla presa esterna di Calogero [1].
Forse è prematuro per dirlo, ma alla luce di ciò è
(paradossalmente) possibile che certi tratti della
neoavanguardia si richiamino all’ontologia ermetica: se lì
la visione era, per così dire, trascendente al poeta, qui è
interiorizzata in un demiurgismo nìcciano; o la si affidi a
un tutto più grande di cui essere parte come in [1], o alle
proprie pulsioni psichiche come in [5], in ambo i casi
sempre di visione svincolata dalla coscienza individuale e
dalla situazione.
Nel contesto di [5], le cose rimangono non-specificate,
svincolate da tutto, forse vittime di una lettura ideologica
della famigerata ‘autonomia del significante’ di
Saussuriana memoria e nella pratica superato da decenni
nella linguistica teoretica che i nostri critici non si
premurano nemmeno per sbaglio di leggere.
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Le cose in Spatola non hanno possibilità generica di
incarnazione come in Calogero [1], non sono affatto
oggetti specifici come in Sereni [2], né il loro occorrere è
qui regolato da un modo di dire corrente, come in Cattafi
[3], né è preparata dall’atmosfera di quanto detto prima,
come Cattafi [4]. Al più, qui cose può riferirsi al gioco
interno al testo (i referenti elencati alla rinfusa nell’impeto
creativo) oppure restare totalmente indeterminato.
Le cose sfugge a tutti e tre i livelli, semplicemente perché…
non è un sintomo di realtà, sia essa fisica, mentale o
collettiva.
Sotto appunto l’influenza possibile di Saussure e poi di
Wittgenstein (meaning is use, il significato è uso, massima
spesso travisata), le cose sono un segno linguistico
svuotato, senza giustificazione estrinseca né funzionalità
apparente.
A rischio (militante) di sembrare impopolare o ingiusto,
direi che è da questa matrice avanguardistica e da tutta la
filosofia della liberazione dalle cose a cui essa fa capo
(Derrida, la metafisica della presenza e le sue
semplificazioni) che ‘le cose’ diventano pura parola,
orfismo sotto mentite spoglie e, per estensione,
ornamento estetico (già Fortini ammoniva
43
sull’estetizzazione precoce e quasi costitutiva delle
avanguardie).
Mi pare che sia da questa matrice che si origina una buona
parte del tipo di ricorrenza di tale parola a fine verso nella
giovane poesia, che analizzo nella sezione seguente. Ed è
risolutamente contro questo tipo di ricorrenze - che
emergeranno dalla mia lettura - che il presente saggio
intende porsi.
A riprova di quanto detto, questo uso meno giustificato,
direi estetizzato, lo ritroviamo in due occorrenze di
Balestrini, la prima del 1963 e la seconda del recentissimo
2010:
[6] la didattica formica dialettalmente la mosca
insieme per caso nella nebbia delle cose
con compassione spietata riconoscenza ricatta
come 120.000 pecore automatiche
(Balestrini, 1963)
[7] È l’uguaglianza del comportamento nei confronti di tutte
le cose
costruire cioè riunire ciò che esiste allo stato disperso
immaginiamo una strada con molta gente
(Balestrini, 2010)
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In [6] l’espressione - ormai divenuta grammaticalizzata - la
nebbia delle cose può essere intesa come un prelievo dal
linguaggio prefabbricato che ha caratterizzato in parte la
neoavanguardia, e che da questo punto di vista non è
superficialmente lontano dal Cattafi di [3].
La differenza profonda è negli intenti: mimetico in Cattafi
e di riciclo indifferente in Balestrini. Si noti anche, per
inciso, come proprio l’espressione la nebbia delle cose sia una
possibile matrice (una frase ipotizzata dalla quale l’intera
poesia sarebbe generata: vd. Riffaterre 1978) della poesia
di Cattafi Nebbia a Cimbro prima analizzata.
Le cose [6] ha anche un sapore (parodicamente) filosofico,
in quanto i soggetti animali (mosca, pecore, senza contare la
conversione funzionale di formica usato come verbo) sono
tipici della favola didattica da Esiodo in poi. La riprova è
nell’uso didattico o illustrativo del linguaggio, uso da
questo punto di vista assai diverso da quello materico-
visionario in Spatola.
La liberazione del significante in entrambi gli autori
sottostà a regole diverse: in Spatola è esplosione del
rimosso, in Balestrini discorso meccanizzato e parodia
dello stile giornalistico; all’attitudine neoromantica e
affermativa del primo si oppone quella corrosiva e critica
(Scuola di Francoforte?) del secondo.
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Mezzo secolo più tardi, Balestrini riutilizza le cose in fine
verso [7]. È incredibile come le due occorrenze abbiano
tratti comuni: in entrambi sono immerse in un discorso
didattico, velatamente edificante (una volta tolta la patina
della parodia) e stanno a indicare la totalità delle cose, lo
stato delle cose, ricollegandosi così al terzo mondo, come
in Cattafi [3].
La differenza è che in Cattafi la prospettiva è interna al
soggetto enunciante, in Balestrini il soggetto enunciante è
pantomima d’altro: di conseguenza, le cose sono investite
da un tono filosofeggiante, non lontanissimo dal Calogero
di [1] e dal Sereni di [2]; la differenza è che nel primo le
cose sono paziente semantico, nel secondo agente
semantico, e in Balestrini semplice dato circostanziale:
vale a dire che in quest’ultimo il soggetto enunciante le
relega sullo sfondo, come (in modo però diverso) avviene
in Spatola.
Ecco perché nei due avanguardisti le cose sono
effettivamente ornamento: la loro importanza è o nella
possibile denotazione (Balestrini) o nel fatto di essere un
mero elemento testuale (Spatola), ma mai nell’essere
investito dal soggetto poetico. Ecco perché ho la
sgradevole impressione, leggendo la neoavanguardia, di
un divorzio irrimediabile tra parole e cose, di una de-
46
automatizzazione del soggetto che però purtroppo
diventa (fuorviante) automatizzazione del sistema
linguistico.
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2.2 Le ‘cose’ nella poesia recente
Con Balestrini siamo arrivati ad anni a noi recenti, e
abbiamo esplorato uno spettro possibile di significati
(contestuali) di cose come indice ora di mimesi dei
referenti, ora del parlato, ora del discorso filosofico, ora
come semplice elemento testuale.
In questa sezione mi propongo di analizzare la poesia
recente, sia di poeti affermati (Cepollaro e Dal Bianco) ma
soprattutto di giovani, nati dal ’70 in poi: l’ordine è
cronologico, in base alla data di nascita degli autori
piuttosto che alla data di pubblicazione dell’estratto
analizzato.
Infatti, se ‘le cose’ è un indice non solo di poetica ma
anche, per così dire, socio-linguistico, un termometro dei
48
tempi, è più verosimile che le continuità e i cambiamenti
siano più apprezzabili se si prende in considerazione la
data di nascita dei poeti (e quindi, indirettamente, la
temperie culturale nella quale si sono formati).
Lo scopo è di vedere se è possibile iniziare una qualche
genealogia stilistica e di poetica; genealogia che altri
dovranno continuare e affinare, o anche confutare ma (e
questo ‘ma’ è importante) sempre appoggiandosi ai testi,
come ho continuamente fatto e come farò.
[8] è questione di proporzione ed è
meglio abituare lo sguardo al grande per non
credere che il piccolo basti e che sia tutto: la forza
del fragile è stare dentro una certa verità delle cose
(Cepollaro, 2011)
[9] Quando vedo l’infame paffuto fidarsi
Del senso delle cose,
essere tutto nello sguardo
a cercare la stessa fiducia nel nostro, nel mio,
(Dal Bianco, 2013)
[8] è tratto da un’inedito di Cepollaro, in continuità
stilistica con la raccolta Le qualità (2008) già analizzata in
questo sito da Luigi Bosco (qui).
49
Il tono di [8] è filosofico-didattico, assertivo, e la presa è
esterna al soggetto enunciante (manca la persona poetica):
tutti tratti che apparentano [8] a [6] e ancor più a [7] (che
cronologicamente segue di due anni); o detto altrimenti,
tratti che apparentano Balestrini e Cepollaro, come a
marcare un passaggio di testimone dal Gruppo ’63 al
Gruppo ’93 - con l’ovvia importante differenza del venir
meno della parodia nell’ultimo Cepollaro come nell’ultimo
Balestrini.
In entrambi gli estratti, ‘cose’ è al massimo grado di
generalizzazione: tutte le cose, e verità delle cose. In entrambi i
casi, quindi, le ‘cose’ sono assolutizzate (= indifferenziate)
nello spettro dei referenti, ma nella frase hanno
comunque valore circostanziale.
Una occorrenza simile è in [9], un estratto non
particolarmente felice dall’ultimo libro di Dal Bianco (qui
una mia nota). L’ovvia differenza è che in Dal Bianco,
memore della lezione sereniana, ci sono persone poetiche
nel testo (vedo, nostro, mio); e però le cose, contenute nel
sintagma trito senso delle cose (senso, di nuovo una parola
‘carica’, com’era verità in Cepollaro).
Mi sembra significativo che in questi ultimi estratti (da [5]
a [9]) ‘le cose’ siano sempre divorziate sia dai referenti sia
dall’investimento del soggetto poetico.
50
Per rovesciare questa situazione (= per dare peso,
funzionalità alla scelta) bisognerà aspettare uno dei poeti
più rigorosi della generazione successiva, Giovenale.
[10] viene dalla raccolta Shelter del 2010; eppure, sembra
assai distante da suoi amici e maestri riconosciuti come
Balestrini e Cepollaro:
[10] Fuori intanto è bello: le cose
si spargono e si deformano,
per il nastro che le trascina.
L’occhio non segue quanto è vietato.
Se è legato è giusto.
(Giovenale, 2010)
Anzitutto, la presa è interna: non c’è una persona poetica
(un ‘io’ grammaticale), ma c’è un discorso diretto a cui
sono state tolte le virgolette. L’osservazione del tempo
che fa fuori appartiene verosimilmente a un soggetto
umile (un recluso, uno sconfitto, giusta l’organizzazione
macro-tematica della raccolta), non a una voce, per così
dire, superiore e ordinante.
In [10] le cose sono prive di referente esplicito, ma solo
perché non ci è dato di vederle: esse infatti ‘si spargono e
si deformano’, e quindi sarebbe sbagliato definirle con
antecedenti testuali. Quasi a ribadire il concetto, ‘l’occhio
51
non segue quanto è vietato’: le cose non si possono
nominare con precisione, ma questo sembra il desiderio
taciuto, la spinta.
La mano di chi scrive è qui pietosa, perché queste ‘cose’
diventano soggetto (‘si spargono e si deformano’) poi
oggetto (‘le trascina’) e sono implicitamente presenti
nell’affermazione seguente, segnalate da ‘quanto’.
Per questo, forse con scorno del Giovenale teorico - che
spesso non condivido nel cosa e nel come - il Giovenale
poeta mi sembra qui più ricollegarsi alla lezione di Sereni
e Cattafi, dove le cose sono investite da un soggetto e
sono, per così dire, portate avanti nel discorso, quasi
accompagnate. Non la neoavanguardia, non il
postmodernismo: ma un modernismo umanista, quello
che affiora negli autori che ritengo migliori.
Non si può proprio dire lo stesso del seguente estratto
[11] della quasi coetanea Lella De Marchi:
[11] Cos’è la sostanza delle cose?
la forza della gravità, il peso
che quella forza imprime su tutte
le cose per spingerle a terra, il peso
che le cose stesse espandono ai lati
per stringersi al peso di tutte le cose
(De Marchi, 2010)
52
Qui i sintagmi le cose e delle cose riprendono il generico uso
filosofico degli estratti dal [6] al [9].
C’è di più: le cose ricorrono ben altre due volte (quattro in
totale), diventano cioè una ossessione verbale per così
dire tematizzata. C’è uno sforzo quasi barocco nel
nominarle e definirle, come per un horror vacui: tanto che
nessuna scena referenziale è costruita e il desiderio di
cosalità (parlo di desiderio perché questa insistenza e la
domanda iniziale sembrano segnalarlo), di ricerca di una
‘sostanza’ rimane insoddisfatto.
Il tono filosofico dato da ‘le cose’ con referente generico,
continua in due autori quasi coetanei di Giovenale e De
Marchi, ovvero Federici e Benigni. I loro estratti si
prestano però a considerazioni un po’ diverse:
[12] lascia che a dire siano le cose
gli abitatori del mondo addossati alla cruna
dell’ago, le lingue impresse a memoria
l’elencazione dei nomi dei morti toglie il respiro
tempo è di dare le mani nell’andirivieni dei vivi
fermare gli occhi, lo sguardo a chi trema
(Federici, 2009)
53
[13] Ognuno custodisce un male
sceglie un nome alle cose
e patteggia inconsapevole la sua pena,
perché
perché come una voce inquirente
la memoria ci insegue.
(Benigni, 2012)
I due brani (il primo soprattutto) hanno un’impronta più
decisamente lirica, e tematizzano il rapporto tra cosa e
nominazione che avevamo visto esplicito solo in Cattafi
[4]. Il tono lirico di [12] si deve anche al ‘tu’ autoriflesso
(comune in Montale e Sereni, tra gli altri: Montale stesso
vi ha beffardamente dedicato la poesia che apre Satura, Il
tu).
Le ‘cose’ dunque, benché non determinate (non c’è
nessun referente esplicito), diventano soggetto logico e
sono investite dal soggetto poetico, tanto che sembrano
prendere corpo per via dei referenti successivi accostati
per apposizione (gli abitatori, le lingue…) e richiamanti
una realtà archetipica, non certo mimetica dell’esistente
come lo conosciamo oggi.
Stessa tematizzazione è in Benigni: [13] è più
deangelisiano nell’assolutezza della dizione (‘ognuno’, che
in De Angelis ricorre spesso, è parola carica come ‘mai’,
‘sempre’, ‘nessuno’, ‘tutto’… una marca del tragico
54
insomma), ma ‘cose’ è solo paziente (riceve l’azione senza
a sua volta iniziarne una) e ugualmente, se non più,
indeterminato, senza referenti a cui appigliarsi.
Una referenzialità tenue, a metà tra Giovenale e Federici,
è in questo estratto di Erika Crosara:
[14] “le lodi rimbalzano fra cannule e strisce ventose,
netto e mondato cammina. c’è fresco sotto le instabili
mura, muore ogni discorso davanti al serraglio. oggi
che il campo è nudo e un falco si annuncia nelle cose
minori, nei laghetti, per strada”
(Crosara, 2010)
Altrove ho analizzato per intero la splendida poesia da cui
[14] è tratta. Di simile al Giovenale di [10] c’è il fatto che
un personaggio sconfitto, uno altri che il poeta, prende
parola; di simile al Federici di [12] c’è l’uso
dell’apposizione dopo cose, a dare un indizio di
referenzialità. In [14] questo è più evidente che in [12],
dato che qui i referenti sono concreti e in minore (laghetti,
per strada). È proprio questa aggiunta, questa nominazione
di referenti concreti, a dare allo sguardo di chi scrive una
pietas: come di chi segga paziente a osservare ed elencare
ciò che vede, piuttosto che menzionare di fretta e passare
ad altro.
55
Un’altra ottima poetessa e coetanea di Crosara, Veronica
Fallini (qui una mia recensione al libro da cui sono tratti i
versi:), in [15] usa ‘le cose’ in un modo che ricorda da
vicino il Sereni di [2]: le cose sono legate a manufatti
umani (subito dopo si menzionano pagine di libri) e di
questi si predica la durevolezza che ricorda al soggetto
poetico la propria finitezza, la propria morte:
[15] È uno scompenso la durevolezza delle cose
– imprendibili pagine mi fermo a sfogliare
di libri –e oltre al dovuto, oltre l’inaudito
si produce l’offesa più stupefacente.
(Fallini, 2011)
Nuovamente in bilico tra generalizzazione filosofica e
potenziale richiamo a referenti concreti è il nostro
prossimo estratto [16] da Piero Simon Ostan:
[16] ma più che altro è la stessa la mandibola che balla
quando la cena sa di poco e la camicia non stirata
l’apprensione dei giorni che fa lo stomaco compresso
con la tensione continua dei nervi raccolta nelle giunture
è la sua sintassi quando dico le frasi che non vengono
preciso il lampo nello sguardo che ricuce le cose
rifà buono il tempo.
(Ostan)
56
[16] è una sorta di monologo interiore, dove si
susseguono iponimi del corpo e accenni a interni
(‘mandibola’, ‘cena’, ‘camicia’, ‘stomaco’, ‘nervi’,
‘sguardo’): topoi oggi in voga come quelli del corpo, della
casa e del ‘dire’ (a ben vedere, tutti heideggeriani, votati al
lirismo) sono ben filtrati e agiscono da sfondo, senza
tematizzazioni sfacciate: così le cose sono nuovamente in
bilico tra tensione assolutizzante e i referenti concreti che
precedono e a cui grammaticalmente le cose possono essere
legate (ma un ‘queste cose’ sarebbe stato più esplicito in
questo senso).
In Tommaso Di Dio [17] torna il nesso (tematizzato) tra
cose e nominazione (di nuovo, heideggeriano) visto in
Federici [13]; c’è però una concretezza leggermente
maggiore (cortili, vette degli alberi), che avvicina [17] a
Crosara [14]:
[17] E questa lingua falsa
sembra tenerci, trattenerci
sul piano sicuro delle cose; dare fiato
aria sopra i cortili, nelle vette gli alberi
la luce che lì s'incurva e piega secondo la mano
che prende, la mano che lascia.
(Di Dio, )
57
Inoltre, per la prima volta in questa rassegna, [17] ci
presenta un ‘noi’ collettivo che finora non era stato
tentato: è presto per dire se il ‘noi’ è di matrice
deangelisiana (come in Benigni è ‘ognuno’), ma certo il
‘noi’ di Di Dio e ‘l’ognuno’ di Benigni stanno in una
relazione complementare: somma di solitudini in Benigni
[13] e unità o solitudine collettiva in Di Dio. Nel primo
caso, la solitudine è civile (si ricordi la tematizzazione del
tribunale); nel secondo è esistenziale, quasi antropologica.
Antonio Bux invece riprende il nesso cose-vista che
finora abbiamo incontrato in Giovenale [10] e Ostan [16]:
[18] “Come curare l’angelo all’interno:
separare la crescita delle cose
guardarle con occhio di vetro
e immaginarsi rotti, a dilatare
specchi da infrangere guardando
della vista l’intermittenza futura
(Bux)
A differenza di entrambi, tuttavia, non c’è una persona
poetica (esplicita in Ostan, mediata in Giovenale), perché
il tono - assertivo ma all’infinito - è più vicino
all’impersonalità di un Cepollaro [8] mentre una spiccata
sensibilità barocca (il doppio, gli specchi) avvicinano Bux
[18] a De Marchi [11].
58
Il manierismo (togliendo l’accezione negativa del termine)
di [18] è nel gioco del linguaggio che si auto-genera, con
isotopie che si sviluppano per metonimia dal nesso vista-
vetro-dispersione (‘occhio di vetro’, ‘specchi’; ‘guardando’,
‘vista’; ‘separare’, ‘rotti’, ‘infrangere’, ‘intermittenza’). Le
‘cose’ rimane filosofico, non determinato: il divorzio dal
referente è un portato naturale di una sensibilità barocca,
dove i vuoti contano più dei pieni, come avevamo anche
notato a proposito di De Marchi [11]. Personalmente,
penso che questa sensibilità più di altre sia a rischio di
disimpegno, vista la spinta giocosa e ‘interna’ al
linguaggio: forse una poesia più dialetticamente sporcata
dai referenti (penso a Giovenale, Crosara, Ostan, Fallini,
tra gli altri) è più adatta alla transizione dal postmoderno a
un nuovo modernismo ‘critico’ che sembra mancare in
De Marchi e nel Bux di [18] (la raccolta inedita The
Nothing Family prende una direzione radicalmente diversa).
I prossimi tre esempi li discuto insieme, perché mi
sembrano più di altri il sintomo di una crisi da inter-
influenza (fenomeno quasi sociologico, come sono le
spinte epigoniche discusse da Willie van Peer in un
articolo del 2002 su stilistica e evoluzionismo): tutti gli
autori (Bini, Corsi, Frison) sono miei coetanei (classe ‘85)
59
e tutti usano lo stesso sintagma delle cose in modo
pericolosamente simile:
[19] Ti chiedo questa cosa: riuscirai
a non farti prendere dal panico,
intendo alla prospettiva delle cose
che domani tiene in serbo per noi?
(Bini)
[20] guardiamo dal vano che si attarda
la linea di apertura delle cose
scegliendo da un angolo di strada
le rose lasciate in via rossini:
(Corsi)
[21] Ci lasciavano raccogliere camelie
sulla strada del Sempione
così rosse che potevano dividere l’erba
o ancora di più, nel fondo, nella radice
nella delusione delle cose
nella costernazione.
(Frison)
Prospettiva delle cose, apertura delle cose, delusione delle
cose: in questi tre esempi le cose è dato circostanziale
60
generico, e forse segno di una stanchezza stilistica che
sembra infittirsi a partire dagli autori nati negli anni ’80
ma con prodromi nella generazione precedente.
In tutti e tre gli estratti c’è infatti una genuina volontà di
aderenza al fenomenico, segnalata dalla presenza di un
interlocutore (in [19]) o da un ‘noi’ più paucale che in Di
Dio [17], e da riferimenti topografici, da via rossini al
Sempione. Un’ascendenza da Linea Lombarda
(ricordiamo il Via Scarlatti di Sereni!) ma forse esautorata,
incerta se cedere al filosofico e all’indeterminatezza
dominanti in altri autori: come se il fenomenico stia
lasciando il passo al generico, all’ineffabile, al rigurgito
lirico.
In [19], [20] e [21] si aggrava una tendenza già presente in
Ostan [16] e Di Dio [17]: il motivo - di sociologia della
letteratura, diciamo così - può essere dovuto alla
conoscenza reciproca di questi autori, al loro
coinvolgimento in festival e iniziative culturali - non mi
sorprenderebbe allora se il maggiore isolamento di autrici
quali Fallini e Crosara, e un maggiore grado di resistenza
di Giovenale al suo stesso (diverso) ‘fare gruppo’, possano
portare a una (mia) percezione di maggiore autenticità
nella loro pratica scrittoria.
61
Si sbaglierebbe a pensare che l’epidemia di ‘le cose’ a fine
verso sia limitata a un verseggiare dopotutto tradizionale:
non solo perché la rassegna si è soffermata anche su
autori che fanno parte della, o proseguono la, neo-
avanguardia (Spatola, Balestrini, Cepollaro) ma anche di
coloro che forse la proseguono anche se se ne professano
distanti (Giovenale).
Con l’accenno a Giovenale veniamo dunque ad alcune
delle ‘scritture di ricerca’ di giovani che sembrano seguire
- se non addirittura intensificare - il suo operato: Fabio
Teti e Daniele Bellomi, coi quali questa rassegna si chiude.
Ecco qui sotto i loro estratti:
[22] «se hai scritto
è necessario sparire è per questo», risponde l’altro,
che non sta impresso sulle cose e
freon del frigo – altre lancette. torto;
buio visto; e quando detto
ipotenusa
(Teti)
[23] se stiamo parlando
puoi vedere come tutto gira, se gira ancora, e gira, ci costringe
ad indossare occhiali, a lasciarli fluttuare su sfondi più chiari,
se la vista gira e vuole convergenza, se dicendo piano la riga
o il verso appena ricomposto, con la vista che rigira le cose,
(Bellomi, 2013)
62
Anzitutto, è possibile notare che i due estratti sono
stilisticamente molto diversi: dall’estremo balbettio di [22]
alla fluidità copiosa di [23]. Sono in effetti gli estremi di
due possibilità aperte alla scrittura di ricerca: da un lato,
l’interruzione quasi analitica, millimetrica, del discorso,
come in Teti [22], spessissimo nel Giovenale di Shelter e
Criterio dei vetri; dall’altra l’indifferenziazione - il continuum
dove tutto è sullo stesso piano - di certo Balestrini, o - per
uscire dall’Italia - di certe sequenze di Jeremy Prynne (qui
una mia lettura) in Inghilterra o di Susan Howe negli Stati
Uniti.
A dire il vero, [23] non è nemmeno estremo (come invece
in altri luoghi sa essere Bellomi): la sintassi è rispettata,
addirittura c’è una persona poetica collettiva e un
interlocutore (stiamo parlando, puoi vedere). Il tema è
inizialmente quello dello scambio comunicativo in
situazione (se stiamo parlando) ma subito dopo si sposta a
quello a metà tra vista (vedere, occhiali, vista) e metapoesia
(dicendo, riga, verso) che si riallacciano probabilmente al
Magrelli di Ora serrata retinae, e agli sviluppi in Giovenale;
tema anche molto frequente in Bux come visto in [18].
Più incentrato invece sul dialogo, sul dire (altro cardine
della poesia contemporanea: da un lato l’occhio, dall’altro
la lingua) è [22]. C’è un brandello di dialogo (risponde
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l’altro) dove la locuzione (il verbiage, usando la precisissima
nomenclatura tecnica della linguistica funzionale di
Halliday) contiene la quotazione di uno scritto, marcata
dal corsivo, e che come tema ha la necessità della
sparizione (cf. Giovenale: ‘chi manca è più limpido, / si
prende la ragione’) forse di marca derridiana e post-
strutturalista, nel paradosso di scrittura e
presenza/assenza (buio visto poco dopo sviluppa il
paradosso riallacciandosi alla vista e all’assenza).
Dunque, convergenze tematiche ma differenze stilistiche
sostanziali in [22] e [23]. Ma come viene trattato le cose?
In [22], sotto sotto, c’è la stessa tensione per il concreto, i
dettagli di interni (frigo, lancette) che abbiamo trovato nel
pure diversissimo Ostan [16]: in [22] sulle cose resta a metà
tra referente e marca filosofica, in poesia sempre astratta
perché tolta dal contesto delle opere filosofiche di
riferimento o dal bacino più generico di un insieme di
opere o correnti di pensiero (per es. ‘le cose’ per come
tratteggiate da Foucault in Le parole e le cose).
Certamente, l’intenso lavorio versale e sintattico di Teti -
che ricorda quello di Giovenale per il rifiuto di moduli
estenuati, nei quali invece sembrano ancora adagiarsi
molti altri autori - gli permette di evitare ‘le cose’ a fine
verso, con l’aggiunta di congiunzione ‘e’ subito dopo, in
64
funzione di spezzatura (gli enjambement estremi,
grammaticali, tipici ad esempio di Williams e del tardo
Sereni, usati tantissimo da Cristina Annino, sono
generalmente evitati dal mainstream poetico, tutto preso da
una rassicurante e consolatoria comunicatività diretta).
In [23] le cose sono (stranamente, dato che di vista si parla)
divorziate dai loro referenti, in maniera simile che in Bux
[18] e forse sulla scia comune di Spatola [5].
Insomma, è difficile trovare chi si salva, dall’inconscio
collettivo messo a nudo dal proliferare delle ‘cose’ (che -
credo - mai fu utilizzato da Montale, per dire; ma sono nel
tardo Fortini, nella poesia Molto chiare si vedono le cose in
Paesaggio con serpente). Come una marca di un’estenuazione,
un divorzio prossimo dal mondo, ‘le cose’ a fine verso
naviga di testo in testo indifferente alle correnti, e - al di là
delle premure degli autori per differenziarsi in tutto e per
tutto dai predecessori o da altri contemporanei - sta lì a
ricordare il bacino comune, la (non) eredità culturale
comune da cui veniamo, la difficoltà o l’incapacità di
proporre una poesia dialettica, che leghi materialismo
(referenti, processi) e pensiero astrattizzante basato su
quelli: una poesia che ricorra all’allegoria, anziché
attestarsi a una mimesi estenuata e neppure più mimetica,
o a una sfrenata deriva dell’astratto.
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3. Conclusione
È tempo di sintesi, di bilanci, di riannodare i fili molteplici
del discorso. Avevo promesso, nella prima sezione, di
collegare ‘le cose’ ai livelli di realtà popperiani. La tabella
qui sotto e il mio commento a seguire cerca di mantenere
quella promessa iniziale.
Tav. 1. Le ‘cose’: livello di realtà nel contesto di ogni estratto
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Come tutte le categorizzazioni di fenomeni complessi,
anche questa mia può ovviamente essere messa in
discussione: le categorie sono - per statuto intrinseco -
riduttive, ma utili, poiché permettono un’idea quantitativa
dopo la mia discussione qualitativa. D’altronde, spesso un
fenomeno può appartenere - a seconda di come lo si
analizzi - a vari livelli, e in effetti alcuni poeti ricorrono
contemporaneamente in più categorie (e spesso sono i
testi più ricchi, più pensati).
Credo che le categorie rendano sufficientemente conto
delle macro-differenze riscontrate: oltre ai tre livelli
popperiani, è stato necessario aumentare il grado di
precisione del livello tre, in effetti il più complesso da
gestire.
Una premessa è necessaria, a questo punto, per capire in
che modo vanno lette (contestualizzate) le categorie: il
livello 1 (prima colonna a sinistra) raggruppa esempi che
usano ‘cose’ come semplice pronome ‘riassuntivo’ di
oggetti concreti già citati o citati subito dopo. Attuano
cioè una generalizzazione a partire dai dati testuali già
presenti, e interpretano ‘cose’ come ‘oggetti’: la poesia di
questi estratti è cioè una vera e propria poesia in re,
referenziale.
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Il livello 2 raggruppa gli estratti che investono ‘le cose’ di
una importanza per il soggetto poetico e/o la voce
enunciante: anche se spesso non ci è dato conoscere con
esattezza i referenti di ‘cose’, è evidente che qui le ‘cose’ si
riferiscono potenzialmente a oggetti (o entità, idee
ipoteticamente non generiche) con cui chi parla si pone in
relazione dialettica, o almeno ne avverte intimamente
l’impatto (questo è anche dimostrabile a livello
linguistico).
Il livello 3 attiene a tutte le occorrenze in cui ‘cose’ fa parte
del discorso: è dunque riciclato dalla lingua corrente ma
può avere, nei testi, funzioni assai diverse. Queste
funzioni sono essenzialmente quattro: funzionale nel testo
(quando l’astrattezza, genericità di ‘cose’, si lega anche ad
altri livelli ed è giustificabile in base al contesto della
poesia); marca colloquiale (mimesi del parlato, come
quando diciamo ‘vorrei che le cose cambiassero’);
generico filosofico (quando ‘le cose’ si possono
parafrasare come res e causa, e indicano la totalità di
quanto esiste); generico ‘accessorio’ (quando ‘le cose’
sembrano usate per pigrizia, stanchezza stilistica, e
sarebbero con più profitto sostituibili con altre parole:
come si fa nella didattica, dove un amico insegnamente mi
ha detto che un esercizio utile è quello di farcire un testo
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di ‘cose’ e chiedere poi agli studenti di trovare dei
sinonimi più adeguati).
Chiaramente, c’è una certa comunicazione tra i sotto-
livelli della colonna di destra: vuoi perché non è sempre
facile stabilire fino a che punto un uso è giustificato dal
contesto linguistico della poesia in questione, vuoi perché
spesso e volentieri il generico filosofico è una specie di
maschera che fatica a nascondere un uso ‘ornamentale’
come è quello della sotto-colonna più a destra.
Occorre ribadire che tutto quanto ho scritto e scriverò in
questa sede è unicamente basato sugli estratti analizzati:
condizione necessaria ma non sufficiente per capire un
poeta, ma forse sufficiente per capire una certa tendenza.
Bisogna evitare l’errore di ricondurre il giudizio su un
brano testuale all’intera opera dell’autore, dato che un
simile salto induttivo richiederebbe un focus ben più
cospicuo sul singolo autore: tuttavia, in questa sede, a me
interessa la poesia come discorso, ovvero nella sua
realizzazione inter-autoriale.
Guardando la tabella dall’alto, la cosa che impressiona di
più è la scarsità di esempi del livello 1 e del sotto-livello
‘marca colloquiale’: entrambe le colonne indicano un
nesso diretto e robusto tra parola e cosa, una capacità di
concretezza visiva e di messa in situazione. Pochi poeti
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sembrano in grado di soddisfare questo requisito: dopo
Sereni, il più esplicito, solo Crosara, Fallini e Teti - sia
pure tutti in maniera morbida o ellittica, sembrano creare
un nesso tra nome e cosa, per quanto problematico. Sono,
queste, poesie che più di altre - all’accorrere della magica
parolina ‘cose’ - mettono in situazione, permettono in
qualche modo a chi legge di entrare nella scena.
Il sotto-livello ‘marca colloquiale’ è occupato solo da
Cattafi [3] (a dire il vero, un estratto qui non analizzato di
Matteo Fantuzzi andrebbe a occupare la stessa casella). La
diagnosi è simile a quella fatta per la colonna 1: la maggior
parte dei poeti non insegue con convinzione un
ancoraggio (per quanto precario e problematizzato, vd.
Teti) con il mondo contingente, sensoriale.
Il livello 2 - quello che permette di spiare nello stato
d’animo e nella mente della persona poetica o di un suo
intermediario - è quasi parimenti spoglio: dopo il
naturalismo della prima colonna, e il modernismo di
questa seconda, sembra che i poeti cerchino altre
soluzioni. Ma sarà vero?
A volte ho più l’impressione che la scelta verso una certa
inconsistenza (sia essa mascherata o no da tono
filosofeggiante) sia dovuto a una poesia parassitaria verso
70
forme esterne di filosofia, forse un facile lirismo ereditato
da una vulgata heideggeriana.
La stessa ‘pigrizia’, passando al livello 3, è evidente nella
poca voglia o dimestichezza nel rendere un termine carico
come ‘cose’ veramente funzionale al suo contesto: non
molti sono i poeti che, facendo propria la lezione
modernista, intrecciano organicamente forma e
contenuto. Sereni, Cattafi, Giovenale e Teti (l’inclusione
di Ostan è più problematica, dato che ‘cose’ è solo
flebilmente giustificato dai riferimenti concreti dei versi
precedenti, e si legherebbe comunque al solo primo
livello) sono gli unici che ri-semantizzano ‘cose’ in
maniera sostanziale, costruendo il giusto contesto per
esse.
Non sorprendentemente, i due sotto-livelli più a destra
(generico filosofico e generico svuotato, che poi sono
pericolosamente intercambiabili a volte) sono anche i più
affollati e recenti, e riguardano soprattutto autori giovani.
Si badi bene, non condanno a priori le scelte di chi usa
‘cose’ in modo filosofico: c’è una certa differenza tra l’uso
più appropriato che ne fanno Federici, Di Dio e Teti, e
quello più ornamentale di Dal Bianco, Bux e De Marchi.
Gli altri autori stanno un po’ in mezzo tra questi due poli.
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L’ultima sotto-colonna mostra usi non giustificati, in cui
davvero ‘cose’ appare perché probabilmente è una parola
che piace, una sorta di vademecum poetico, come poteva
essere ‘notte’ in epoca romantica: forse in questi casi la
patina di cosalità e modernità (e la risonanza facile) di
questa parola, è usata in luogo di perifrasi e costrutti più
rischiosi e faticosi, che invece proprio in una maggiore
precisione, in un veto al laissez-faire, troverebbe una via
d’uscita alla situazione ad alto gradiente epigonico di
(almeno) un aspetto della poesia italiana contemporanea.
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