Everyman di Philip Roth: il tragico nel romanzo e l’impossibilità del romanzo tragico
di Giuseppe Genna
Nella prefazione all’edizione 2007 di Blaze, Stephen King avanza un argomento di critica del
gusto sconcertante: accenna a Everyman di Philip Roth [1]. Lo fa con toni esasperati e comici,
accomunando il romanzo di Roth, negli effetti che produce sul medesimo King, a Jude l’oscuro di
Thomas Hardy. Leggendo questi romanzi, King dice di avere alzato le braccia, esasperato, di
avere chiesto al cielo che l’autore infilasse di più: un cancro ulteriore, una fulmine che scende
dal cielo e incarbonisce il protagonista che soffre solamente sfortune e, cosa fondamentale per
King, piagnucola sul proprio dolore. Non va sottovalutata la capacità critica di cui King
dispone: il suo On writing [2] rimane per molti scrittori contemporanei di tutto il mondo un
punto di riferimento, che la critica stenta a tutt’oggi a includere nel suo comparto di elezione,
soprattutto per un passaggio fondamentale in cui l’autore avvicina alla telepatia la mobilitazione
di fantàsmata che è implicita nella scrittura di storie, siano esse epica tradizionalmente intesa o
romanzo moderno e contemporaneo nei suoi più vari generi.
L’osservazione comica e stremata di King su Everyman mette in luce almeno due elementi che
mi interessano per il discorso che qui voglio fare. Intendo infatti entrare (non delimitare né
configurare né esaurire) una nebulosa che è trattata praticamente da sempre da discipline le più
varie, come la filosofia l’estetica la teoria letteraria e la letteratura stessa: cioè il tragico e la
tragedia. In tale nebulosa vorrei rilevare la presenza atmosferica di un genere moderno, cioè il
romanzo, al fine di osservarne eventuali relazioni con elementi della nebulosa stessa o, più
precisamente, l’eventuale possibilità che il romanzo possa farsi incarnazione letteraria del
tragico, così come la tragedia fu incarnazione, non soltanto letteraria, del tragico classico. I due
elementi interessanti, nell’analisi en passant di Stephen King, sono:
- Stephen King non compie un parallelo tra Everyman firmato Roth e il bennoto dramma
chiesastico medievale Everyman. Non c’è continuità, per King, tra i due testi. Ciò che
avviene nei due testi è di natura differente e il prefatore di Blaze esplicita tale differenza –
che è il secondo elemento interessante;
- Everyman è, per un romanziere come King, un libro in cui il pianto piange se stesso, in
cui l’autore piagnucola e fa piagnucolare il suo protagonista. Il protagonista è sottoposto
a manrovesci della sorte e la sua meditazione su questi manrovesci medita
piagnucolando.
Nemmeno io intendo compiere un parallelo con il “morality play” Everyman del 1485. Non
intendeva stabilire un parallelo, a sentire Roth stesso, nemmeno l’autore americano, che a sua
detta avrebbe deciso il titolo del libro a metà della composizione [3]. Il fatto centrale nel mio
metodo di approccio, ammesso che si possa parlare di metodo se non in senso etimologico
(cioè di attraversamento), è proprio quello di ignorare o constatare, senza alcun rilievo per me
significativo, le intenzioni dell’autore rispetto al testo in esame. Per dirla molto sbrigativamente:
o pratico una lettura sintomale dell’opera di Roth, oppure Everyman non mi interessa. Non mi
interessa perché la mia sensazione primaria è la conclusione di questo lavoro e coincide con le
impressioni di Stephen King. Intendo che Everyman è un testo che rispecchia uno stato sociale
dell’occidente avanzato, una sorta di teorema messo in prosa, in cui il nichilismo dell’autore si
sporge in maniera per me inopportuna, ma assai sintomatica, nel farsi della scrittura. I
personaggi esprimono una psicologia che tenta vanamente di universalizzare gli stilemi psichici
del nostro presente. La possibilità di estinzione dell’umano è di per sé, e troppo
semplicisticamente, una tragedia, quando invece è semplicemente un atto improcrastinabile
della natura. Sarebbe come dire che i cavalli, le stelle, i Faraglioni sono una tragedia o la vivono,
poiché finiranno. Il confronto con il limite dell’umano non è dialettizzato: è espulso
dall’affrontamento, è subìto, e questo innalza un’ondata emotiva che si aggrappa alla memoria
quale unica salvatrice, quale perpetuatrice attraverso la scrittura – una clamorosa diminutio della
complessità letteraria. Le variazioni ironiche, ciniche, sardoniche, che Roth applica al suo
personaggio senza nome, sono un’ironia che possiamo spiegare assai banalmente, ripiegando su
Freud: si tratta di una difesa psichica, non certo dell’ironia tragica innescata dall’amartìa, cioè
uno dei componenti più ambigui e determinanti del protocollo tragico. L’idea che questa
parabola, che può essere tale solo a partire da un individuo che vive in questo modo elementare
l’avvento della morte e l’attraversamento della malattia, possa essere universalizzata, attraverso
il titolo e l’espediente del protagonista privo di nome, il che alluderebbe al fatto che chiunque
sente in modo tanto banale un’abissale questione che mette in discussione i rapporti tra l’umano
tutto e l’oltreumano (cioè: il mondo privo dell’umano, la scomparsa dell’umano, l’essere in
assenza dell’umano), è un vizio ricorrente in certa letteratura contemporanea. Più precisamente:
in certo romanzo americano. Ne Le Benevole di Jonathan Littell, il protagonista Max Aue, un
appartenente alle SS che si distinguerà nell’opera di sterminio indecente degli Einsatzgruppen e
nei campi di concentramento, inizia appellando il lettore, con un citazione letterale da Lascito e
testamento di François Villon: “Fratelli umani”. Il lettore non ha scelta: è un fratello di un nazista
e potenzialmente è un nazista, senza possibilità di revoca. Per costringere il lettore ad accettare
l’universalità, si ricorre in entrambi i casi, sia in Everyman sia in Le Benevole, a un testo medievale
che era sì universalizzante, poiché agiva in un orizzonte di significati ed effetti che prevedeva un
cosmo di riferimento e questo cosmo di riferimento aveva comunque a che fare con elementi
che né Roth né Littell possono richiamare: la trascendenza, il destino per cui l’uomo è
transeunte, un’allegoria implicita in ciò che, da metafisico, sta in quel momento storico
trasformandosi in spirituale nel senso confessionale e ideologico del termine. Non è nemmeno
una coincidenza che Roth si richiami a Everyman 1485 e Littell alle Eumenidi, cioè le Erinni, che
sono “le Benevole” del titolo e una tragedia eschilea.
Questo richiamo, impotente nei suoi effetti, al dramma antico o alla tragedia arcaica, mette in
luce che i rapporti col tragico, nel romanzo moderno e contemporaneo, hanno accusato uno
slittamento. Quale? Di quale tragico stiamo parlando?
1. L’economia della trascendenza nel tragico: dalla tragedia alla visione del tragico
a) Il non-metodo di analisi
Abbandono Everyman poiché abbisogno di chiarimenti, o ulteriori confusioni, per riprenderlo
poi alla luce di una meditazione sul tragico. Sarebbe atto di tracotanza, e quindi istituirebbe una
tragedia personale, riassumere la storia della tragedia e ancora più la storia dell’elaborazione del
concetto di tragico, che convoca praticamente l’intera vicenda dell’estetica e della letteratura
post-euripidea. Mi avventuro per tracce, per segnali, per sintagmi di un vastissimo sistema
interpretativo e pluritestuale, trascegliendo ciò che mi serve per giustificare una determinata lettura
sintomale del romanzo di Philip Roth. Questo non-metodo non coincide affatto col giudizio di
gusto. Fa violenza al testo, come qualunque interpretazione o lettura – soltanto, fa un po’ più di
violenza del solito, ma si tratta di una violenza visibile e che dichiara le sue motivazioni,
esplicitamente. Istituisco, cioè, un movimento che evita l’arbitrarietà della critica del gusto:
parto sì da un’impressione fornitami da Everyman, ma risalgo indietro, alle ragioni che
giustificano quell’impressione, le individuo all’interno di una nebulosa talmente vasta da
contenere entrambi i poli magnetici, le estraggo e le utilizzo come cartina di tornasole per
osservare le eventuali relazioni con il testo di Roth e con un momento specifico della
produzione rothiana. Da questo lavoro di verifica, traggo conclusioni transitorie, che non
pretendono di essere apodittiche quanto al testo di Roth, mentre hanno l’ardire di esserlo circa
la valutazione del sistema retorico su cui si regge il romanzo contemporaneo in epoca globale.
b) Il tragico incarnato dalla tragedia classica
Nel fondamentale testo di William Storm, After Dionysus [4], ovviamente intradotto e
impubblicato in Italia, il docente della Cornell University tenta di esasperare una linea
interpretativa sulla tragedia classica, con importi notevoli. Egli individua nella presenza di
Dioniso e nella sua tensione a una conciliazione (che Nietzsche vide nell’emersione
dell’apollineo) il motivo stesso, il corpo medesimo del dio nella tragedia. La tragedia altro non
sarebbe che l’espressione di una necessità di ordine trascendente, nei cui ritmi e strutture il dio
stesso è non semplicemente rappresentato, ma letteralmente incarnato. Si tratta di una forzatura
che ha le sue origini in un problematico affrontamento della prima autorità che ci parla di
tragedia.
La quaestio nasce non tanto dall’ambiguità autorevolissima della celeberrima definizione di
tragedia nella Poetica aristotelica, che dopo l’enunciazione della nozione di mimesi legata al farsi
della poesia, passa a nascita e sviluppo della tragedia stessa [5]. Se da un lato Aristotele mette in
relazione l’epica omerica con la tragedia, egli sostiene tuttavia che Omero non divenne un
creatore di ditirambi. Varrà qui richiamare Gerald F. Else e il suo The Origin and Early Form of
Greek Tragedy, che sottolinea come, pur essendoci un nesso tra il ditirambo e l’apparizione di
Dioniso che si incarna in quel ritmo, tuttavia Aristotele non fa menzione delle celebrazioni
Dionisiache o di Dioniso stesso. Va da sé che tutto ciò che nella Poetica di Aristotele è stato
visto coincide con la nebulosa a-sistemica del ragionamento sul tragico. C’è tuttavia un
accecamento progressivo rispetto alla definizione di Aristotele e agli elementi che mette in luce.
Termini come catarsi, timore (in realtà possibilmente traducibile in “terrore”), amartìa sono tutti
da riguardarsi plausibilmente in una prospettiva iniziatica di ordine collettivo e individuale al
contempo, che è andata sfumando nella modernità e ancor più nella contemporaneità. E’ qui
che l’ambiguità aristotelica si toglie di scena, per fare posto alla miscomprensione di almeno una
prospettiva – cioè di quella che porta a vivere la tragedia come veicolo di un inabissamento e di
una realizzazione di ordine metafisico. Se, tuttavia, la metafisica subisce un processo di
esteriorizzazione ontologica, il che è effettivamente accaduto nel corso della storia dell’estetica e
della critica letteraria, Dioniso diventa un simbolo e non una realtà effettiva metastorica. O,
meglio, si inabissa: emerge per sintomi, come cercherò di ravvedere tra le righe di Everyman di
Roth.
Lo snodo iniziale è dunque solo apparentemente formale. Mentre lo storicista Jean-Pierre
Vernant fa risalire comunque la celebrazione tragica nel contesto delle rappresentazioni
dionisiache [5], Else distacca l’espressione letteraria da Dioniso, contro l’altrettanto insigne
parere di Arthur Pickard-Cambridge, che afferma come “il ditirambo sia primariamente di
carattere dionisiaco” e che la forma era “anzitutto e con continuità riguardata e percepita come
dionisiaca” [6], al punto da citare una fonte incontestabile, cioè un frammento attribuito ad
Archiloco: “So come condurre l’incomparabile canto di Dioniso, il ditirambo, quando i miei
spiriti sono intrisi di vino”.
Karl Kerény spinge ancora più in là la tesi, asserendo che “‘Ditirambo’ era uno dei nomi di
Dioniso stesso, e questo nome era conferito alla tipologia di canto corale il cui tema originale,
se non l’esclusivo, era la nascita del dio” [7].
Mi sto spingendo, in concordanza con la tesi di Storm, nella direzione dell’identificazione tra
ciò che accade nella tragedia e ciò che accade a Dioniso e che Dioniso fa poi accadere.
L’identificazione sarà radicale e un momento di questo processo evolutivo, che è la tragedia
nella sua prospettiva dionisiaca, risulterà a mio parere una chiave di lettura fondamentale per
determinare uno strumentario che il romanzo moderno e contemporaneo sembra
apparentemente avere perduto, mentre tale strumentario super-retorico di fatto emerge
attraverso inconsapevolezza e richiamando la necessità di una ripresa e un rinnovamento della
retorica stessa, ammesso che il tragico (non nella sua accezione moderna) interessi al romanzo
contemporaneo, come la lettura sintomale suggerirà.
Else, nel suo trattato, impulsa questa spinta interpretativa estrema: “Dioniso guarda
obliquamente e perversamente il percorso umano con molteplici equivoche mutazioni, non
ultime le forme del dio che soffre o dell’eroe”. Dioniso non sarebbe nemmeno un dio: sarebbe
una potenza, secondo Else, che si incarna nel dio in sofferenza o nell’eroe della tragedia (tesi che
viene mutuata comunque dal Frazer del 1922, cioè quello del Ramo d’oro, che ora non gode del
pregio accademico conferitogli fino a qualche decennio fa).
“Nulla a che vedere con Dioniso”: potrebbe apparire una buona sintesi per Everyman di Roth.
Invece si tratta di un proverbio greco antico, che emerge nel preciso momento in cui i greci
stessi si resero conto che qualcosa andava mutando nella tragedia. E mutava dagli inizi.
Plutarco, citato da Pickard-Cambridge, afferma: “Quando Frinico ed Eschilo svilupparono il
protocollo tragico inserendo tematiche relative a miti e disastri, ci si chiese cosa ciò avesse a che
vedere con Dioniso”. Non è dunque al problema storico delle origini della tragedia che si deve
guardare, e cioè se essa derivasse in linea diretta o meno dalle celebrazioni Dionisiache, ma a
quale Dioniso si incarna nella tragedia da Eschilo in poi.
L’osservazione di Else sulla plasticità con cui la potenza dionisiaca assume forme diverse,
incarnandosi nella tragedia, è estensibile. Simile estensione, per esempio, è praticata dallo
storicismo di Vernant, che compie una mossa teorica e filologica, la quale permette di giungere
a una conclusione radicale, che effettua quindi William Storm. Nel saggio “Il dio della finzione
tragica”, sempre in Mito e tragedia nell’antica Grecia, ecco cosa afferma Vernant: “ La connessione
della tragedia con Dioniso risiede non tanto in percorsi che per la gran parte ci eludono, ma
piuttosto in qualcosa che costituisce la sua modernità per la Grecia del quinto secolo e, anche di
più, per noi contemporanei. La tragedia rappresenta in scena personaggi ed eventi che, nella
manifestazione effettiva del dramma, acquisirono in ogni apparenza statuto di realtà”. Vernant
afferma che il pubblico delle tragedie era benissimo avvertito dell’artificio e della performance
attoriale, ma che tale pubblico veniva introdotto in quello che egli definisce “spazio
dell’immaginario” in diretta connessione con la funzione fantasmatica che l’immaginazione assume
già nel De Anima di Aristotele. Insomma, “se vediamo nel giusto, affermando che una delle
caratteristiche primarie di Dioniso è il continuo confondimento dei legami tra illusione e realtà,
la congiura che spinge oltre nel qui e ora, al fine di farci perdere il nostro senso di stabilità
identitaria e psicologica, allora l’enigmatico e ambiguo volto del dio certamente sorride verso di
noi nel cuore dell’azione recitativa che la tragedia introduce per la prima volta sulla scena
greca”.
Premessa maggiore a una conclusione che ci riguarda da vicinissimo: mentre investighiamo il
personaggio del dio, accade che ci imbattiamo nel dio del personaggio. E’ la conclusione di
Storm: Dioniso è il dio dell’illusione e della finzione, quello che Charles Segal ha definito “il dio
di qualunque tipo di illusione finzionale” [11] e che Froma Zeitlin nomina come l’orchestratore
dei ritmi tragici, colui che “regola le simmetrie formali, azioni e reazioni, rovesciamenti dei plot
tragici” [12].
Un Dioniso più polimorfo che mai, capace di aggiungere una competenza alla sua vocazione
metafisicamente proteiforme, che Walter Otto ha fenomenologizzato, individuando segmenti
incostanti e costanti, decisivi tutti nella paradossalità e contraddizione che fanno di Dioniso “lo
spirito selvaggio dell’antitesi e del paradosso, dell’immediata presenza e della assoluta e remota
distanza, della felicità e dell’orrore, dell’infinita vitalità e della più cruenta distruzione” [13].
Nelle Baccanti di Euripide (colui che a torto è considerato il tragediografo della modernità
illuministica greca, nella estenuante misinterpretazione di moderni e contemporanei a cui sfugge
l’idea della potenzialità metafisica e del suo invito iniziatico), Dioniso si presenta in maniera
assai simile a come si manifesta la Morte in Everyman 1485: “Eccomi, sono arrivato”. Questa
subitaneità a cui nessuno dei personaggi sfugge non va ulteriormente equivocata: tutto ciò che
accade nell’impressionante tragedia euripidea, più eschilea delle tragedie di Eschilo, accade in
Dioniso. La sua figurazione in forma di divinità, ambigua, confusiva fino a fare mutare il sesso
dei personaggi, fa accadere ciò che accade o è accaduto a Dioniso stesso. Chiunque, nelle
Baccanti, è Dioniso. Mi sto avvicinando a quanto emergerà sintomalmente in Everyman di Roth:
c’è da osservare il funzionamento di ciò che accade nella tragedia dionisiaca, in questa
interpretazione univoca della tragedia come atto della potenza che presiede all’atto finzionale –
potenza che, si è visto, è Dioniso medesimo: un nome per una forza efficace, non visibile, che
però agisce qui e ora, e sempre, nel mondo.
Bisogna farsi domande. L’attraversamento impone “perché?” pronunciati con lo stesso tono di
un bambino che chiede ai genitori i motivi per cui il sale è salato. Questa cautela non avrebbe il
minimo senso se noi, oggi, avessimo presente anche un briciolo di ciò che è l’attività metafisica
e quali sono i suoi elementali riflessi in ogni tipo di rappresentazione: rituale, politica, artistica.
Chi sono dunque le Baccanti e cosa fanno? E perché lo fanno? Cosa accade a chi è preso dalla
potenza dionisiaca, a principiare da Dioniso stesso?
Anzitutto c’è il passo dell’identificazione: non c’è differenza tra le Menadi che si dedicano al culto
di Dioniso e il dio stesso. Questa identificazione, che sconcerta talmente l’uomo moderno
contemporaneo da condurlo a porre un’enfasi eccessiva sul fenomeno estatico, è il segno che
nella tragedia tutto e tutti sono Dioniso, compreso Dioniso.
L’atto orgiastico delle Menadi è vitale in quanto dionisiaco: esprime un desiderio di vivere al di
là della morte, che nemmeno viene considerata come elemento reale poiché è pura apparenza,
visto che la vita sta dove sta Dioniso dopo la propria morte. La morte si manifesta come reale
solo quando la Menade esce dall’identificazione con Dioniso. Ne esce avendo però compiuto e
fatto compiere un determinato percorso.
Questo percorso ha un punto mediano che corrisponde, quasi letteralmente, al “mezzo del
cammin di nostra vita” dantesco. In queste orge che, come indica Dodds, “non hanno nulla a
che vedere con l’idea moderna di orgia, poiché si tratta di un atto di devozione” [14] che per
oggetto ha “l’esperienza di comunione con Dio che trasforma l’essere umano”. Il punto
mediano del percorso dionisiaco risiede al cuore dell’esperienza di omofagìa che le Menadi
praticano durante l’èkstasis: il loro divorare carne animale ed eventualmente umana nasconde un
punto che diventa fondamentale nell’equilibrio dello sviluppo trascendente del personaggio e di
Dioniso stesso. In ciò, le Baccanti assurgono al ruolo di tragedia archetipica. La tesi è sempre di
Kérenyi. La vittima di Dioniso, in Euripide, è Penteo: non crede di avere davanti Dioniso e
viene invaso letteralmente dalla potenza dionisiaca. Perché ciò avvenga, egli ripete ciò che è
accaduto a Dioniso. Il mito descrive lo smembramento (sparagmòs) di Dioniso Zagreo bambino
da parte dei Titani e la sua rinascita. E’ lo sparagmòs il punto centrale dell’iniziazione dionisiaca
che avviene nell’esperienza (recitata e osservata) tragica. Osserva Storm: “Dopo avere subìto
una simile ‘invasione’ di personalità, il personaggio intriso di potenza dionisiaca è fatto a pezzi –
non semplicemente ucciso o distrutto in ogni senso, ma propriamente e aggressivamente
frammentato e lasciato in pezzi. E ulteriormente, è evidente che ci troviamo davanti a un
processo non esclusivamente corporeo. C’è uno sparagmòs della mente e del senso di sé nella
tragedia, il che è una specifica funzione dell’impulso di Dioniso sul personaggio, un effetto per
cui la distruzione dell’identità psicologica di Penteo, al pari di quella corporea, indica una
profonda metafora”. Non indica affatto una metafora – semmai un’allegoria, ma non è la sede
di divagazioni teoriche in questa direzione. Vale però quanto afferma Kerény: l’antico nome di
Dioniso era Penteo e, dunque, il Penteo umano (Kerényi offre l’etimologia del nome Penteo
come “uomo che soffre”) è una ripetizione della storia di Dioniso: il che rende Le Baccanti la
tragedia centrale dell’interpretazione che ravvede nello sparagmòs il fondamento ed
embricamento del rapporto tra il dio e la finzione che ne rappresenta la vicenda metastorica.
A partire dalla centralità dello sparagmòs, cioè dello smembramento o dell’andare a pezzi o del
massacro (del perdere i pezzi), potrebbero compiersi investigazioni interessanti: dall’idea
aristotelica dei rapporti tra epica omerica e tragedia, interpretabili come contrazione dell’epica
che origina il tragico (la tragedia di Achille, le “disiecta membra”, la metonimia delle armi
disperse); oppure andare in direzione comparatistica o antropologica, osservando la ritualità
funeraria maya o tibetana, che prevedeva e prevede lo smembramento del cadavere.
Tuttavia qui interessa comprendere un unico passaggio: è possibile che lo sparagmòs venga
interiorizzato al punto da diventare una delle costanti metatemporali di ogni genere letterario
che si ponga come tragico? Sto cercando di domandare: lo sparagmòs è un essere fatto a pezzi
intimo e non semplicemente corporale, che permette di vedere emersioni di questa, che è più
che una retorica, anche nel contemporaneo?
Secondo Storm, sì. E’ però difficile trovare testi che supportino questa indagine – la ricerca
evidenzia una sorta di rimozione in merito, che mi sembra assai significativa. Ricorro a Storm e
a Colli, per giustificare tale prospettiva e collocare Baccanti e sparagmòs e Dioniso dove mi serve.
Il punto decisivo, però, lo enuncia un bennoto antichista, probabilmente il migliore di cui
disponiamo attualmente in Italia, e devo fare appello alla citazione di una corrispondenza
privata per cogliere la suggestione ed edificare il ponte che mi conduce a Roth.
c) Interiorizzazione dello spàragmos
Comincio dall’ultimo degli studiosi citati, che è Maurizio Bettini, a cui mi sono rivolto, vista la
carenza fondamentale di materia a livello internazionale. Dall’altro grande antichista italiano
vivente, cioè Dario Del Corno, per motivi di ordine maggiore non ho potuto ottenere risposta.
Alla domanda circa la possibilità di uno spostamento dell’accento sull’aspetto psichico dello
sparagmòs, a partire dalle Baccanti di Euripide, ecco cosa mi ha risposto Bettini: “Quanto allo
sparagmòs: sono d’accordo nello spostarlo dal corpo alla psiche, e per un motivo. Di Dioniso fa
parte anche il tema dell’allucinazione, del doppio, della rifrazione. Se leggi le Baccanti, vv. 616
sgg., Dioniso racconta che, mentre era nel palazzo, Penteo intendeva legarlo: ma ha legato un
toro al posto suo, mentre lui se ne stava tranquillamente seduto. Poi scoppia un incendio
(probabilmente un’allucinazione) e Penteo, dopo aver tentato di farlo spegnere, crede che
Dioniso sia fuggito. Insomma, tutta la scena è giocata sulle allucinazioni di Penteo, la cui psiche va
in pezzi prima che ci vada il suo corpo”. Questa osservazione è decisiva: lo è testualmente. Lo
sparagmòs avviene anzitutto psichicamente. Ho il sospetto che ciò sia in ragione della maggiore
vicinanza della psiche al livello “sottile” in cui si manifesta primariamente la potenza dionisiaca.
Il corpo è un livello, per la metafisica iniziatica di qualunque ordine (dionisiaco o meno; ma
ricordiamo che la metafisica dionisiaca origina il percorso iniziatico orfico, come si noterà in
seguito) – è un livello di concretizzazione più pesante e grossolana del piano psichico, detto che
c’è continuità sostanziale tra questi apparenti livelli. Con questa osservazione, su cui tornerò più
avanti, cerco di centrare il buco bianco a cui lo sparagmòs permette di accedere. Ciò che osserva
Bettini, in ogni caso, permette di dire che, se lo sparagmòs si interiorizza, ciò avviene ritraendo la
propria manifestazione più evidente, cioè lo smembramento fisico del personaggio invaso da
Dioniso. Essendo Dioniso, nel contesto del presente intervento, un’espressione di ciò che
presiede totalmente all’atto di scrittura finzionale e artistica, Bettini dà semaforo verde a
un’intuizione che riguarda un ulteriore ritrarsi carsico della figura dello sparagmòs: la sua
interiorizzazione da parte di chi eredita una tradizione letteraria, poiché è nell’intimo che esso
può comunque avvenire.
Su questa convergenza tra l’autore tragico e la potenza dionisiaca (ma è implicato anche anche
l’autore contemporaneo, nel suo scivolamento verso l’inconsapevolezza della presenza
dell’elemento dionisiaco, cioè verso l’incomprensione del dato metafisico nella scrittura, poiché
la metafisica viene slittando via via verso un’estoriorizzazione di tipo confessionale, ideologica,
postulatoria), concorda Giorgio Colli. Il quale, a proposito delle Baccanti, ne La sapienza greca
osserva che “rotta la sua individualità, il posseduto da Dioniso ‘vede’ quello che i non iniziati
non vedono” – cioè vede Dioniso stesso, che è il suo oggetto estatico, ma non lo vede come
esterno, non riproduce la triade “oggetto visto–vedere–soggetto vedente”: l’iniziato è Dioniso e
quindi vede se stesso. E’ così che bisogna intendere in Colli la citazione da Filone a proposito
dell’epoptèia a cui porta l’èkstasis: “i posseduti dalla frenesia dionisiaca e coribantica giungono
nell’estasi fino a vedere l’oggetto bramato” – cioè vedono se stessi, o, meglio, vedono il Se
Stesso. Lo sguardo deindividualizzato vede il vedere, vede la visione: cioè l’onnipossibilità di ciò
che può accadere e dunque essere visto.
Questo stato che definiamo, sulla scorta di Bettini e Colli, “allucinatorio” è, a conti fatti,
un’intensificazione del senso di sé e cioè del senso di vivere che si manifesta, agli occhi di chi è
fuori da quello stato, come appunto un’allucinazione: ma è un’allucinazione trascinante, in cui è
impossibile sapere se ciò che accade è reale o illusorio. Viene riportato nelle Baccanti da un
messaggero che ha visto le Menadi come, grazie alla loro opera, “sulla terra scorre il latte, scorre
il vino, scorre il nettare delle api [...]. Prendendo il tirso, una baccante percuote una roccia, da
cui sgorga rugiadosa una fonte di acqua; un’altra batte la terra con una ferula, e per lei il dio
manda fuori una sorgente di vino; quelle poi còlte dal desiderio della bianca bevanda, con la
punta delle dita sfioravano il terreno e ne traevano ruscelli di latte”. Si osserverà come il tempo
presente e quello imperfetto convivano perfettamente in questo stato che rende indistinguibile
la Storia dalla Percezione (che è sempre allucinatoria). Sarebbe il “tempo del mito”, formula con
cui si è cercato di rinchiudere in un recinto la potenza inesplicabile del dionisiaco: poiché è una
potenza che conduce all’inesplicabilità e questo, per una scienza positiva, è inaccettabile.
Ora torno a considerare Everyman di Roth e osservo come la fenomenologia mitica di Giorgio
Colli avvicini le Baccanti euripidee a quella che, a conti fatti, riuscirebbe a essere una parodia
ebraico-statunitense del tragico greco. Si entra nella questione sessuale, tanto rilevante per Roth
in generale e più specificamente per il Roth senza nome di Everyman. Scrive Colli che le
Baccanti rifiutano pervicacemente ogni rapporto sessuale, risultando invincibili a fronte di
qualunque assalto maschile o mosso da satiri. “Il dio non vuole che il desiderio dei suoi invasati
giunga a compimento. [...] Il quadro che del culto orgiastico ci dà Euripide nelle Baccanti è la più
limpida indicazione – talmente ribadita da non lasciare adito a dubbi interpretativi – che qui
appunto si apra una frattura radicale alludente alla natura contraddittoria di Dioniso”. Ed ecco
una descrizione che si adatterebbe alla perfezione a un Everyman davvero tragico: “Questo
distacco dalla sessualità che interviene all’apice del suo impeto – nel vero momento della rottura
estatica – questo disdegno e disgusto aggressivo, si può anche chiamare un’improvvisa,
lacerante intuizione pessimistica sulla vita”. E però in Roth non avviene nessuna rottura estatica
(tranne che in un momento specifico della sua opera), il desiderio sessuale non raggiunge
comunque mai il compimento perché è ripetuto al di fuori del rapporto con l’estatico o inibito
dall’impossibilità di seduzione dovuta alla vecchiaia e alla malattia, e qui sta tutta la concezione
pessimistica della vita in Everyman.
Siamo a uno stato che precede non l’omofagìa, ma sicuramente lo sparagmòs. E’ soltanto
addentrandosi fino al cuore dello sparagmòs, che possiamo comprendere la tesi di Colli, per cui la
tragedia dionisiaca manifesta una potenza che tende all’apollineo, cioè allo stato in cui si
possiede “lo sguardo che vede ogni cosa”. E’ a questo esito che Colli conduce con la sua analisi.
Cita Pindaro: “Felice chi entra sotto la terra dopo avere visto quelle cose [corsivo mio, ndr]:
conosce la fine della vita, conosce anche il principio dato da Zeus”. Scrive Colli: “Allargando un
po’ lo sguardo, non dovrebbe sfuggire che l’uso astratto del pronome dimostrativo [cfr: quelle
cose], per indicare l’oggetto della conoscenza, è nello stile del grande misticismo speculativo [in
realtà: della pratica metafisica, ndr] – basta rivolgersi al linguaggio delle Upanishad [di cui il
mahavakya, cioè il detto principale e iniziatico, è “Tat tvam asi”, ovvero “Tu sei Quello” o “Tu
sei Quelle Cose”, ndr] – proprio perché la paradossalità grammaticale allude alla sconvolgente
immediatezza di ciò che è lontanissimo dai sensi”. In pratica, Colli sta costeggiando quel buco
bianco che è il centro dello sparagmòs e sta indicando l’esito dello sparagmòs stesso: l’inqualificabile
ed extralinguistico oggetto della visione che vede se stessa, dell’esperienza divina nell’umano.
Che, tuttavia si coordina in modo manifesto – anzitutto attraverso la tragedia, attraverso il
passaggio a cui lo sparagmòs introduce indefinitamente.
La fenomenologia di Colli ci serve ulteriormente per comprendere almeno altri due punti in cui
Everyman, che Philip Roth lo voglia o meno, diviene parodia della tragedia. Riservo le
osservazioni a breve e convoco William Storm, poiché è necessario ora entrare nel buco bianco
dello sparagmòs. L’interiorizzazione di questo elemento è decisiva nel determinare il carattere
tragico di ciò che viene scritto e rappresentato – della finzione letteraria tutta: “C’è qui una
chiara manifestazione di ciò che può definirsi legge dionisiaca, espressa attraverso il dio del
personaggio finzionale: coloro che subiscono un fato tragico devono subirlo allo stesso modo
in cui lo subì il dio. La tragedia, in questa importante significazione, non si distingue tanto in
base alla morte dei suoi eroi, quanto piuttosto in forza del loro smembramento, dalla
frammentazione e dispersione, non soltanto del corpo ma essenzialmente del sé identitario. Dioniso, alla
fine di tutto ciò, non muore affatto [...] e tuttavia il rito del suo smembramento procede nel
tempo. [...] Questo particolare attributo di Dioniso – cioè il potere di smembramento –
costituisce una qualità che trascende il contesto delle sue antiche associazioni. Se si considera
Dioniso non semplicemente come un ‘dio’ ma come un fenomeno dalle perduranti applicazioni
e pertinenza, risulta evidente che ciò che l’arte tragica continua a reiterare lungo i secoli è
precisamente la forza dello smembramento interiore. E, laddove la morte di un eroe è un evento
solitario e culminante (il cosiddetto telos, cioè: la fine e il fine), lo sparagmòs del corpo e
dell’identità può sostenersi essere un processo, un’azione che può prendere il corso di un’intera
tragedia – o di più tragedie – per completarsi”. E anche con questa indicazione di Storm è
possibile avvicinarsi a Everyman di Roth: il nostro eroe solitario che viene ritenuto tragico dai
contemporanei, perché la morte sarebbe tragica. Falso avvertimento. Everyman di Roth è tragico
se e solo se riusciamo ad avvertire, nell’arco testuale, i sintomi di uno sparagmòs interiorizzato o
effettivamente fisico.
E’ infatti questo il pattern tragico identificato da Storm: morte e rinascita, annichilimento e
resurrezione. Il tutto in una continuità totale, che relativizza l’elemento della morte. Chi muore
per sparagmòs realizza l’identità con Dioniso. Esiste solo la vita, soltanto stando fuori da Dioniso
si percepisce drammaticamente la morte come dato reale e non apparente. Lo sparagmòs è il
meccanismo basale di ciò che iniziaticamente è detto: “morire in vita”. Questa morte inerisce
alla perdita del sé psicologico. Violentemente fatto a pezzi, il protagonista (che è
un’incarnazione di Dioniso) affronta il terrore di perdere la propria identità personale (che però
è, in quanto elemento partecipante alla finzione letteraria, essa stessa un momento del
dionisiaco) e riemerge in Dioniso vivente. La realizzazione spirituale prevede il distacco, che
provoca terrore, dalle qualificazioni del sé identitario, psicologico. E oltre la psiche, cosa c’è?
Questa non è la conclusione a cui giunge William Storm, che osserva, a mio parere abbastanza
ingenuamente, che nelle Baccanti Penteo muore smembrato e non gli viene promessa nessuna
resurrezione (la conclusione di Storm è che lo sparagmòs è un elemento di test, che prelude a una
di queste due soluzioni: perdita definitiva del sé e della vita, oppure capacità di reintegrazione
dell’“io” che è stato spezzato). In realtà, Penteo è Dioniso comunque, ma manca della
consapevolezza di esserlo: non lo riconosce quando il Dio arriva a Tebe, finisce per non
riconoscersi essendo invasato (arriva a scambiare se stesso per una donna), e conclude la sua
vicenda personale con lo sparagmòs che sua madre Agave pratica sul corpo del figlio. Il quale, sia
chiaro, sparisce di scena. Il suo approdo in Dioniso è sparizione. Conclusa la vicenda personale, si
entra in ciò che trascende il personale: Dioniso fionda il prescelto verso “Quelle Cose” in cui ogni
umano è indistinguibile dall’altro, laddove non esiste più identità psicologica, ma pura identità –
o, come annotava Nietzsche ne La nascita della tragedia, pura “Unità”. Al processo apparente di
smembramento, che sottintende un attraversamento del terrore della perdità del sé identitario
(così sia interpretata la mimesi che suscita “timore” nella definizione aristotelica: è il terrore della
perdita dell’identità), corrisponde un processo di unificazione, che non è nemmeno più un
processo, non è rappresentabile, non è raccontabile, poiché esso è e basta, sotteso al tempo, il
quale è apparenza e permette la narrazione. Ancora Nietzsche: “La rinascita di Dioniso significa
la fine dell’individuazione”. Questa osservazione va tenuta presente per giustificare
sintomalmente le modalità di cutting del finale di Everyman in Roth.
Importa tuttavia l’asserzione di Storm per cui “in un senso, lo sparagmòs dionisiaco procura un
elemento e una pronta metafora per un processo di frammentazione e dispersione del senso
identitario di sé che rimane fondamentale nel dramma tragico lungo i secoli”. Come se,
interrandosi la tradizione iniziatica, tuttavia questo pattern dionisiaco continuasse ad agire al di
là della consapevolezza autoriale. Storma chiama questo processo “latenza dionisiaca”. Una
latenza latitante, che non abbandona la gabbia in cui alligna.
E’ esattamente ciò che sto tentando di ritrovare in Roth.
d) Esternalizzazione e incomprensione dello sparagmòs: Memoria, Necessità, Morte
Cosa accade fuori Dioniso? Nulla. Dioniso, che Segal determina come “dio del personaggio e
della finzione tutta”, è anche ciò che appare esternamente a Dioniso, ciò che apparentemente
non è invasato da Dioniso. Qui interviene la giustezza di una definizione che vede nella tragedia
una mimesis totale. Non si esce da Dioniso, come noi, vivendo, non usciamo dalla vita. Il passo
metafisico che la tragedia compie e fa compiere è proprio relativo all’estensione semantica del
termine “vita”: per chi è immerso in una comprensione metafisica del mondo, con tutti i risvolti
iniziatici impliciti, la vita equivale alla sensazione di essere, e non c’è momento in cui si sia fuori
dall’essere – anche se muore il corpo e l’identità psichica, non si è fuori dall’essere, pur non
essendo più persona, ma essere inqualificato, pura sensazione di essere. Chi è esterno a
Dioniso, non è consapevole di essere costantemente in Dioniso: di qui un equivoco, che è una
strumentazione della tragedia, cioè il concetto di errore e di ironia tragica che è l’amartìa. Ma di
ciò, in seguito.
E’ ancora Giorgio Colli a fornire una guida fondamentale per comprendere i funzionamenti,
che una mancata appercezione dell’elemento metafisico nell’atto letterario può imporre per,
appunto, tragico equivoco. Discutendo della potenza dionisiaca che si incarna nella ritualità
orfica, in questo percorso iniziatico che si fonda proprio sullo sparagmòs dionisiaco a cui viene
sottoposto Orfeo che, smembrato, continua a cantare roteando la sua testa (è il secondo
sparagmòs, fisico questa volta, che Orfeo subisce dopo il primo, tutto psichico e animico,
costituito dalla perdita definitiva di Euridice, per amartìa), Colli rileva come “l’apollineità di
Orfeo è più sapienziale, quindi sorge non soltanto da un’antitesi, ma anche da un legame con
Dioniso”. Le apparenze narrate da Orfeo, il mito stesso che configura rapporti tra deità, altro
non sarebbero che l’espressione della potenzialità finzionale presieduta dalla forza dionisiaca:
letteralmente un’allegoria, una narrazione infinita che assomma storie di storie per significare
l’infinità del non dicibile, e tuttavia mondana, praticabile: cioè l’ineffabilità dell’estasi che porta a
esperire, a essere l’ineffabile. Questa metafisica dell’esperienza è esperienziale, e però
extralinguistica. Non rappresentata in scena, ma in misteri che hanno tuttavia una loro scena
interna, la vicenda iniziatica orfica, osserva Colli, “fa già parte dell’espressione: ciò che vuole
esprimere è il divino indicibile, l’estasi misterica. Ma tra espresso ed espressione non c’è un
abisso, c’è una continuità, una ripercussione che concede al racconto poetico e ai suoi
personaggi la massima carica vitale”. Siamo nuovamente in vicinanza dell’Everyman in versione
Roth, ulteriormente interpretato in quanto rovesciamento o parodia di questo nucleo tragico
iniziale, fondante e metatemporale. Ciò che avverrebbe, secondo Colli, è che “questa
espressione – pur essendo apparenza – dice quello che era la primitiva [e futura, ndr] natura
divina, la conserva esprimendola, quindi mantiene la continuità, sostituisce – con un
mutamento di forme conoscitive – quella natura con un’altra, apparente [è il gioco di rimbalzo
dell’allegorico secondo Benjamin, ndr]”. Ecco il passo che mi interessa, da connettere a quanto
avviene, però a livello non metafisico bensì psichico, nella narrazione sull’uomo senza nome in
Everyman: “Tale mutamento si rivela nel ricordo: è Mnemosine, l’augusta dea orfica, che attinge
dal pozzo della visione misterica, e additando il passato riconduce attraverso la poesia – è
madre delle Muse – alla grande iniziazione”, cioè porta all’anàmnesis per come ne scrive Platone,
mettendola in correlazione alla periagoghé, cioè al ricordo che induce a una conversione. Si tratta
di un equivalente allegorico, in quanto esperienziale e diretto a un non sapere indefinito, del
meccanismo di sparagmòs: l’esito è comunque il distacco dal sé identitario, dopo avere trapassato
il terrore e avere conquistato la pietà amorosa (il che richiama il secondo elemento degli effetti
catartici in Aristotele) che conduce all’identificazione con il divino nell’umano, qui e ora, nel
mondo. E’ chiaro che la funzione del ricordo in Roth, questa continua e piagnucolante
restaurazione narrativa di quanto fosse bello vivere senza la malattia che conduce alla morte,
diviene un rovesciamento, a suo modo involontariamente ironico, di una simile funzione
allegorica che assume la narrazione avente in sé una traiettoria metafisica. E’ una specie di
fallimento parodistico di quanto osserva ulteriormente Colli: “L’avere divinizzato a questo
modo il ricordo – per cui solo all’indietro il tempo è esaltante – è una decisiva indicazione
metafisica. E questo non soltanto per la conseguenza pessimistica e antistorica [corsivo mio in
relazione a Everyman, ndr], ma anzitutto per l’indicazione di un luogo assoluto – che è l’inizio
del tempo – e staccato da tutte le altre esperienze:. Ora proprio questo inizio staccato può di
nuovo venire afferrato durante la nostra vita, se riusciamo a spezzare l’individuazione: è
Mnemosine che ci rende capace di tanto”. Roth non è però un orfico e tantomeno un uomo
interessato a spezzare l’individuazione. Anzi: è la morte come fine dell’individuazione che
spaventa tanto il suo “chiunque”. E’ rimbalzando da questo terrore che il ricordo viene utilizzato
per tornare sì all’inizio del tempo, in un luogo staccato da ora: ma si tratta dell’inizio del proprio
tempo, del tempo dell’individuo, questa assurdità tutta moderna e contemporanea che viene
identificata con la vita della psiche. Ricordare l’età dell’oro è un’esperienza che si connota
anagraficamente, quando l’idea della morte, e tantomeno della morte in vita, neanche si
affacciava, per un surplus che, più che di vitalità dionisiaca, era di vita dell’inconsapevolezza o
di vita inconsapevole. La carne era bella, la sensazione era bella, l’insoddisfazione sessuale era
bella perché sembrava soddisfacimento sessuale. Questo stato pre-sparagmòs è l’intenzione di
Roth, realizzata come si realizza un entimema, un sillogismo a più premesse. Mnemosine smette
di essere la madre delle Muse e ne diventa la matrigna. Il ricordo non è veritativo, cioè non è
condotto per rammemorare il non rammemorabile, il che permetterebbe la rottura delle
barriere identitarie. Al contrario: il ricordo solidifica l’identità acquisita.
Se si considera la declinazione orfica, cioè iniziatica e vòlta all’epoptèia, che scatena la potenza
dionisiaca, qui considerata come potenza che sovrintende a ogni atto finzionale e quindi
anzitutto a quello letterario, il romanzo di Roth è una parodia continua, un continuo
rovesciamento. Ancora Colli: “Il sospetto che Orfeo fosse anche un filosofo [qui: l’equivalente
del Maestro iniziatico o del termine medesimo che viene conferito dalle metafisiche orientali,
ndr] viene poi confermato, quando a proposito dei primi princìpi di un’altra teogonia orfica,
quella secondo Ieronimo ed Ellanico, leggiamo: ‘... si chiamava Tempo senza vecchiaia [corsivo
mio, ndr]... e a lui si era congiunta Ananke [...], incorporea e con le braccia allargate su tutto il
mondo, sino a toccarne i confini’. Tempo e necessità: una coppia decisiva di categorie”. Anche
per Roth: che in Everyman fa aspirare il suo protagonista senza nome esattamente al Tempo senza
vecchiaia e innalzare un rabbioso lamento da Giobbe contro la necessità di una fine dell’identità
personale, che per Roth, molto direttamente e laicamente, cioè con modalità estremamente
novecentesca e nichilista, è la morte fisica tout court. Un rovesciamento della potenza
dionisiaca che presiede alla scrittura, secondo la prospettiva che sto seguendo. Infatti, osserva
ancora Colli, “secondo Orfeo, Dioniso non appartiene all’apparenza, e la sua forma di vita – il
giuoco [nelle Upanishad: “Lila”] – è di un altro mondo. Il mito orfico dello sbranamento di
Dioniso per opera dei Titani è un’allusione essoterica alla separazione del nostro mondo da
quello di Dioniso, e al vincolo che tuttavia ci lega al dio”.
Le parodie rothiane esistono soltanto se si considera effettuale una visione del tragico che si
incarna nella tragedia delle origini, laddove l’elemento fondamentale risulta essere lo sparagmòs,
momento di smembramento della supposta unità psichica individuale o comunitaria, soglia del
terrore che, superata, permette l’accesso alla reale identità con Dioniso, il demiurgo
onnipotenziale che sovrintende all’atto di illusione, cioè all’atto di scrittura. Fuori da questa
prospettiva, Everyman di Roth è Everyman di Roth: un romanzo che continua a fare della mimesi
del proprio presente la sua forza e viene conseguentemente definito “tragico” dalla
contemporaneità. E ciò perché “il tragico” è fuoriuscito dalla incarnazione della tragedia, e
sembra essersi allontanato, nel corso dei millenni, dalla potenza dionisiaca che è “il dio del
personaggio”.
Per giungere a Roth, è dunque necessario identificare di quale “tragico” siamo disposti a parlare
noi contemporanei e, semmai, a smentire questo discorso attraverso la rilevazione di sintomi
che, senza dubbi impressionistici o incertezze scientifiche, manifestano l’indiscutibile
ripresentarsi, sotto la soglia di consapevolezza, della potenza dionisiaca stessa: cioè dello
sparagmòs interiorizzato e non.
2. Slittamento del tragico: il tragico contemporaneo come melodramma nell’epoca del nichilismo
a) Separazione del tragico dal dionisiaco, cioè del tragico dalla tragedia
Accade che, a oggi, “tragico” e “dionisiaco” non siano sinonimi. Uno slittamento è avvenuto e
questo slittamento è per me riassumibile molto semplicemente: il portato dell’effettività della
potenza dionisiaca come elemento metafisico quintessenziale al gioco finzionale è venuto meno
nella percezione da parte della contemporaneità. Ciò non significa che, al di là del sentimento
tragico della contemporaneità, il dionisiaco non continui a giocare il suo ineffabile, ma non
ineffato, ruolo di conduttore di danze (un altro attributo del dio, peraltro).
La visione del tragico sembra avere sormontato la prassi del tragico, che tuttavia viene
continuativamente evocata. Mentre il tragico, inteso come momento qualificante del percorso
che porta alla dissoluzione del sé identitario nell’essere che è la totalità (e quindi istituisce
immediatamente un rapporto tra se stessi e la propria fine) si incarnava nel tragico classico, con
l’emergere del genere romanzesco, senza stare a parlare della tragedia moderna inaugurata da
Shakespeare e condotta ai vertici da Corneille, affiora la domanda se la strumentazione super-
retorica, che la tragedia dionisiaca aveva a disposizione, sia a disposizione od ottenga un
sostituto all’altezza nel nuovo genere. Il romanzo, cioè, può essere l’incarnazione del tragico?
Certamente lo è di un tragico: quello contemporaneo, le cui caratteristiche cercherò di enucleare
a partire dal Senso tragico della vita di Miguel de Unamuno; e tuttavia non è a questo tipo di tragico
che guardo. L’enfasi che molta narrativa contemporanea pone sul suo carattere di ultima
espressione del tragico è a mio avviso comica, se il tragico viene riportato al suo significato
originario. Qui si verifica, in epoca presente, lo scivolamento finale dell’effetto tragico (che è
cathàrtis) nel melodrammatico. E’, in pratica, ciò che fa disperare Stephen King quando legge
Hardy o Roth.
Si può ritenere che il tragico contemporaneo non abbia a che vedere, e del tutto legittimamente,
con il tragico in quanto sinonimo di dionisiaco. Eppure alcuni pareri piuttosto illustri segnalano
questa discrasia come fattore critico da riguardare con cautela. Per esempio, Paul Ricoeur, nel
suo Le symbolysme du Mal [16]: “L’esempio greco antico non è un esempio tra gli altri; la tragedia
greca non è completamente un esempio in senso induttivo, ma l’immediata e completa
manifestazione dell’essenza del tragico; comprendere il tragico significa risvegliare in se stessi
l’esperienza greca del tragico, non in quanto caso particolare di tragedia, ma in quanto origine
stessa della tragedia – il che significa, risvegliare contemporaneamente l’inizio e l’autentica
emersione della tragedia stessa”. Ogni tragedia successiva e ogni opera che si pretende tragica,
poiché in Ricoeur è presente la distinzione tra tragico e forma incarnata del tragico, tipico dello
slittamento di cui sopra – ogni espressione del tragico successiva a quella greca è da interpretare
alla luce di quest’ultima o, più correttamente, di questa prima: “è scavando l’essenza nella sua
manifestazione grecoantica che noi possiamo comprendere ogni altra tragedia in quanto
analogon della tragedia greca”.
Vernant, dal canto suo, si contenta di osservare la fenomenologia della separazione tra tragico e
tragedia, cioè tra tragico e dionisiaco. Egli identifica, nella sua prospettiva storicista, e quindi
pienamente moderna e contemporanea, tre livelli di questa “invenzione” che è la tragedia: un
livello che punta dritto alle “istituzioni sociopolitiche”, alludendo principalmente alla tragedia
come “manifestazione della città che si volge a sé medesima tramite la rappresentazione
teatrale, presentandosi essa stessa sulla scena davanti ai cittadini in assemblea”; poi c’è il livello
artistico e formale, che sarebbe la tragedia in quanto genere letterario; infine, il piano su cui si
consuma il divorzio tra tragico e tragedia agli occhi del moderno, e cioè il livello
dell’“esperienza umana” che già non è più comprensiva di elementi metafisici, poiché ciò che
resta è “la coscienza tragica”, che Vernant giustifica come consapevolezza dell’instabilità degli
eventi umani”, come “presentazione di problemi insolubili”, come “quesiti il cui doppio senso
rimane enigmatico sebbene spesso decodificato”.
Si potrebbe risalire, andando a ritroso, al momento decisivo in cui viene sistematizzata questa
concezione troppo umana del tragico – e il momento sarebbe Hegel, insieme
all’antisistematizzazione (che è in realtà un mascheramento di sistema) della concezione
espressa da Schelling circa il tragico, in Filosofia dell’arte: “L’essenza della tragedia [già qui è
consumata la separazione tra tragico e tragedia, col tragico che sarebbe l’essenza della tragedia e
non la tragedia stessa, ndr] è quindi un conflitto in atto e oggettivo tra la libertà nel soggetto da
un lato, e la necessità dall’altro, conflitto che non ha termine con il soccombere dell’uno o
dell’altro polo, ma piuttosto tale che entrambi i poli sono manifestati in perfetta
indifferenziazione come simultaneamente vittoriosi e sconfitti” [17]. In negativo, possiamo
leggere la concezione dialettica del tragico in Hegel, col superamento del tragico tramite sintesi
superiore – un processo consustanziale alla formulazione della morte dell’arte.
Kenneth Burke espone il frutto novecentesco dell’occulta sistematica di Schelling, pur
riuscendo a evitare lo storicismo di Vernant: fenomeno tragicamente novecentesco, quello di
due posizioni antitetiche che costruiscono il medesimo discorso riduzionista. Nel suo A
Grammar of Motives, scrive infatti Burke: “Il processo incorporato nella tragedia consiste nel fatto
che l’azione di chi agisce coinvolge una passione corrispondente, e dal patimento di questa
passione sorge una comprensione dell’atto, comprensione che trascende l’atto. L’atto, nel suo
essere assertivo, ha richiamato una controasserzione tra gli elementi che compongono il
contesto. E quando chi agisce diviene capace di vedere nei termini di questa controasserzione,
ecco che egli ha trasceso lo stato che lo caratterizzava all’inizio” [18].
Uno stato di cose che renderebbe inqualificabile il tragico, o lo manterrebbe in una falda
acquifera sotterranea, se non si avesse un resoconto preciso di quanto il riduzionismo moderno
abbia portato a riduzione il tragico stesso – il che troviamo precisamente nel saggio di
Unamuno. Sarebbe troppo stilare una storia dei sintomi del tragico dionisiaco nel genere
prosastico moderno e contemporaneo (per esempio, nell’“assalto ai limiti dell’umano, per
varcarli” teorizzato e praticato artisticamente da Franz Kafka, o dello sparagmòs delle terre
interiori devastate che Thomas S. Eliot canta modulando l’intera gamma della super-retorica
dionisiaca nel suo poema, o la riconduzione all’Innominabile attraverso le progressive dissoluzioni
formali emotive cognitive e tematiche della trilogia beckettiana).
Tuttavia, prima di esporre i punti qualificanti ed estremamente volontaristici che caratterizzano
ciò che la letteratura contemporanea considera tragico, facendone derivare la possibilità di un
romanzo tragico, conviene osservare attraverso le lenti di un interprete particolare – cioè Walter
Benjamin, che nella prima (e sottovalutata) sezione del Dramma barocco tedesco individua il
passaggio dalla tragedia al dramma chiesatico-medievale, e quindi al “morality play” da cui
Everyman di Roth prende il titolo – aggiungendo una prospettiva, che Benjamin allarga poi a
dismisura, la quale anticipa le conclusioni in ordine all’annunciata lettura sintomale del libro
rothiano.
b) Storicizzazione del tragico e contromovimento teologico in Benjamin
Si sa quanto l’emblema sia fondamentale, nella dinamica tra simbolo e allegoria, nebulosa
teoretica che è il progetto tutto del Dramma barocco tedesco di Walter Benjamin. Può dirsi
addirittura che tutto il libro è un emblema di altro. Nel caso che interessa, è l’emblema di
un’allegoria indefinita che ha, per oggetto, l’indefinitezza del tragico nella sua concezione
trascendente e al tempo stesso immanente, il che costituisce l’oggetto di quanto investigato
sopra.
Accennando alla ricezione della definizione di tragedia secondo l’auctoritas aristotelica nel
diciassettesimo secolo germanico, Benjamin dà per scontata l’identità tra tragedia e tragico, cioè
considera il tragico come sinonimo di dionisiaco, evidenziando l’incomprensione che i
drammaturghi e gli ermeneuti barocchi tedeschi allargano a favore della modernità: “Ancora più
indicativa è l’indifferenza con cui i manuali di teoria aristotelica trattano dell’effetto tragico.
Non che questa parte della Poetica, che ha scritto in fronte ancora più distintamente dell’altra la
determinatezza che il teatro greco attinge al suo carattere cultico [corsivo mio, ndr], doveva essere
particolarmente accessibile da parte del diciassettesimo secolo. Eppure, quanto più impossibile
risulta la penetrazione in questa dottrina, in cui agiva la teoria della purificazione attraverso i misteri, tanto
maggiore sarebbe stato il libero spazio per l’interpretazione [corsivo mio, ndr]. Questa è gracile nel suo
contenuto concettuale quanto perentoria nella deformazione delle intenzioni antiche [corsivo mio, ndr]”.
Il tutto si fa allegorico proprio in senso benjaminiano: pare una descrizione dell’operazione che
si suppone tragica in Everyman di Roth, ma anche dell’attuale vaghissima percezione che
l’estetica trae dal tragico che suppone di avere davanti. Insomma, Roth andrebbe percepito
come un drammaturgo tedesco del diciassettesimo secolo: un’ucronia che dovrebbe non
dispiacere a un autore che ha scritto The plot against America e si è permesso di affermare, con
irresistibile vis comica, la necessità del ritorno di una forte comunità ebraica in Polonia e
proprio in Germania in Operazione Shylock.
Benjamin continua la sua osservazione, la sviluppa arrivando al nocciolo della questione: è
mediante la misinterpretazione del tragico incarnato in tragedia, cioè del dionisiaco, che si
giunge alla sostituzione della Storia al Mito – sostituzione che determina il passaggio dalla
tragedia al dramma, che in Benjamin acquisisce tutti i contorni del romanzesco. A questo
movimento, il barocco oppone la sua metafisica svuotata: “Nel modo di pensiero teologico-
giuridico che è così caratteristico del secolo, si esprime quella dilazionante dilatazione della
trascendenza che sta alla base di tutti i provocatori accenti mondani che sono propri del
barocco. Poiché esso ha di fronte, antitetica all’ideale storico della restaurazione, l’idea di
catastrofe”. Questa catastrofe che dilaziona la possibilità della trascendenza inizia a delinearsi
come china che condurrà allo svuotamento del tragico in epoca contemporanea. E’ la catastrofe
individuale che Roth spaccia per tragedia. Di più: Roth è al di sotto del razionalismo teologico
con cui il barocco fa i conti, perché non c’è teologia in Roth, ma solo antropologia – cioè un
antropocentrismo assoluto, irrelato a qualunque cosa sia estranea al fenomeno umano. La prima
antimetafisica radicale che non si converte in metafisica: è l’essenza del nostro presente, è
l’essenza della finta arte e della finta tragedia che il nostro presente manifesta come mimesi del
reale.
Più profondo il disagio del barocco che Benjamin genialmente sintetizza: “L’uomo religioso del
barocco si aggrappa tanto al mondo perché si sente trascinato insieme con esso verso una
cataratta. Non esiste un’escatologia barocca; e proprio per questo c’è un meccanismo che
raccoglie ed esalta tutto ciò che è nato sulla terra, prima di consegnarlo alla morte. L’aldilà è
svuotato di tutto ciò in cui spira il benché minimo alito del mondo, e ad esso il barocco attinge
una serie di cose che prima usavano sottrarsi a qualsiasi intervento formante e, al suo culmine,
le espone alla luce del mondo in forma drastica, per sbarazzare un ultimo cielo e per porlo,
quale un vuoto, nello stato di poter annientare dentro di sé, con catastrofica violenza, la terra.
[...] Le forme anche più esaltate del bizantinismo barocco non dissimulano neppure la tensione
tra mondo e trascendenza”. E così Benjamin ha individuato le condizioni di decadenza del
tragico nella contemporaneità, ha trovato l’anello di mezzo tra il tragico dionisiaco e il tragico
nichilista del Novecento e di certo nostro presente.
Questo anello di mezzo ha un inizio. Questo inizio riguarda Everyman 1485. Benjamin lo sa e lo
scrive a chiare lettere. Inizia affermando che, ad altezza barocco, “non occorre un’analisi più
profonda per rendersi conto di come in ogni dramma della tirannia si dissimuli un elemento
caratteristico della tragedia martirologica”. Con ciò, il “dramma della tirannia” tipico dell’epoca
barocca è messo in connessione con un’incerta forma di tragedia martirologica. Quale? La
risposta non dà adito a dubbi: “Si dovrà pensare alla parentela del dramma barocco con quello
chiesastico-medievale, come risulta dal comune carattere che deriva dalla Passione”. Con ciò,
Benjamin consegna ai “miracle play” e ai “moral play” medievali-chiesastici l’eredità scaduta del
tragico dionisiaco, il momento in cui il tragico si distacca dalla tragedia. Questo, per quanto
concerne il passato. Tuttavia Benjamin esprime il presentimento che connota il futuro: “Nel
testo di Vincenzo di Beauvais la distinzione tra poesia tragica e poesia comica: ‘Est autem
Comoedia poesis, exordium triste laeto fine commutans. Tragoedia vero poesis, a laeto
principio in tristem finem desinens’. Che questo triste accadimento si proponga attraverso le
battute di un discorso oppure attraverso il flusso della prosa [corsivo mio, ndr] è considerata una
differenza pressoché irrilevante”. Non è irrilevante per Benjamin, e nemmeno per il discorso
che qui si sta facendo: in questo passo benjaminiano si enuncia il passaggio dal testo teatrale a
quello romanzesco, erede del tragico che si è distaccato dal dionisiaco.
Per Benjamin, il futuro dell’espressione tragica, che non manifesta più alcuna consapevolezza
della realtà metafisica, è il flusso di prosa: è il romanzo.
c) Il tragico moderno: il modello Unamuno
Per “tragico moderno”, proprio seguendo il Benjamin del Dramma barocco, intendo il tragico che
si manifesta in quel romanzo contemporaneo che i critici interpretano come romanzo tragico.
O, se non lo interpretano come tale, sono gli autori a fare di tutto per mostrare legami con il
tragico, attraverso evocazioni ingiustificate dell’eco classica, impercepita se non attraverso la
rovina a cui non si riesce più a dare senso e che nemmeno inquieta, in quanto è classificata. Il
tragico del nostro presente è infatti un tragico individuale, superomistico: è il senza nome di
Everyman o, peggio, il Max Aue delle Benevole, in cui la tragedia avrebbe come eroe lo stesso Aue
e non i milioni di sterminati dai nazisti, mediante una prosopopea che garantisce come
veritativo il quesito che si spaccia come storico, ma che non può esserlo ora, circa la possibilità
che ogni lettore, sotto il nazismo, potesse o meno diventare egli stesso come Aue. Una
sovrapposizione indebita di temi, talmente seri da trarre in inganno. In Everyman di Roth è il
morire: secondario è il perché e il come si muore, il racconto e la forma del morire, il tragico
che colloca in un percorso di potenza la morte come apparenza. In Littell è l’essere colpevoli
dell’inarrivabile sterminio novecentesco: poco importa come si articola la narrazione, se essa è
in grado di veicolare una simile ipotesi accusatoria nei confronti del lettore e, cioè, se Littell
sappia davvero narrare. Riassumendo: si ignora se, attraverso il romanzo contemporaneo
tragico, si giunga a cathàrsis, per l’esperienza di attraversamento di terrore e pietà amorosa,
secondo la significazione pregnantemente metafisica che la definizione aristotelica esige.
Il prototipo di questo tragico insulsamente individuale è la parte a-confessionale (cioè non
ancora involuta nelle spirali cristiane) del saggio di Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico
della vita [19]. E’ il filosofo Fernando Savater, nella prefazione all’edizione italiana, a fare
coincidere il sentimento tragico della vita di Unamuno con quello del senza nome che Roth
racconta in Everyman: “Nel narcisismo trascendentale di Unamuno si possono distinguere due
inquietudini radicali: l’ansia di immortalità e l’ansia di un conflitto polemico. Entrambe, com’è
ovvio, si fondano su propositi di autoaffermazione, addirittura di godimento del proprio io.
Che don Miguel non desiderasse morire, così come che rifiutasse l’astratta consolazione di
forme di sopravvivenza impersonali, non è altro che un modo per asserire con intenso pathos di
voler continuare a essere se stesso – in corpo, anima e memoria – per sempre; che non avrebbe
trovato pace né in questa né in un’altra vita, se non nella gloria pugnace, nella disputa, nello
sforzo e nella contraddizione; significa che non percepiva il suo io come qualcosa ricevuto
passivamente e conformato ai requisiti dell’esistere, bensì come un trofeo da conquistare a se
stesso per poi adattarsi al resto dell’universo, come un sigillo indelebile o uno stendardo
vittorioso”. Sembra una recensione alle intenzioni di Roth e a quelle del suo Chiunque. Ed è
tutto il tragico che si potrà ricavare da Unamuno e dalla contemporaneità: “io”, in quanto
individuo, non voglio morire; gli altri muoiano, la loro morte è occasione per riflettere su di
loro e mai su me stesso, non esiste problema finché la morte non bussa e, quando bussa, io non
risponderò come il ricco che deve morire nell’Everyman 1485 – non mi farò mai una ragione che
“io” possa morire [detto alla prima e contemporaneamente alla terza persona, ndr].
E’ da tenere presente la nozione di “narcisismo trascendentale” (non: “trascendente”) che
Savater individua come impalcatura fondamentale che definisce il campo magnetico in cui si
svolgono le pulsioni che pongono l’individuo in uno stato di percezione dell’esistenza come
dotata di senso tragico. E’ una perfetta definizione non tanto della postura fondamentale
dell’autore Philip Roth, che qui importa fino a un certo punto, quanto dei personaggi messi in
scena nei suoi romanzi, e più di tutti dell’uomo privo di nome in Everyman. Questa
coappartenenza al tragico inteso modernamente, stipula un patto tra tra il sé e la psiche, che è
l’identità, patto che lascia fuori la realtà, la quale viene percepita in maniera assolutistica: o come
cornucopia vitale a cui attingere o come assenza necessitata che induce dolore. In ogni caso,
questo patto che costituisce il “narcisismo trascendentale” ha un nome: attaccamento. E’ un
attaccamento alla propria identità (corporea, emotiva, psicologica), che rigetta la prova di realtà
in quanto la realtà propone la morte e l’avvicinamento all’estinzione identitaria. Si configura
così un rovesciamento totale della parabola confessionale esplicitata nel “moral play” Everyman,
laddove la Morte domanda all’individuo, che non viene trattato in quanto semplice individuo, di
dismettere l’attaccamento a se stesso, alle proprie conquiste materiali ed emotive e psicologiche.
La parabola Everyman 1485 è l’esatto opposto di quella che sembra (e non è) parabola Everyman
di Philip Roth.
Un simile atteggiamento coinvolge comunque l’autore. Il “narcisismo trascendentale” è tale
perché avviene un’esplicita e intenzionale sovrapposizione delle intenzioni autoriali al testo che,
secondo canoni universali, costituisce comunque un’eccedenza rispetto alla poetica e alla
volontà dell’autore di dare forma definitiva a quanto ha da trasmettere. Sostiene Unamuno che
“la filosofia è diffusa e quasi liquefatta nella letteratura”, ed è proprio questo spiraglio che
sembra aprire le possibilità di una lettura secondo la specola di ciò che non è intenzionale, se si
tiene presente la ricerca del tragico, e di quale tragico, nella letteratura stessa da Unamuno in poi.
Viene in pratica certificata questa evoluzione, che ai miei occhi ha tutto l’aspetto di una
involuzione: dal tragico che è identico alla tragedia si passa al tragico che si separa, in quanto
concetto e visione del tragico stesso, dalla tragedia; la tragedia separata dalla visione del tragico
ha alcuni eredi [vd. Benjamin sopra, ndr], tra cui i “moral play” medievali-chiesastici e, sempre
secondo una linea di progressiva scomparsa della possibilità di trascendenza implicita nel
tragedia, nei drammi del barocco benjaminiano (non di quello elisabettiano: poiché Shakespeare
è un discorso a parte, che non si compie in questa sede, pena l’estensione quasi indefinita del
presente intervento); il teatro barocco, che esprime una trascendenza in forma di impossibilità,
trapassa nel “flusso di prosa”, di cui il genere romanzesco è l’esponente più dilagante; il genere
romanzesco, nella contemporaneità, sussume in sé una possibilità del tragico come visione del
tragico e non come tragico dionisiaco, secondo la declinazione di un “narcisismo
trascendentale” che ha in Unamuno il suo più folgorante esponente, qui utilizzato in via
emblematica, poiché quasi tutta la riflessione esistenzialista prima e strutturalista poi esprime
una visione del tragico praticamente identica a quella di Unamuno, negli effetti.
Tutto, in sintesi, ruota intorno allo slittamento del tragico verso il morale modernamente inteso;
e, di pari, allo slittamento dell’elaborazione dell’attaccamento a sé verso la nozione di individuo.
Golden e Harrison, nel loro commento alla traduzione americana della Poetica di Aristotele [21],
giungono a ben sintetizzare questo processo, che conduce direttamente a Roth, indicando come
l’ethos tragico addivenga all’esplorazione del sé identitario e dell’interiorità, nella pratica letteraria
tragica moderna e contemporanea. Hardison descrive le basi aristoteliche della caratterizzazione
dei personaggi come “pre-disposizione morale”, il che sembra condurre a connessioni con
l’indagine psicologica nel contemporaneo, mentre l’intento di Hardison è di indicare le tipologie
che Aristotele definisce nella Poetica. Questo contrasto viene sottolineato quando Hardison
insiste sul fatto che “nulla potrebbe dimostrare con maggiore ovvietà la differenza tra la
disposizione morale del personaggio moderno e l’ethos tragico in Aristotele quanto il fatto che
l’ethos stesso è distinto con assolutezza dal ‘pensiero’”. Lo slittamento verso il “narcisismo
trascendentale” è così riassunto da Hardison: “La caratterizzazione del personaggio tragico
secondo Aristotele può essere riguardata come ‘pre-disposizione morale’ basata su fattori quali
l’età, il genere sessuale, il ruolo sociale, la nazionalità. Il termine ‘morale’ viene fatto rientrare
nella definizione per la semplice ragione che la maggior parte di quanto oggi ricade in àmbito
psicologico era incluso, per i pensatori antichi e rinascimentali, sotto l’etichetta della ‘filosofia
morale’”.
Si aggiunga a questa distinzione, che fa la storia della separazione progressiva tra tragedia e
concetto del tragico, il richiamo del critico antichista John Jones, che nel suo On Aristotle and
Greek Tragedy pone una barriera, filologicamente inattaccabile, tra la tendenza, successiva alla
separazione tra tragedia e visione del tragico, a esplorare l’individuo (il che fa il tragico
romanzesco contemporaneo) e l’azione come centro metafisico della tragedia secondo
Aristotele [22]. Muta cioè il focus: laddove l’azione aristotelica conduce a un’esperienza della
coscienza intesa come senso di essere al di là delle qualificazioni psicologiche, nel moderno e
contemporaneo l’azione è al servizio dell’esplorazione di una coscienza psichica, per quanto
“segreta, interiore, interessante” e soprattutto “legata all’individuo”.
Dioniso si interra a favore di un’unità monadica astratta: non è più l’individuo in quanto
apparenza che è il punto di partenza di un percorso teso a raggiungere il distacco da ciò che
appare reale ed è illusorio; è invece l’individuo come dato primario e ultimativo, che sarebbe
eternamente concreto, se non intervenissero il dolore e la morte, che comunque non ne
mettono in dubbio la consistenza ontologica.
E tuttavia qualcosa permane. György Lukács, in L’anima e le forme [23], compie, stando a quanto
ne scrive Franco Fortini nella postfazione, “l’indagine delle ‘strutture dinamiche significanti’ che
Lukàcs chiama ‘forme’ delle differenti modalità privilegiate nel rapporto tra anima umana e
assoluto. [...] Una di quelle forme o ‘strutture significative’ ha particolare rilievo in quest’opera:
quella della ‘visione tragica’, recuperata attraverso i rapporti tra ‘individuo’, ‘autenticità’ e
‘morte’, nella definitiva irrilevanza e inautenticità della esistenza mondana”. E’ dal materialista
Lukács che recuperiamo, in pieno Novecento, la metastoricità dell’elemento metafisico del
tragico dionisiaco. Secondo Lukács, l’essenza della tragedia resta comunque “il senso di sé”, la
forza che “travolge qualunque cosa sia meramente individuale” e che “eleva ogni evento allo
stato di destinalità”, che all’estremo conduce alla suprema affermazione del “sé” e al contempo
all’assorbimento del sé nel “Tutto” ed è questo motivo a costituire il telos tragico, cioè “il
termine trascendente della tragedia”. Per Lukács, e molto correttamente, è questa “la metafisica
della tragedia”. Il “senso di sé” non è affatto l’“io”, e le afflizioni individuali non sono
sufficienti a determinare la presenza del tragico in letteratura, finché non si manifesti la potenza
che governa l’illusione e il trascendimento dell’illusione. In Lukács, il “se stesso” è Dioniso.
E in Roth?
3) Sintomi del tragico dionisiaco in Everyman e Operazione Shylock: il ritorno dello sparagmòs rimosso
a) Everyman
Nel suo saggio sulle Baccanti, Ian Kott [24] osserva come “al culmine della tragedia, quando il
messaggero racconta del corpo dilaniato di Penteo, la danza diventa spasmo”: è il momento in
cui “il coro delle Baccanti, come in un rito iniziatico, scopre il tremendum” e cioè, secondo il
richiamo che Kott effettua dall’Eliade di Mythes, rêves et mystères [25], “la rivelazione quasi
simultanea del sacro, della morte e della sessualità”.
Non è ciò che accade in Everyman. Nel romanzo di Roth la rivelazione è negata, semplicemente
perché non c’è alcun sacro da rivelare, la sessualità è data per già svelata e addirittura
irrecuperabile nel momento in cui si annuncia l’apparire palese della morte, attraverso una lunga
malattia e l’osservazione della patologia devastante in chiunque accompagni la vicenda, finale e
mnemonica, dell’uomo privo di nome che fa da protagonista.
E’ invece ciò che accade in Everyman 1485, se Ian Kott annota questo passaggio fondamentale:
“Nel medioevo le tragedie di Euripide dovevano essere interpretate come misteri e miracoli, dal
momento che un poeta latino del XII secolo utilizzò un frammento delle Baccanti per descrivere
il seppellimento del Cristo. Il testo delle Baccanti ci è giunto in un manoscritto mutilo ed è solo
grazie all’anonimo poema Christus patiens che possiamo colmare una lacuna nell’epilogo della
tragedia”. Tale frammento è abbastanza significativo rispetto allo svuotamento che Everyman di
Roth compie rispetto all’Everyman 1485: “Vieni, vecchio, lasciaci mettere nel modo giusto la
testa dell’uomo tre volte sventurato e ricostruire l’intero corpo il più armoniosamente possibile.
O viso carissimo, o giovani guance, guarda, con questa coperta ti nascondo il capo e gli arti
segnati e sanguinanti”.
Nulla di ciò in Roth. Everyman è strutturato per tre quadri, che in realtà sono poi quattro: c’è la
sepoltura del cadavere dell’uomo senza nome, il funerale agghiacciante; c’è un vuoto silenzioso
che separa; c’è il racconto che riprende le memorie della fase terminale dell’esistenza del
protagonista (il quarto quadro corrisponde, nella prospettiva di questo intervento, al taglio netto
del finale e all’introduzione del bianco finale – di nuovo un silenzio, non propriamente della
medesima natura di quello posto all’interno del testo).
Questa pietà dell’altro nei confronti del morto, così evidente nelle Baccanti e nel suo erede
Christus patiens, è in Roth decisamente negata. Anzi, è rovesciata. I figli maschi, i figli del primo
matrimonio del protagonista di Everyman letteralmente e molto banalmente lo odiano, come in
un Edipo dilatato e privo assolutamente di elaborazione, e il loro astio emerge nel gesto finale,
che è un contraddittorio alla pietà tragica euripidea: “Il più giovane, Lonny, fu il primo ad
avvicinarsi alla fossa. Ma appena ebbe raccolto una zolla di terra cominciò a tremare in tutto il corpo
[corsivo mio, ndr], e diede l’impressione di essere lì lì per rigettare. Era stato preso da un
sentimento per suo padre che non era antagonismo, ma che il suo antagonismo gli impediva di
sfogare. Quando aprì la bocca, non ne uscì che una serie di rantoli grotteschi, facendo sembrare probabile che la
cosa che lo possedeva, qualunque cosa fosse, non lo avrebbe mai lasciato [corsivo mio, ndr]. Era messo così
male che Randy, il figlio maggiore e più determinato, il figlio che faceva le ramanzine, venne
immediatamente in suo soccorso. Tolse la zolla di terra dalla mano del più giovane e la gettò sul
feretro per tutt’e due. E quando si accinse a parlare, trovò in un attimo la vena giusta. – Dormi
bene, papà – disse Randy, ma la sua voce era terribilmente priva di ogni nota di tenerezza, dolore, affetto o
smarrimento [corsivo mio, ndr]”.
Appare, dunque, il contrario del telos tragico. Anzitutto perché il telos tragico sta alla fine, mentre
qui la fine sta all’inizio. Poi c’è l’inversione tra vivi e morti: laddove nelle Baccanti è un vecchio a
seppellire un giovane che è stato smembrato, qui sono due giovani a pezzi che seppelliscono un
vecchio pieno di pace-maker. Infine c’è la pietà: nelle Baccanti è intensa ed è essa che fa del
cadavere il protagonista del telos, in Everyman non c’è nulla di tenero né di empatico, e i
protagonisti non sono il morto, ma i viventi che seppelliscono.
Ora, tutto ciò è vero, ma a una lettura che vìola con forza il testo, alla ricerca di elementi
qualificanti e però non arbitrari, è anche falso. Anzitutto il fratello minore: è letteralmente preso
da uno spasmo, proprio come il coro delle Baccanti alla scoperta del cadavere. E’ chiaro che si
trova davanti a qualcosa di tremendo e, anche se Roth si impegna a darne una spiegazione
psicologica (“Era stato preso da un sentimento per suo padre che non era antagonismo, ma che
il suo antagonismo gli impediva di sfogare”), il che dovrebbe garantire l’assenza di tragico
dionisiaco, cioè di orizzonte trascendente, tuttavia a Roth stesso sfugge un’espressione che più
dionisiaca e tragica non si potrebbe reperire. Lonny è infatti preso da uno stato che abbiamo
bene in mente, ormai: “la cosa che lo possedeva, qualunque cosa fosse, non lo avrebbe mai
lasciato”. Un invasamento inqualificato. Una potenza estranea letteralmente occupa e prende possesso
del figlio del non tanto caro estinto. Infine, ex converso, quanta pietà ed empatia deve conoscere
chi scrive che “la sua voce era terribilmente priva di ogni nota di tenerezza, dolore, affetto o
smarrimento”? Se davvero a priori fosse assente la percezione della pietà, sarebbe impossibile
descrivere tanto assolutisticamente la mancanza di empatia.
Ciò non significa che un tragico di ordine dionisiaco (nell’accezione fin qui investigata) si
manifesti in Everyman, o, peggio, che elementi rilevabili di quest’ordine facciano di Everyman un
romanzo tragico. Tutt’altro. Qui si sta tentando di osservare se il testo offre supporti di tracce
di un tragico di cui l’autore non è affatto consapevole o, se ne è consapevole, non ne approva
minimamente il portato. Abbiamo già osservato le abissali distanze tra Everyman e il tragico
arcaico. Ora si ricercano le prossimanze eventualmente rimosse.
E’ lo stesso Kott che viene utile per ribadire, in una sintesi fulminante, la distanza ma anche
l’opportunità di una simile quest: “La morte e la resurrezione del dio sono nelle Baccanti un segno
simbolico, mentre sono reali lo strazio e la morte dell’uomo”. Detto che Everyman di Roth è la
storia dello strazio e della morte di un uomo considerati come reali, il giudizio di Kott il
contemporaneo, che inverte il simbolico con il reale, dà adito a ravvedere se sussitono nel
romanzo rothiano alcune tracce del simbolico. Si tratta di un preciso simbolico che qui si cerca:
è anzitutto lo sparagmòs. Giungo alla conclusione che lo sparagmòs governa, nella più totale cecità
autoriale, l’intero racconto mnestico sul protagonista senza nome di Everyman. C’è infatti da
considerare (evitando l’onda anomala che un simile argomento porterebbe dietro a sé, visto che
su quanto sto per affermare si sono sprecati fiumi d’inchiostro e di pixel, e sono fiumi che in
parte affluiscono reciprocamente, mentre in parte fanno cozzare le proprie correnti l’uno
contro l’altro), c’è da domandarsi chi sia il narratore dei ricordi del protagonista di Everyman. Si
tratta di uno sguardo disincarnato che è stato variamente denominato, e che porta tutte le tracce
di una solida funzione narratologica, definita “narratore onnipotente”. E’ uno sguardo
disincarnato, onnipresente, che entra nella testa del personaggio e ne esce quando vuole, capace
di descrivere dall’interno e dall’esterno. Gioca con la finzione come se ne fosse il dio. E’ uno
spostamento piuttosto decisivo all’interno dell’opera rothiana. Solitamente Roth utilizza, tranne
in un caso, un alter ego per narrare (Zuckerman è il più celebre), o direttamente e più
tradizionalmente un personaggio configurato “a sagoma psichica”. Va detto che l’intento di
Roth è quasi sempre speso all’insegna di esercitare un’ironia difensiva, un cinico sarcasmo,
nell’avverarsi di qualcosa che è tragico per contrasto. Avviene questo movimento per il
personaggio dello Svedese in Pastorale americana, così come avviene soprattutto ne La macchia
umana ai personaggi di Coleman e dell’ex veterano del Vietnam in piena sindrome da stress
post-traumatico. Tutto Il teatro di Sabbath, a partire dal titolo, evidenzia che siamo sempre su una
scena e che esiste uno sguardo capace di vedere lo spettacolo: che è sempre tragico e comico,
ma nel senso in cui per un contemporaneo il tragico è “narcisistico trascendentale” e il comico
esprime un’ironia aggressiva, che la retorica psichica ci avverte essere una difesa, un
allontanamento dal dolore, una presa di distacco – in pratica, il verbo postmoderno, che fa dello
scetticismo e dell’allontanamento la barricata definitiva contro la tragedia. Barricata che,
tuttavia, manifesta crepe.
Consideriamo, per esempio il seguente passo di Everyman:
“Spiegò a Nancy, quando gli chiese del suo lavoro, di avere subìto ‘un’irreversibile vasectomia
estetica’.
– Qualcosa ti rimetterà in pista, – disse lei, accettando quel linguaggio iperbolico con una risata
assolutoria”.
Possiamo passare oltre senza guardare in profondità, ma l’incredibile serie di operazioni
cardiache che subìsce il protagonista dovrebbe sollevare perlomeno qualche sospetto. Siamo
dotati della conoscenza delle cause, e quindi di un’eziologia precisa, che include il
riconoscimento dei sintomi. Il linguaggio che la figlia del protagonista percepisce come
“iperbolico”, non lo è affatto: è reale. Però è apparente, se Nancy lo giustifica come illusorio –
un’illusione che ha certamente una considerazione psicologica a motivarla. E tuttavia ci
troviamo di fronte a un’apparenza illusoria che è reale. Si dà il caso che questo sia precisamente
un pattern minimo di sparagmòs. Il termine “vasectomia”, come molto gergo medico, mantiene
evidente la sua radice etimologica, che è di origine grecoantica, e per questo assume una
funzione esotica e drammatica al tempo stesso. Qui è convocato il verbo tèmno, che significa
tagliare, e viene impiegato a proposito del corpo. Non basta: il taglio cardiaco è “irreversibile”.
E’ questo che fa scattare la percezione dell’“iperbolico”. Tale percezione è difensiva: la figlia
ride e assolve. Poiché nell’irreversibilità del taglio del corpo si presenta un fantasma di morte,
ma non di morte inqualificata: è precisamente un inizio di sparagmòs.
Si compie in Everyman un processo del tutto peculiare: l’uomo è fatto letteralmente a pezzi,
mediante la modalità contemporanea che la tecnologia ci offre: si tratta di una modalità invasiva.
E’ l’infinita teoria, che strema, di introduzione nel corpo di pillole antidolorofiche e sostanze
chemioterapiche, di pace-maker e divaricatori cardiaci, di cateteri e by-pass e defibrillatori.
L’effetto è comunque quello di vedere il proprio corpo che va a pezzi. E’ questa la tremenda malattia
che il Chiunque di Roth lamenta in maniera quasi irritante: “La vecchiaia è un massacro”.
Tanto più ciò accade, quanto più si alza la resistenza offerta da una memoria che non è la
Mnemosine madre della Musa letteraria: è proprio il contrario dell’anàmnesis che predispone,
nella tragedia tragica, al distacco dall’identità. E’ come se, in presenza del fantasma del tragico
dionisiaco, si alzasse in Everyman l’intensità di un ricordo che è antimetafisico, tutto teso alla
preservazione dell’identità psichica, questa illusione che la morte rende automaticamente
apparente e fugace: “Mio dio, pensava, che uomo ero una volta! Che vita avevo intorno! Che
forza avevo dentro! Nessuna ‘alterità’ da avvertire! Una volta ero completo: ero un essere
umano”. Un ulteriore totale rovesciamento della tragedia tragica - rovesciamento che però la
invera: il personaggio di Roth è omologo di Penteo, in quanto non riconosce Dioniso. L’“io” di
una volta è descritto come l’Unico a cui mira il percorso dionisiaco o quello iniziatico orfico: è
privo di alterità, è completo e dispone di una forza interna, di una potenza che regge
stabilmente l’assolutezza dell’uno. Tutto ciò, in salsa antimetafisica, diventa una parodia di
Dioniso stesso. La necessità della morte, e la non necessità della malattia avvertita però come
un colpo necessario (mentre qualche personaggio potrebbe morire in un incidente, come càpita
peraltro ne La macchia umana), sono gli elementi che determinano il rovesciamento: comunque
invasato da Dioniso e sotto sparagmòs, ogni personaggio enuncia con lucidità quanto sia terribile
il massacro della vecchiaia. Lo sparagmòs è fisico, ma non allucinatorio – al limite permette sfogo
confusivo di emozioni, di fronte al dolore. Ma chiunque è lucidissimo, è lucidissimo perfino
l’amico del protagonista che viene ricoverato in clinica psichiatrica e risponde al telefono
minimizzando. Questo minimizzare fa il melodramma.
Tutta la retorica di Everyman è melodrammatica. Il tragico contemporaneo non è tragico affatto:
prelude a un’azione inesistente e a un cospicuo pensamento, che si attorciglia intorno all’“io”,
entità che è la traccia prima e ultima che il nostro distorto umanesimo è disposto a concederci,
privandoci di qualunque consolazione nel momento in cui si prospetta l’evaporazione egoica.
E’ melodrammatica la lucidità con cui la seconda moglie del protagonista, Phoebe, sotto ictus,
descrive la difficoltà che la paresi comporta. Viene quasi da ridere a fronte di questo
melodramma, capace di eiettare frasi come: “Lui attese, mentre le lacrime le scorrevano sul viso
e Phoebe lottava per finire la frase”. Questo non è Roth: è Harmony. E come Phoebe, sul letto
d’ospedale, affronta l’argomento della paresi: una definizione talmente ridicolmente tautologica
che, davvero, c’è da chiedersi se abbiano ragione i critici tanto entusiasti di Roth a sostenere la
grandezza di questo autore: “– La paralisi è terrificante, – gli disse lei”.
E tutto ciò accade non a caso. Mentre l’amico in clinica psichiatrica minimizza sulla sua
condizione, è il protagonista che manifesta una percezione empatica, la quale ha in sé la traccia
della questione tragica, il buco bianco dello sparagmòs: “Dopo avere riagganciato, si chiese: sapeva
che ero io? Ricordava veramente ciò che ricordavo io?”. Qui il protagonista si immedesima
nell’alterità che da giovane tanto lo infastidiva ed è costretto a mettersi nella posizione di chi sta
perdendo l’“io”, di chi sta affrontando l’attraversamento del terrore implicito nello sparagmòs –
cioè la perdita dell’identità.
Eppure la renitenza all’emersione della consapevolezza che si sta prospettando non la fine di
una realtà, ma la fase terminale di un’apparenza, causa una resistenza assoluta, tale da investire
perfino la malattia, che fa le veci del messaggero mortale dell’Everyman 1485. La malattia diventa
il canale della libertà assoluta: “Quando mi sono ammalato di cancro quasi tutti i miei blocchi se
ne sono andati. Ora faccio quello che voglio”. Il che significa: sono “io” più che mai. Perfino in
prossimità della morte, in mezzo alla malattia, “io” non voglio morire, “io” mostro segnali di
una vitalità assoluta.
E in gioco è la letteratura. A questa ricetta antiblocco enunciata dall’amico Ez, il protagonista
risponde: “E’ una terapia brutale per il blocco dello scrittore”. Questo pubblicitario che
troneggia insopportabilmente in Everyman è una metonimia vivente nella finzione: sta per lo
scrittore. E’ tutto quanto rappresenta la letteratura oggi. Le sue velleità artistiche sono tali:
velleitarie cioè. Egli non aspettava altro che il momento per dipingere e si trova a essere un
dilettante a cui non interessa minimamente del momento creativo. E’ lo Zeitgeist
contemporaneo, una visione presbiteriana, borghese in assenza di borghesia effettivamente
senziente, che trova rappresentazione emblematica in Everyman: questo protagonista dice di sé
che “dissolvere famiglie era la sua specialità” e che aveva privato i figli “di un’infanzia coesa”.
A nulla vale il fatto che, quando si appalesa l’appercezione che è sotto lo scacco di un destino,
questo elemento del tragico della tragedia antica, la reazione è tragica: è la medesima reazione di
Elettra e Oreste sulla tomba di Agamennone, a cui si aggiunge però la quintessenziale
negazione che a priori, nel testo, si è già invasati dalla potenza dionisiaca: “Alla constatazione di
tutto ciò che aveva spazzato via, per conto proprio, apparentemente senza valide ragioni e,
peggio ancora, contro le sue intenzioni, contro la sua volontà, [...] all’umiliante constatazione che si
era degradato non soltanto fisicamente, diventando la persona che non voleva essere [corsivo mio],
cominciò a battersi il petto col pugno, colpendosi al ritmo dei rimproveri che si rivolgeva e
mancando di millimetri il defibrillatore”. Un passo interessante: è una trenodia anticipata. Il
ritmo dei colpi è quello dei rimproveri e manca solamente la specificazione che il piede di
questo ritmo è giambico e compone un ditirambo. Questo misconoscimento di sé è finalmente
il segnale dello sparagmòs psichico: la presa di coscienza, comunque negata, che l’uomo non è
quanto aveva voluto essere, ogni azione in tal senso è andata a vuoto, e la volontà, questa
potenza che l’umanismo rothiano e unamuniano schiera come forza tragica, è sfumata e non
c’entra nella composizione identitaria che ha assunto non solo la psiche, ma financo il corpo.
Siamo a un passo dal compimento dello sparagmòs fisico ed emerge l’interiorizzazione dello
sparagmòs psichico, che Bettini poneva, esaminando le Baccanti, ben prima del cominciamento
dell’inevitabile smembramento.
Il percorso strutturale di Everyman è quello dal Gaudium ai Tristia che Benjamin, nel Dramma
barocco, rintracciava a proposito della distinzione sociostorica tra poesia comica e tragica. Nel
senso di una trascendenza svuotata, Everyman è davvero una tragedia, ma rovesciata, o, meglio,
incrociata: poiché si apre coi Tristia e continua con il percorso da Gaudium a Tristia. Benjamin
vede bene, quando affida al “flusso di prosa” l’eredità dell’incrocio giuridico-teologico in cui si
consuma la tragedia barocca del tiranno e dello stato d’eccezione – Roth ne fa un’esplicita
ammissione narrativa: “Da solo, per qualche tempo aveva creduto che la componente mancante
in qualche modo sarebbe ritornata per renderlo ancora una volta inviolabile e per ribadire il suo
dominio, che il diritto annullato per errore sarebbe stato ripristinato, e che lui avrebbe potuto riprendere
da dove si era interrotto”.
Eppure qualcosa non torna. Lo sparagmòs psichico insiste nella sua battaglia con cui pressa, da
sotto, la prosa intenzionale e algebrica di Roth: “Si vedeva correre in tutte le direzioni
contemporaneamente attraverso l’incrocio principale di Elizabeth – il padre fallito, il fratello
invidioso, il marito fedifrago, il figlio impotente – e ad appena qualche isolato dalla gioielleria di
famiglia si sentiva evocare tutti i nomi dei parenti più stretti, sui quali non riusciva a guadagnare
terreno per quanto perseverasse nell’inseguimento”. Questo incubo è allucinatorio e nella sua
testualità indica sparagmòs: una persona che si separa da se stessa in ogni direzione e che prende
consapevolezza dell’apparenza della sua identità pronta a sfumare. Un gesto che probabilmente
Roth non ammetterebbe avere le valenze che qui gli si attribuiscono – e tuttavia un sintomo
inequivocabile che, se il romanzo tenta di essere tragico, non può farlo senza pagare il prezzo di
una riemersione del rimosso, che è la super-retorica del tragico che si incarna nella tragedia
classica.
Per quanto, come potrebbe fare Penteo, l’uomo senza nome e con poche qualità di Roth
affermi: “Io credevo, dentro di me ne ero certo, che la vita durasse in eterno”, che è la posizione del
“narcisismo trascendentale” di Unamuno, Roth non può sottrarsi alla memoria dell’ethos tragico
che presiede al telos. Non solo ribalta la figura dei becchini dell’Amleto shakespeariano, che
anzitutto è una tragedia e solo a partire da questo dato può permettere che le si sviluppino
intorno riflessioni, ma non regge alla potenza del telos stesso, praticando un taglio tragico
dionisiaco al suo romanzo: “Non esisteva più, era stato liberato dal peso di esistere, era entrato
nel nulla senza nemmeno saperlo. Proprio come aveva temuto dal principio”. E’ proprio quel
“timore” aristotelico che qui si autorappresenta, e la perdita dell’“io” è condotta da uno sguardo
consapevole, che osserva l’esistenza non come quella gioia vitalistica tanto rimpianta, bensì
come peso. Questo sguardo esercita ybris, tipica della funzione moderna del “narratore
onnipotente”: sa cosa c’è dopo la perdita dell’“io”: ci sarebbe il nulla. Una posizione ingenua e
saccente, che però è messa in scacco da quanto accade subito dopo l’enunciazione: c’è il bianco
della fine, lo spazio di silenzio inqualificato, l’appendice priva di alterità che le storie tragiche
aprono: una presenza osservante che implica rammemorazione priva di linguaggio – la sostanza
stessa su cui si regge la narrazione. Questo momento di silenzio in cui si apre la possibilità che
lo sguardo veda la visione è impedito dal melodramma allestito da Roth, ma permesso dal
residuo di potenza tragica dionisiaca che perdura, latente e presente al tempo stesso.
b) Operazione Shylock
Due osservazioni, prima di esercitare definitivamente il non-metodo, attraverso l’esposizione di
passi che, a questo punto dell’investigazione, si collocano in un quadro ermeneutico che il
presente intervento definisce come oggetto del romanzo tragico: il tragico identico alla tragedia.
La domanda è: può il romanzo contemporaneo essere l’incarnazione del tragico come potenza
che è “il dio della finzione” e che conduce al distacco dal sé identitario? Sì, può: lo dimostrano
Body Art di Don DeLillo e La possibilità di un’isola Houellebecq, per non parlare del caso esplicito
e assai complesso del Petrolio di Pasolini. La condizione per cui il romanzo sia tragico nel senso
suddetto è unica: l’utilizzo di una super-retorica che, in sintesi, si può definire come
l’espressione testuale di un affrontamento del buco bianco di uno sparagmòs, psichico o fisico che
sia – cioè l’attraversamento della dissoluzione ricomponibile del sé identitario e l’approdo a un
sé non individualizzato. Senza questa postura interiore, la letteratura non può essere tragica.
La seconda osservazione. Al tragico della tragedia il contemporaneo ha sostituito il
melodrammatico, che è un approccio difensivo: finzionale il suo emotivo, aggressiva per
allontanamento del dolore la sua ironia – che non è certo l’ironia tragica dovuta all’amartìa. Il
caso specifico dimostra che, all’emersione di reperti del tragico dionisiaco, aumenta la resistenza
intratestuale a questa epifania e si consolida in intensificazione la componente comica difensiva.
Un caso emblematico è Operazione Shylock di Roth. Una sorta di unicum nella sua opera, questo
romanzo vede agire direttamente Philip Roth in quanto personaggio. Poiché vuole arrivare a
esplicitare una tesi scandalosa, Roth si alterizza in un sosia che la enunci al posto suo (e,
organizzando così la narrazione, è Roth stesso che pronuncia lo scandalo – solo, lo fa mediante
un protocollo di allontanamento, che è l’ironia postmoderna). Questo sosia si manifesta dopo
un autentico sparagmòs a cui Roth storicamente è stato sottoposto, per una cura con farmaci che
avevano un effetto allucinatorio. Nel romanzo, Roth, in esaurimento nervoso e sotto
allucinazione, arriva alla domanda “Dove è Philip Roth?”, cioè: “Chi sta parlando ora, che non
sa dov’è ‘io’?”. E’ la chance tragica, che Roth chiude con la sospensione dell’assunzione del
farmaco (realmente esistente, qui è tutto cronachistico: il farmaco, bennoto per ciò che implicò
ai tempi e tolto dal mercato, si chiamava Halcion, rimando ironico della storia a un mito greco
di ordine titanico, cioè relativo a un’imitazione illegittima della deità). Nonostante ciò, come in
Everyman, Roth evoca col titolo nuovamente un testo antico, una tragedia, non greca ma
shakesperiana, cioè Il mercante di Venezia. Mentre l’intenzione punta al personaggio dell’ebreo nel
ghetto, l’usuraio che pretende la sua libbra di carne – e cioè pretende uno sparagmòs –, l’effetto
testuale è identico a Everyman: una lotta senza quartiere tra la concezione melodrammatica del
tragico contemporaneo e la potenza devastante dell’annichilimento identitario che è il portato
del tragico dionisiaco.
La parola a Roth, ora. Le conclusioni al lettore.
Poiché la forma saggistica qui impegnata, che dovrebbe essere narrazione in un tempo
antinarrativo, possa trattenere un emblema di quel tragico che è il futuro che preme sulla
scrittura, l’avveniente, il non pacificatore che ha in sé la possibilità di concludere come va
conclusa, nell’indefinitezza che non permette chiusura, la forma di rappresentazione artistica
umana – l’unica possibilità di pace che appartiene alla specie.
Ciò che qui riporto dal romanzo di Roth, per dirla in breve, è per me un libro intero, la narrazione
che doveva interrompersi prima che la finzione che non riconosce il proprio dio, cioè la propria
potenza governativa del tutto inconoscibile se non per esperienza diretta, prendesse il
sopravvento e portasse il libro sugli scaffali.
“Ecco quello che era successo:
Durante i postumi di una piccola operazione chirurgica a un ginocchio il dolore, anziché
diminuire col trascorrere delle settimane, aveva continuato ad aumentare, superando di gran
lunga il disagio prolungato che mi aveva spinto a decidere per l’intervento. Quando andai a
trovarlo per rendermi ragione del peggioramento, il mio giovane chirurgo disse solo: – Càpita,
qualche volta –, e, sostenendo di avermi preavvertito che l’operazione poteva anche fallire, mi
congedò. Restai lì con un palmo di naso e qualche pillola contro il dolore. Un esito così
sorprendente, dopo una breve visita ambulatoriale, avrebbe scoraggiato e fatto arrabbiare
chiunque; quel che accadde nel mio caso fu peggio.
La mia mente cominciò a disintegrarsi [corsivi miei, ndr]. La materia di cui era costituito il mio cervello
sembrava essere proprio la parola DISINTEGRAZIONE, e fu questa che prese a disgregarsi
spontaneamente. Le quindici lettere che formavano il mio cervello, grosse, spesse, di forma irregolare e sottilmente
intrecciate tra loro, si staccarono l’una dall’altra, certe volte frammento per frammento, ma quasi sempre in
segmenti nonsillabici penosamente impronunciabili di due o tre lettere, dagli orli ruvidi e seghettati. Quella
disgregazione mentale era una realtà fisica non meno nitida dell’estrazione di un dente, e il dolore che causava
era straziante.
Allucinazioni come queste, o peggiori di queste, mi assalivano e travolgevano giorno e notte,
come un branco di animali selvatici che non potevo far nulla per fermare. Nulla potevo fermare, la
mia volontà cancellata dall’immensità del pensiero più trascurabile e più idiota. Due, tre, quattro volte,
senza provocazione né preavviso, [...] piangevo. Piangevo davanti agli amici, davanti agli
estranei; anche seduto sul water, da solo, mi scioglievo in lacrime, me le spremevo dagli occhi
fino a sentirmi prosciugato, un diluvio di lacrime che mi faceva sentire scorticato. [...]
Non riuscivo a impedirmi, a quanto pare, di rimboccarmi febbrilmente le maniche e poi di
srotolarle altrettanto febbrilmente e di abbottonare meticolosamente il polsino, solo per
sbottonarlo di nuovo e ricominciare quell’insensato rituale, come se il suo significato andasse proprio al nocciolo
della mia esistenza. Non riuscivo a smettere di aprire le finestre e poi, quando l’attacco di
claustrofobia era stato rimpiazzato dai brividi, a chiuderle come se a spalancarle tutte non fossi stato io
ma qualcun altro. [...] Sedevo, col cervello paralizzato, davanti al telegiornale della sera: un cadavere.
[...] Era un’altra manifestazione del panico che non riuscivo a dominare: un panico che di giorno mi
assaliva sporadicamente e di notte mi invadeva senza tregua, titanicamente.
Paventavo le ore delle tenebre. [...] Mi sentivo in procinto di subire una serie di torture alle quali
questa volta non sarei sopravvissuto. La mia unica possibilità di arrivare a rivedere la luce del giorno senza
che la mia mente si disgregasse del tutto consisteva nell’aggrapparmi a un’immagine talismanica emersa dal
mio passato più innocente [...]. Quando credevo (spesso erroneamente), che Claire dormisse,
salmodiavo ad alta voce questa formula magica [...].
– Dov’è Philip? – dicevo a Claire con voce atona. [...] – Dov’è Philip Roth? – chiedevo ad alta voce. – Dov’è
andato? – Non era una domanda retorica. Domandavo perché volevo saperlo.
[...] [Mi ritrovai] mezzo convinto, cioè, di dovere la mia trasformazione – la mia deformazione –
non a un agente farmaceutico ma a qualcosa di nascosto, oscurato, mascherato, represso, o forse solo di
increato, in me, fino all’età di cinquantaquattro anni, ma non meno del mio stile letterario, della mia
infanzia o delle mie viscere; mezzo convinto che, qualunque altra cosa potessi immaginare di
essere, ero anche questo e, in circostanze abbastanza difficili, avrei potuto esserlo di nuovo, un
che di vergognosamente dipendente, insensatamente deviante, limpidamente pietoso,
sfacciatamente imperfetto, squilibrato anziché incisivo, diabolico anziché degno di fiducia, privo di
introspezione, privo di serenità, privo di quel normale ardire che fa sì che la vita sembri una cosa tanto
importante: un che di forsennato, maniacale, repellente, angosciato, odioso, allucinante, la cui esistenza è solo un
lungo tremito.
[...] Un incubo sul ritorno di un io usurpatore completamente sottratto al mio controllo.
[...] E’ Zuckerman, pensai, bizzarramente, stupidamente, evasivamente, è Kepesh, sono
Tarnopol e Portnoy: sono tutti loro in un’unica persona, liberatisi dalla carta stampata e beffardamente
ricostituiti come un solo facsimile di me stesso. In altri termini, se non è colpa dell’Halcion e non è un
sogno, allora dev’essere letteratura: come se non potesse esistere una vita-fuori diecimila volte più
inimmaginabile della vita-dentro”.
Note
- Philip Roth, Everyman, edizione italiana Einaudi, 2007, traduzione di Vincenzo
Mantovani.
- Philip Roth, Operazione Shylock – Una confessione, edizione italiana Einaudi, 1998,
traduzione di Vincenzo Mantovani.
- Euripide, Le Baccanti, edizione italiana ES, 1995, traduzione di Edoardo Sanguineti con
uno scritto di Ian Kott
1. Stephen King, Blaze, 2007. La stesura definitiva risale al 1973. A maggior ragione, quindi, la
prefazione di King assume un valore critico interessante, poiché tira le file di quanto è accaduto
nel confronto tra quella che ai tempi veniva considerata “paraletteratura” e la letteratura
cosiddetta “alta”.
2. Stephen King, On writing, edizione italiana 2001. Il titolo non è completo, recita in realtà: On
writing. Autobiografia di un mestiere, che è quello dello scrittore. La prima parte del testo è
effettivamente il più impressionante racconto autobiografico della letteratura americana degli
ultimi tempi, a cui guarda Bret Easton Ellis nel prologo del suo Lunar Park. La seconda parte è
una riflessione profonda sulle condizioni ontologiche dello stato di scrittura e sulle modalità che
gli esiti della letteratura raggiungono in termini di mobilitazione di immaginario, sia ripetto alla
collettività sia circa l’intimità in sommovimento o meno del singolo lettore.
3. Intervista a Der Spiegel, 26 agosto 2006.
4. William Storm, After Dionysus. A theory of the Tragic, 1998.
5. Aristotele, Poetica, 1449a e sgg.
6. Gerald F. Else, The Origin and Early Form of Greek Tragedy, 1965.
7. Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet, Mythe et tragédie en Grèce ancienne, 1972.
8. Arthur Pickard-Cambridge, Dithyramb Tragedy and Comedy, 1962.
9. Karl Kerényi, edizione italiana Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, 1992.
10. James George Frazer, edizione italiana Il ramo d’oro, 2006.
11. Charles Segal, Dionysiacc Poetics and Euripides’ “Bacchae”, 1982.
12. Froma Zeitlin, Playing the Other: Gender and Society in Classical Greek Literature, 1996.
13. Walter Otto, edizione italiana Dioniso. Mito e culto, 2002.
14. Erik R. Dodds, introduzione e commento alle Baccanti di Euripide, 1962.
15. Giorgio Colli, La sapienza greca, 1977.
16. Paul Ricoeur, Le symbolisme du Mal, 1960.
17. Friedrich W. Schelling, edizione italiana Filosofia dell’arte, 1986.
18. Kenneth Burke, A Grammar of Motives, 1945.
19. Walter Benjamin, edizione italiana Il dramma barocco tedesco, 1971. Si richiama qui l’allegoria
benjaminiana secondo i momenti isolati nella sintesi presente nel saggio Allegoritmi di Wu Ming
1: “Tutte le narrazioni sono allegorie del presente, per quanto indeterminate. La loro
indeterminatezza non è assenza: le allegorie sono ‘bombe a tempo’, letture potenziali che
passano all’atto quando il tempo giunge. La definizione dell’allegoria come ‘espediente retorico’
si mostra del tutto inadeguata, e infatti Walter Benjamin, nel suo L’origine del dramma barocco
tedesco, descrisse l’allegoria come una serie di rimbalzi imprevedibili, una triangolazione fra ciò
che si vede nell’opera, le intenzioni di chi l’ha creata e i significati che l’opera assume a
prescindere dalle intenzioni. Questo livello dell’allegoria è privo di una ‘chiave’ da trovare una
volta per tutte. E’ l’allegoria metastorica. Si può descriverla come una palla che rimbalza in una
stanza a tre pareti mobili, ma anche come un continuo saltare su tre piani temporali: il tempo
rappresentato nell’opera (che è sempre un passato, anche quando l’ambientazione è
contemporanea); il presente in cui l’opera è stata scritta (che, anch’esso, è già divenuto passato);
il presente in cui l’opera viene fruita, in qualunque momento questo accada”.
20. Miguel de Unamuno, edizione italiana Del sentimento tragico della vita, 1999.
21. Golden e Harrison, Aristotle’s Poetics: A translation and Commentary, 1963.
22. John Jones, On Aristotle and Greek Tragedy, 1962.
23. György Lukács, edizione italiana L’anima e le forme, 2002.
24. Ian Kott, in edizione italiana Mangiare Dio, o “Le Baccanti”, nella collettanea Mangiare Dio, 1990.
25. Mircea Eliade, Mythes, rêves et mystères, 1989.
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