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COSTANZO M. CEA
L’appello nel processo sommario di cognizione*
Sommario: 1- Premessa – 2 – I provvedimenti pronunciabili e il loro regime di impugnazione – 2.1
– I provvedimenti sulla competenza – 2.2 – L’ordinanza ex art 702 ter, 2° comma, c.p.c. – 2.3 – Gli
altri provvedimenti di rigetto in rito – 2.4 – I provvedimenti di conversione del rito o di
prosecuzione con le forme sommarie – 2.5 – I provvedimenti non definitivi – 2.6 - I provvedimenti
di merito definitivi – 2.7 - I provvedimenti pronunciati nei giudizi in unico grado - 3 – L’appello:
l’art. 702 quater c.p.c. – 3.1 - Il termine – 3.2 – L’atto introduttivo del giudizio – 3.3 – La disciplina
applicabile - 3.4 – Lo ius novorum.
1 - Premessa
All’appello nel processo sommario di cognizione è dedicato un solo articolo (702 quater c.p.c.).
Troppo poco per sperare che possano trovare soluzione espressa tutti i problemi che
dall’applicazione di questo istituto potrebbero derivare. Arduo, pertanto, appare il tentativo di
intessere una trama interpretativa coerente ed attendibile. Ma prima di accingersi a tale compito,
appare opportuno svolgere alcune considerazioni generali sul nuovo procedimento introdotto dalla
novella 69/2009 e disciplinato dagli artt. 702 bis, ter e quater c.p.c.1
* In memoria di Franco Cipriani
1 Per una bibliografia essenziale sul nuovo istituto, v. ACIERNO, Il nuovo procedimento sommario: le prime questioni
applicative, Corr. giur., 2010, 503; ARIETA, Il rito “semplificato” di cognizione, www.judicium.it; BALENA, Il
procedimento sommario di cognizione, Foro it., 2009, V, 324; BASILICO, Il procedimento sommario di cognizione,
Giusto proc. civ., 2010, 737; BIAVATI, Appunti introduttivi sul nuovo processo a cognizione semplificata, Riv. trim. proc.
civ., 2010, 185; BINA, Il procedimento sommario di cognizione, Riv. dir. proc., 2010, 117; BOVE, Il procedimento
sommario di cognizione, Giusto proc. civ., 2010, 431; CAPONI, Un modello ricettivo delle prassi migliori: il
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Mi sembra chiaro che con tale normativa il legislatore voglia perseguire un duplice obbiettivo: da
un lato, tentare, ancora una volta, di velocizzare la nostra giustizia civile per porre rimedio agli
endemici mali che l’affliggono; dall’altro, attribuire al nuovo istituto il compito di ambasciatore di
un futuro più o meno prossimo, dal momento che il processo sommario, nella delega prevista
dall’art. 54 l. 69/2009, costituisce uno dei tre modelli processuali nei quali il legislatore delegato
dovrà sciogliere la moltitudine dei riti che oggi caratterizzano il panorama della giustizia civile.
Il nuovo processo sommario si rivela rimedio alternativo (ma facoltativo) al processo a cognizione
ordinaria disciplinato dagli artt. 163 ss. c.p.c.2; è atipico, nel senso che può sfociare in una sentenza
di condanna, o costitutiva o di mero accertamento; prescinde da qualsiasi situazione di urgenza, da
procedimento sommario di cognizione, Foro it., 2009, V, 334; ID, Sulla distinzione tra cognizione piena e cognizione
sommaria (in margine al nuovo procedimento ex art. 702-bis ss. c.p.c.),, Giusto proc. civ., 2009, 1115; CAPPONI, Il
procedimento sommario di cognizione tra norme e istruzioni per l’uso, Corr. giur., 2010, 1103; CARRATTA, Nuovo
procedimento sommario e presupposto dell’”istruzione sommaria”: prime applicazioni, Giur. it., 2010, 902; CIPRIANI,
Un’altra riforma <<pubblicistica>>, Giusto proc. civ., 2009, 641; CONSOLO, Una buona novella al c.p.c.: la riforma del
2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va ben al di là della sola dimensione processuale, Corr. giur., 2009, 737; ID, La
legge di riforma 18 giugno 2009, n. 69: altri profili significativi a prima lettura, ibid., 877; DALFINO, Sull’inapplicabilità
del nuovo procedimento sommario di cognizione alle cause di lavoro, Foro it., 2009, V, 392; A. DIDONE, Il nuovo
procedimento sommario di cognizione, Giur. mer., 2010, 411; DITTRICH, Il nuovo procedimento sommario di
cognizione, Riv. dir. proc., 2009, 1582; FABIANI M., Le prove nei processi dichiarativi semplificati, Riv. trim. dir. proc.
civ., 2010, 795; FERRI, Il procedimento sommario di cognizione, Riv. dir. proc., 2010, 92; GIORDANO, Il procedimento
sommario di cognizione, Giur. mer., 20010, 1210; GUAGLIONE, Il nuovo processo sommario di cognizione, Roma, 2009;
LOMBARDI, Il processo sommario di cognizione generale, Giusto proc. civ., 2010, 473; LUISO, Il procedimento
sommario di cognizione, Giur. it., 2009, 1568; LUPOI, Sommario (ma non troppo), www.judicium.it; MENCHINI,
L’ultima <<idea>> del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di
cognizione, Corr. giur., 2009, 1025 ss.; ID., Il rito semplificato a cognizione sommaria per le controversie semplici
introdotto con la riforma del 2009, Giusto proc. civ., 2009, 1101; OLIVIERI, Il procedimento sommario di cognizione,
Dir. giur., 2009, 389; PORRECA, Il procedimento sommario di cognizione: un rito flessibile, Riv. trim. dir. proc. civ., 2010,
823; ROMANO, Appunti sul nuovo procedimento sommario di cognizione, Giusto proc. civ., 2010, 165; PROTO PISANI,
La riforma del processo civile: ancora una legge a costo zero (note a prima lettura), Foro it., 2009, V, 221, sub par. 2.5;
ID, Appunti sull’ultima riforma, Giusto proc. civ., 2010, 107, sub. par. 16; SANTI DI PAOLA, Il nuovo procedimento
sommario di cognizione, Il civilista, 2009, fasc. 12, 48; TOMMASEO, Il procedimento sommario di cognizione, Prev. for.,
2009, 125; VIANELLO, Ricorso ex art. 702 bis c.p.c.: procedimento sommario di cognizione, Studium iuris, 2009, 1371;
VOLPINO, Il procedimento sommario di cognizione, Nuova giur. comm., 2010, II, 53.
2 Con l’unico limite che la domanda sia attribuita alla competenza del tribunale in composizione monocratica.
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particolari evidenze probatorie, ovvero dalla qualità del diritto azionando; ed inoltre, last but not
least, è sicuramente riconducibile al paradigma della tutela dichiarativa dei diritti, posto che il
provvedimento di merito che lo definisce produce, per espressa previsione normativa (art. 702
quater, 1° comma), gli effetti di cui all’art. 2909 c.c.
Benché la collocazione topografica e l’espressa denominazione legislativa rendano forte la
tentazione di ricondurre il nuovo procedimento allo schema classico della tutela sommaria, la
maggior parte degli interpreti propende per la classificazione dello stesso quale processo a
cognizione piena ma semplificata. Per il vero, a tale tesi si obbietta, non senza un qualche
fondamento, che, così opinando, si finisce per confondere << la “cognizione” intesa come modus
procedendi dalla “cognizione” intesa come risultato o accertamento >>3. Sicché, non potendosi
escludere che anche un procedimento sommario nel modus procedendi possa sfociare in un
accertamento completo ed esauriente dei fatti di causa, non per questo il nostro procedimento perde
la sua natura sommaria e diventa a cognizione piena4.
Non mi sembra utile prendere posizione a favore dell’una o l’altra tesi, anche perché, a ben
riflettere, la divergenza tra l’opinione maggioritaria e quella da ultima esaminata, se marcata sotto il
profilo della teoria generale, è invece irrilevante ai fini applicativi, dal momento che anche
quest’ultima tesi, benché definisca il nostro un procedimento sommario in senso tecnico, finisce poi
per concludere che, all’esito dello stesso, il giudice addiverrà ad un convincimento che <<
comunque ha da essere pieno (art. 116 c.p.c.) >>5.
Se però alla catalogazione del nostro processo in termini di sommarietà in senso proprio consegue
anche l’affermazione della possibilità che l’accertamento sia superficiale e probabilistico, ebbene,
in tal caso, il contrasto non è più soltanto teorico, ma rileva anche ai fini applicativi del nuovo
istituto.
Poiché l’ipotesi più tipica di cognizione sommaria perché superficiale è quella del procedimento
cautelare, mi sembra decisivo rimarcare la differenza di previsione legislativa che intercorre tra
3 CARRATTA, Nuovo procedimento sommario di cognizione, cit., 903.
4 CARRATTA, loc. cit.
5 CARRATTA, op. cit., 905.
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l’art. 669 sexies, 1° comma e l’art. 702 ter, 5° comma, c.p.c. Nel primo caso, la legge prevede che il
giudice della cautela proceda nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione
indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto; nel secondo, gli atti
di istruzione che il giudice del processo sommario può compiere sono quelli rilevanti in relazione
all’oggetto del provvedimento richiesto.
E’ difficile, a mio avviso, svalutare la diversità lessicale per poterne inferire la stessa nozione di
sommarietà dei due procedimenti, cui consegue la stessa qualità della cognizione (superficiale),
giacché nel procedimento cautelare la superficialità della cognizione ben spiega perché il giudice
debba limitarsi a compiere solo quegli atti di istruzione indispensabili ai fini del raggiungimento
dell’obbiettivo cautelare (la neutralizzazione del periculum in mora): di qui l’ulteriore conseguenza
di un provvedimento anche potenzialmente definitivo6, ma non certo fornito dell’efficacia del
giudicato.
Nel caso del processo sommario, invece, il giudice, svincolato da qualsiasi presupposto di urgenza,
non può limitarsi a compiere soltanto gli atti indispensabili per la neutralizzazione di un periculum
non previsto, ma, al contrario, deve compiere tutti gli atti rilevanti ai fini del provvedimento
richiesto: il che a me sembra che con tale espressione il legislatore abbia voluto rimarcare che,
benché deformalizzata l’istruttoria, comunque il convincimento del giudice deve essere pieno. In
altre parole, possiamo anche convenire sulla definizione del nostro come procedimento sommario in
senso tecnico, purché sia chiaro che l’accertamento dei fatti in esso coinvolti non è superficiale, ma
pieno alla stessa stregua di ciò che avviene nel processo a cognizione ordinaria ex artt. 163 ss. c.p.c.
A favore di tale conclusione cospirano numerosi indizi: il fatto che la fase introduttiva sia
disciplinata in maniera pressoché analoga a quella del processo ordinario; il fatto che il nostro
processo riproduce, in buona sostanza, il modello del processo a cognizione semplificata ma piena
previsto dalla delega di cui all’art. 54 l. 69/2009; e, soprattutto, il fatto che esso sia idoneo a fornire
tutela dichiarativa dei diritti azionati.
In definitiva, la sommarietà deriva dal fatto che la predeterminazione legale riguarda soltanto la fase
introduttiva del giudizio, mentre le altre fasi (quella preparatoria, quella istruttoria in senso stretto e
6 Come nel caso dei provvedimenti cautelari anticipatori.
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quella decisoria) sono completamente rimesse all’impulso del giudice. Ma la sommarietà che
caratterizza il nuovo giudizio non significa anche superficialità dell’accertamento dei fatti, che,
come già si è detto in precedenza, è pieno come quello del processo disciplinato dagli artt. 163 ss.
c.p.c.
2 – I provvedimenti pronunciabili e il loro regime di impugnazione
Una volta individuata la natura del processo sommario di cognizione, è possibile entrare nel vivo
dell’indagine che ci siamo prefissati, tentando innanzitutto di individuare il regime di impugnazione
dei provvedimenti emessi nel corso del giudizio di primo grado.
A tal riguardo la legge non è di grande aiuto, innanzitutto perché non individua tutti i possibili
provvedimenti che possono essere pronunciati in primo grado; inoltre, quando lo fa, non sempre ne
indica il mezzo di impugnazione; infine, quando specifica il rimedio impugnatorio, usa termini
ambigui e poco perspicui, che complicano ulteriormente il problema, piuttosto che risolverlo.
2.1 – I provvedimenti sulla competenza
Procedendo con ordine, il primo rilievo da svolgere è che nel processo di primo grado, a parte il
decreto di fissazione dell’udienza di comparizione, il giudice provvede sempre con ordinanza,
anche quando definisce, in rito o nel merito, il giudizio. Tanto precisato, passando all’esame della
normativa che disciplina il procedimento dall’udienza di comparizione in poi (art. 702 ter)7 , viene
in considerazione il primo comma dell’art. 702 ter c.p.c., a mente del quale il giudice, se ritiene di
essere incompetente, deve provvedere con ordinanza. Orbene, poiché oggi, a seguito della riforma
ex l. 69/2009, tutte le questioni in tema di competenza vanno decise con ordinanza (artt. 42, 43, 279,
1° comma, c.p.c.), è indubbio che il provvedimento in questione è impugnabile esclusivamente con
il regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c.8 Problematica è invece l’ipotesi di una
pronuncia non definitiva che rigetti le eccezioni di incompetenza, litispendenza, continenza e
7 L’art. 702 bis regola esclusivamente la fase introduttiva del processo.
8 Analogo è il regime dell’ordinanza che definisce il giudizio ai sensi degli artt. 39 e 40 c.p.c.
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connessione, dovendosi innanzitutto verificare se nel processo sommario ci sia spazio per tali
decisioni9.
La dottrina prevalente è tendenzialmente per la soluzione negativa in considerazione delle finalità
acceleratorie che caratterizzano il rito in questione. Indubbiamente questa opinione coglie in parte
nel segno se si considera che, utilizzandosi il processo sommario per la definizione delle cause
“semplici”, normalmente non ci sarà spazio per fenomeni di frazionamento della pronuncia. Ciò
però non esclude che il giudice possa pronunciare un provvedimento di rigetto delle eccezioni in
questione e disporre che si prosegua nelle forme del sommario, non ravvisando i presupposti per la
conversione nel rito ordinario. Peraltro, proprio con riferimento al processo ordinario, non va
trascurato che oggi, dopo la riforma del 2009, la legge prevede espressamente l’ipotesi
dell’ordinanza di rigetto dell’eccezione di incompetenza10
e che dispone la prosecuzione del
giudizio (art. 279, 1° comma, ult. parte, c.p.c.). Sicché a me sembra che, se pur normalmente nel
processo sommario non ci sarà spazio per una pronuncia non definitiva sulla competenza,
litispendenza, continenza e connessione, ciò nondimeno nulla vieta che il giudice possa adottare tale
tipo di decisione11
. La pronuncia in questione, quindi, in quanto intervenuta soltanto sulla questione
di competenza12
, sarà impugnabile esclusivamente con il regolamento di competenza; se invece il
giudice ha pronunciato anche su altro, il provvedimento sarà soggetto al concorso tra regolamento
facoltativo ed appello13
, con la precisazione che, ove la parte interessata voglia avvalersi di tale
9 Su tale questione v. amplius sub 2.5.
10 Nonché di quelle ad esse assimilate: litispendenza, continenza e connessione.
11 Come si sarà capito dai rilievi svolti nel testo, l’ipotesi che prendo in considerazione è quella della pronuncia di
rigetto dell’eccezione in questione e di prosecuzione del processo con le forme del rito sommario. Non credo invece
che vada presa in considerazione l’ipotesi in cui il giudice ritenga la causa non compatibile con il rito sommario, posto
che in tal caso il giudice si asterrà dalla pronuncia in esame prima della conversione del rito e della fissazione
dell’udienza ex art. 183.
12 Ovvero di litispendenza, continenza e connessione.
13 Secondo un consolidato orientamento della S.C., «decisione di merito» s’intende non soltanto una pronuncia sul
rapporto sostanziale dedotto in giudizio, in contrapposizione ad una pronuncia sul rapporto processuale, bensì anche
la risoluzione di questioni diverse da quella sulla competenza, di carattere sostanziale o processuale, pregiudiziali di
rito o preliminari di merito, salvo che dal contenuto della pronuncia - per la cui determinazione occorre far
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ultimo rimedio, ma non voglia esperirlo immediatamente, dovrà formulare riserva di impugnazione
ex art. 340 c.p.c.14
2.2. – L’ordinanza ex art. 702 ter, 2° comma, c.p.c.
Una volta esaurita l’indagine sui provvedimenti che pronunciano sulla competenza, tocca ora
occuparsi del 2° comma dell’art. 702 ter c.p.c., secondo cui il giudice deve dichiarare
inammissibile, con ordinanza non impugnabile, la domanda che non rientra tra quelle contemplate
dall’art. 702 bis (cioè, le domande demandate al tribunale in composizione monocratica15
).
Benché la lettera della legge sembri non lasciare dubbi a riguardo, si discute se tale espressa
inimpugnabilità dell’ordinanza sia a tenuta stagna, ovvero consenta l’esperibilità del ricorso
straordinario per cassazione. La tesi prevalente, sul presupposto dell’insussistenza di un diritto del
ricorrente al “rito”, è per la soluzione negativa. Secondo tale opinione, inoltre, considerato che non
si attribuisce a tale pronuncia in rito alcuna efficacia preclusiva, è sempre consentita la
riproposizione della domanda, anche nuovamente nelle forme del rito sommario; fermo restando
che deve comunque ritenersi esperibile il ricorso straordinario per cassazione contro la statuizione
sulle spese, in quanto in tal caso è innegabile l’esistenza di una decisione che incide su diritti
soggettivi.
Sennonché, così opinando, non si tiene conto che la tutela del ricorrente che subisce il
provvedimento inimpugnabile di inammissibilità non può essere limitata soltanto alla
considerazione della possibilità di riproporre la domanda, dovendosi anche valutare a riguardo la
perdita secca degli effetti sostanziali e processuali della stessa domanda conseguenti alla pronuncia
riferimento, oltre che al dispositivo, anche alla motivazione - risulti che l’esame di tali questioni sia stato compiuto
solo incidentalmente, in funzione della decisione sulla competenza e senza pregiudizio per l’esito definitivo della
controversia: per tutte, v. Cass. 18425/2006, 1295/2004.
14 In tal caso, se l’ordinanza è stata pronunciata in udienza, la riserva, a pena di decadenza, va formulata
immediatamente dopo la lettura del provvedimento; in caso di pronuncia fuori udienza, la riserva di impugnazione va
effettuata nell’udienza fissata dal giudice per la prosecuzione del giudizio.
15 Nonché, se si ritiene il procedimento sommario di cognizione alternativo al solo processo a cognizione ordinario,
anche quelle da trattare con le forme di un processo speciale a cognizione piena (si pensi, per esempio, alle
controversie del lavoro).
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di inammissibilità.16
E’ doveroso allora chiedersi, in una prospettiva di interpretazione sistematica e
costituzionalmente orientata17
, se la carenza del presupposto speciale in considerazione debba
portare necessariamente alla definizione del giudizio con la pronuncia di inammissibilità. A tal
riguardo credo che occorra tener conto di una serie di fattori. Innanzitutto va considerato che, a
livello di disciplina generale, l’errore sul rito non è ostativo alla prosecuzione del giudizio, come si
ricava dagli artt. 426 e 427 c.p.c. Inoltre, la tendenza del sistema a far salvi gli effetti sostanziali e
processuali della domanda anche in presenza di vizi ben più gravi di quello conseguente all’errata
scelta del rito è testimoniata dalla nuova versione dell’art. 182 c.p.c.18
, nonché dal fatto che la
traslatio iudicii (con conseguente conservazione degli effetti della domanda) è oggi garantita, oltre
che nel caso di pronuncia di incompetenza, anche in quello in cui il giudice declini la propria
giurisdizione.
Orbene, se si tiene conto di tali indici sistematici, a me sembra che, in una prospettiva che miri ad
una incisiva tutela del valore costituzionale del diritto d’azione, nonché di quello di cui all’art. 3
Cost.19
, sia possibile sostenere che il promovimento del giudizio sommario anche in ipotesi non
consentita per carenza del presupposto speciale richiesto dal legislatore non debba comportare la
chiusura in rito dello stesso, ma debba sfociare in una pronuncia di conversione del rito.20
Né credo che la tesi qui sostenuta sia ostacolata decisivamente dalla lettera della legge, dovendosi
intendere che la sanzione dell’inammissibilità prevista dall’art. 702 ter, 2° comma, c.p.c. non stia
16
Tant’è che non è mancato chi (LUPOI, op. cit., sub 5), per rimediare a tale inconveniente, ha sostenuto
l’ammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 111, 7° comma, c.p.c.
17 A riguardo v. PROTO PISANI, Appunti sull’ultima riforma, cit., 117.
18 V. l’ultimo comma di tale articolo.
19 La cui violazione mi sembra evidente se si considera che la conservazione degli effetti della domanda viene garantita
in ipotesi di vizi non meno gravi di quello derivante dall’errata scelta del rito.
20 Peraltro, se ci si riflette su, ci si accorgerà che tale soluzione va adottata esclusivamente nei casi in cui sia promossa
con il rito sommario una causa demandata al tribunale in composizione collegiale. Infatti, ove la carenza del
presupposto speciale in questione sia la conseguenza dell’incompetenza del giudice adito (perché la domanda è
attribuita alla cognizione del giudice di pace), la conservazione degli effetti della domanda deriverà dal fatto che il
giudice adito declinerà la sua competenza determinando la prosecuzione del processo davanti a quello indicato come
competente.
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necessariamente a sottolineare il dovere del giudice di definire immediatamente il processo in rito,
quanto piuttosto quello di impedire la prosecuzione del giudizio con le forme sommarie. In altre
parole, inammissibile non è la prosecuzione del giudizio tout court, ma la prosecuzione del processo
sommario: risultato che può ottenersi anche mediante l’ordine di conversione del rito.
Così opinando, peraltro, si risolve anche il problema del cumulo di domande avvinte da connessione
forte nel caso in cui una sia suscettibile di trattazione con le forme sommarie e l’altra no.
Ulteriore benefica ricaduta della tesi qui sostenuta è la sdrammatizzazione del problema dell’errore
del giudice tutte le volte che egli, non rilevando la carenza del presupposto speciale di ammissibilità
di cui si discute, consenta la prosecuzione del giudizio sommario sino alla sua definizione. Infatti,
una volta escluso che la carenza del presupposto speciale in questione debba comportare la
definizione in rito del processo, perde completamente valore la disputa tra chi sostiene che il
giudice di appello debba definire in rito la domanda con pronuncia di inammissibilità della stessa21
e chi invece ritiene che il giudice di appello, rilevato il vizio e disposta la rinnovazione degli atti
compiuti dal primo giudice, debba decidere nel merito la causa. Infatti, accertato l’errore del rito, il
giudice d’appello deve soltanto disporne la conversione ed abilitare le parti all’esercizio dei poteri e
facoltà precluse dal mancato rilievo del vizio conseguente alla scelta errata del rito.
2.3 – Gli altri provvedimenti di rigetto in rito
Al di là dell’ipotesi di cui all’art. 702 ter, 2° comma, c.p.c., nulla è previsto in ordine
all’impugnazione dei provvedimenti che comportano la definizione in rito del processo sommario.
Se il silenzio della legge dovesse ritenersi sintomatico del regime di inimpugnabilità di tali
provvedimenti, dovremmo concludere che il legislatore avrebbe raggiunto un risultato dissonante
rispetto alle intenzioni che sostengono l’introduzione del processo sommario. Infatti, ad onta del
proclamato intento acceleratorio tramite la previsione di un procedimento idoneo anche a fornire la
tutela dichiarativa dei diritti (e, quindi, a sfociare in un provvedimento destinato a passare in
21
Beninteso, sempre che la parte interessata abbia proposto uno specifico motivo di impugnazione, non potendosi
dubitare della vigenza della regola ex art. 161, 1° comma, c.p.c.
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giudicato), si avrebbe che gran parte delle pronunce che definiscono in rito il giudizio sommario22
rivesterebbe una portata limitata, in quanto esse non sarebbero destinate ad esplicare alcuna
efficacia preclusiva. Orbene, poiché tale conclusione non mi sembra affatto persuasiva sotto il
profilo logico, credo che la tesi dell’impugnabilità dei provvedimenti in questione vada abbracciata
senza esitazione. Innanzitutto perché il regime normale di un provvedimento è la sua impugnabilità,
tanto più quando si tratta di decisione che definisca un giudizio, sicché la deroga a tale regola deve
essere espressa. Non a caso, nella disciplina del processo sommario, quando la legge ha voluto
derogare a tale regola, lo ha fatto espressamente. Per esempio, allorché ha sottratto al regime di
impugnabilità l’ordinanza ex art. 702 ter, 2° comma; ovvero, quando si prevede che il giudice debba
disporre la conversione del rito ritenendo la causa non idonea alla sommaria istruzione (art. 702 ter,
3° comma).
In definitiva, mi sembra che il silenzio legislativo non sia di alcun ostacolo alla possibilità di
affermare l’impugnabilità dei provvedimenti (diversi da quelli declinatori di competenza) che
definiscono in rito il giudizio; impugnabilità che, in carenza di esplicita disposizione, va declinata
con le forme dell’appello.23
2.4 – I provvedimenti di conversione del rito o di prosecuzione con le forme sommarie
Proseguendo oltre, viene ora in considerazione il provvedimento previsto dal terzo comma dell’art.
702 ter c.p.c., secondo cui il giudice se ritiene, sulla scorta delle difese delle parti, la causa non
compatibile con le forme del rito sommario, con ordinanza non impugnabile fissa l’udienza ex art.
183 c.p.c.
22
In questa prospettiva interpretativa, infatti, sarebbero impugnabili (con il regolamento necessario di competenza)
soltanto le ordinanze declinatorie della competenza.
23 Né credo che possa obbiettarsi a tale tesi che l’appellabilità sarebbe prevista testualmente, ex art. 702 quater, 1°
comma, c.p.c., per la sola ipotesi di ordinanza di accoglimento della domanda. A parte il fatto che, se si desse credito
fino in fondo alla lettera della legge, si avrebbe che l’appellabilità dovrebbe essere riconosciuta soltanto alle pronunce
di accoglimento che siano idonee a fondare l’esecuzione forzata e che contemporaneamente costituiscano titolo per
l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione; in seguito, quando ci si occuperà dei provvedimenti di merito che
definiscono il processo sommario, si avrà la possibilità di verificare come l’appello sia il rimedio impugnatorio normale
per tutti i provvedimenti emessi nel corso del giudizio sommario (tranne, ovviamente, quelli che pronunciano solo
sulla competenza, ovvero che sono definiti inimpugnabili, oppure pronunciati in unico grado).
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E’ questo uno snodo cruciale del processo sommario, giacché la scelta dell’attore, indispensabile
per l’instaurazione del giudizio sommario, non è sufficiente perché il procedimento continui con le
forme sommarie, essendo a tal fine necessaria la valutazione giudiziale di compatibilità della causa
con l’istruzione sommaria. Orbene, ove tale valutazione sia negativa, il giudice deve disporre la
conversione del rito determinando la continuazione del processo con le forme di quello ordinario. Il
provvedimento con cui il giudice provvede in tal senso è un’ordinanza che, per espressa previsione
legislativa, è inimpugnabile (e, quindi, anche non revocabile, né modificabile: art. 177, 3° comma,
n. 2, c.p.c.).
E’ appena il caso di precisare che non può neppure essere adombrato il problema della possibilità di
chiedersi se detto provvedimento sia soggetto a ricorso straordinario per cassazione ex art. 111
c.p.c., sia perché, come si è detto in precedenza, non esiste un diritto al rito del ricorrente, sia
soprattutto perché il provvedimento in questione non comporta il rigetto della domanda, ma soltanto
la conversione del rito e la continuazione del giudizio con le forme di quello ordinario.
Quanto, poi, all’inversa decisione (valutazione di compatibilità della causa con il rito sommario),
c’è da dire che la legge non prevede neppure che il giudice pronunci uno specifico provvedimento
in tal senso. Infatti, come emerge chiaramente dalla lettera dell’art. 702 ter, 5° comma, il giudice
provvede implicitamente a riguardo dando vita all’istruzione sommaria.
Se mai occorre chiedersi cosa succede se la decisione di procedere con il rito sommario si riveli
errata.24
Mi sembra persino problematico che in tale ipotesi possa parlarsi di vizio in procedendo,
giacché la parte interessata può solo dolersi dell’ingiustizia della decisione quale conseguenza
dell’errata decisione di procedere con il rito sommario. L’unico rilievo da svolgere è che, ove si
accerti che il giudizio, per lo stato di complicazione raggiunto quale conseguenza delle difese delle
parti, non poteva continuare con il rito sommario, la parte interessata potrà in appello essere rimessa
a compiere quelle attività di allegazione e probatorie che le erano state impedite dallo svolgimento
del processo con le forme sommarie.
24
Il che si verifica quando, alla stregua delle difese svolte dalle parti, la causa non appare suscettibile di essere trattata
con il rito sommario.
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2.5 – I provvedimenti non definitivi
Allorché ci si è occupati delle decisioni sulla competenza, si è potuto constatare che anche il
processo sommario può sfociare in una pronuncia non definitiva. Si tratta ora di verificare se tale
fenomeno sia limitato al tema della competenza ovvero abbia portata generale.
L’ostacolo all’ammissibilità di pronunce non definitive nel nostro giudizio non è certo rappresentato
dal fatto che la forma delle decisioni è quella dell’ordinanza, giacché, proprio a livello di disciplina
generale, si è accertato che il fatto che una pronuncia assuma la forma dell’ordinanza non impedisce
che possa essere non definitiva: infatti, nel rito ordinario, l’art. 279, 1° comma, ult. parte, c.p.c.
testualmente contempla la possibilità della decisione non definitiva sulla competenza tramite
ordinanza. Quindi, che una decisione sia presa con sentenza o ordinanza, è questione del tutto
irrilevante ai fini della soluzione del nostro problema. Sicché, rebus sic stantibus, l’ostacolo
maggiore all’ammissibilità delle pronunce non definitive nel processo sommario viene individuato
nella natura di tale giudizio e nelle finalità che con esso il legislatore persegue, tali da essere
incompatibili con il fenomeno del frazionamento della decisione.
Per quanto ritenga che nel processo sommario normalmente non ci sarà spazio per decisioni non
definitive, ciò nondimeno non credo che tale rilievo possa rappresentare un ostacolo definitivo
all’ammissibilità di tali pronunce. Infatti, ben potrebbe configurasi l’ipotesi in cui vengano sollevate
eccezioni pregiudiziali o preliminari di semplice definizione e la causa, pur non potendo
considerarsi complessa per il numero limitato di accertamenti fattuali che richiede, non sia
suscettibile di immediata definizione nel merito. In casi del genere non credo che l’immediata
definizione (con il rigetto) delle eccezioni pregiudiziali o preliminari sia incompatibile con la
prosecuzione del giudizio con le forme sommarie. Anzi, a dirla tutta, il mettere punti fermi tramite
un’attività decisoria che non comporta perdite di tempo consente alle parti di concentrarsi meglio
sul merito della causa. Né si obbietti che l’eventuale pendenza del giudizio di appello sulla
questione pregiudiziale o preliminare (instaurato a seguito di impugnazione immediata della
pronuncia non definitiva) determinerebbe perdite di tempo per il processo sommario, impedendone
la prosecuzione, giacché è agevole replicare che il giudizio di appello sulla non definitiva non
provoca automaticamente la sospensione del processo di primo grado, essendo necessaria a tal fine
l’istanza concorde delle parti (art. 279, 4° comma, c.p.c.).
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Accertata, quindi, la possibilità di pronunce non definitive di ogni tipo nel processo sommario di
cognizione, si tratta ora di individuarne il regime impugnatorio.
C’è stato chi25
, pur partendo dall’inammissibilità di tali decisioni, riconosce che tale eventualità
possa verificarsi, sicché, al fine di limitare la deconcentrazione del processo quale conseguenza
della pronuncia non definitiva, ha sostenuto che soltanto la decisione su (almeno) una (ma non tutte)
delle domande cumulate sarebbe sottoposta al regime ex art. 340 c.p.c. (riserva di impugnazione o
appello immediato), laddove, in caso di altre pronunce non definitive (quelle, cioè, che non
definiscono almeno una domanda )26
, la parte soccombente non potrebbe né riservare la decisione,
né impugnarla immediatamente, fermo restando che non ci sarebbe nessuna preclusione per il
riesame della questione con l’appello contro l’ordinanza che definisce il giudizio sommario.
Benché apprezzabile per l’intento che la sorregge, la tesi non mi sembra condivisibile, in quanto
fondata su un elemento esegetico abbastanza fragile, quale è quello rappresentato dal fatto che
l’art. 702 quater, parlando di appello solo con riferimento all’ordinanza di cui al 6° comma dell’art.
702 ter, sembrerebbe contemplare la possibilità di impugnazione della sola decisione di merito.
In seguito, allorché ci si occuperà del problema dell’impugnazione dell’ordinanza che definisce nel
merito il processo sommario (accogliendo o rigettando la domanda), ci si accorgerà di quanto sia
infelice la norma testé ricordata e di come alla stessa non possa attribuirsi il valore che la lettera
della legge sembrerebbe imporre. Sicché, una volta venuto meno l’appiglio esegetico in
considerazione, mi sembra che sia impossibile distinguere nell’ambito delle pronunce non definitive
per assoggettare al regime normativo previsto dall’art. 340 c.p.c soltanto alcune di esse (quelle che
pronunciano almeno su una delle domande cumulate). La verità è che, una volta che si ammette la
possibilità di pronunce non definitive nell’ambito del processo sommario, tutte sono assoggettate
alla disciplina ex art. 340 c.p.c., di tal che esse possono essere appellate immediatamente, ovvero
riservate.
25
BALENA, Il procedimento sommario di cognizione, cit., 331-332;
26 BALENA, op. cit., 332, prende in considerazione soprattutto il caso di pronunce che abbiano rigettato eccezioni in
rito, ma credo che il discorso sarebbe lo stesso per le decisioni di rigetto di un’eccezione preliminare di merito.
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Peraltro, il riferimento innanzi svolto alle pronunce su alcune (ma non tutte) delle domande
cumulate richiede ancora alcune precisazioni, in quanto non è detto che in tali ipotesi la relativa
pronuncia sia sempre non definitiva. Si pensi, ad esempio, al caso di cumulo soggettivo di cause,
allorché la domanda sia accolta o rigettata nei confronti di uno solo dei convenuti. Orbene, anche in
caso di mancata separazione esplicita delle cause, se il giudice provvede sulle spese, a tale ultima
statuizione va attribuito anche il significato di separazione implicita della cause, con la conseguenza
che la relativa pronuncia va considerata definitiva ai sensi dell’art. 279, 2° comma, n. 5, c.p.c. e,
quindi, suscettibile soltanto di appello immediato.
2.6 - I provvedimenti di merito definitivi
L’esito naturale del processo sommario di cognizione (come di ogni altro giudizio) è (o dovrebbe
essere) il provvedimento di merito di accoglimento o rigetto della domanda. Il problema
dell’impugnazione di tali pronunce, anche alla luce dei rilievi fin qui svolti, dovrebbe essere di
agevole soluzione. Sennonché, il legislatore del 2009, facendo ricorso, more solito, ad una tecnica
normativa non certo impeccabile, ha complicato la questione, dando la stura a discussioni gravide di
conseguenze negative sul piano applicativo.
Il problema sorge perché l’art. 702 quater, 1° comma, c.p.c. prevede che l’ordinanza emessa ai
sensi del sesto comma dell’art. 702 ter produce gli effetti di cui all’art. 2909 c.c. se non è appellata
entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione. La norma richiamata (cioè, l’art. 702
ter, 6° comma), a sua volta, dispone che l’ordinanza è provvisoriamente esecutiva e costituisce
titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione. Sicché, a stare all’improvvida
formulazione letterale della legge, dovremmo dire che, riferendosi il sesto comma dell’art. 702 ter
soltanto ai provvedimenti di accoglimento della domanda idonei a fondare l’esecuzione forzata e a
costituire titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione27
, soltanto questi ultimi
sarebbero appellabili ed idonei al giudicato sostanziale ex art. 2909 c.c.
Se così fosse, non solo dovremmo smentire i risultati dell’indagine fin qui svolta (che ci ha portato
ad affermare l’impugnabilità di tutti mi provvedimenti emessi nel corso del processo sommario, ad
27
O per l’annotazione ex art. 2655 c.c.
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eccezione di quelli per i quali espressamente è stabilita l’inimpugnabilità), ma dovremmo dire che si
è in presenza di previsione legislativa irragionevole e palesemente incostituzionale. Ma prima di
acchetarci su tale conclusione, verifichiamo se esista la possibilità di una diversa, e più razionale,
interpretazione.
Come si è accertato in precedenza, la regola del sistema è la normale impugnabilità dei
provvedimenti e le deroghe a tale regime sono in genere espressamente previste. Nella specie, nel
disciplinare il procedimento sommario, il legislatore ha espressamente individuato i casi di
provvedimenti non impugnabili (art. 702 ter, 2° e 3° co.). Peraltro, lo stesso legislatore ha
espressamente disposto, sia pure in maniera infelice, l’impugnabilità del provvedimento definitivo
attraverso il rimedio dell’appello. Se cosi è, non par dubbio che tutti i provvedimenti definitivi,
tanto di rigetto (anche in rito) quanto di accoglimento, sono passibili di impugnazione nelle forme
dell’appello; inoltre, quanto agli effetti dell’art. 2909 c.c., essi si producono sia in caso di
accoglimento che di rigetto della domanda. Se così non fosse, se, cioè, ci attenessimo strettamente
alla lettera della legge, si avrebbe che il provvedimento di rigetto della domanda non sarebbe
appellabile e non sarebbe idoneo al giudicato sostanziale e, quindi, non impedirebbe la
riproposizione dello stesso giudizio; sicché, ad onta del palese intento acceleratorio che ha
giustificato la previsione del procedimento sommario, il legislatore consentirebbe che tramite
l’esperimento dello stesso si possa pervenire ad un incomprensibile spreco di attività
giurisdizionale. La palese incongruità di tale conclusione non lascia adito a dubbi su quale debba
essere l’interpretazione da seguire. Ciò detto, se si riflette ulteriormente, ci si accorge che
quell’infelice formulazione letterale, cui innanzi si è accennato, è suscettibile di una lettura che ne
smussi gli aspetti di più palese irrazionalità. Il sesto comma dell’art. 702 ter c.p.c. altro non sta ad
indicare se non le qualità delle pronunce di accoglimento in determinate ipotesi (condanna, ovvero
decisione di accertamento o costitutiva in tutti i casi in cui sia prevista la trascrizione o
l’annotazione della sentenza). Inoltre, si deve ulteriormente osservare che, inerendo l’efficacia ex
art. 2909 c.c. esclusivamente alla decisione di merito, il riferimento dell’art. 702 quater, 1° comma,
al sesto comma dell’art. 702 ter c.p.c. è parso al legislatore automatico, posto che quest’ultima
norma si riferisce espressamente alla pronuncia di merito (sia pure solo di accoglimento). In
definitiva, se si condividono questi rilievi, sicuramente non potrà dubitarsi del fatto che i
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provvedimenti di merito che definiscono il processo sommario sono tutti appellabili ed idonei alla
produzione degli effetti di cui all’art. 2909 c.c.
2.7 – I provvedimenti pronunciati nei giudizi in unico grado
Nel concludere questa parte di indagine, occorre considerare l’ipotesi delle controversie in unico
grado, sempre che, ovviamente, trattasi di cause demandate al tribunale in composizione
monocratica. Il problema si pone perché, se promosse con le forme ordinarie, queste cause
sarebbero inappellabili; mentre, a stare pedissequamente alla lettera della legge, l’instaurazione del
processo sommario si conclude sempre con un provvedimento appellabile.
Tale conclusione, però, è sicuramente inaccettabile, giacché non è pensabile che la parte,
utilizzando un rito diverso da quello ordinario, possa eludere le prescrizioni legislative in tema di
impugnazione dei provvedimenti; sicché, considerato che l’appello è proponibile se non escluso
espressamente dalla legge (art. 339, 1° comma, c.p.c.), il richiamo a questo mezzo di impugnazione
contenuto nell’art. 702 quater, 1° comma, deve intendersi riferito alle ipotesi in cui l’appello
sarebbe proponibile anche se la causa fosse stata instaurata con il rito ordinario.
Dando per assodata tale conclusione, c’è stato chi28
ha negato l’ammissibilità del processo
sommario in caso di pronunce inappellabili. Infatti, secondo tale tesi, sorgerebbero seri dubbi di
costituzionalità circa la previsione di un procedimento sommario idoneo alla tutela dichiarativa dei
diritti, cui non faccia seguito un grado di controllo completo.
Non credo che tale conclusione sia necessitata. Innanzitutto occorre considerare che non può
parlarsi di generico pregiudizio del diritto di difesa delle parti, giacché, nel caso in esame, dalle
parti pregiudicate va escluso l’attore, che, pur non essendo costretto, ha scelto il rito sommario.
L’unica parte, quindi, che potrebbe dolersi di eventuali pregiudizi al suo diritto di difesa dovrebbe
essere il convenuto29
, il quale non sceglie il rito sommario, ma lo subisce. Non va però trascurato
che questo stato di soggezione del convenuto non è assoluto, in quanto la parte in questione ha la
possibilità di sottrarsi al rito sommario, “complicando la causa”, rendendola, cioè, tramite le sue
28
OLIVIERI, op. cit.
29 Nonché i terzi chiamati in giudizio per iniziativa delle parti o del giudice.
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difese, incompatibile con la trattazione sommaria. Certo, si può obbiettare che non si è in presenza
di una facoltà incondizionata del convenuto, in quanto l’idoneità della causa alla trattazione
sommaria è decisione esclusiva del giudice. Qui però occorre intendersi. Allorché ci si pone sul
piano della tutela costituzionale, non ci si può limitare alla considerazione atomistica di singole
situazioni di vantaggio, essendo invece necessario porsi nell’ottica di un sistema dinamico di valori
destinati a coesistere, anche scontrandosi. Ergo, il problema della tutela costituzionale è sempre una
questione di equilibrio tra esigenze configgenti e non di riconoscimento assoluto di una a discapito
delle altre. Ciò premesso, occorre chiedersi se il diritto di difesa di una sola parte30
possa avere
riconoscimento assoluto sino al punto di rendere impraticabile il rito sommario nell’ipotesi in
considerazione. A tal riguardo non può ignorarsi che la trattazione sommaria, rispondendo a finalità
acceleratorie, è ispirata a valori dotati di copertura costituzionale ex art. 111 Cost. (ragionevole
durata del processo). Sicché, ancora una volta31
, occorre chiedersi quale sia la misura ragionevole
dell’equilibrio tra le opposte esigenze, superata la quale sia necessario il ricorso al giudice delle
leggi. Tornando al caso in esame, si è già detto che, instaurato il processo sommario, il convenuto
ha la possibilità di ottenere la conversione del rito in quello ordinario; se ciò non avviene è perché la
causa, nonostante i tentativi di “complicazione”, resta “semplice”. Ed allora occorre chiedersi se in
ipotesi di tal fatta sia giustificata la pretesa di una parte al rito ordinario, anche considerando che
nulla impedisce alla stessa di svolgere tutte le sue attività di allegazione e probatorie anche nel
processo sommario. Né il pregiudizio può derivare dal fatto che alla parte in questione saranno
precluse quelle limitate attività di allegazione e probatorie che sono consentite in appello, visto che
ciò accade anche in caso di instaurazione della causa con il rito ordinario, trattandosi di controversia
in unico grado. E non credo che, a sostegno della tesi che si avversa, sia invocabile l’ipotesi della
trattazione sommaria quale conseguenza dell’errore del giudice. Si pensi all’ipotesi in cui il
processo sommario sia stato attivato, e sia giunto a conclusione, in caso di controversia non
30
Ovvero di più parti, ma non tutte, ove si sia in presenza di processo sommario in cui ci sia stata chiamata in causa di
terzi.
31 In campo processuale si può dire che sia immanente il conflitto tra diritto di difesa delle parti ed esigenza di
ottenere una ragionevole durata del processo, giacché le finalità acceleratorie comportano di norma il
ridimensionamento delle garanzie delle parti.
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demandata al tribunale in composizione monocratica; ovvero a quella in cui, pur sussistendo il
presupposto speciale di ammissibilità, per le difese svolte dalle parti, la causa si riveli incompatibile
con il rito sommario e, ciò nondimeno, il giudice non abbia disposto la conversione del rito. In casi
di tal fatta, rilevato l’errore, la cassazione, ove riscontri che il vizio abbia impedito l’esercizio dei
poteri che sarebbero spettati alle parti in caso di giudizio instaurato con le forme ordinarie,
annullerà il provvedimento impugnato e rinvierà al primo (ed unico) giudice, il quale, in forza del
motivo di rinvio, dovrà disporre la conversione del rito e far procedere il processo con le forme
ordinarie.
Ancor più evidente è la compatibilità con il rito sommario quando l’unico grado di giudizio sia
conseguenza dell’accordo delle parti ex art. 114 c.p.c.32
o 360, 2° comma, c.p.c. In questi casi,
infatti, non può dolersi l’attore che ha scelto di instaurare la causa con il rito sommario, ma neppure
il convenuto che ha prestato il consenso per rendere, direttamente o indirettamente33
, inappellabile
la sentenza.34
3 – L’appello: l’art. 702 quater c.p.c.
E’ giunto ora il momento di occuparsi del procedimento di appello, con la consapevolezza che la
legge, nell’unico articolo a ciò dedicato (art. 702 quater), ha espressamente disciplinato soltanto
alcuni dei numerosi problemi che l’applicazione di tale istituto suscita.
3.1 – Il termine
32
L’inappellabilità, in tale ipotesi, è sancita dall’art. 339, 2° comma, c.p.c.
33 Nell’ipotesi contemplata dall’art. 114 c.p.c. l’accordo delle parti riguarda la possibilità del giudizio di equità, mentre
l’inappellabilità è la conseguenza che la legge (art. 339, 2° comma) ricollega a tale accordo.
34 Una volta affermata l’ammissibilità del rito sommario anche per le controversie da decidere in unico grado
(ovviamente sempre che sussista il presupposto speciale di ammissibilità della cognizione del tribunale in
composizione monocratica), va da sé che la pronuncia che definisce il giudizio è impugnabile, oltre che con ricorso per
cassazione, anche per revocazione (art. 395, 1° comma, c.p.c.). Peraltro, è appena il caso di precisare che, tanto si sia
in presenza di controversie in unico grado, quanto di quelle in primo grado, la relativa decisione sarà impugnabile con
opposizione di terzo nei casi contemplati dall’art. 404 c.p.c.
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Tra gli aspetti espressamente considerati dal legislatore vi è quello del termine per appellare, in
quanto l’art. 702 quater dispone che il giudicato si forma se l’ordinanza non è appellata nel termine
di trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione. E’ – questa – una disposizione in parte
analoga a quella dettata dall’art. 669 terdecies, 1° comma, c.p.c., con la precisazione che tale ultima
norma, oltre a prevedere un termine per il reclamo inferiore a quello ex art. 704 ter, ne dispone la
decorrenza, oltre che dalla comunicazione o notifica, anche dalla pronuncia in udienza.
Dalla previsione della decorrenza del termine di impugnazione dalla comunicazione, oltre che dalla
notifica, traspare evidente l’intento acceleratorio del processo, anche se la soluzione adottata non si
rivela condivisibile, giacché l’assimilabilità del nostro giudizio a quello cautelare appare
compromessa dal fatto che il secondo è subordinato alla ricorrenza del periculum in mora, mentre
l’attivazione del primo prescinde da ragioni di urgenza. Meglio, pertanto, avrebbe fatto il legislatore
a lasciare ancorata la decorrenza del termine breve di impugnazione alla sola notifica, essendo alto
il rischio che la parte soccombente, avvenuta la comunicazione (che si ipotizza normalmente
anteriore alla notificazione), comunque provvederà a cautelarsi proponendo appello: il che lascia
ipotizzare che le possibilità di prosecuzione della causa in grado di impugnazione (con conseguente
allungamento dei tempi di definizione) siano maggiori rispetto alle ipotesi di domande instaurate
con il rito ordinario.
Come si è visto in precedenza, la legge, a differenza di quanto previsto nel procedimento cautelare,
nulla dice sulla decorrenza del termine di impugnazione nell’ipotesi in cui la pronuncia sia stata
resa in udienza. In tal caso, se si attribuisce valore significativo alle difformità legislative
riscontrabili tra l’art. 669 terdecies, 1° comma, e l’art. 702 quater c.p.c.35
, dovrebbe pervenirsi alla
conclusione secondo cui, in caso di pronuncia del provvedimento in udienza, non essendo prevista
la comunicazione dello stesso36
, il termine per impugnare dovrebbe decorrere soltanto dalla notifica
della decisione. Sicché, considerato che, secondo alcuni, nel caso di processo sommario non
35
E, quindi, si ritiene che la mancata previsione in quest’ultima norma dell’ipotesi della pronuncia in udienza non sia
una mera dimenticanza del legislatore.
36 La legge, infatti, prevede che la comunicazione debba avvenire soltanto in caso di ordinanza resa fuori dell’udienza
(art. 134, 2° comma, c.p.c.).
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20
sarebbe operante il termine lungo ex art. 327 c.c.37
, si potrebbe persino avere che, in mancanza di
notificazione, il provvedimento non passerebbe mai in giudicato.
E’ evidente l’assurdità di tale conclusione, se sol si consideri che la previsione dei termini di
impugnazione risponde ad esigenze di certezza ed a favorire, quindi, la possibilità che
l’irretrattabilità di un provvedimento avvenga in un periodo congruo. Tale rilievo, pertanto, da un
lato, mi induce ad affermare la decorrenza del termine dalla data di udienza ove la pronuncia sia
avvenuta durante la stessa, dall’altro, a propendere per la tesi che ritiene applicabile anche nel caso
in esame l’art. 327 c.p.c. con le seguente precisazione. Tale ultima norma fa decorrere il termine
ultimo dalla pubblicazione della sentenza, mentre, nel caso di ordinanza, la legge non prevede la
pubblicazione. Orbene, poiché tale fenomeno consiste nel deposito della sentenza (art. 133, 1°
comma, c.p.c.), è evidente che, nel caso di processo sommario, la decorrenza del termine lungo avrà
come punto di riferimento il deposito dell’ordinanza. Peraltro, poiché il deposito è logicamente
compatibile con la sola ipotesi di pronuncia fuori dell’udienza, è del tutto ovvio che in caso di
pronuncia in udienza non sarà applicabile l’art. 327, 1° comma, in quanto in questa ipotesi, come si
è detto in precedenza, si avrà sempre la decorrenza del termine breve di trenta giorni.38
L’applicabilità anche nel processo sommario dell’art. 327, 1° comma, c.p.c. comporta ulteriori
conseguenze. La prima è che, nel caso in cui la comunicazione39
o la notifica avvengano dopo la
decorrenza del termine lungo, l’appello va considerato inammissibile, non essendoci più spazio per
l’operatività del termine breve.
La seconda è che, ove non ci sia stata comunicazione o notifica dell’ordinanza, l’istanza di
rimessione in termini ex art. 153 c.p.c. non sarà ammissibile.40
37
Oggi di sei mesi, dopo le modifiche ex l. 69/2009.
38 Essendo del tutto ovvio che la decorrenza del termine lungo presuppone che non ci sia stata, non solo la
notificazione, ma anche la comunicazione dell’ordinanza (evento di certo non frequente, ma pur sempre ipotizzabile).
39 Ed è ovvio che ci si riferisce alla sola ipotesi di ordinanza pronunciata fuori dell’udienza, posto che soltanto in tal
caso è prevista la comunicazione del provvedimento,
40 Ovviamente sul presupposto di adesione all’opinione di chi ritiene che esista un termine finale di sbarramento, oltre
il quale non è possibile la reintegrazione nel relativo potere; termine che, in forza di interpretazione analogica, viene
individuato in quello di cui all’art. 327, 1° comma, c.p.c.: in tal senso sembrerebbe orientato CAPONI, Rimessione in
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L’ultima ricaduta applicativa cui innanzi si accennava concerne l’ipotesi in cui ci sia stata
contumacia della parte41
. In tale ipotesi, infatti, credo che la decorrenza del termine breve, ove
l’ordinanza sia stata pronunciata fuori dell’udienza,42
sia possibile soltanto in caso di notificazione
della stessa (arg. ex art. 292, ult. comma, c.p.c.). Ove manchi quest’ultima43
, decorrerà soltanto il
termine lungo di impugnazione. L’unico problema che si porrebbe in questo caso è quello di
accertare se l’art. 327, 2° comma, c.p.c.44
sia assorbito nella ormai generale previsione di cui all’art
153 c.p.c.45
, ovvero sia considerato tuttora vigente, in quanto ritenuto norma speciale (in virtù del
noto brocardo secondo cui lex posterior generalis non derogat priori speciali).
3.2 – L’atto introduttivo del giudizio
Uno degli aspetti totalmente ignorati dalla legge riguarda la forma dell’atto introduttivo del
giudizio. A tal riguardo occorre dire che sicuramente aveva fatto di meglio il legislatore dell’ormai
abrogato rito societario, che, nell’introdurre nel sistema l’omologo (soltanto quanto a nomen iuris)
procedimento sommario (art. 19 d.lgs. 5/2003), oltre a disciplinare più dettagliatamente il giudizio
di appello46
, aveva espressamente previsto la forma dell’atto introduttivo del giudizio (citazione).
termini: estensione ai poteri di impugnazione (art. 153, 2° comma, c.p.c.), Foro it., 2009, V, 283; e v. pure F. DE SANTIS,
La rimessione in termini, in Il processo civile competitivo (a cura di A. DIDONE), Torino, 2010, 267, nt. 43.
41 Con la precisazione che tale fenomeno non riguarda l’attore, visto che esso si costituisce con il deposito del ricorso.
42 Infatti, come si è precisato in precedenza, in caso di provvedimento reso in udienza, il termine breve decorre dalla
pronuncia dello stesso.
43 Ed escludendo, pertanto, che l’ordinanza debba essere comunicata al contumace.
44 Che prevede la possibilità per il contumace, in determinate ipotesi, di impugnare la sentenza anche nel caso in cui
sia già decorso il termine lungo.
45 E’ questa, per esempio, l’opinione di F. DE SANTIS, loc. cit., nel testo.
46 Cui sono dedicati tre articoli (20-22), in uno dei quali (l’art. 20) rinvia, da un lato, alla disciplina generale delle
impugnazioni, dall’altro a quella specifica dell’appello nel processo ordinario, sia pure con la previsione della clausola
di compatibilità.
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Nel colpevole silenzio dell’art. 704 quater c.p.c.47
, non è mancato chi ha ritenuto che l’appello
debba proporsi con ricorso48
. Pur nella consapevolezza che una così poco perspicua tecnica
legislativa incrementa il tasso di arbitrarietà di ogni opinione a riguardo, ritengo che il silenzio
legislativo sia sintomatico di una volontà di rimandare alla disciplina ordinaria per il processo di
appello. Infatti, se è pur vero che, come si è già detto in precedenza, la sommarietà del nostro
giudizio non impedisce che l’accertamento dei giudice sia pieno, è altresì indiscutibile che
comunque si è in presenza di un processo in cui alcune fasi sono regolate all’insegna della
sommarietà. Sicché, io non credo che, in mancanza di un’espressa volontà legislativa, sia possibile
estendere i tratti di sommarietà previsti per il primo grado anche al giudizio di appello. Il che
comporta che il richiamo contenuto nell’art. 359 c.p.c., lungi dall’omologare, nei tratti di
sommarietà previsti, i due gradi di giudizio, significa invece applicazione al giudizio di appello
della normativa prevista in tema di cognizione ordinaria.49
Né credo che la situazione cambi
invocando il c.d. principio di ultrattività del rito. Ora, a prescindere dai dubbi circa l’esistenza di
tale principio o della sua portata generale, va ricordato che normalmente esso è richiamato per
individuare la disciplina dell’atto introduttivo di appello tutte le volte che il primo giudice abbia
errato nell’applicazione del rito. In altre parole, tale principio viene utilizzato per evitare che si
scarichino sulle parti gli errori del giudice, ma non è certo decisivo per la soluzione del nostro
problema. Peraltro, si può anche aggiungere che, allorché il legislatore ha voluto disciplinare
diversamente, rispetto al modello del processo ordinario, la disciplina dell’appello, lo ha fatto
espressamente (si pensi al rito del lavoro). E se è pur vero che in alcuni casi (si pensi ai giudizi di
separazione e divorzio) l’orientamento prevalente è quello di ritenere che l’appello vada proposto
con ricorso piuttosto che con citazione, non bisogna dimenticare che in quelle ipotesi la legge, lungi
47
Per i rischi conseguenti all’incertezze interpretative circa la forma dell’atto introduttivo dell’appello, si rinvia a
BALENA, Il procedimento sommario, cit. 332.
48 Così BOVE, Il procedimento sommario, cit., 450 s., il quale, peraltro, precisa che al giudizio di appello nel processo
sommario, avendo le stesse caratteristiche di quello di primo grado (considerato un processo a cognizione piena, ma
semplificata), si applica, in forza dell’art. 359 c.p.c., la stessa disciplina dettata per il primo grado (ovviamente, in
quanto applicabile).
49 Non c’è nessun ostacolo letterale alla proposta interpretazione dell’art. 359 c.p.c., se sol si consideri che la domanda
trattata con il rito sommario era proponibile anche con quello ordinario.
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dal tacere completamente, fornisce significativi spunti normativi a favore della tesi in questione: per
esempio, l’art. 4, comma 15°, l div. prevede che l’appello venga deciso in camera di consiglio.
Orbene, dovrà convenirsene, l’espressa previsione del rito camerale fornisce un riscontro testuale
notevole all’opinione in esame, posto che la normativa generale in tema di procedimenti in camera
di consiglio dispone che l’atto introduttivo del giudizio abbia la forma del ricorso.50
3.3 – La disciplina applicabile
Quanto detto in precedenza consente di individuare agevolmente la disciplina destinata a
regolamentare l’appello nel processo sommario: si tratta della normativa dettata per questo grado di
impugnazione nel processo ordinario, salvo le esclusioni e gli adattamenti imposti dalla particolare
struttura del giudizio sommario. Per esempio, se, in contrasto con l’interpretazione dominante51
, si
ritiene di stretta interpretazione la norma dettata dall’art. 702 bis, 5° comma, nella parte in cui
sembra limitare l’ammissibilità della chiamata in causa del terzo a quella per garanzia52
, è evidente
che nell’appello nel processo sommario l’applicazione dell’art. 331 c.p.c. avrà una portata molto più
ridotta di quanto normalmente avviene nel rito ordinario. Ed ancora, ove si ritenga, diversamente da
quanto da noi sostenuto, che nel rito sommario non siano consentite pronunce non definitive, va da
sé che in appello non ci sarà spazio per l’applicazione di tutte le norme che presuppongono tale
evento.
Per il resto è applicabile la consueta disciplina dettata in tema di appello; in particolare, non avrei
dubbi nel ritenere sussistente l’onere di specificazione dei motivi previsto dall’art. 342 c.p.c.53
,
50
Analogo discorso può farsi per il processo di separazione, dal momento che la legge espressamente prevede che
contro la sentenza non definitiva è proponibile soltanto l’appello immediato da decidere in camera di consiglio (art.
709 bis, ult. parte, c.p.c.). Sul fatto che il rito camerale debba adottarsi anche in caso di appello contro le sentenze
definitive, mi sia consentito rinviare, anche per ulteriori ragguagli bibliografici, al mio Il nuovo processo di separazione
e divorzio, in Il processo civile competitivo, cit., 378 s.
51 Per tutti, esemplificativamente, v. BALENA, op. cit., 326.
52 In tal senso sembra propendere LUPOI, op. cit., sub 4.
53 Nel procedimento sommario previsto dall’abrogato rito societario era espressamente previsto che l’atto di appello
(la citazione) dovesse contenere, a pena di inammissibilità, specifiche censure nei confronti della sentenza impugnata.
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anche se credo che l’estensione di tale onere sia condizionato dalla consistenza della motivazione
dell’ordinanza impugnata, nel senso che quanto più la stessa sarà sintetica, tanto meno sarà esteso
l’onere di cui si discorre. Fermo restando che, anche in caso di ridottissima motivazione, in caso di
pronuncia fondata su una pluralità di rationes decidendi54
, l’appellante, se non vuol sentirsi
dichiarare inammissibile il gravame, dovrà formulare censure per ciascuna delle singole ragioni che
sorreggono la decisione.
Ed ancora, non credo che sorgano dubbi sul fatto che l’inibitoria si svolga secondo i consueti
schemi previsti dal rito ordinario.55
Dubbi sono sorti circa l’applicabilità degli artt. 353 e 354 c.p.c. nel nostro giudizio di appello.
Secondo taluni,56
nell’appello nel processo sommario non troverebbe spazio la rimessione al primo
giudice, in quanto detto istituto sarebbe compatibile soltanto con un processo in cui entrambi i gradi
di giudizio siano organizzati secondo la cognizione piena.
Premesso che gli artt. 353 e 354 individuano in maniera tassativa le ipotesi in cui l’appello non ha
portata sostitutiva e deve concludersi con una pronuncia rescindente, non credo che questo
fenomeno sia ostacolato dalla mancanza di omogeneità tra la cognizione di primo grado e quella di
secondo grado. Inoltre, non va trascurato che il legislatore, quando ha voluto escludere l’operatività
della rimessione della causa al primo giudice, lo ha fatto esplicitamente, come avviene nel reclamo
cautelare (art. 669 terdecies, 4° comma, c.p.c.). Si deve, però, osservare che la soluzione adottata
per l’impugnazione contro il provvedimento cautelare, in quanto giustificata dalla peculiarità di
quel giudizio (attivabile sul presupposto dell’urgenza), non appare esportabile in un processo la cui
instaurazione prescinde del tutto da quel presupposto.
54
Da tener distinte dagli obiter dicta, che, a mio avviso, non sono idonei alla configurazione dell’onere ex art. 342
c.p.c. (anche se nella pratica è difficile distinguere un mero obiter da una ragione portante della decisione, soprattutto
nelle ipotesi di provvedimenti sinteticamente motivati).
55 Sicché anche in questo caso sono destinate a riprodursi le discussioni circa la portata del potere di sospensione
dell’efficacia esecutiva, se, cioè, debba limitarsi soltanto ai capi di condanna o possa estendersi a quelli aventi diversa
natura.
56 V. soprattutto OLIVIERI, op. cit., sub 10, cui adde MENCHINI, L’ultima idea, cit., sub. 5
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Peraltro, appare opportuno svolgere a riguardo ulteriori considerazioni. Potrebbe succedere che
l’errata decisione di primo grado, la cui riforma comporti la rimessione al primo giudice, abbia
impedito alla causa di incanalarsi nel solco del rito ordinario, Si pensi, per esempio, all’ipotesi in
cui, per la natura delle difese nel merito delle parti57
, non sarebbe consentita la trattazione con il rito
sommario; ma ciò nondimeno il giudice abbia ritenuto di procedere con quel rito, considerando il
giudizio immediatamente definibile in forza di un’eccezione di estinzione, da lui erroneamente
ritenuta fondata. Oppure si pensi all’ipotesi di errata estromissione di una parte, le cui difese
avrebbero “complicato” la causa, rendendola incompatibile con la trattazione sommaria.58
Non
senza trascurare che si possono verificare casi in cui la “semplicità” della causa (e, quindi, la sua
idoneità alla trattazione sommaria) derivi dalla mancata integrazione del contraddittorio nei
confronti di tutti i litisconsorti necessari. Ebbene, in tutte le ipotesi indicate, l’applicazione della
rimessione al primo giudice avrebbe un valore aggiunto: non solo servirebbe a perseguire l’intento
che ispira la disciplina di cui agli artt. 353 e 354, ma servirebbe anche a ripristinare le condizioni
per una corretta valutazione circa l’idoneità della causa ad essere trattata con il rito sommario.59
3.4 – Lo ius novorum
L’aspetto (ovviamente con riferimento alla disciplina dell’appello) che più ha destato l’attenzione
del legislatore è quello dei nova, anche se il risultato di tale considerazione è men che modesto.
Innanzitutto perché si sono prese in considerazione soltanto le nuove prove, mentre è stato del tutto
ignorato il tema delle nuove allegazioni; in secondo luogo perché la soluzione adottata sembra
57
Alludo tanto alle attività di allegazione, quanto a quelle probatorie.
58 Si faccia il caso di un processo instaurato nei confronti di più convenuti, definito con una sola pronuncia resa
all’esito di una trattazione in cui il giudice abbia del tutto ignorato le difese della parte estromessa, proprio sul
presupposto (errato) del fatto che la stessa dovesse essere estromessa dal giudizio.
59 Purché sia chiaro, a scanso di equivoci, che la rimessione della causa al primo giudice sarebbe giustificata soltanto
dalla ricorrenza delle ipotesi tassative ex artt. 353 e 354 c.p.c., in quanto l’errata valutazione in ordine alla
compatibilità della causa con il rito sommario, come già si è detto in precedenza, non comporta la definizione del
giudizio di appello con una pronuncia meramente rescindente.
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addirittura più intricata rispetto a quella rappresentata dal 3° comma dell’art. 345, 3° comma, c.p.c.,
che è stato e continua ad essere un tormento per gli interpreti.
Ma procediamo con ordine partendo dall’esame dell’art. 702 quater c.p.c. nella parte in cui prevede
che << sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritiene rilevanti
ai fini della decisione, ovvero la parte dimostra di non aver potuto proporli nel corso del
procedimento sommario per causa ad essa non imputabile >>. Appare evidente l’assonanza con la
norma dettata dall’art. 345, 3° comma, c.p.c., anche se alcune differenze vanno rimarcate.
Innanzitutto nella disciplina dell’appello nel processo sommario c’è un aggettivo diverso (<<
rilevanti >> invece di << indispensabili >>); inoltre non può passare inosservato che, mentre la
previsione ex art. 345, 3° comma, c.p.c., è formulata in negativo (<< non sono ammessi …>>),
quella di cui all’art. 702 quater è in positivo. Può anche essere che queste differenze linguistiche
siano soltanto casuali, ma non può escludersi che le diversità siano frutto di una volontà più liberal,
tendente a favorire un regime più permissivo dei nova probatori in appello.60
Resta il fatto che un
legislatore più accorto, che avesse avuto memoria delle diatribe ermeneutiche suscitate prima
dall’art. 437, 2° comma, poi dall’art. 345, 3° comma, c.p.c., sicuramente si sarebbe guardato bene
dal riprodurre formule linguistiche così ambigue.
Peraltro, è appena il caso di precisare che la nuova previsione, se sottoposta al vaglio della logica,
appare deficitaria sotto diversi profili. Infatti, dato atto che le chances di nuove prove in appello nel
processo sommario sono espresse in forma dicotomica, c’è subito da dire che il secondo corno
dell’alternativa (le prove che la parte era impossibilitata a produrre in primo grado) è, da un lato,
inutile, perché il rispetto di valori costituzionalmente protetti consentirebbe comunque l’ingresso di
tali prove in appello, anche in carenza di una specifica norma;61
dall’altro, assolutamente insensato,
in quanto, a stare pedissequamente alla lettera della legge, sembrerebbe che in tale ipotesi il giudice
dovrebbe ammettere le nuove prove anche se irrilevanti. Il che, come ognun comprende, è
palesemente assurdo.
60
Sospetto, peraltro, avvalorato, dal fatto che inizialmente il testo normativo conteneva l’aggettivo <<indispensabili>,
sostituito con quello << rilevanti>> a seguito di un emendamento.
61 Fermo restando che, a ben vedere, la norma ci sarebbe pure ed è quella rappresentata dall’art. 153, 2° comma,
c.p.c.
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Quanto, invece, alla prima parte della previsione normativa in esame, sempre in un’ottica di
ossequio supino alla lettera della legge, ne è evidente la superfluità, dal momento che è del tutto
scontato che una prova possa essere ammessa solo se rilevante.
Ed allora, se non si vuol concludere sull’assoluta irrilevanza della normativa in considerazione,
forse è necessario uno sforzo di memoria storica per recuperare all’indagine quella prospettiva
necessaria per attribuire un qualche significato alla nuova previsione. A tal fine occorre considerare
che il codice del ’40, in vistosa soluzione di continuità rispetto a quello del 1865, adottò, sia pure
con una certa elasticità62
, il principio di preclusione, tanto in primo grado quanto in appello. La
caduta del fascismo, e la ribellione che ne seguì, segnarono il ritorno, con la novella del ’50, del
principio di libertà delle deduzioni, che fu in seguito abbandonato, per le controversie del lavoro
con la riforma del 1973, per quelle ordinarie con la novella 353/1990. In particolare, nel rito del
lavoro, dopo l’adozione in primo grado di una versione rigida del principio di preclusione, per quel
che riguarda le nuove prove in appello si stabilì (art. 437, 2° comma) che esse potessero essere
ammesse, solo se << indispensabili>>. Ora, a prescindere dal significato da attribuirsi al termine in
questione63
, a me sembra che l’uso di quell’aggettivo stesse a rimarcare il carattere tendenzialmente
chiuso ai nova probatori dell’appello, sì da potersi ritenere che le nuove attività istruttorie in
secondo grado dovessero considerarsi l’extrema ratio del sistema. Per quanto riguarda il processo
ordinario, con le riforme succedutesi dal ’90 in poi, in primo grado è stato adottato il principio di
preclusione in maniera meno rigida rispetto al rito del lavoro; in appello, però, la scelta legislativa è
simile a quella che caratterizza il processo del lavoro, anche se se ne discosta per un tasso di
maggiore specificità normativa. Infatti, se nel rito del lavoro l’ingresso delle nuove prove in appello
è subordinato soltanto alla verifica della loro indispensabilità, nel rito ordinario l’apertura ai nova
probatori è consentita anche nel caso di prove che la parte non aveva potuto proporre per causa a lei
non imputabile. Non credo che questa maggiore specificazione normativa possa giustificare una
62
Tale mia affermazione è giustificata dal fatto che il codice del ’40 non adottò il principio di preclusione nella sua
versione più estrema, qual è quella rappresentata dal principio di eventualità: a tal fine mi sia consentito rinviare al
mio Trattazione e istruzione nel processo civile, Napoli, 2010, 19-41.
63 A riguardo, anche per ulteriori ragguagli bibliografici, rinvio al mio Le nuove prove in appello, Giusto proc. civ., 2006,
fasc. 3, 103 ss., spec. 126 ss, ora anche nel citato Trattazione ed istruzione nel processo civile, 260 ss.
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diversità di regime tra rito ordinario e rito del lavoro, giacché mi sembra del tutto intuitivo che
anche in quest’ultimo, pur in carenza di una espressa previsione, possano essere ammesse in appello
quelle prove che la parte era impossibilitata a chiedere in primo grado. Sicché, come ognun
comprende, la vera partita, tanto nel rito ordinario quanto in quello del lavoro, si gioca sul requisito
dell’indispensabilità della prova. Il che porta a concludere che la noma di cui all’art. 345, 3°
comma, pecca per superfetazione, anche se, come ho osservato in altra sede64
, tutto sommato quella
previsione dicotomica aveva il senso di far capire che l’ingresso delle nuove prove in appello non
poteva essere limitato soltanto ai casi in cui la parte era stata impossibilitata ad esercitare il relativo
potere in primo grado. Infatti, l’alternativa delineata dall’art. 345, 3° comma, c.p.c. impone che
debbano considerarsi ammissibili in appello le nuove prove anche quando potevano essere richieste
in primo grado (ovviamente se indispensabili): e ciò perché il principio della giustizia della
decisione (che sicuramente va annoverato tra quelli del << giusto processo >>) richiede l’adozione
di tecniche processuali volte a favorire l’accertamento veritiero dei fatti coinvolti nel processo.65
Se si tiene presente questo contesto, credo che sia possibile attribuire un significato razionale anche
alla nuova previsione di cui all’art. 702 quater, purché si tenga nella giusta considerazione anche il
particolare contesto in cui essa si cala. In altre parole, voglio dire che, per la soluzione del problema
interpretativo che ci occupa, non solo dobbiamo tener conto dei risultati conseguiti, in prospettiva
diacronica, con riferimento all’omologa questione nel rito ordinario e nel rito del lavoro; ma
dobbiamo anche non dimenticare che stiamo parlando dell’appello in un processo che in primo
grado, per quel che riguarda la fase istruttoria (ma non solo), si è svolto all’insegna della
sommarietà, senza, cioè, il rispetto di tutte quelle forme che garantiscono al massimo il diritto di
difesa delle parti.
Se si parte da queste premesse, forse la soluzione al problema in esame diventa agevole.
64
Le nuove prove, cit., 131.
65 Sul problema della verità nel processo, da ultimo, v. il bel libro di TARUFFO, La semplice verità, Bari, 2009, su cui i
rilievi di CAVALLONE, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di
Michele Taruffo), Riv. dir. proc., 2010, 1 ss., e di CHIARLONI, La verità presa sul serio, Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 695
ss., nonché la replica dello stesso TARUFFO a CAVALLONE, Contro la veriphobia. Osservazioni sparse in risposta a
Bruno Cavallone, ibid., 995 ss.
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Si tenga conto che, analogamente a quanto avviene nel rito ordinario e in quello del lavoro, la nuova
attività istruttoria in appello può essere imposta dal fatto che il primo grado si è concluso con una
pronuncia in rito, senza, cioè, che ci sia stata possibilità per le parti di esercitare i loro poteri
probatori: in tal caso, infatti, nulla impedisce che le stesse parti, oltre a riproporre le prove già
chieste (e non ammesse), ne chiedano di nuove. Oppure si pensi all’ipotesi di nuove allegazioni
consentite in appello (emendatio libelli o nuove eccezioni rilevabili di ufficio): in tal caso, infatti, il
potere di nuove allegazioni sarebbe tamquam non esset se non fosse consentito di provare i fatti che
lo sostanziano. Ovvero, si pensi ancora all’ipotesi in cui la necessità delle nuove prove sorga in
dipendenza del taglio giuridico della decisione adottata dal primo giudice. Ed infine, con
riferimento alle peculiarità strutturali del rito sommario, la necessità delle nuove prove in appello
potrebbe scaturire dall’istruttoria deformalizzata del primo grado. Ebbene, tutti questi esempi sono
sufficienti a dar sostanza ad uno dei corni dell’alternativa delineata dal legislatore (quella in cui si fa
riferimento alle prove che la parte è stata impossibilitata ad offrire in primo grado).
Per quel che concerne, invece, il secondo corno dell’alternativa (possono essere ammesse le nuove
prove se << rilevanti >> ), qui ancora una volta viene in gioco il principio che ho definito della “
decisione giusta”, che impone di favorire sempre l’accertamento veritiero dei fatti coinvolti nel
processo: il che significa che le nuove prove, anche se potevano essere chieste in primo grado,
possono trovare ingresso in appello tutte le volte che possano garantire il raggiungimento di una
decisione giusta perché fondata sull’accertamento veritiero dei fatti.66
Di diverso nell’appello nel processo sommario, rispetto al rito ordinario e a quello del lavoro, c’è
l’uso di un aggettivo (<<rilevanti >> invece di << indispensabili >>)67
, che, più che produrre
conseguenze significative in termini di risultato interpretativo, evidenzia l’intento “politico” del
legislatore di voler sottolineare il carattere meno chiuso dell’appello quale compensazione della
struttura sommaria che caratterizza il primo grado.
66
Nella prospettiva ermeneutica delineata nel testo diventa irrilevante la mancata menzione nell’art. 702 quater della
facoltà delle parti di deferire giuramento decisorio, giacché la sua portata decisiva, conseguente al valore di prova
legale, ne consentirà l’ingresso anche in appello.
67 Oltre alla già accennata formulazione in positivo della norma.
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Per concludere sull’argomento, bisogna osservare che, in caso di ammissione di nuove prove in
appello, la legge riconosce al presidente il potere di delegare l’assunzione delle stesse ad uno dei
componenti del collegio. E’appena il caso di precisare che tale facoltà è limitata alla mera
assunzione della prova, mentre l’ammissione della stessa rientra tra i poteri esclusivi e non
delegabili dell’intero collegio. Ciò detto, credo che l’assunzione davanti al singolo consigliere non
debba avvenire necessariamente nel giorno fissato per un’udienza collegiale, in quanto il giudice
delegato, per problemi organizzativi, ben potrà tenere una distinta udienza monocratica per
l’assunzione della prova, al termine della quale rimetterà la causa al collegio.
Come già si è detto in precedenza, il legislatore, nel disciplinare il problema dei nova in appello, ha
completamente ignorato l’aspetto delle nuove allegazioni. Essendosi in presenza di un processo
svoltosi in primo grado all’insegna della sommarietà, sarebbe lecito chiedersi se quel silenzio sia
sintomatico di una volontà di derogare ai consueti principi che, in subiecta materia, reggono
l’appello. Sennonché, gli interpreti concordemente hanno attribuito al silenzio legislativo il
significato di mera dimenticanza, sostenendo che la questione debba risolversi con l’applicazione
dei primi due commi dell’art. 345 c.p.c. La soluzione mi sembra del tutto condivisibile, parendomi
eccessivo che da un dato così ambiguo (il silenzio della legge) possa inferirsi una deroga così
vistosa agli schemi classici cui si informa l’appello. In altre parole, voglio dire che il legislatore, se
davvero avesse voluto abbandonare percorsi altamente sperimentati, non si sarebbe affidato al
silenzio, ma avrebbe trattato il tema espressamente. Ergo, le nuove allegazioni in appello sono
quelle consentite dall’art. 345 c.p.c.: emendatio libelli, nuove domande nei limiti previsti
dall’ultima parte del primo comma dell’art. 345, nonché eccezioni rilevabili di ufficio.
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