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Il SeraleSettimanale quotidiano

26 novembre 2012numero 23

Gaza immobileHanno già raccontato tutto

Tutto cambia perché nulla cambi

Non volendo andaretroppo in là con la me-

moria e scomodare i vecchi pro-tettorati europei e soprattuttol'atteggiamento cerchiobottistaassunto dai britannici nella re-gione a partire dagli anni Venti,la parola fine al processo di pacemai avviato è stata sancita conogni probabilità dal misteriosoassassinio dell'allora premierYitzak Rabin nel 1994. Rabin èparso a molti osservatori inter-nazionali come l'unica figurapolitica israeliana determinata aportare avanti questo compli-cato processo, facendo storcereil naso soprattutto agli ambientipolitico-religiosi più ortodossi.Il ritorno al potere di falchicome l'ex generale Ariel Sharon– macabro protagonista delmassacro di Sabra e Shatilanegli anni Ottanta – o l'attualepremier Benyamin Netanyahunon hanno fatto altro che ina-

sprire lo scenario. Quel che ècerto è che non cambia mainulla, basta dare un'occhiataagli articoli dedicati alla que-stione da 20 anni a questa parte:bombardamenti cui fanno se-guito copertura mediatica e in-dignazione generalizzata, poi laquestione israelo-palestinese fi-nisce immancabilmente nel di-menticatoio sino alla successivacarneficina. In buona sostanza,per riguadagnare le prime pa-gine occorre una "OperazionePiombo Fuso" qualunque. Acambiare, in tutti questi anni,sono stati soltanto i confini(molto differenti rispetto aquelli previsti nella risoluzioneOnu del 1947), le dimensioni didue realtà geopolitiche davveroinconciliabili, così come l'igna-via degli organismi internazio-nali è inconciliabile con unasoluzione condivisa del pro-blema.

Si alternano gli attori, ma noncambia il racconto del conflitto traIsraele e palestinesi: lo abbiamoripercorso attraverso le firme piùimportanti del giornalismo

di Pasquale Raffaele

sprire lo scenario. Quel che ècerto è che non cambia mainulla, basta dare un'occhiataagli articoli dedicati alla que-stione da 20 anni a questa parte:bombardamenti cui fanno se-guito copertura mediatica e in-dignazione generalizzata, poi laquestione israelo-palestinese fi-nisce immancabilmente nel di-menticatoio sino alla successivacarneficina. In buona sostanza,per riguadagnare le prime pa-gine occorre una "OperazionePiombo Fuso" qualunque. Acambiare, in tutti questi anni,sono stati soltanto i confini(molto differenti rispetto aquelli previsti nella risoluzioneOnu del 1947), le dimensioni didue realtà geopolitiche davveroinconciliabili, così come l'igna-via degli organismi internazio-nali è inconciliabile con unasoluzione condivisa del pro-blema.

La Palestina con il fucile in spalla

Tutte le civiltà d’Europa e del MedioOriente hanno piantato un albero sulla

terra palestinese e il palestinese si è nutrito deisuoi frutti. In mezzo a un gruppo di gente chediscute, il palestinese si riconosce a prima vistapoiché dice sempre cose valide e interessantianche quando non ha ragione.

Al mondo ci sono tre milioni di palestinesi,ma il loro peso e la loro influenza non sonomisurabili in cifre. Metà di essi vegeta neimiserabili campi profughi, ma l’altra metà èsparpagliata in tutti i paesi del Medio Oriente,dove occupa posizioni importanti: consiglieri dipresidenti e ministri, capi di grandi imprese edi università. I palestinesi appartengonoall’elite culturale del mondo arabo. Sonoeccellenti architetti e medici, ottimi economistie commentatori. I palestinesi risparmierannoogni centesimo ( quelli che i soldi ce li hanno,ovviamente) per investirli nell’istruzione deifigli. Sono ambiziosi. Spogliati della patria e diuno stato proprio, lottano per l’avanzamentoindividuale nei paesi in cui è toccato lorovivere. Aspirano a essere saggi consiglieri,esperti insostituibili, specialisti in politica, ineconomia e nella propaganda.

Si conoscono gli uni con gli altri, sanno dovesta e che cosa fa ciascuno di loro. Il palestinesedel Libano vi darà una lettera per uno delKuwait, questi ve ne darà una per unpalestinese dello Yemen che, a sua volta, viraccomanderà a uno della Libia. E così, dipalestinese in palestinese, potrete girare l’interoMedio Oriente sempre ben accolti e ben

Ci sono tre milioni dipalestinesi, ma il loro peso non

è misurabile. Metà sono neicampi profughi, metà è

sparpagliata in Medio Oriente

Chi sono i palestinesi e perché Israele non li digerirà mai.Kapuscinski tracciava nel 1975 l’anatomia di un popoloincompreso, bersagliato e semplificato dalle cronache

di Ryszard Kapuscinski

informati sulla situazione. Dire che i palestinesigovernino il Medio Oriente è ovviamente falso:certo è, però, che chiunque sottovaluti la loroinfluenza sui destini mediorientali commetteuno sbaglio. Israele avrebbe vita molto più facilese il suo diretto avversario non fossero ipalestinesi. Un osso duro.

Condividono la caratteristica di tutti i semiti:la passione per le discussioni. La mente delpalestinese lavora a velocità vertiginosa e senzaun attimo di sosta, Si dice che, al caffè, ilpalestinese chieda al cameriere:«Per favore, uncaffè e qualcuno con cui discutere».

Il palestinese ha bisogno di esprimersi, diprendere a tutti i costi una posizione, altrimentista male. Una caratteristica che è anche la causadelle divisioni in seno al movimento palestinese.La minima differenza d’opposizione scatena lepassioni più furibonde e le lotte più accanite.Bisogna aspettare che torni la calma e che tuttiammettano, per metà contenti e per metàimbarazzati, che in realtà non c’era bisogno dilitigare.

«Ha passione per lediscussioni: la mentedel palestinese lavora

senza sosta»

Il palestinese ha bisogno di esprimersi, di prendere a tutti i costiuna posizione, altrimenti sta male. Una caratteristica che è anche lacausa delle divisioni in seno al movimento palestinese

La difficile pace tra arabi ed ebrei

La strada che da Gerusa-lemme porta a Betlemme

corre per alcuni chilometri, amezza costa, lungo una cortinadi filo spinato. Dietro di essa, allanostra destra, sulla cresta dellacollina, stanno i soldati israeliani;alla nostra sinistra, sulla collinadi fronte, quelli giordani. Raresono le automobili, rari i pas-santi. Il paesaggio è arido, pie-troso, come di terra bruciata.Vien voglia di dire all’autista diaccelerare, poiché la sensazionedi trovarsi tra due fila di fucilinon è piacevole. l’uomo che ècon me - una guida di profes-sione - mi racconta che otto annifa abitava dall’altra parte dove halasciato la casa e il resto della fa-miglia. Non ha mai potuto an-darvi, né i suoi hanno potutoraggiungerlo. Alcuni giorni ad-dietro, da un prete cattolico chedi tanto in tanto riesce a comu-nicare con un suo confratello cheabita in territorio israeliano hasaputo che una sua sorella è gra-vemente malata. Ha chiesto un

lasciapassare di poche ore per an-dare a vederla. Gli è stato rifiu-tato. Se la sorella morirà, aduecento metri di distanza inlinea d’aria, dall’altra parte delfilo spinato, egli non lo saprà chedopo molti giorni, forse dopomolte settimane. Questa è Geru-salemme, una città in mezzo allaquale passa il confine più impe-netrabile che divida una nazioneda un’altra: un milione di rifu-giati arabi di Palestina, che vi-vono nei campi di raccolta inGiordania, in Siria, in ArabiaSaudita e in Egitto, da otto anninon sognano che di attraversarloper riguadagnare la loro terra diorigine.

All’inizio, quando questi uo-mini furono costretti a lasciare leloro terre e loro si pensò, forseche nel giro di pochi anni essi sa-rebbero stati organicamente as-sorbiti dai Paesi nei quali si eranorifugiati. Avrebbero trovato unlavoro, una nuova casa e sareb-bero alla lunga diventati cittadinidi un altro Paese: una genera-

«Un milione di profughi arabi dellaPalestina vivono nei campi diraccolta». È il 27 aprile del 1957 eIsraele invadeva l’Egitto

di Alberto Jacoviello

zione, si disse, sarebbe bastataper cancellare il problema dei ri-fugiati arabi di Palestina. Non èstato così. Nei campi di raccoltaessi hanno continuato a vivere,nella grande maggioranza, dellapiccola assistenza fornita dal-l’Onu. Con il passare degli anni,le tende si sono trasformate inbaracche, in case di fango e icampi sono diventati quartieri,villaggi. I nuclei familiari si sonoestesi, le bocche da sfamare sisono moltiplicate. Solo una pic-colissima parte ha trovato lavoro.Per gli altri non v’è alcuna pro-spettiva: le strutture economiche

dei Paesi che li ospi-tano sono troppodeboli perché pos-sano assorbirli. Nelfrattempo, ognitraccia della vitaprecedente, al di làdel filo spinato, èstat cancellata: leterre degli arabisono state coltivate

dagli israeliani, i quali hannosconvolto i metodi di condu-zione e i rapporti di proprietà, lecase ospitano altri nuclei fami-liari, la legislazioneè stata modi-ficata, la base stessadell’economia è stata trasfor-mata. Un milione di arabi di Pa-lestina - un numero, cioè,equivalente, all’intera popola-zione originaria della Giordania- hanno perduto una patria e non

ne hanno trovata un’altra.

GHETTO ALLA ROVESCIA

Al momento dell’invasione delSinai, nell’ottobre scorso, gliisraeliani proposero una solu-zione parziale affermando che seil territorio egiziano da essi oc-cupato fosse stato incorporatonello Stato di Israele, i 300milarifugiati che vivono a Gazaavrebbero potuto rimanervi e di-ventare cittadini israeliani. Ma sitrattava di una soluzione chenessun uomo di governo araboavrebbe potuto accettare. Primadi tutto perchéIsraele, a questomodo, avrebbe an-cora esteso il suoterritorio a spesedegli arabi; in se-condo luogo perchéi precedenti diIsraele, in questamateria, sono pes-simi. Alcuni anni orsono, nel corso di un viaggiodall’altra parte del filo spinato,rimasi dolorosamente colpitodalle condizioni in cui vivevanello Stato di Israele la mino-ranza araba. Nelle città come TelAviv e Haifa i quartieri arabierano una sorta di ghetto alla ro-vescia. Coloro che vi abitavanonon si azzardavano a uscire, e perspostarsi da una città all’altraavevano bisogno di uno speciale

Con il passaredegli anni letende si sonotrasformate inbaracche e icampi sonodivenuti quartieri

Un milione diarabi di Palestina

hanno perdutouna patria e non

ne hanno trovataun’altra come

previsto

permesso della polizia. I lavora-tori arabi erano pagati metà deilavoratori ebrei e così via finoalla carta di identità sulla qualeera marcata a stampatello l’ini-ziale della parola ”arabo”. Ebbi

l’impressione, a volte, che i diri-genti di Israele applicassero agliarabi le stesse misure di persecu-zione che gli ebrei avevano su-bito nella Germania di Hitler.Non risulta che la situazione siamutata da allora.

DIFESA E ATTACCO

Da Tel Aviv si continua a ripe-tere, da anni, che si è pronti allapace. Ma su quale base? I governiarabi avanzano sostanzialmente

tre rivendicazioni: ritorno deiconfini di Israele nei limiti fissatidall’Onu nel 1947, sistemazionedei rifugiati arabi nelle terre diorigine, arresto dell’immigra-zione ebraica in Israele. Tel Avivnon è disposta a discutere nes-suna di queste rivendicazioni;consetirebbe soltanto a parteci-pare in una certa misura alla ero-gazione di aiuti per i rifugiati. Inqueste condizioni, la pace era giàdifficile prima dell’aggressione diottobre. Dopo, è diventata estre-mamente problematica. La cam-pagna del Sinai, infatti, ha avuto,oltretutto, un valore di confermadell’opinione corrente nelle ca-pitali arabe: e cioè che per i diri-genti di Israele la questioneessenziale è quella di impedire losviluppo dell’economia dei Paesivicini. L’alleanza tra Tel Aviv e

I lavoratori arabi erano pagati metàdei lavoratori ebrei e così via finoalla carta d’identità su cui era scrittal’iniziale della parola “arabo”

«Da Tel Aviv si continua a ripetere da anni chesi è pronti alla pace. Ma su quale base? Se

Israele per difendersi continua ad attaccare?»

Parigi ha radicato ancora di piùquesta opinione, per cui oggi nonv’è uomo politico di questa parteche non veda in Israele una testadi ponte dell’imperialismo nelmondo arabo. È difficile far pas-sare questa opinione per il fruttodi una ostilità preconcetta. i fattisono quelli che sono: se è veroche per alcuni governi arabi lapresenza di Israele è un motivodi divisione, nessuno può conte-stare che mentre il territorioisraeliano non è stato mai invasodagli arabi, gli israeliani, dopoessersi insediati con le armi interritorio arabo, cacciandone gli

abitanti, a distanzadi otto anni hannooccupato una partedel territorio egi-ziano. Da Tel Aviv si ri-

batte, sebbene inlinea non ufficiale,che per lo Stato diIsraele non v’è oggipossibilità di difesa

al di fuori dell’attacco, visto chei Paesi arabi tendono a rafforzarei loro eserciti rendendo reale evicina la prospettiva temuta diun assalto generale e decisivo.Ma questo non fa che portarenuovi argomenti alla tesi di co-loro i quali ritengono che l’o-rientamento dei dirigenti diIsraele coincide obiettivamentecon l’interesse delle grandi po-tenze imperialiste a impedire la

completa emancipazione dei po-poli arabi. E del resto lo Stato diIsraele si è armato ben prima chei Paesi arabi abbiano potutofarlo. Attualmente Tel Avivmantiene sotto le armi 80milauomini, che possono diventare350mila nel giro di ventiquattroore: si tratta di una forza la quale,per il suo armamento e per la suaorganizzazione, è probabilmenteancora oggi la migliore e la piùpotente che vi sia in questa zonadel mondo, grazie anche al fattoche viene costantemente rinfor-zata in virtù degli accordi segretitra Francia e Israele. Gli israe-liani quando si con-testa loro questofatto rispondonoche essi non pote-vano affidare la si-curezza del loroPaese alla buona di-sposizione dei Paesiarabi . E avrebberoperfettamente ra-gione se la questionenon avesse mai varcato i limitidel diritto di ogni Paese ad avereun esercito nazionale. Ma, a parte il fatto che lo stesso

diritto non può essere contestatoagli altri, questi limiti sono stativarcati con l’attacco all’Egittoche ha rappresentato un esempiopratico della forza e dell’in-fluenza che hanno in Israele lecorrenti politiche che hannosempre pensato che l’unico

Tre sono lerivendicazionidei governi arabi:ritorno deiconfini di Israelenei limiti fissatidall’Onu

E poi lasistemazione deirifugiati nelleterre di origine el’arrestodell’immigrazionebraica in Israele

modo di “negoziare” con gli arabifosse quello di riserbare loro untrattamento di choc: una “spedi-zione punitiva” attuata di tantoin tanto, in modo da costringerei Paesi arabi vicini a rimanere

continuamente impegnati nellacura delle ferite subite. È veroche una parte importante dellasinistra israeliana non è su questeposizioni. Ma è altrettanto veroche come non ha avuto la forzadi impedire l’attacco all’Egitto,così essa non riesce a esprimeree a imporre un orientamento chepossa essere considerato una ga-ranzia di rinuncia all’attivismomilitare, all’espansionismo e allapsicosi antiaraba che costitui-scono le principali caratteristiche

dello Stato di Israele. Al fondodelle quali, per dire le cose conchiarezza, sta il disegno origina-rio di gruppi importanti della so-cietà israeliana, ancora oggi allatesta della nazione, di fare delloro Paese l’unico moderno diquesta zona del mondo, in mododa assicurare alle sue industrie,per lungo tempo, un vasto mer-cato a portata di mano.

GLI ACCORDI SEGRETI

È precisamente a questo dise-gno che Israele deve rinunciare,in modo convincente e defini-tivo, perché vengano assicuratele condizioni preliminari dellapace e della convivenza con iPaesi arabi vicini. Un primopasso potrebbe essere costituitodalla abrogazione degli accordi

«Riserbare loro un trattamentochoc: una “spedizione punitiva” ditanto in tanto, in modo dacostringere gli arabi impegnati»

Al fondo di tutto sta il disegno orginario digruppi importanti della società israeliana: fare

del loro Paese il più avanzato della zona

segreti con la Francia, il che po-trebbe facilitare, tra l’altro, ilraggiungimento di un accordotra le grandi potenze per la ces-sazione delle forniture di armi aiPaesi del Medio Oriente. È evi-dente che un gesto di questo ge-nere richiede una certa dose dicoraggio da parte di Israele, poi-ché comporta un margine di ri-schio. È un fatto che Israele haaggredito l’Egitto: tocca dunquea Tel Aviv compiere il primopasso verso la pace. E d’altraparte, una modificazioneprofonda dell’attuale politicaestera di Israele è una necessità

storica. Non è piùrealistico coltivarel’illusione che sipossa impedire aPaesi come l’Egitto ela Siria di avere unapropria base indu-straiale, una strut-tura economicamoderna, un eser-cito nazionale. Col-

tivare una tale illusione vuoledire in definitiva ritenere chel’unica soluzione possibile deirapporti tra arabi e israelianidebba essere quella che prevedeuna “spiegazione” militare deci-siva e definitiva. Ma non è certoche Israele, su questo terreno,debba avere la meglio. Molti fattori, dunque, e di peso

rilevante, indurrebbero Israele aimboccare la strada della ragio-

nevolezza. Purtroppo non visono ancora segni che a Tel Avivle cose vengano viste in questomodo. L’intrigo a fianco delle po-tenze colonialiste, i tentativi didivisione del mondo arabo, latendenza a tenere continua-mente accesa, in questa zona delmondo, la minaccia della guerrasembrano essere i binari sui qualila politica estera di Israele conti-nua a camminare. Una grandeazione di mobilitazione degliisraeliani sparsi per il mondo po-trebbe forse riuscire a modificareun tale orientamento. È in ognicaso una strada da tentare daparte di coloro iquali, pur condivi-dendo le ragioni chehanno portato allafondazione delloStato di Israele, sonosinceramente inte-ressati a ricercare lebasi di una pacificaconvivenza tra arabie israeliani.

Non è piùrealisticocoltivarel’illusione che sipossa impedire lamodernizzazionedei Paesi arabi

La minaccia dellaguerra è il

binario sul qualela politica estera

di Israelecontinuerà acamminare

La guerra di vent’anni a HebronIndagine in Cisgiordania tra previsioni e paure: la classepolitica israeliana sembrava lontana dall' idea d un verocompromesso con i palestinesi. Ed era il 1985

Sino a ieri, quel che ci veniva negato dai governi e dallamaggioranza della società israeliana erano i nostri diritti politici.Ma oggi quel che entra in gioco è la nostra stessa esistenza

di Sandro Viola

Ci sono stati un paio d'attentati contro i co-

loni ebraici, negli ultimigiorni, e sulla strada tra Ge-rusalemme e Hebron s' in-contrano vari posti diblocco dell'esercito israe-liano. La scena mi è con-sueta. L' occupazioneisraeliana è entrata nel di-ciannovesimo anno, ormaisfiora il ventennio, e leprime volte che su questestrade incappavo in una filad' automobili arabe perqui-site dalle pattuglie d'Israele,ero ancora un giovane gior-nalista. Dopo tanto temposolo io sono cambiato, conquesti vent'anni di più sullespalle. Il resto, nelle terre aovest del Giordano, è iden-tico ad allora. I vecchi con-tadini palestinesi checaracollano sui somari, i fi-lari polverosi delle vigne, ilbiancore dei muri a secconella grande calura dellaGiudea, e i posti di blocco

israeliani. I palestinesi chemostrano i documenti, i sol-dati che ispezionano le au-tomobili mentre il restodella pattuglia sorveglia lascena con i mitra imbrac-ciati, il po' di nervosismoche affiora sempre durantequesti controlli. Un esercitostraniero, un paese occu-pato. Sino a quando? È quelche cerco di capire aggiran-domi ancora una volta - l'ho fatto quasi ogni anno, dal1967 in poi - tra Israele e iterritori occupati. Sono igiorni della Id el-Adha, lagrande festa musulmana delPellegrinaggio, e nel "suk"di Hebron le radio trasmet-tono a tutto volume le pre-ghiere della Mecca. Le vociconcitate dei "muezzin", irumori del mercato, ilrombo d' un elicottero chevola non lontano e piuttostobasso, si fondono in un granfrastuono. Ma lì dove vadoa trovare i miei interlocu-

tori palestinesi (un negoziod' elettrodomestici, l' ambu-latorio d' un medico, gli uf-fici dell' azienda degliautobus), il rumore giungeattutito. I ventilatori muo-vono l' aria, il caffè è eccel-lente come sempre aHebron. Allora - chiedo -sino a quando durerà l' oc-cupazione? «A giudicare dalcomportamento degli israe-liani», risponde uno, «po-trebbe durare altri vent'anni. Nei giorni scorsi ungruppo di deputati d'un par-tito di destra, il Tehiya, s'erainsediato in una casa della"casbah", nel cuore dellavecchia Hebron. Questacittà è uno dei massimi luo-ghi di culto dell' Islam, laprovocazione era clamo-rosa. Allora, per evitare in-cidenti, l' esercito hacircondato la zona. I palesti-nesi della "casbah" non po-tevano entrare né uscire.Ma la sera arrivavano dall'insediamento di KiryatArba, qui vicino, gli ebreiortodossi del Gush Emu-nim, e tutt' intorno alla casaoccupata cantavano i lorosalmi, danzavano le lorodanze religiose. l' esercito,naturalmente, non interve-niva...». Dice un altro: «Èvero che dopo una setti-mana il governo - o per me-

glio dire il primo ministro,Shimon Peres - ha convintogli occupanti ad andarsene.Ma l'altra metà del governos'è scatenata, da Shamir aSharon ad Arens, per nonparlare della destra estrema,politica e religiosa, riba-dendo il diritto millenariodegli ebrei su queste terre.L'impressione è che qual-cuno cerchi l' incidentegrosso, magari un paio dimorti, per dar fuoco allepolveri. L'aggressività dellasocietà israeliana nei con-fronti degli arabi non fa checrescere. Non è un caso chegli esperti diano in forteascesa un solo partito,quello del rabbino Kahane,che l'anno scorso ebbe unsolo seggio in Parlamento,mentre oggi, secondo i son-daggi, ne otterrebbe addirit-tura undici. Bene, qual è ilprogramma di Kahane? Leilo sa: «via gli arabi da Israelee dai territori occupati».Anche la sequenza di questiincontri mi è familiare. Ilgarbo della piccola borghe-sia palestinese, l'aroma squi-sito del caffè, l'amarezza deidiscorsi. La violenza covaforse nel fondo degli animi,ma non s'esprime. È quandosalgo su un taxi in Israeleche molto spesso, se l'autistaprende a parlare degli arabi,

colgo gli accenti dei salmi-sti: «Spezza, oh Dio, i dentinelle loro bocche». Ma tra ipalestinesi - dalla Gerusa-lemme araba a Hebron, daGerico a Nablus - l'intona-zione violenta è rarissima.Del resto gli uomini con cuiparlo sono, sul versante ci-sgiordano, personaggi pres-soché ufficiali. Quandoqualche mese fa l'ammini-strazione Reagan cominciòa studiare l'eventualitàd'una apertura di colloquiocon una delegazione mista,giordano e palestinese, tredi loro vennero convocati aGerusalemme da RichardMurphy, sottosegretario diStato per il Medio Oriente,ad esporre opinioni e richie-ste circa una possibile solu-zione del problema deiterritori occupati. Ciascunodi essi è legato all'Olp, gliisraeliani lo sanno benis-simo: ma allo stesso tempocostituiscono l'ala più mo-derata del nazionalismo pa-lestinese, la più possibilista,la più distante dalle intran-sigenze del gruppo pro-si-riano di Abu Mussa. Così, ametà agosto, quandoMurphy fece la spola traAmman e Gerusalemme (eper qualche giorno sembròche si stesse giungendo alprimo contatto ufficiale tra

il governo americano e l'Olp), questi uomini hannovissuto una vigilia carica ditensione. Dopo tanti anni,sembrava aprirsi per laprima volta uno spiraglio dinegoziato. Una mediazioneamericana era finalmente inatto, qualcuno già intravve-deva in prospettiva il ritiroisraeliano. «Invece», rac-conta Hanna Siniora, «è fi-nita in una bolla di sapone».Direttore d'uno dei giornaliarabi di Gerusalemme, "ElFajd", Siniora avrebbe do-vuto essere uno degli inter-locutori di RichardMurphy. Non solo, infatti,egli figurava nella lista delladelegazione palestinese sti-lata da Arafat e da re Hus-sein; ma dei sette membri diquella lista, soltanto lui e unaltro - l'avvocato Faez Abu-rakem - avevano ricevuto il"placet" degli israeliani.Certo, giordani e palestinesis' erano rifiutati di cambiaregli altri cinque nomi delladelegazione, così come pre-tendeva il governo Peres.Ma l' incontro di Ammanera tra il governo degli StatiUniti da un lato e i gior-dano-palestinesi dall' altro:il veto israeliano, come ave-vano fatto capire gli stessiamericani, era quindi inac-cettabile. Hussein e Yassir

Arafat avevano accolto la ri-chiesta di Washington dinon includere nella lista"membri noti" dell' Olp,altro non avrebbero potutofare. «L' importante», spiegaSiniora, «era che l' incontroavvenisse. Che si saltasse fi-nalmente l'ostacolo rappre-sentato dall'assenza dirapporti tra America e pale-stinesi. Poi poteva succe-dere di tutto. Noichiedevamo che gli StatiUniti riconoscessero il di-ritto dei palestinesi all' au-todeterminazione, e incambio avremmo accettatole risoluzioni 242 e 338 dell'Onu che significano il rico-noscimento dello Stato d'Israele. Quante cose pos-sono venir fuori da una di-scussione, da un confrontoaperto... Invece gli ameri-cani hanno fatto marcia in-dietro». «No, a bloccare ildialogo non è stata la que-stione dei membri della de-legazione palestinese.Murphy s' è impuntato sulproblema della "secondafase" del negoziato. Vale adire: eravamo pronti, gior-dani e palestinesi, ad apriresubito dopo l' incontro conMurphy un negoziato "di-retto" con Israele? A questonoi non siamo pronti, e lacosa è stranota da sempre.

Un negoziato triangolare traAmerica, Israele e giordanopalestinesi richiederebbeuno spirito, una visione dineutralità da parte degliamericani. Ma gli Stati Unitinon sono neutrali, in questaparte del mondo: il loro rap-porto con Israele è troppoprofondo e complesso. Eccoperché noi accettiamo sì ditrattare "direttamente" conIsraele, ma nel quadro, sottogli auspici d'una Conferenzainternazionale». «È stato aquesto punto», conclude Si-niora, «che sono prevalse lepressioni del governo israe-liano su Washington. Gliamericani hanno rinunciatoa fare anche il primo passo,e cioè l' inizio dei colloquicon noi e i giordani. Eppurenon c'è mai stato un mo-mento più favorevole diquesto per avviare una trat-tativa. La maggioranza deipalestinesi (l'80 per centonei territori occupati) di-sposta a molte concessionipur d'arrivare al ritiro diIsraele dalla Cisgiordania.La maggioranza dei Paesiarabi - come s'è visto al ver-tice di Casablanca, sia purein mezzo alle solite ambi-guità - favorevole al pianodi pace giordano-palesti-nese. Negli Stati Uniti unPresidente di "second term",

che non dovendo più ripre-sentarsi può resistere meglioalle pressioni delle "lobbies"pro-israeliane. In Urss, unanuova leadership che sem-bra decisa a rettificare varielinee della sua politicaestera... Il fatto è che non c'è molto tempo da perdere,restano sì e no sette o ottomesi. O in questo lasso ditempo Shimon Peres sistacca dal governo con ladestra, o a settembre '86 cisarà la rotazione, Shamir oSharon o Arens siederannosulla poltrona di primo mi-nistro, e allora ogni nego-ziato diventeràimpossibile...». «La verità»,dice un altro dei miei inter-locutori mentre arriva unvecchio caffettiere con inuovi caffè, «è che lo sfondodella questione non fa chedeteriorarsi. Sino a ieri, quelche ci veniva negato dai go-verni e dalla maggioranzadella società israelianaerano i nostri diritti politici.Ma oggi, con la crescitadella destra più estrema,mentre i sondaggi mostranoche il 40 per cento degli stu-denti di liceo è per le tesidel rabbino Kahane, quelche entra in gioco è la no-stra stessa esistenza di indi-vidui, non di nazione. Ionon so se dietro a Kahane si

formerà mai una maggio-ranza degli israeliani, se ilfenomeno è duraturo o pas-seggero. So però che i mieifigli cominciano a temereche un giorno o l'altro gliisraeliani potrebbero espel-lerci da Hebron e dal restodella Cisgiordania. D' al-tronde non sono solo i mi-stici delle scuole talmudicheo i razzisti alla Kahane, cheparlano d'espulsione. Anchetra i laburisti c' è gente checontinua a lanciare lo slo-gan "Jordan is Palestine", lavera Palestina è la Giorda-nia: come a dire che la solasoluzione del problema èche i palestinesi prendano leloro cose e si trasferiscanooltre il Giordano...». Esagerazioni propagandisti-che, la lamentosità dei po-poli sottomessi, l'amaro divent'anni di attese semprefrustrate? Non direi. Fossiun palestinese di questeparti, immagino che il miostato d' animo non sarebbediverso. Infatti, così come sipresenta ancora oggi (aparte qualche segno in posi-tivo, ma labile, sfuggente, dicui parlerò più avanti) laclasse politica israelianasembra lontana dall' idea d'un vero compromesso con ipalestinesi. A Gerusalemmeincontro, per esempio,

«C’è di mezzo lasicurezza d'Israele.Perdere il controllo deiterritori è impossibile»

Moshe Arens, e per primacosa mi sento contestare l'e-spressione "territori occu-pati". Ministro senzaportafoglio del governo di"grande coalizione", ex mi-nistro della Difesa, ex amba-sciatore a Washington eoggi in corsa con Shamir eSharon per la leadership delLikud, Arens è senza dubbiouno dei personaggi di mag-giore spicco della scena po-litica israeliana. «Se leiintende», mi spiega, «cheIsraele occupa un territoriogiordano, si sbaglia comple-tamente. Quei territori nonerano giordani, la monar-chia hascemita se li era an-nessi nel ' 48 come risultatodella prima guerra arabo-israeliana. Per il diritto in-ternazionale, quindi, ilWest Bank non apparte-neva a nessuno...». «Quantoalla questione d'un nostroritiro», prosegue il ministro,«qui c' è di mezzo la sicu-rezza d' Israele. Perdere ilcontrollo di quei territori -le ricordo soltanto cosa si-gnificherebbe rinunciarealle colline intorno a Geru-salemme - è impossibile.Questo per non parlare deidiritti storici di Israele sullariva occidentale del Gior-dano. Un compromesso? Cisono gli accordi di Camp

David, che prevedonoun'autonomia palestinese inCisgiordania. Il mio partitoed io restiamo legati a que-gli impegni. Gli arabi rifiu-tano? Beh, ci sono volutitrent'anni e quattro guerreper fare la pace con l' Egitto,vuol dire che possono tra-scorrere altri dieci anni pertrovare una soluzione alproblema del West Bank. Ese poi l' accordo non si do-vesse raggiungere non vedocos'altro si potrebbe faresalvo che incorporare i ter-ritori nello Stato d'Israele».Se un uomo di grande espe-rienza politica come MosheArens, laico, può avere unavisione così rigida del pro-blema, la rigidità diventaancora più profonda ed in-quietante in quella nuovaondata religiosa, anzi nazio-nal-religiosa, che è oggi ilfenomeno centrale nella so-cietà israeliana. In questomondo a forti tinte misti-che, etnocentrico - per nondire sciovinista - la solachiarezza sta nel comanda-mento di Abramo: la terrad'Israele al popolo d' Israelesecondo la legge d' Israele.Qualche sottile spiraglio, unlinguaggio più elastico, sicolgono soltanto nei din-torni dell'ufficio di ShimonPeres. Dice un consigliere

Una sola certezza: laterra d'Israele al popolo

d' Israele secondo lalegge d' Israele

«D' accordo, le concedo che non ci sonoper ora gli elementi concreti d' unnegoziato. Ma i "tempi" del Medio

Oriente non sono i tempi consueti dellapolitica internazionale»

del primo ministro: «Quelche potevamo, lo abbiamofatto. Ci siamo ritirati dalLibano, per esempio, men-tre fosse stato per gentecome Arens saremmo an-cora lì. In dieci mesi, nonabbiamo consentito un solonuovo insediamento nelWest Bank. Ora dovremoconcedere qualcosa alLikud, ma la politica degliinsediamenti com'era neglianni scorsi è finita. Il Likudci chiede - di fronte alla ri-presa terroristica in Cisgior-dania - la pena di morte emisure di repressione mas-siccia, ma noi stiamo fa-cendo di tutto per evitarle.D' accordo, le concedo chenon ci sono per ora gli ele-menti concreti d' un nego-ziato. Ma i "tempi" delMedio Oriente non sono itempi consueti della politicainternazionale. Sono moltopiù lenti, ci vuole una granpazienza...». Questo è il me-glio che si possa ascoltaresul versante della classe po-litica israeliana, e certo -contro il coro annessionistadella destra - è già qualcosa.Ma è un qualcosa che nonpuò essere sopravvalutato,su cui sarebbe cieco basareuna speranza effettiva d'uscita dall'impasse. Il pro-blema resta quello di sem-

pre: esiste una maggioranzaisraeliana disposta a faredelle concessioni in cambiodella pace, a scambiare i ter-ritori occupati con la pace?In questi vent' anni diviaggi in Medio Oriente, larisposta che trovavo erasempre negativa: no, quellamaggioranza non esisteva. Enon esiste, da quel che sentoe vedo, neppure oggi.

Esiste una maggioranzaisraeliana disposta a fare

delle concessioni incambio della pace? No.

Come La peste di CamusLa soluzione militare non può persistere. Si sapeva nel

1987 e già appariva assurda l’assenza di passi avanti

L'insurrezione s' è accesaper una settimana nei ter-

ritori occupati d' Israele. Puòdarsi che si spenga presto, do-mata dall' esercito. Ma si ricono-sce che il movimento non haprecedenti nella striscia di Gazae in molti centri cisgiordani. As-salti, bottiglie molotov, barri-cate, morti, feriti, coprifuoco,hanno dato una dimensione

nuova all' annoso conflitto.Dopo il terrorismo intermit-tente, è apparsa la marea dellarivolta uniforme e compatta:qualcosa che merita riflessionidiverse. Sono passati vent' annigiusti dalla guerra dei sei giorniche, nel '67, diede inizio all' oc-

cupazione di queste zone. Moltidi noi videro le offensive diKahan Yunis, di Rafah, di He-bron, le veloci battaglie nellapolvere, approvando la legittimadifesa d' Israele contro l' accer-chiamento panarabo. Ma questaè una ragione di più per ripetereche Israele non può persisterenel dare una soluzione solo mi-litare al problema che allora siaprì. Vent' anni sono molti. Pro-prio mentre Reagan e Gorbaciovfirmano acconti di pace in nomedella ragione e del buon senso,appare ancora più assurdo cheIsraele non sappia compiere unpasso avanti. Povere Gaza, Be-tlemme, Nazareth. Vent' annidopo, ancora un Natale diguerra. La pretesa del capo delgoverno Shamir è che siano scesiin piazza criminali e teppisti. Lasua tesi è che non ci sia som-mossa, guerra civile, insurre-zione popolare, ma solosedizione legata al terrorismoche sfrutta la mitezza israelianaperché l' esercito si sforza di nonfare vittime. Ma lo contraddi-cono persino gli americani, e Ri-chard Murphy condanna un'occupazione dura, che non cor-risponde sempre alle norme in-

di Alberto Cavallari

ternazionali. La stampa dice lestesse cose. Hediot Aharonotscrive che i territori occupatisono in fiamme perché la genteè stanca. Ad Hadashot denunciail fallimento della politica delpugno di ferro mai accompa-gnata da scelte politiche. PersinoAbba Eban sostiene che l' eser-cito potrà certo normalizzare lapiazza, ma la soluzione non èquesta. Secondo lui la gente sisente chiusa in una trappolasenza via d' uscita perché havisto fallire tutte le soluzioni po-litiche, tutte le speranze, e perquesto insorge. Una diagnosiperfetta. “Trappola” è l' espres-sione giusta per parlare dei ter-ritori occupati. Tutti vi sonochiusi dentro, arabi e israeliani.Ma in vent' anni tutto è statofatto per consolidarla invece dismontarla. L' occupazione mili-tare l' ha creata e rafforzata. Gliinsediamenti israeliani l' hannoresa esasperante. La promessa disoluzioni politiche, sempre rin-viate e sempre fallite, l' ha riem-pita di rabbia, di odio,rendendola invivibile. Aveva ra-gione Rabbin, generale intelli-gente che deve svolgervi il tristeruolo del carceriere. Due anni fami descrisse la situazione ricor-dando La peste di Camus. Ognicittà somiglia ormai all' immagi-naria Orano dove il contagio in-fetta malati e medici. Anche chilotta per vincerlo ne diviene vit-

tima. Rabbin concluse: Abbiamolasciato marcire il problema spe-rando che si risolvesse da solo:ma un giorno ci accorgeremo diessere tutti infetti. E' noto per-ché la trappola sia diventatasenza via di uscita. Anzitutto,per la spaccatura interna d'Israele, diviso in due, incapacedi risolvere la propria crisi. Metàdel paese vorrebbe lo sgomberodei territori occupati, la ricerca

di soluzioni politiche, con fede-razioni, autonomie, formulemiste. Metà paese vorrebbe laconquista definitiva, l' annes-sione, almeno lo statu quo. Cosìla contrapposizione porta all'immobilismo, al rinvio, ai go-verni di staffetta che reciproca-

“Trappola” è l' espressione giusta per parlaredei territori occupati. Tutti vi sono chiusi

dentro. Ma in vent' anni tutto è stato fatto perconsolidarla invece di smontarla

mente annullano le iniziativeprese, e intanto muoiono tutte lepossibilità di negoziato. Si è ag-giunta poi, con la guerra Iran-Iraq, la famosa speranza delcinismo. Finché gli arabi si dila-niano tra di loro, Israele puòaspettare per trattare meglio. Maintanto la gabbia diventa semprepiù stretta. In secondo luogo, c'è il contesto internazionale. Essoè mutato, consente a Israele an-

cora più inerzia e più immobi-lità. Infatti, la questionepalestinese non è più nel ventodella storia da quando quella ira-niana domina il Medio Oriente.Al recente vertice di Amman ilproblema centrale non è stato ilnemico sionista ma la guerra

Iran-Iraq. Al summit Reagan-Gorbaciov, si è parlato del Golfoe dell' Afghanistan, mai dellapolveriera sul Giordano. Permolti versi, anche la crisi dell'Olp contribuisce a sua volta a farmarcire il problema, essendomeno urgente la sua internazio-nalizzazione. Così è finita l'epoca delle febbrili triangola-zioni di Amman, delle media-zioni egiziane, delle spinteinternazionali. La trappolalungo il Giordano è sempre piùuna tetra prigione bilaterale. Fa-stidiosa, pericolosa, ma che puòessere trascurata. La conse-guenza è che si fanno adesso dueipotesi per la questione palesti-nese. La prima è che i due grandihanno ormai lo sguardo rivoltoaltrove, al Golfo e all' Afghani-stan, e che daranno definitiva-mente la priorità alla piaga delfondamentalismo islamico kho-meinista. Infatti, Washingtonavrebbe scoperto che l' Urss ha,in Afghanistan, un' azione fre-nante contro il khomeinismoche contagia le sue regioni isla-miche. Mosca avrebbe scopertoche questa azione frenante l'hanno pure gli americani nelGolfo. Così tendono entrambi acogestire le due questioni facen-done un pacchetto solo. Ma se idue grandi arrivano all' accordo,riescono a circoscrivere insiemeil khomeinismo, la questione pa-lestinese andrà più sottovento

La questione palestinese non è più nel ventodella storia da quando quella iraniana dominail Medio Oriente. Al vertice di Amman ilproblema centrale è stata la guerra Iran-Iraq

ancora. Sarà sempre più un pro-blema da lasciar marcire. La se-conda ipotesi è che l' intesa nonsia raggiunta, che non sia possi-bile la cogestione del pacchettoGolfo-Afghanistan, che la crisiaumenti, che il khomeinismodilaghi ancora di più, vada ariempire il vuoto lasciato dall'Olp a Gaza e in Cisgiordania, etrovi nello stato insurrezionaleapparso in questi giorni il ter-reno adatto. In questo caso laquestione palestinese torne-rebbe nel vento della storia inmodo tragico, stile libanese. Latrappola salterebbe in aria, e solosuccessivamente il problemaverrebbe internazionalizzato,cercando finalmente una solu-zione politica. Naturalmentenessuno sa fino a che punto que-sti scenari siano veri. Comunquesono entrambi orribili, ed è nell'interesse d' Israele cercare infretta di fuggirli, realizzandoquello della pace politica, nonmilitare, nella zona. Il secondoscenario riporterebbe infatti laguerra al popolo d' Israele chemerita pace. Il primo significhe-rebbe per altri vent' anni la pro-roga dell' occupazione militare,la ratifica della trappola, il per-petuarsi della peste, la trasfor-mazione di un popolo salvatodai lager in definitivo guardianodi un lager per arabi senza via diuscita (come dice Abba Eban).Una conferenza internazionale è

quindi sempre più urgente. Glistessi amici d' Israele devonospingere per cercare la via diuscita dato che domani saràtroppo tardi. Anzi. Come dicevaMalraux celebrando il centena-rio dell' alleanza israeliana uni-versale domani non ci saràdomani se alla Thora di Johanansi preferisce ancora la spada diAqiba.

Se il khomeinismo dilagasse, andrebbe ariempire il vuoto lasciato dall' Olp a Gaza e in

Cisgiordania, e troverebbe, nello statoinsurrezionale di questi giorni, terreno adatto

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