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“Voiperprimidoveteessereil
cambiamentochedesideratevederein
questomondo”
(MahatmaGandhi)
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Sommario
ABBREVIAZIONI .................................................................................................... 2
POVERTÀ SVILUPPO E COOPERAZIONE ........................................................ 3
LEZIONE 1 – LA CARTOGRAFIA ........................................................................ 3
1. Cenni di cartografia: Gerard de Krämer e Arno Peters ........................................................................ 3
Mercatore ..................................................................................................................................................... 3
Peters ............................................................................................................................................................ 5
Qual è la carta giusta? ................................................................................................................................... 6
2. Il problema dello sviluppo e la cooperazione internazionale .............................................................. 8
Che cos’è la cooperazione? ........................................................................................................................... 8
Gli attori della cooperazione internazionale ................................................................................................. 9
La Dichiarazione del Millennio e gli MDGs .................................................................................................. 10
LEZIONE 2 – I RAPPORTI NORD-SUD .......................................................... 12 1. Colonialismo e decolonizzazione .......................................................................................................12
I concetti fondamentali ............................................................................................................................... 12
Le forme di politica coloniale ...................................................................................................................... 12
Le fasi della colonizzazione ......................................................................................................................... 13
1870-1914: l’epoca d’oro dell’Imperialismo e la corsa all’Africa ................................................................ 14
Il tramonto del colonialismo ....................................................................................................................... 16
L’evoluzione geografica della decolonizzazione ......................................................................................... 17
La nuova indipendenza e i problemi dello sviluppo .................................................................................... 19
Il caso studio Algeria ................................................................................................................................... 19
2. Il fenomeno della globalizzazione .....................................................................................................20
Rapporti Nord-Sud: teorie a confronto ....................................................................................................... 20
La globalizzazione ........................................................................................................................................ 22
Le fasi della globalizzazione ........................................................................................................................ 23
LEZIONE 3 – POVERTÀ E DISUGUAGLIANZE .............................................. 25
1. La povertà .........................................................................................................................................25
Povertà assoluta .......................................................................................................................................... 25
Povertà relativa ........................................................................................................................................... 25
L'approccio delle capabilities ...................................................................................................................... 26
2. La disuguaglianza ..............................................................................................................................27
Diversità (le diseguaglianze naturali) .......................................................................................................... 27
Diseguaglianza come concetto globale ....................................................................................................... 28
BIBLIOGRAFIA .................................................................................................... 30
SITOGRAFIA ........................................................................................................ 32
FILM, VIDEO, DOCUMENTARI ........................................................................ 33
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Abbreviazioni
COE Council of Europe / Consiglio d’Europa: www.coe.int
HDI / ISU Human Development Index / Indice di sviluppo Umano
IMF / FMI International Monetary Found / Fondo Monetario Internazionale: www.imf.org
IDPs Internally Displaced Peoples / Sfollati
IOM International Organization for Migration / Organizzazione Internazionale per le
Migrazioni www.iom.int
LDCs Less Developed Countries / Paesi meno sviluppati
MDGs Millennium Development Goals / Obiettivi di sviluppo del millennio
NATO North Atlantic Treaty Organization: www.nato.int
OUA / UA Organizzazione dell’Unione Africana, Unione Africana: www.africa-union.org
PS Paesi sviluppati / Developed Countries
PVS Paesi in via di sviluppo / Developing Countries
UE Unione Europea: http://europa.eu/index_it.htm
UN / ONU United Nations / Organizzazione delle Nazioni Unite: www.un.org
UNDP United Nations Development Programme / Programma delle Nazioni Unite per lo
sviluppo: www.undp.org
UNHCR Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati / United Nations High
Commissioner for Refugees: www.unhcr.org
WB / BM World Bank / Banca Mondiale: www.worldbank.org
WHO /OMS World Health Organization / Organizzazione mondiale della salute: www.who.int
WTO / OMC World Trade Organization / Organizzazione mondiale del commercio: www.wto.org
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POVERTÀ SVILUPPO E COOPERAZIONE
LEZIONE 1 – La cartografia
1. Cenni di cartografia: Gerard de Krämer e Arno Peters
Parlare di cartografia significa parlare di come viene rappresentato il nostro pianeta. Ripercorrerne
la storia dalle prime incisioni e rappresentazioni del mondo alle mappe che oggi sono disponibili e
possono includere informazioni molto approfondite di ogni parte della terra è interessante perché
spiega quali erano e quali sono i dati, le conoscenze e le tecnologie di rappresentazioni che l’uomo ha
avuto a disposizione nel tempo.
Ogni mappa geografica è costruita per rispondere a precise esigenze di chi la disegna. Quali sono
gli elementi che possono influenzare un cartografo nella scelta di metodi, aree e informazioni da
inserire? Quali sono i benefici e i poteri che ottiene chi è in grado di controllare il disegno del mondo?
Su chi ha influenza la visione del mondo che una carta geografica rappresenta? La risposta a queste
domande può essere cercata a partire dal confronto tra due personaggi storici di spicco nel dibattito
cartografico, attraverso il racconto della loro storia, dei loro intenti e della loro fortuna. In seguito
saranno analizzati gli sviluppi attuali della questione.
Mercatore
Gerard de Krämer, (Rupelmonde, 1512 – Duisburg, 1594) è stato un matematico, astronomo e
cartografo fiammingo. I suoi lavori di cartografia lo portarono a contrasti con le autorità religiose
cattoliche, fino alla condanna di eresia. È passato alla storia per aver inventato un sistema di
proiezione cartografica che porta il suo nome, la proiezione di Mercatore.
Il suo intento era quello di costruire una carta utile per la navigazione delle numerose compagnie
commerciali del tempo. A tale scopo disegnò una proiezione cartografica isogonica (cioè una mappa
nella quale il rapporto tra gli angoli rimane inalterato), che permette la navigazione con il solo uso di
tale carta e di una bussola. L’obiettivo era quello di disegnare una carta per i mercanti, categoria
particolarmente prospera nella seconda metà del Cinquecento: la scelta di Mercatore è dunque
anche di tipo economico, egli individua un bisogno (quello di mappe adatte alla navigazione) e cerca
di rispondervi (creando tale mappa).
La Figura I.1 riporta la carta disegnata da Mercatore. Dall’immagine appare evidente che
Mercatore compie due operazioni importanti: per prima cosa decide di porre al centro della carta la
Germania (se si prova a tracciare una linea verticale e una orizzontale partendo dai punti medi di due
La cartografia è l’insieme di conoscenze scientifiche, tecniche e artistiche per la rappresentazione simbolica ma veritiera di informazioni geografiche, statistiche, demografiche, economiche, politiche o culturali in relazione ad un luogo geografico. Queste rappresentazioni sono realizzate su supporti piani (carte) o sferici (globi). Tutte le proiezioni cartografiche nascono da un processo di deformazione, attraverso tecniche geometriche o matematiche, della superficie terrestre (sferica, anzi ellissoidale), altrimenti impossibile da rappresentare su un piano. Lo sviluppo dei sistemi informativi territoriali (GIS, in inglese) ha rivoluzionato gli studi cartografici, poiché questi permettono l’acquisizione e l’elaborazione computerizzata di informazioni da dati geo-referenziati.
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lati contigui, il punto di intersezione si trova sulla Germania); in secondo luogo egli sacrifica la fedeltà
alle dimensioni per restare fedele agli angoli e quindi mantenere inalterati i rapporti nord-sud ed est-
ovest.
Fig. 1 – Planisfero di Mercatore
La prima delle due scelte è facilmente giustificabile. A quel tempo infatti il centro del mondo era il
continente europeo: dai porti di Amburgo, Brema e Lubecca partivano ed arrivavano i maggiori traffici
commerciali con tutto il globo. La scelta esprime una visione del mondo del tutto soggettiva e
risponde alla cultura fortemente eurocentrica del periodo coloniale. La seconda scelta era invece
dettata dai problemi che le carte piane fino ad allora in circolazione presentavano: Mercatore fece il
primo tentativo empirico di costruire una carta sulla quale le rotte navali si potevano rappresentare
tracciando semplici linee rette.
Nonostante sia la carta più famosa e rappresentata nel mondo, questa proiezione è stata bersaglio
di numerose critiche, specialmente a partire dagli anni ’50, perché presenta numerosi problemi
teorici e distorsioni anomale della superficie terrestre. In primo luogo (vedi Fig.1) il Nord e il Sud del
mondo occupano la metà dello spazio disponibile ciascuno. Le cifre riportate sulla figura però
indicano che nella realtà il Nord occupa una superficie di 49.3 milioni di Km2 mentre il Sud ben
100.26 milioni di Km2: in una carta geografica rispettosa delle superfici, al Nord spetterebbe circa un
terzo dello spazio disponibile e al Sud due terzi.
Fig.2 Fig.3
5
Altre anomalie della carta sono facilmente osservabili nelle figure qui presentate. Europa e Sud
America, che nella carta sembrano occupare lo stesso spazio, hanno superfici reali molto diverse tra
loro. Il territorio russo appare più grande del continente africano nonostante sia inferiore di 7.5
milioni di Km2. La sproporzione più visibile poi è quella che riguarda la Groenlandia. Il “caso
Groenlandia“ (uno dei più famosi nell’ambiente della cartografia) è diventato sinonimo di errata
rappresentazione delle aree: non solo la regione artica risulta più grande della Cina (4 volte più
estesa), ma anche del Sud America (7.74 volte più estesa) e dell’Africa (ben 13 volte).
Le critiche alle rappresentazione basate sul metodo di Mercatore iniziano a farsi più significative
nel corso del XX secolo: all’immagine deformata dei paesi del Sud del mondo sulla carta geografica
sembra corrispondere nella storia un’immagine dell’Europa che pone se stessa e i propri bisogni al
centro del mondo, in un rapporto di conquista e dominio coloniale con gli altri continenti.
Peters
Arno Peters (Berlino, 1916 – Brema, 2002) è stato uno storico e cartografo tedesco interessato alle
problematiche dell'equità economica e politica per tutte le popolazioni mondiali. Nel 1973 Peters ha
disegnato una mappa che rispetta le proporzioni tra le superfici dei continenti (“fedeltà alla
superficie”) e deve quindi allo stesso tempo operare una distorsione sugli angoli in senso
longitudinale. Peters affermava che la sua mappa per aree equivalenti rendeva giustizia a tutti i paesi
del mondo, e in particolare a quelli del continente africano, poiché affermava implicitamente l’uguale
dignità e importanza di tutte le culture e di tutti i popoli:
L’immagine eurocentrica del mondo si è dimostrata funzionale anche allo sfruttamento del terzo mondo da parte dei paesi industrializzati nell’epoca post-coloniale. La lotta per sostituire la vecchia carta geografica si trasforma così nella lotta contro l‛ideologia dello sfruttamento. […] Ora dopo secoli di egocentrismo possiamo vedere il nostro paese dal punto di vista del mondo e non viceversa. Poiché si è sempre pensato che le carte geografiche riproducessero il mondo in modo obiettivo, scoprendone ora il valore ideologico, siamo esortati a verificare tutta la nostra concezione del mondo.
La Carta di Peters è realizzata attraverso una scomposizione del mondo in 100 parti orizzontali e
100 verticali non tenendo conto dei gradi (questione cara a Mercatore perché determinante per la
navigazione) e spostando il meridiano zero sullo Stretto di Bering (anziché su Greenwich). Molte sono
le caratteristiche che distinguono la Carta di Peters, che vuole essere fedele a:
- Superficie: ogni area (paese, continente, mare) è rappresentata secondo le sue reali
dimensioni;
- Asse: tutte le linee Nord-Sud sono verticali. La posizione di ciascun punto è immediatamente
verificabile in termini di meridiano o fuso orario;
- Posizione: tutte le linee Est-Ovest sono parallele e orizzontali. Il rapporto di qualsiasi punto
della carta con la sua distanza dall'equatore è subito identificabile;
- Scala: rende numericamente l'esatto rapporto tra la rappresentazione (sufficientemente
Fig.4 Fig.5
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piccola della carta) e l'originale;
- Proporzionalità: il grado di deformazione longitudinale lungo il margine superiore della carta
è uguale a quello lungo il suo margine inferiore, il che significa rendere regolare la
distribuzione degli errori, che così non vengono concentrati tutti nelle aree più lontane
dall'Europa;
- Universalità: permette di costruire reticoli cartografici per ogni parte della superficie terrestre
e per l'intera superficie, permettendo di rappresentare qualunque contenuto cartografico;
- Totalità: la terra è completamente rappresentata, senza "tagli" o doppie rappresentazioni (la
Carta di Mercatore non poteva rappresentare le zone polari);
- Integrabilità: permette di separare intere sezioni terrestri dal margine sinistro e di riunirle alla
carta sul margine destro (e viceversa); questo significa che la forma dei continenti e dei mari
rimane invariata qualunque sia l'area del globo rappresentata nella zona centrale;
- Chiarezza: la forma rettangolare del reticolo riesce a evitare deformazioni oblique, cioè le
proporzioni sono armoniche e ben comprensibili;
- Adattabilità: la carta si può adeguare a particolari esigenze di contenuti cartografici generali.
Fig. 6 – Planisfero di Peters
Un’ulteriore innovazione introdotta da Peters è quella riguardante la colorazione. Fino a quel
momento nelle carte politiche le colonie venivano rappresentate dello stesso colore della
madrepatria. Peters utilizza invece una scala cromatica diversa per ciascun continente,
indipendentemente dalle relazioni coloniali.
A quattrocento anni di distanza dall’atlante pubblicato da Mercatore, Peters propone una
rappresentazione differente, basata su diversi presupposti, e mostra un nuovo mondo, più esatto, più
equo … oppure no?
Qual è la carta giusta?
Nel 1980 la Carta Peters viene inserita nella copertina del Rapporto Brandt sui rapporti Nord-Sud e
diventa uno dei simboli della solidarietà internazionale, in contrapposizione alla visione eurocentrica
presentata con la Carta di Mercatore.
La contrapposizione Peters-Mercatore non tiene però conto della storia recente della cartografia,
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ricca di molti altri esempi di carte che non hanno né l’una né l’altra come modello. Nessuna delle due
proiezioni può essere considerata “giusta” o “sbagliata”: poiché il globo terrestre è ellissoidale, tutte
le proiezioni cartografiche nascono da un processo di deformazione della superficie che altrimenti
sarebbe impossibile da rappresentare su un piano. È possibile costruire molte altre carte fedeli alla
superficie, che sacrificano altre caratteristiche relative all’asse e alla posizione per ottenere una
maggiore aderenza alle forme reali dei continenti, e altre che adottano un reticolo arrotondato e non
rettangolare. Qui di seguito vengono sono presentati alcuni esempi di carte con specifiche e ben
visibili intenzioni da parte dei cartografi che le hanno ideate :
Fig. 7: Eckert, 1906.
Fig.8: Goode, 1923 (terra). Fig.9: Goode, 1923 (oceani)
Tra le proiezioni proposte recentemente meritano di essere ricordate quella di Robinson e
quella di Canters. Mentre la prima sta assumendo un ruolo di primo piano a livello
internazionale, la Carta di Canters è relativamente poco conosciuta. Per la proiezione che ha
realizzato nel 1989, Canters ha inserito a computer oltre 5000 distanze per confrontare i valori
reali delle distanze con quelli che appaiono sulla carta. L’approssimazione cartografica che ottiene
è la migliore che attualmente si conosce: la Carta di Canters si discosta in media dai dati reali del
15%, quella di Peters del 24%, quella di Mercatore del 31%. Con le parole di Canters:
Nessuna carta è giusta. L’unica rappresentazione corretta della terra è il mappamondo. Ma un globo diventa spesso scomodo e in un solo colpo d’occhio ci offre solo la metà della superficie terrestre. […] La nostra ricerca cartografica si inserisce in un progetto più ampio che riguarda la messa a punto di un atlante elettronico. Inseriamo in un computer tutte le coordinate dei punti che si trovano sulle linee di costa. Il software che utilizziamo da la possibilità di produrre velocemente e con affidabilità il tipo di carta che l’utente desidera. Per sviluppare un simile sistema abbiamo dovuto confrontarci di nuovo con il tradizionale problema del tipo di proiezione cartografica, ma questa volta con nuove tecniche numeriche […].
Anche questa proiezione cartografica è stata promossa dal mondo della solidarietà internazionale
e rispetta alcuni semplici principi: restituisce al primo colpo d’occhio l’idea che la terra ha una
superficie sferica (reticolo arrotondato) e rispetta il più possibile le aree e le forme dei continenti.
Anche per Canters l’uso del colore ha un ruolo particolare: è possibile creare versioni della carta che
colorano i diversi paesi secondo l’Indice di Sviluppo Umano1. I singoli paesi sono divisi in tre categorie
principali: alto indice di sviluppo (verde), medio (giallo), basso (arancione); alcune categorie
intermedie sono rappresentate con sfumature più chiare di queste tinte base.
1 Per una definizione e spiegazione dell’Indice di Sviluppo Umano dell’UNDP si rimanda al Modulo III.
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Per concludere, la Carta di Peters continua ancora oggi ad essere al centro del dibattito. Insieme
alle altre rappresentazioni proposte, essa ha senz’altro il merito di aver ribadito per prima al pubblico
dei non geografi che ogni carta geografica è un oggetto politico, frutto di scelte e compromessi. Molte
mappe sono state disegnate nella storia, ognuna di queste è stata ideata per rispondere ad esigenze
particolari ed è il frutto di un luogo e di un periodo determinati. Quando si osserva una mappa
geografica è quindi sempre importante porsi alcune domande che ne facilitino la comprensione: chi
l’ha disegnata? quando? a quale scopo?
2. Il problema dello sviluppo e la cooperazione internazionale
Che cos’è la cooperazione?
Secondo questa definizione è possibile considerare rapporti cooperativi una relazione amorosa di
una coppia, la partecipazione ad una squadra di basket o l'instaurazione e la partecipazione ad un
gruppo di acquisto solidale; questo perché due, dieci o mille partecipanti avranno scelto
volontariamente di prenderne parte, e godranno rispettivamente del beneficio dell'amore, del fare
sport o di prezzi più bassi e qualità migliore nell'acquisto di beni di consumo. I rapporti cooperativi
possono instaurarsi non solo tra singoli individui, ma anche tra gruppi, più o meno grandi e complessi,
organizzati a loro volta da individui. La cooperazione può infatti avvenire tra organizzazioni di
rappresentanza con uno scopo comune (si pensi alle trattative per trovare un accordo sui salari che
hanno luogo periodicamente tra la Confindustria ed i Sindacati), le quali possono essere private
(gruppi industriali, società, organizzazioni no profit, ecc.) o pubbliche (Regioni, Comuni, Stati,
organizzazioni internazionali, ecc).
Quale che sia il modello di riferimento scelto per spiegare le relazioni tra Stati a livello
internazionale, la cooperazione trova spazio e giustificazione anche a livello sovranazionale, come
uno dei possibili strumenti nei rapporti tra gli attori internazionali. Esistono infatti situazioni nelle
quali il comportamento cooperativo di due o più soggetti internazionali porta a risultati migliori di
quelli che si avrebbero se ognuno cercasse unicamente il proprio guadagno, indipendentemente dalle
mosse degli altri.
La cooperazione può essere attuata in tutti i settori. Questo paragrafo si concentra sulla
cooperazione internazionale allo sviluppo, cioè sulla cooperazione internazionale che ha come scopo
la promozione dello sviluppo, in termini sociali ed economici, dei Paesi in via di sviluppo (PVS). La
cooperazione allo sviluppo è messa in atto in vari modi: si può trattare di trasferimenti monetari o in
natura, di fornitura di assistenza tecnica o di appoggio politico, di trasferimento di informazioni o di
altri beni immateriali. È necessario sottolineare che le attività di soccorso umanitario d'emergenza
costituiscono solo una parte molto specifica delle pratiche di cooperazione allo sviluppo. Ma se la
cooperazione allo sviluppo consiste in diverse modalità di aiuto indirizzate dai paesi più sviluppati (in
termini economici e sociali) a quelli meno sviluppati, dove sta il rapporto reciproco e di mutuo
vantaggio? Anche se si ammette che entrambi i gruppi di paesi partecipano volontariamente alle
attività di cooperazione, e che sia presente un obiettivo comune (lo sviluppo economico e sociale di
una delle due parti), quali sono i benefici che i paesi sviluppati (PS) traggono da queste azioni
cooperative?
Cooperazione: un rapporto cooperativo si ha ogni volta che due o più persone si associano liberamente per perseguire un fine comune, un’azione i cui risultati siano di beneficio a tutti i partecipanti.
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Vi sono molteplici risposte a questa domanda. I PS hanno infatti motivazioni legate all'obbligo
morale ed alla soddisfazione etica generata dal gesto di aiutare: come all’interno di uno stesso paese
si attuano misure di solidarietà tra cittadini con diversi livelli di reddito attraverso la progressività
delle imposte e delle spese sociali, allo stesso modo queste misure possono essere sostenute tra
paesi diversi. Ciò presuppone come fondamento etico l’idea di una società “giusta” verso la quale
tendere e di relazioni internazionali dove l’interesse dei singoli Stati è subordinato all’interesse
generale della comunità mondiale. A queste motivazioni altruistiche si aggiungono però anche una
serie di interessi egoistici, economici e politici, che rispondono in particolare agli interessi dei paesi
più ricchi. Contribuire allo sviluppo dei paesi più poveri porta alla crescita di nuovi mercati di sbocco
per le merci e i servizi che i PS producono. Inoltre l’aiuto allo sviluppo continua ad essere un forte
veicolo di influenza e controllo politico dei paesi più sviluppati sulle loro ex colonie. Sebbene le
motivazioni politiche e economiche non possano essere trascurate, il ruolo delle ideologie e di un
sentimento morale non può essere ignorato. Soprattutto in occasione di calamità naturali o conflitti
armati che creano emergenze umanitarie e problemi di sicurezza nazionale, queste motivazioni
altruistiche risultano più evidenti e sono accolte da un maggiore sostegno dell’opinione pubblica
internazionale.
Per comprendere meglio quale sia il peso di ciascuna motivazione nelle diverse situazioni in cui la
cooperazione allo sviluppo viene messa in atto, è necessario scomporre il processo di cooperazione,
descrivendolo non come un insieme di rapporti tra PS e PVS, ma piuttosto tra attori organizzati
appartenenti a questi due gruppi di paesi. Nel paragrafo successivo sono dunque presentati i
principali attori della cooperazione internazionale.
Gli attori della cooperazione internazionale
Gli attori attivi nella cooperazione internazionale possono essere divisi in quattro gruppi principali:
• Gli Stati nazionali: indirizzano una parte delle entrate fiscali derivanti dalla tassazione alla
cooperazione. Questo aiuto viene in parte indirizzato a:
- programmi di aiuto intergovernativo, come ad esempio la cancellazione del debito per i paesi più poveri o il finanziamento di opere pubbliche statali nei PVS;
- trasferimento di fondi alle regioni ed agli enti locali per la cooperazione decentrata tra realtà locali di PS e PVS;
- trasferimento di fondi a ONG e associazioni filantropiche che portano avanti progetti di cooperazione allo sviluppo;
- finanziamento di organizzazioni internazionali impegnate nello sviluppo. Grazie al loro ruolo di finanziatori, gli Stati possono stabilire le linee guida delle azioni di
cooperazione di tutti gli attori che ricevono finanziamenti pubblici. Gli orientamenti di
cooperazione ufficiale (pubblica) sono spesso legati alla visione di politica estera dello Stato in
questione.
• Le organizzazioni internazionali: nascono da accordi internazionali tra Stati e da essi ricevono
finanziamento, legittimità e potere di azione. Le più importanti organizzazioni internazionali
operanti nella cooperazione allo sviluppo sono:
- l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che agiscono attraverso numerosi organi
(l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza in primo luogo) e agenzie collegate
(come l'UNDP, l’UNICEF e molte altre, suddivise per settore). Quasi tutti gli Stati del
mondo ne sono membri.
- l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) che raggruppa i
27 paesi più ricchi del mondo;
- il Fondo Monetario Internazionale (FMI), che si occupa della situazione
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macroeconomica dei paesi, concedendo crediti ai paesi in crisi;
- la Banca Mondiale e le Banche di sviluppo regionali come quelle di Asia, Americhe ed
Africa, costituite dai paesi appartenenti alle regioni.
Se è vero che tutte queste organizzazioni traggono origine (e vengono influenzate) più o
meno direttamente dagli Stati che ne fanno parte, è anche vero che esse coordinano l'azione
internazionale di questi, definendo le priorità e le modalità di intervento della cooperazione
internazionale.
• Le amministrazioni pubbliche locali: il principio di sussidiarietà (ogni azione deve essere
compiuta dal livello amministrativo più vicino possibile al cittadino su cui vuole avere un
impatto), il principio di decentramento, della partecipazione e della concertazione e il
concetto di sviluppo locale guidano da circa venti anni nuove esperienze di cooperazione che
coinvolgono a livello locale (e non solo nazionale) le popolazioni dei paesi riceventi e
donatori.
• I soggetti privati:
- ONG (Organizzazioni non governative) e Associazioni e Istituti di carità: sono
costituite da privati cittadini per perseguire scopi caritatevoli, per attuare interventi
d'aiuto, per sensibilizzare sulle problematiche connesse alla povertà e al
sottosviluppo. Sono organizzazioni non a scopo di lucro che agiscono su tematiche di
rilievo generale (ad es., la riduzione della povertà, della disuguaglianza, etc.) o molto
specifiche (ad es., assistenza ai malati di HIV, fornitura di materiale scolastico per un
villaggio, etc.). Possono impiegare personale volontario o dipendente, avere origini
laiche o di ispirazione religiosa, finanziare i propri progetti attraverso la raccolta fondi
da privati o la partecipazioni a bandi di finanziamento sia pubblici che privati
(fondazioni). La scelta del veicolo di finanziamento può senz’altro influenzare la
visione e la missione che l’organizzazione porta avanti;
- Cittadini: sono la base del sistema di cooperazione allo sviluppo in quanto eleggono i
governanti e quindi influenzano indirettamente gli orientamenti di tutti gli organi
pubblici, nazionali e internazionali, legati allo sviluppo. Partecipando alle attività
associative, i cittadini ne controllano, essendone almeno in parte finanziatori, le
scelte e le azioni. Inoltre possono impegnarsi in azioni di pressione sul sistema
pubblico e sulle aziende private (lobbying). Tanto più forte sarà la partecipazione,
tanto più incisiva e organizzata nelle sue azioni risulterà essere la società civile.
La Dichiarazione del Millennio e gli MDGs
Nel settembre del 2000, in occasione del Vertice del Millennio convocato dalle Nazioni Unite, 189
Capi di Stato e di Governo hanno adottato la Dichiarazione del Millennio, impegnandosi a liberare
ogni essere umano dalla “condizione abietta e disumana della povertà estrema” ed a “rendere il
diritto allo sviluppo una realtà per ogni individuo”. Si tratta di un patto globale tra paesi ricchi e paesi
poveri, fondato sul reciproco impegno a fare ciò che è necessario per costruire un mondo più sicuro,
It is not in the United Nations that
the Millennium Development Goals will be achieved.
They have to be achieved in each country
by the joint efforts of the Governments and the people.
Kofi Hannan, ex Segretario Generale ONU
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più prospero e più equo per tutti. In particolare si sono impegnati a raggiungere 8 Obiettivi concreti
entro il 2015: gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDGs – Millennium Development Goals)
includono l’accesso all’ istruzione primaria, all’assistenza medica ed all’acqua potabile, la protezione
dell’ambiente, la lotta alle diseguaglianze di genere e alle malattie infettive, tra le quali l’HIV/AIDS.
Per la prima volta paesi poveri e ricchi hanno deciso di lavorare insieme non solo identificando le
azioni da compiere ma anche e soprattutto identificando in modo chiaro ruoli e responsabilità dei vari
attori e paesi coinvolti. I paesi più poveri si sono impegnati a promuovere riforme a livello nazionale
che mettano al centro la lotta contro la povertà e il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio,
realizzando politiche che incentivino l’attivazione di servizi di base accessibili ai più poveri tra i poveri,
che migliorino la governance ed eliminino la corruzione.
I paesi ricchi si sono impegnati a:
• incrementare l’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) fino a portarlo allo 0.7% del PIL;
• migliorare la qualità degli aiuti, allineandosi con le raccomandazioni e i principi stabiliti in
seno all’ONU ed eliminando distorsioni come l’aiuto legato, che favorisce le imprese del paese
donatore anziché aiutare a far crescere le strutture locali;
• promuovere la cancellazione del debito,
• giocare un ruolo di leadership per la realizzazione di nuove regole del commercio
internazionale più eque, fondate su principi di giustizia che sostengano le economie dei paesi
più poveri.
La Campagna del Millennio è stata lanciata per coordinare le azioni di tutti i paesi del mondo per il
raggiungimento degli MDGs ma soprattutto per supportare individui e società civili nel fare lobbying
(pressione) suoi governanti perché rispettino gli impegni presi e agiscano per tutelare i diritti umani di
ogni individuo. Per raggiungere gli MDGs entro 2015, ogni cittadino deve essere informato sugli
impegni sottoscritti dal proprio governo e deve quindi pretendere che siano mantenuti. In Italia
l’interesse dell’opinione pubblica su questi temi è forte, ma non si sono registrate fino ad oggi misure
significative da parte dei governi che si sono succeduti.
I compiti della Campagna del Millennio sono:
• informare tramite campagne di sensibilizzazione sui mezzi di informazione, co-organizzando
eventi e incontri;
• raccogliere le opinioni e le proposte dei cittadini per azioni contro la povertà;
• portare queste proposte nelle sedi istituzionali e ampliare le richieste dell’opinione pubblica.
Nel corso di questo volume la trattazione dei grandi temi globali, quali povertà e disuguaglianza,
salute globale, sostenibilità ambientale e migrazioni internazionali, sarà legata in modo specifico alla
presentazione degli Obiettivi del Millennio. Gli MDGs rappresentano infatti un impegno concreto,
misurabile e con una scadenza precisa da parte di tutti gli Stati del mondo e prevedono la
collaborazione e la cooperazione di tutti gli attori interessati, dalle grandi organizzazioni internazionali
alle realtà amministrative e associative locali in ogni parte del pianeta.
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LEZIONE 2 – I rapporti Nord-Sud
1. Colonialismo e decolonizzazione Per comprendere le relazioni tra i paesi occidentali e i PVS a partire dalla seconda guerra mondiale
è necessario affrontare il tema dell’esperienza coloniale dei paesi europei nei confronti del resto del
mondo, iniziata nel XV secolo con l’epoca delle grandi scoperte geografiche. Da allora fino allo
scoppio della prima guerra mondiale si sono succedute numerose fasi di scoperta, conquista e
colonizzazione nei confronti di America, Asia, Oceania e Africa che hanno fortemente influenzato lo
sviluppo di questi territori nel momento in cui, con modi e tempi diversi, hanno raggiunto
l’indipendenza. Nelle prossime pagine saranno presentati i caratteri salienti del fenomeno della
colonizzazione, il processo di decolonizzazione del secondo dopoguerra e un caso studio sulle vicende
dell’esperienza francese in Algeria.
I concetti fondamentali
Nella terminologia corrente si tende spesso a confondere i concetti di colonizzazione, colonialismo
e imperialismo. Qui di seguito vengono presentate alcune definizioni sintetiche per introdurne i tratti
essenziali.
Le forme di politica coloniale
I paesi europei che hanno avuto possedimenti coloniali nel corso dei secoli hanno adottato diverse
strategie di governo delle colonie, che possono essere riassunte in tre modalità principali:
Colonia: termine derivato dal latino che in origine indicava lo stanziarsi di un gruppo di cittadini in un luogo esterno ai confini del loro Stato, pur mantenendo un collegamento politico con il centro (a differenza di un movimento migratorio). Alla colonizzazione demografica si è affiancata ben presto quella economica: le colonie fornivano materie prime al centro e da questo acquistavano prodotti finiti. Nella storia moderna, il termine colonia viene usato per indicare un territorio conquistato da uno Stato: gli abitanti della colonia non sono cittadini, ma sudditi della madrepatria. Colonizzazione: opera colonizzatrice di uno Stato dopo la conquista o l’acquisto di una colonia e lo sfruttamento economico di tutto il suo territorio. Colonialismo: in origine questo termine era usato per indicare il fenomeno coloniale e definiva la volontà di creare un sistema di assoggettamento di una popolazione che si riteneva ad uno stadio di sviluppo (sociale, economico, tecnico, ecc.) inferiore. Dall’inizio del XX secolo il termine colonialismo è usato con una connotazione peggiorativa. Impero: in latino imperium è il comando e l’autorità suprema. L’impero non ha quindi base demografica, ma militare e di conquista. Si presuppone che un popolo forte ne sottometta un altro, fino ad arrivare ad un completo assorbimento o ad una simbiosi imposta. L’impero raggiunge quindi un equilibrio più o meno stabile, che si fonda sullo sfruttamento degli uomini e del territorio in funzione degli interessi della madrepatria. L’impero può anche essere fattore di unità, di pacificazione e di circolazione di scambi e informazioni. Imperialismo: termine coniato dal primo ministro inglese Disraeli nel 1875 con il quale si intende un fenomeno di espansione nazionalistica, che punta ad affermare valori morali, spirituali, tecnologici, politici e economici di uno Stato su altri. È stato interpretato come manifestazione di una civiltà altamente progredita e veicolo di trasmissione di tale civiltà a popoli arretrati. Il possesso di alcune colonie non è quindi sufficiente per attribuire la qualifica di “imperialistico” ad uno Stato.
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1) Politica di assoggettamento: è concepita nell’interesse esclusivo della madrepatria. La
popolazione autoctona è considerata primitiva e senza diritti. La colonizzazione di popoli e
territori accresce la potenza dello Stato. È il criterio prevalente nei due secoli successivi alla
scoperta dell’America, ma tramonta nel corso del XVIII secolo.
2) Politica di autonomia: aveva lo scopo di promuovere la formazione di società che avrebbero
dovuto costituirsi nel tempo in Stati indipendenti. La madrepatria adotta il cosiddetto indirect
rule: la maggior parte delle funzioni di governo sono esercitate da autorità coloniali indigene
e i funzionari della madrepatria sono affiancati da organi rappresentativi, giudiziari e esecutivi
locali. L’Inghilterra adottò questa strategia che si basava sul riconoscimento dell’autorità dei
capi nativi, prima in India e successivamente anche con il resto dei suoi possedimenti in Africa
e Asia. Secondo la politica britannica, le autorità locali avrebbero dovuto governare il loro
popolo come dipendenti della Corona. In questo modo la società preesistente con le sue
istituzioni, leggi e autorità era accettata e progressivamente spinta a modernizzarsi. La critica
più forte a questa strategia di dominio sottolinea che questa non è riuscita a sviluppare e
democratizzare le istituzioni locali. I fallimenti più grandi nella costruzione di un local
government autonomo si sono avuti in Africa, con conseguenze ancora oggi visibili.
3) Politica di assimilazione: persegue l’unione sempre più stretta tra il territorio coloniale e la
madrepatria. Il concetto di assimilazione, rappresentato dal caso paradigmatico della politica
coloniale francese, indica un’integrazione da compiere gradualmente. Le colonie sono
considerate “province d’oltremare” alle quali si applica la stessa legislazione del centro. Gli
indigeni sono considerati francesi potenziali e a loro sono attribuiti, almeno nominalmente,
gli stessi diritti dei cittadini francesi. La critica più forte all’approccio dell’assimilazione ha
riguardato la possibilità di esportare e impiantare senza sostanziali aggiustamenti il modello
giuridico, istituzionale e di governo francese in territori così diversi come l’Indocina, l’Africa
del Nord e l’Africa Sub Sahariana.
Le fasi della colonizzazione
Dalla seconda metà del ‘400 ha inizio la prima fase della colonizzazione, caratterizzata dalle
esplorazioni geografiche lungo le direttrici americana e asiatica. I protagonisti sono il Portogallo, la
Spagna, l’Olanda, la Francia e l’Inghilterra. Le coste di tutto il mondo vengono colonizzate. Il sistema si
fonda sul ricorso alla manodopera indigena a basso costo (gli schiavi), da inserire nelle piantagioni
che assicurano il benessere dei colonizzatori. La tratta degli schiavi attraverso l’Atlantico raggiunge
l’apice nel Seicento, ma prosegue anche nei secoli successivi. Fino alla Rivoluzione delle 13 colonie
americane (1776-1783), le colonie vengono viste esclusivamente in funzione del vantaggio economico
degli Stati europei.
Tra la fine del XVI e gli inizi del XVIII secolo l’espansione coloniale subisce una forte accelerazione
attraverso le Compagnie commerciali istituite da privati cittadini o sotto impulso delle
amministrazioni pubbliche. Alle Compagnie viene concesso il monopolio dei traffici con i territori
d’oltremare. Spesso si attribuiscono loro anche responsabilità amministrative e politiche per il
governo delle colonie e per tenere sotto controllo la concorrenza delle Compagnie di altre nazionalità.
La prima ad essere creata è la Compagnia Portoghese delle Indie Orientali nel 1587, alla quale
seguono, tra le altre, la Compagnia delle Indie Orientali, fondata in Inghilterra il 31 dicembre 1600, e
la Compagnia Unita delle Indie Orientali costituita in Olanda nel 1602. Mentre l’Inghilterra segue
parallelamente due strategie distinte (la fondazione di vere e proprie colonie nell’America del Nord
per motivazione soprattutto religiose, e l’istituzione di Compagnie commerciali promosse dai
mercanti), l’Olanda è l’unico paese europeo a muoversi per motivi esclusivamente economici. Già
all’inizio del ‘700 le Compagnie si trovano sotto un crescente controllo degli Stati, che iniziano a
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disporre di marine da guerra; professionali, equipaggiate e organizzate queste hanno il compito di
impedire il commercio altrui a favore del proprio, sorvegliando le rotte e imponendo blocchi
marittimi. Non si combatte più per difendere la compagnia commerciale, ma per il prestigio e la
ricchezza della patria.
Il 1815 rappresenta l’inizio di una nuova fase. Con il progressivo indebolimento delle compagnie
commerciali, la messa al bando della tratta degli schiavi (ma non della schiavitù) e l’inizio della
restaurazione in Francia, l’inizio dell’‘800 è segnato dalla perdita del controllo formale sull’America
Latina di Spagna e Portogallo, ma vede crescere il dominio economico europeo nel mondo. La Gran
Bretagna rimane l’unica grande potenza coloniale e si concentra su nuovi territori dell’America del
Nord, dell’Australia e della Nuova Zelanda. Non avendo concorrenti alla supremazia imperiale fino al
1870, la Gran Bretagna istaura un sistema internazionale aperto di Stati e regioni indipendenti sotto la
sua egemonia indiretta. Solo verso il 1880, quando altri stati europei rivendicano questi territori, la
strategia deve cambiare. Sempre nel corso dell’‘800 la Francia, lanciandosi alla conquista dell’Algeria
(1830), indica al resto d’Europa la caratteristica di conquista della nuova era coloniale: il regno di
Carlo X si lancia nella campagna algerina per nascondere agli occhi dei cittadini i problemi di ordine
interno. Le facili vittorie e l’ampiezza del territorio (desertico) conquistato erano presentate come la
prova della forza e solidità del governo. Inoltre la conquista dell’Algeria segna una nuova strategia di
colonizzazione che prevede la penetrazione all’interno, con forti modifiche alle condizioni delle
popolazioni autoctone. Anche la Cina viene obbligata ad una certa apertura da parte dei britannici,
attraverso quelle che sono note come le “guerre dell’oppio” (1839-1842 e 1856-1860).
Le nuove esplorazioni in Asia e Africa, presentate al Congresso geografico internazionale di Parigi
del 1875, mostrano le possibilità future dell’Europa nel resto del mondo. La traversata del continente
africano di Cameron (1873) e il viaggio in Congo di Stanley (1875) attirano l’attenzione generale sul
continente africano, rimasto fino ad allora inesplorato se non sulla costa. Da allora non solo
aumentano i territori colonizzati (nel 1878 il 67% delle terre emerse mondiali era controllato da Stati
europei), ma anche il numero delle potenze europee impegnate nelle conquiste coloniali.
1870-1914: l’epoca d’oro dell’Imperialismo e la corsa all’Africa
La seconda metà del XIX secolo vede il passaggio al nuovo Imperialismo europeo, che passa da un
tipo di controllo basato sull’influenza militare ed economica ad un governo più diretto del territorio.
In particolare si assiste alla cosiddetta corsa all’Africa (scramble for Africa, in inglese) con il proliferare
delle rivendicazioni europee sui territori africani a partire dal 1880. Tra i fattori che permettono
l’occupazione delle zone più interne del continente africano vi sono la riduzione della mortalità degli
occidentali in Africa grazie alla scoperta del chinino come antimalarico, l’aumento del vantaggio
militare occidentale (con i fucili al posto dei moschetti), le esplorazioni europee che forniscono nuove
conoscenze geografiche e culturali di regioni remote2 e una nuova giustificazione intellettuale alla
missione civilizzatrice fornita dal crescente razzismo pseudoscientifico, portato avanti dagli studi di
biologia, genetica e antropologia.
Inoltre l’Europa è attraversata da nuovi movimenti nazionalisti e dalla prima grande crisi
economica del capitalismo (la depressione del 1873-1895). Il periodo di pace porta gli europei a
percepirsi come superiori e a sentire il dovere di condurre i popoli lontani verso la civiltà, la cultura e,
spesso, la redenzione. I nuovi nazionalismi influenzano inizialmente i ceti più elevati della società
europea, gli stessi che faranno parte della forza economica che partirà alle volte dei nuovi mondi.
L’esperienza coloniale fornisce poi agli Stati europei una valvola di sfogo e la soluzione a numerosi
2 Leggendari sono alcuni degli esploratori del tempo, come David Livingstone, Richard Francis Burton, Henry
Morton Stanley e Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà.
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problemi:
• la sovrapproduzione industriale (le colonie per contratto devono acquistare dalla madrepatria
molte delle merci in sovrappiù);
• la necessità di materie prime (scarse in Europa e abbondanti in molti territori colonizzati);
• la stagnazione economica (superata grazie al circolo virtuoso messo in atto dalla nuova
disponibilità di risorse, quindi di investimenti e nuovi profitti);
• la necessità di un’estensione geografica considerevole per aumentare il prestigio dello Stato
coloniale.
Figura 10 – Africa, 18853
Con la Conferenza di Berlino (die Kongokonferenz in tedesco) del 1884-1885, viene stabilita
internazionalmente la spartizione dell’Africa ed entro il 1902, il 90% dell’Africa si trova sotto il
controllo europeo. Gran parte del Sahara diviene francese, mentre il Sudan rimane sotto il controllo
congiunto di Gran Bretagna ed Egitto. Il re del Belgio Leopoldo II ottiene la proprietà, prima personale
e poi del suo Regno, del Congo. Gli stati boeri vengono conquistati dalla Gran Bretagna. Francesi e
spagnoli si dividono i territori all'estremo Nord-Ovest: ai primi il Marocco ed ai secondi l'attuale
Sahara Occidentale. Il Portogallo conquista Angola e Mozambico, la Germania entra in Camerun,
Namibia e Togo. La Libia viene conquistata dagli italiani nel 1912. Nel 1914 l'annessione ufficiale
dell'Egitto da parte della Gran Bretagna conclude la spartizione coloniale dell'Africa. Ad eccezione
della Liberia e dell'Etiopia (che riesce a respingere l’attacco italiano), l'intero continente si trova sotto
la dominazione europea.
Con l’inizio della prima guerra mondiale, termina ufficialmente il periodo d’oro di espansione
3 In Figura 8 è rappresentata, su una proiezione cartografica di Eckert, la spartizione del continente africano tra
le maggiori potenze europee.
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coloniale europea e l’Europa sparisce di fatto come superpotenza sostituita negli anni successivi dagli
Stati Uniti.
Il tramonto del colonialismo
Evitando di soffermarsi sul periodo compreso tra le due guerre mondiali, è possibile individuare
nel secondo dopoguerra l’inizio del processo che va sotto il nome di decolonizzazione: dal 1945 al
1999 (anno di indipendenza dal Portogallo di Macao) più di 60 paesi ottengono l’indipendenza. Il
processo di decolonizzazione è fortemente legato alla nascita delle Nazioni Unite, alla Guerra Fredda,
agli shock petroliferi e a tutti gli altri eventi che hanno visto le ex potenze coloniali coinvolte. Inoltre
esso ha dirette conseguenze su tutte le caratteristiche che si rivelano ancora oggi problematiche per i
PVS: la mancanza di apparati statali efficienti, di sistemi economici autosufficienti, l’instabilità politica
dovuta a scontri tra etnie diverse che convivono all’interno dello stesso territorio.
La politica dei due blocchi giocata da Stati Uniti e Unione Sovietica dagli anni ’50 in poi ha
fortemente influenza sullo smantellamento degli imperi coloniali: gli Stati Uniti cercano di estendere
le loro zone d’influenza e fanno pesare il loro potere economico e politico, sostenendo numerosi
movimenti di liberazione in Africa e Asia. Il principio di autodeterminazione dei popoli ispira poi
l’azione dell’ONU, che non riesce a imporre ovunque il rispetto dei principi di uguaglianza dei diritti,
ma ricopre comunque un ruolo importante nella lotta al colonialismo.
Per quanto riguarda l’Africa possono essere fatte alcune considerazioni di carattere generale.
L’opposizione al colonialismo è spesso guidata da élites locali che, avendo studiato in Europa o negli
Stati Uniti, ne assorbono cultura, valori e aspirazioni. Di frequente la ribellione viene guidata da partiti
politici che si ispirano ai principi di un "socialismo africano", distinto dalle ideologie socialiste di
matrice occidentale per il suo focus sul recupero dei valori tradizionali africani, come il senso di
comunità e di famiglia o la dignità del lavoro agricolo. In alcuni casi, la concessione dell’indipendenza
avviene in modo pacifico, con trattative tra la madrepatria e i gruppi dirigenti locali: la Gran Bretagna
ad esempio avvia gradualmente l’indipendenza delle sue colonie, trasformando l’impero nel
Commonwealth of Nations. In altri casi il processo è violento e non sono pochi i casi di lunghe e
sanguinose guerre di liberazione (la Francia si oppone con forza ai movimenti di liberazione che
investono i suoi possedimenti in Africa).
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L’evoluzione geografica della decolonizzazione
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La nuova indipendenza e i problemi dello sviluppo
Gli Stati di nuova indipendenza, che ereditano strutture economiche e politiche europee, devono
subito affrontare numerosi problemi interni, spesso generati dallo sfruttamento coloniale subito. La
colonizzazione aveva infatti quasi ovunque generato forti disuguaglianze sociali e una grave
arretratezza economica. Accanto ad una classe dirigente ricca ed europeizzata, c’era una popolazione
in condizioni di estrema povertà, soggiogata dalla fame, dalle malattie e dal sovraffollamento delle
zone metropolitane, senza adeguate strutture sanitarie e scolastiche. L’economia resta debole e
basata sullo sfruttamento delle risorse agricole e minerarie per l’ esportazione (come durante il
colonialismo); inoltre i profitti di piantagioni, miniere e imprese industriali vengono spesso
appropriati dalle élites locali e dalle grandi imprese straniere ancora presenti sul territorio. Un altro
grande problema che continua ad avere effetti devastanti è quello generato dall’arbitrarietà dei
confini coloniali ereditati. La mancanza di unità etnica e politica dei nuovi stati ha portato ad un
numero elevato di conflitti più o meno violenti tra etnie diverse, divise per cultura, valori e religione.
In questo scenario, soprattutto in Africa, i governi riescono a mantenersi al potere grazie all’appoggio
delle imprese straniere (appartenenti agli ex colonizzatori o ad una delle due superpotenze, USA e
URSS), che ricevono in cambio dai governi le concessioni per continuare a sfruttare le risorse naturali
dei loro paesi.
Il tentativo delle prossime pagine e dei moduli successivi è quello di costruire un quadro sintetico
e chiaro di alcune delle maggiori tematiche globali del mondo contemporaneo, con una particolare
attenzione ai paesi del Sud del mondo che, usciti dall’esperienza coloniale, si trovano ad affrontare
nuove forme di dipendenza economica, culturale, sociale e politica nei confronti dei paesi occidentali,
dipendenza che si dimostra spesso un ostacolo insormontabile al raggiungimento di migliori
condizioni di vita e benessere per le loro popolazioni.
Il caso studio Algeria4
Nel secondo dopoguerra, in Algeria come altrove, iniziò a consolidarsi un sentimento nazionalista
e indipendentista: i primi moti in Cabilia nel 1945 furono repressi duramente dai francesi. Nel 1954
venne fondato il Comitato rivoluzionario di unione e di azione (CRUA), la prima organizzazione
indipendentista i cui membri (tra i quali Ait Ahmed, Ahmed Ben Bella e Khidder) operavano
dall'estero per importare clandestinamente armi sul suolo algerino.
La guerra civile esplose il primo di novembre dello stesso 1954, allargandosi a macchia d'olio dalla
Cabilia a tutto il paese. L'esercito prese il nome di Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) e basò la
propria azione su azioni di guerriglia e di terrorismo. Nel settembre del 1955, l'Onu iniziò a occuparsi
della situazione algerina. L'anno successivo si tenne un Congresso per porre le basi di un Algeria
indipendente. Le divergenze tra i membri dell’FLN portarono all’uccisione del promotore del
Congresso, Abada Ramdame. Nel 1956 furono arrestati numerosi capi dell'FLN (tra cui Ben Bella, Ait
Ahmed, Khidder, Bitat e Boudiaf). Nel 1957, una nuova azione di polizia (passata alla storia come
“Battaglia di Algeri”) fu intrapresa dai francesi per privare la ribellione dei suoi leader. La resistenza
tuttavia rimase attiva sulle montagne.
Nel 1958, con il crollo della IV Repubblica francese e l'ascesa al potere di Charles de Gaulle, la
questione algerina giunse a una svolta. De Gaulle riconobbe pubblicamente il diritto
all'autodeterminazione degli algerini, provocando tra l'altro gravissimi disordini e proteste da parte
dei cittadini francesi in Algeria (le cosiddette "giornate delle barricate" del gennaio 1960). Ulteriori
disordini fecero seguito agli incontri franco algerini di Evian del 1961. Un movimento clandestino di
4 Nel corso di questo modulo si prevede di dedicare parte di un incontro alla visione di alcune scene tratte dal
film La battaglia di Algeri diretto nel 1966 di Gillo Pontecorvo.
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chiamato Organizzazione dell'Armata Segreta (OAS) si oppose al Governo Provvisorio della Repubblica
Algerina (GPRA) di Ferhat Abbas, mettendo in atto diverse azioni terroristiche. Il conflitto fra queste
due formazioni si concluse il 19 marzo 1962 con un trattato firmato nuovamente a Evian. In seguito a
un referendum per l'autodeterminazione, tenutosi il 1 luglio 1962 con esito positivo, il 3 luglio la
Francia dichiarò l'Algeria indipendente.
Il caso algerino presenta alcune caratteristiche peculiari che possono però essere a molte altre
esperienze di decolonizzazione.
• Capi della rivolta istruiti nella madrepatria: le prestigiose università europee, inglesi e francesi
soprattutto, accolsero moltissimi giovani studenti provenienti dalle élites di tutti i territori
coloniali. Le università erano però il centro dei movimenti rivoluzionari europei e gli studenti
d’oltremare poterono apprendere l’arte della rivolta, della propaganda e dell’organizzazione
rivoluzionaria.
• Utilizzo del linguaggio della madrepatria: gli uomini del FLN conoscevano perfettamente
l’evoluzione del linguaggio europeo e l’influenza che la Carta dell’ONU aveva avuto sui
governi. I comunicati del Fronte contengono termini come piattaforma comune, evitare
scontro sanguinoso, autodeterminazione del popolo algerino, tipiche del periodo post
seconda Guerra Mondiale.
• Onu come possibile strumento di giustizia per la colonia: valori e concetti portati avanti dalle
Nazioni Unite, come il diritto all’autodeterminazione, vengono ripetuti e sottolineati dalle
forze di liberazione, che chiedono insistentemente l’appoggio internazionale alla loro lotta.
• Riluttanza dell’opinione pubblica all’uso dell’esercito: l’esperienza della seconda guerra
mondiale rendeva impossibile per i governi europei l’impiego dell’esercito in azioni di
repressione nelle colonie. Il consenso dell’opinione pubblica europeo andava mantenuto e
difficilmente i governi occidentali potevano permettersi costose spedizioni all’estero.
• Mancanza di strutture istituzionali di governo: una volta ottenuta l’indipendenza, quando gli
apparati burocratici dei colonizzatori si ritirano, costruire dal nulla uno Stato è difficilissimo.
La creazione di un’amministrazione stabile ed efficiente è uno delle maggiori sfide che i paesi
di nuova indipendenza hanno dovuto affrontare.
2. Il fenomeno della globalizzazione
Rapporti Nord-Sud: teorie a confronto
La suddivisione del mondo in Nord e Sud in relazione al grado di sviluppo dei paesi fu usata per la
prima volta nel rapporto della Commissione Brandt sullo sviluppo internazionale, istituita nel 1977
dall’ONU per studiare le cause del sottosviluppo e fornire suggerimenti sulle strategie per
combatterlo5. Il concetto di sviluppo che sta alla base di una visione del mondo diviso tra il Nord ricco
e avanzato e il Sud povero e marginale viene però formulato venti anni prima, in un discorso del
presidente Harry Truman al Congresso degli Stati Uniti nel 1949. Dopo aver definito sottosviluppati un
numero enorme di paesi, affida ai paesi occidentali il compito di operare a favore dello sviluppo.
L’idea di sviluppo è dunque relativamente recente. Le prime teorie organiche nascono a partire
dagli anni ’50, con l’analisi delle enormi disuguaglianze economiche tra PVS e paesi occidentali e della 5 La Commissione Brandt, dal nome del politico tedesco che la presiedeva, stilò i cosiddetti “Rapporti
Brandt” che esortavano i paesi industrializzati a impegnarsi nel sostenere lo sviluppo dei PVS con misure fiscali e tariffarie e, soprattutto, con un contributo da parte di ogni paese industrializzato equivalente allo 0.7% del proprio PIL. Tranne i paesi scandinavi, che da allora hanno raggiunto e in alcuni casi superato i livelli suggeriti, la gran parte dei paesi industrializzati ha destinato all’aiuto allo sviluppo cifre molto inferiori a quelle per le quali si erano impegnati.
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profonde differenze tra paesi appartenenti ai due blocchi allora contrapposti. Furono quindi disegnati
possibili percorsi che i paesi del Sud dovevano adottare per replicare il modello occidentale. Sono qui
presentate le quattro principali teorie dello sviluppo, che mostrano l’evoluzione nel tempo dei
rapporti Nord-Sud e dei principali approcci economici adottati.
Capofila è la teoria degli stadi di Rostow (1962) secondo il quale lo sviluppo si può realizzare in
ogni Paese con un processo attraverso cinque stadi. Dalla cosiddetta società tradizionale, per
motivazioni economiche, sociali o politiche, o per impulso esterno, nasce in un gruppo sociale
dominante o subordinato l’idea che il progresso e il guadagno sono vantaggiosi e possibili. Tale
gruppo intraprende nuove attività, accettando il rischio dell’investimento. Il secondo stadio è
caratterizzato da forte industrializzazione: si inizia a risparmiare e a investire i risparmi nei trasporti e
nelle comunicazioni creando in questo modo le premesse per la terza fase: la fase del decollo.
I valori della società cambiano in modo da cogliere in questa fase le nuove possibilità produttive.
Lo stimolo al decollo può derivare da una rivoluzione politica, da innovazioni tecniche o dall’apertura
di nuovi mercati. Si diversifica la struttura produttiva e alcuni settori assumono un ruolo
determinante. Nel quarto stadio l’economia può definirsi matura attraverso uno sviluppo che si
autoalimenta. Nel quinto stadio il processo di modernizzazione raggiunge il suo apice con il consumo
di massa e con una continua crescita del reddito.
Le critiche a questa teoria si riferiscono soprattutto al fatto che Rostow ha preso come modello
solamente le esperienze delle regioni più avanzate dei paesi occidentali, senza considerare le altre
tipologie di sviluppo che invece si sono verificate in altre aree del mondo e che non hanno rispettato
queste tappe. Questa visione lineare della crescita è altamente eurocentrica e nella realtà non si è
realizzata: i pochi paesi del Sud che si sono industrializzati (nel Sud Est asiatico) infatti non hanno
seguito questo percorso.
In contrapposizione ai teorici della modernizzazione, la teoria della dipendenza rileva che
l’integrazione dei paesi e delle aree arretrate nel sistema economico internazionale impedisce il loro
sviluppo ed anzi acuisce la loro arretratezza. Questa teoria si sviluppa negli anni ‘70 grazie al
contributo di due economisti argentini, Raoul Prebish e Celso Furtado. La periferia è schiacciata dal
centro (i paesi ricchi) e questo avviene attraverso vari meccanismi tra cui:
• lo scambio ineguale, cioè lo scambio fra prodotti primari a basso costo fabbricati nel Sud e
prodotti industriali a prezzi elevati realizzati nel Nord;
• la penetrazione degli investimenti stranieri attratti dal minor costo dei fattori produttivi e
destinati alla produzione di beni primari;
• il ricorso ai prestiti ed agli aiuti internazionali che sono alla base della crisi debitoria e
dell’aggravamento strutturale.
In alternativa alle politiche di aiuto ed al modello occidentale di sviluppo, vengono proposte
alcune politiche, tra cui quella di sostituzione delle importazioni. Invece di importare i prodotti
dall’estero, questi vengono fabbricati direttamente nel proprio Paese. Incentivando alimentando il
mercato interno, riducendo i costi dei prodotti, aumentando l’occupazione con nuove possibilità di
lavoro nelle nuove aziende nazionali.
Nella seconda metà degli anni ’70 nasce la teoria sistema mondo centro-periferia grazie al
significativo contributo di Immanuel Wallerstein (ma anche di G. Myrdal). Si definisce il concetto di
sistema sociale, entità economico-materiale la cui autonomia poggia sull’esistenza al proprio interno
di un’unica divisione del lavoro. Nell’approccio di Wallerstein, che raccoglie il retaggio positivo della
teoria della dipendenza, il sistema mondo moderno coincide con l’economia-mondo capitalistica,
articolata in tre cerchi concentrici: il centro, la semi-periferia e la periferia, tra loro correlate
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funzionalmente e ciascuna caratterizzata da specifici tipi di produzione, modi di controllo del lavoro e
regimi di proprietà. Il centro rappresenta i Paesi del Nord e la periferia i Paesi del Sud, mentre la semi-
periferia è formata da quei Paesi che sono in una condizione intermedia tra questi due poli. Tutto
parte dal centro e si trasmette fino ad arrivare alla periferia. Al centro sono collocati i nodi decisionali
e la produzione ad alto contenuto tecnologico. In periferia il settore più sviluppato è quello primario e
il surplus prodotto confluisce verso centro.
Negli anni la divisione centro periferia disegnata da Wallerstein si è rivelata superata, poiché i
centri non sono più rappresentati da un piccolo gruppo di Stati, ma sono localizzati in singole città e
non più in nazioni o addirittura in emisferi. Si è venuta a creare una rete mondiale multipolare, con
numerosi nodi che cambiano a seconda del filtro con cui si analizzano (turismo, informazione,
finanza, produzione ecc). I centri della rete sono tra loro collegati e avvolgono la periferia che oggi si
colloca geograficamente intorno al centro e ne subisce l’influenza non essendo più identificabile in
uno Stato ma, ad esempio, nel territorio circostante una grande città. Quest’ultima teoria è stata
proposta in particolare dallo storico francese Fernand Braudel (1902-1985).
La globalizzazione
Il termine globalization6 appare per la prima volta in Inghilterra nel 1980, descrive un fenomeno
non nuovo. Anche se è entrato a far parte del lessico comune e i mass media ne fanno larghissimo
uso, il concetto è tutt'altro che consolidato a livello scientifico.
Questa definizione sintetica e per molti versi imprecisa è un tentativo di unificare le molte
definizioni proposte da sociologi, economisti e politologi di tutto il mondo. Nell'immaginario
collettivo la globalizzazione è spesso percepita come un fenomeno di crescita progressiva, che si è
andato sviluppando nel tempo in modo naturale, e che vede la condizione attuale come una fase
intermedia tra il passato ed il futuro. I flussi sono molteplici e non riguardano solo l’economia. La
globalizzazione coinvolge e condiziona anche il diritto, la cultura, l’informazione, l’ambiente, la
criminalità. Questi ambiti sono tra loro collegati e si influenzano reciprocamente.
Secondo Fernand Braudel, nel corso del tempo si sono succeduti vari Mondi creati da alcuni centri
(città, nazioni e imperi) che attraverso scambi commerciali, la diffusione della propria lingua e cultura,
imponendo spesso anche un potere politico, hanno creato imperi che si estendevano a tutto il mondo
allora conosciuto (per esempio quello greco, romano, bizantino, il mondo arabo musulmano, quello
turco e quello cinese).
Per parlare oggi di globalizzazione, è necessario considerare il contesto storico da cui questa
deriva. Esiste infatti una linea di continuità tra colonialismo, post colonialismo (di cui si è parlato nelle
pagine precedenti) e globalizzazione. Le scoperte geografiche nel corso del Rinascimento europeo,
con il conseguente sviluppo dei commerci intercontinentali e la conquista spagnola e portoghese del
Nuovo Mondo, sono da considerarsi, secondo molti studiosi, all’origine della Globalizzazione. La
6 Il termine usato in francese per tradurre globalization è mondialisation; in questo caso si fa riferimento alla
parola mondo (con riferimenti sociali) piuttosto che al globo (concetto strettamente geografico). In Italia
vengono usati entrambi i vocaboli tradotti rispettivamente globalizzazione e mondializzazione.
La globalizzazione è un processo continuo ed in evoluzione che si sviluppa dal 1890 circa fino ai giorni nostri e a che fare con la sempre maggiore velocità di circolazione dei flussi (di persone, merci, informazioni).
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tendenza all’unificazione geografica, economica e politica del globo avrebbe poi trovato sviluppo
prima nell’Impero britannico e poi, tra Ottocento e Novecento, nella dominazione coloniale europea.
Per quanto riguarda gli sviluppi più recenti della globalizzazione, si ritiene che essi assumano
particolare consistenza negli ultimi tre decenni del Novecento.
L'errore di percezione che identifica la globalizzazione con la fine del ventesimo secolo è invece
dovuto al periodo storico a cui si fa riferimento. Il confronto tra il 2000 e il 1950, per esempio, tende a
favorire l'affermazione che la globalizzazione sia un fenomeno esclusivo della fine del ventesimo
secolo, ma andando indietro nel tempo fino al 1870 tale affermazione perde validità.
Non si tratta di un processo continuo, ma di un andamento ciclico, che alterna periodi di grande
sviluppo in cui crescono i processi globali, sostenuti da un’economia trainante, e periodi in cui questa
tendenza si blocca a causa di recessioni e crisi economiche, per poi riprende terreno in fasi
successive. Limitandoci a quattro variabili - forza lavoro, merci, investimenti e informazioni - possiamo
identificare il susseguirsi di quattro fasi di globalizzazione. La prima coincidente con la fine del XIX
secolo, la seconda nel periodo che va dal 1945 al 1978, la terza dal 1979 al 1989, infine la quarta va
dalla caduta del muro di Berlino ai nostri giorni. Ciascuna di queste fasi, analizzate nel paragrafo
successivo, si distingue dalle altre per la preponderanza, nel commercio internazionale, di uno
specifico fattore produttivo. Ogni fase inizia e finisce con un momento di crisi.
Le fasi della globalizzazione
Fase I (1890-1945) Questo periodo, che va dalla fine del XIX secolo all’inizio della prima
Guerra Mondiale (1914), vede crescere a livelli mai visti i flussi migratori7. Uno studio della Banca
Mondiale (Collier & Dollar, 2003) stima che tra il 1870 e il 1914 il 10% della popolazione mondiale
migrò dal suo paese di origine verso una nuova destinazione. La rivoluzione nei trasporti, in
particolare con l’uso del treno e della nave, aveva abbassato notevolmente i costi rendendo
raggiungibili le terre più lontane anche ai poveri. Sessanta milioni di persone partirono da Italia,
Irlanda, Spagna, Svezia, Portogallo verso il Canada, gli Stati Uniti, l'Australia, la Nuova Zelanda, il
Brasile, l'Argentina. E l'emigrazione non interessò solo l'Europa. Flussi analoghi, anche se forse meno
conosciuti e studiati, si alimentarono dalla Cina e dall'India verso paesi asiatici meno densamente
popolati come Sri Lanka, Malaysia, Thailandia, Filippine.
Fase di recessione (1914-1945) L'insorgere del nazionalismo economico, la prima guerra
mondiale, la successiva depressione ridussero radicalmente i flussi migratori, ma non furono solo le
migrazioni a risentire del periodo difficile. Ci fu infatti una progressiva chiusura del commercio
internazionale, delle esportazioni e degli investimenti. Ogni volta che l’economia cresce, le nazioni
aprono le frontiere a merci, capitali e flussi migratori; quando si attraversa un periodo di recessione,
invece, che vengono innalzate barriere doganali, si bloccano i flussi migratori e si creano norme per
regolare il movimento dei capitali. Dopo la seconda guerra mondiale, passato il forte momento di
crisi, i flussi ripresero.
II fase (1945-1978) In questa seconda fase si sperimenta a livello internazionale una ripresa
degli scambi commerciali mai vista che riesce a recuperare la contrazione registrata tra il 1914 e il
1945. Come evidenziato da Krugman8, il commercio mondiale cresce ad un tasso medio del 6% (più
del doppio rispetto al tasso di crescita del reddito9). Con gli accordi di Bretton Woods (1944) nascono
7 Per una trattazione più completa dei fenomeni migratori si veda il Modulo IV.
8 Premio Nobel per l’economia nel 2008, è professore all’Università di Princeton e si occupa principalmente di
economia internazionale. 9 L'indicatore con cui generalmente si misura la globalizzazione è il grado di apertura reale di un’economia,
calcolato come la somma delle esportazioni e delle importazioni rispetto al prodotto nazionale lordo (la
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le principali istituzioni finanziarie internazionali e il dollaro diventa il mezzo di pagamento
universalmente accettato, la cui solidità assicura un periodo di stabilità anche ai flussi di merci e di
capitali. Le grandi aziende, soprattutto occidentali, iniziano a vendere i propri prodotti in tutto il
mondo, per diventare soggetti multinazionali in grado di influenzare economia e politica di molti
Stati. Le nuove organizzazioni internazionali vengono chiamate ad assicurare la stabilità monetaria, la
ricostruzione dell’Europa e lo sviluppo dei paesi chiamati “in via di sviluppo”, e la liberalizzazione del
commercio. La crescita è assicurata da bassi costi di trasporto dovuti all’impiego commerciale di
aerei, tir e container e al contenimento dei prezzi delle materie prime tra cui il petrolio. L’aumento di
questi prezzi nel corso degli anni ’70 spezza l’equilibrio, inaugurando un periodo di recessione e di
crisi.
III fase (1978-1989) La percezione che la globalizzazione sia un fenomeno contemporaneo è
sicuramente legata ai recenti sviluppi dei mercati finanziari internazionali. Grazie alla distribuzione
geografica dei centri nevralgici (Londra, Francoforte, New York, Tokyo sono le borse a livello
mondiale) l’esercizio del mercato finanziario è oggi possibile 24 ore su 24. In questa fase le
multinazionali iniziano a spostare massicciamente la produzione nei PVS. Le imprese delocalizzano
dove non ci sono norme a tutela dei lavoratori e dell’ambiente e dove le tasse da pagare sono
minime, abbattendo così i costi di produzione e la concorrenza.
A partire dal 1985 il flusso di Investimenti Diretti all'Estero (IDE) si è moltiplicato per otto e la
capacità delle imprese di produrre in più mercati nazionali si è estesa dalle imprese di grande
dimensione alle medie e alle piccole imprese. Si assiste inoltre ad una generalizzata liberalizzazione
dei flussi di denaro, pressoché totale nei paesi industrializzati e particolarmente rilevante nei paesi
asiatici e in America Latina. I flussi sono composti da capitali a breve termine e capitali a lungo
termine10
. Quelli a breve termine non finanziano attività di produzione di merci, e possono essere
lette come speculazioni effettuate sui mercati finanziari. Gli investimenti a medio lungo periodo
invece finanziano attività commerciali. La prevalenza degli investimenti speculativi rispetto a quelli
produttivi aumenta l’instabilità del sistema economico mondiale. Se prima ogni spostamento di
capitale era accompagnato da uno spostamento di merci, dalla terza fase questo non avviene più: il
denaro si sposta più velocemente delle merci e si crea un crescente squilibrio tra l’economia
finanziaria e quella reale.
IV fase (1989-oggi?) Nella quarta fase sono le informazioni ad acquistare rilevanza, tanto da
essere oggetto di transazioni commerciali a livello mondiale. Grazie ai nuovi strumenti telematici
accessibili a tutti, comunicare tra punti diversi del globo diventa molto semplice ed economico grazie
alla rete (Internet). Tramite massicci investimenti sono state potenziate le reti di circolazione delle
informazioni sulle vie dello spazio telematico, che è caratterizzato da tanti centri quante sono le
possibilità di connessione.
Non si tratta solo di informazione per le imprese, ma anche della diffusione e dell’utilizzo sempre
maggiore dei mass media e della televisione soprattutto. La trasmissione di informazioni visive
(immagini) riesce poi a superare almeno in parte le barriere linguistiche, mettendo in relazione i
luoghi e popoli lontani. La trasmissione satellitare consente sguardi in diretta in tutto il mondo e
provoca influenze culturali ed economiche che aumentano l’interdipendenza e favoriscono
l’uniformazione mondiale degli stili di vita, dell’abbigliamento, dell’alimentazione e della gestione del
tempo libero.
somma del valore aggiunto prodotto sul territorio nazionale in un anno). 10 Convenzionalmente un investimento a breve ha un arco di vita non superiore a 12 mesi, entro i quali il
denaro impiegato torna nel portafoglio dell’investitore; di lungo periodo sono classificati gli investimenti
che superano questa soglia.
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L’omologazione che si può osservare a livello superficiale non sembra comunque essere in grado di
cancellare il mosaico degli spazi politici, sociali e culturali di cui le società mondiali sono fatte. Le
comunità locali e regionali continuano ad essere le cellule di base dell’organizzazione territoriale e
dello spazio vissuto degli uomini.
LEZIONE 3 – Povertà e disuguaglianze
Il problema dello sviluppo può essere affrontato a partire da un’analisi della povertà e delle sue
determinanti nel mondo. La povertà può essere spiegata in differenti modi e, a seconda di come si
sceglie di definirla, cambia anche il modo di affrontarla e di cercare vie di uscita da essa.
È innanzitutto necessario fare una distinzione tra il concetto di povertà e quello di disuguaglianza.
La disuguaglianza riguarda la relazione tra i mezzi (monetari e non) a disposizione degli individui, o
meglio la differenza che può esistere tra quanto un individuo possiede rispetto ad un altro. La
disuguaglianza è dunque un concetto altamente relativo, che sarà affrontato nel prossimo paragrafo.
Per contro, il concetto di povertà può essere assoluto o relativo, a seconda dell’approccio che si
adotta.
1. La povertà
Povertà assoluta
Si definisce povero in termini assoluti un individuo il cui reddito giornaliero sia inferiore ad una
data soglia stabilita convenzionalmente. La soglia di povertà assoluta più utilizzata per fare confronti a
livello internazionale è quella di un dollaro statunitense al giorno; al di sotto di tale soglia si trovano,
nei PVS e nei Paesi in transizione, quasi un miliardo e mezzo di persone. Sebbene fornisca
un’informazione sintetica e immediatamente utilizzabile nella comunicazione dei mass media,
descrivere la povertà solo attraverso questo indicatore non è sufficiente. Verosimilmente neanche le
persone che nel mondo vivono con un reddito compreso tra uno e due dollari al giorno riescono a
soddisfare il fabbisogno calorico minimo necessario, o ad avere accesso ai beni e servizi di base
necessari ad un'esistenza accettabile e degna. Non si tratta di un problema puramente teorico: se si
stabilisce la linea di povertà assoluta a due dollari, infatti, il numero dei poveri rilevati negli stessi
paesi arriva quasi a raddoppiare.
Povertà relativa
Parlare di povertà relativa vuol dire riconoscere che la qualità della vita dipende non solo da elementi che consentono la mera sopravvivenza, come una nutrizione adeguata, una casa e cure mediche, ma anche dal non dover subire le privazioni che derivano da una posizione di reddito relativo troppo basso nella società. La povertà relativa viene dunque definita come la metà del livello di reddito di una famiglia mediana (ovvero il reddito della famiglia che divide in due gruppi ugualmente numerosi il totale delle famiglie di un Paese). La linea di povertà relativa così costruita è utilizzata in molti paesi a medio e alto reddito. Per quanto riguarda l’Italia, se si utilizza una misura assoluta della povertà, i poveri nel 2008 erano 2 milioni e 893 mila individui (4,9% della popolazione), ma la cifra aumenta fino a 8 milioni e 78 mila individui (13,6% della popolazione) se si utilizza una linea di povertà relativa (dati Istat, 2009)
Nonostante il concetto di povertà relativa faccia riferimento allo squilibrio distributivo, non è
possibile far coincidere questa misura con quella della disuguaglianza. Infatti, anche se mobile, la
soglia di povertà relativa resta una linea, superata la quale non si è più considerati (quantomeno nelle
statistiche) poveri. La disuguaglianza, affrontata più avanti, è un concetto assai più fluido, percepibile
ma non ben definibile, che può venir ridotta attraverso politiche per la riduzione della povertà in
26
termini assoluti e relativi, ma mai del tutto eliminata.
In termini di accesso ai beni e servizi essenziali, la povertà può essere ridotta non solo attraverso
una redistribuzione di reddito, ma anche attraverso la garanzia statale, o da parte di enti caritatevoli,
di tale accesso. Il sistema scolastico e il sistema sanitario pubblico sono due grandi esempi di come lo
Stato possa incaricarsi di fornire un servizio di base uguale per tutta la popolazione e in questo modo
garantirne l’accesso anche alle fasce che non potrebbero permettersi di pagarlo se fosse a
pagamento. La povertà non è dunque esclusivamente un problema di reddito, ma anche di
esclusione: si pensi ad un gruppo della popolazione che venga escluso e stigmatizzato, ad esempio
attraverso la negazione dell'accesso a date cure mediche o all'istruzione scolastica. Gli individui
appartenenti a quel gruppo, indipendentemente dal reddito, non potranno avere accesso a questi
servizi di base, e dunque potranno esser considerati “poveri”. Oppure si consideri la situazione di
zone nelle quali non sono offerti tali servizi di base. Anche in quel caso, quale che sia il loro reddito,
gli autoctoni sono effettivamente poveri di tali servizi, sebbene non vi sia apertamente
discriminazione.
Anche gli interventi pubblici, prevalentemente nel settore sanitario ed educativo, sono dunque da
considerarsi come interventi di lotta alla povertà. Ciò è tanto più vero se si pensa che una adeguata
istruzione ed una buona salute costituiscono il prerequisito per migliorare le condizioni di vita future
degli individui, anche (ma non solo) in termini monetari. Questa riflessione implica un approccio
dinamico alla povertà, ovvero relativo ad un processo che si svolge nel tempo; le linee di povertà non
possono dunque essere soddisfacenti perché fotografano la situazione di “adesso”, cioè di un punto
statico nel tempo.
L'approccio delle capabilities
Per rendere dinamico l’approccio al tema della povertà è necessario un nuovo insieme di
strumenti teorici, che permettono come lenti tridimensionali di dare profondità alle nostre
percezioni. Dal filosofo e premio Nobel per l'economia Amartya Sen deriva un grande contributo che
è possibile riduttivamente chiamare capabilities approach. Sen immagina che tutti gli individui
abbiano a propria disposizione un insieme di beni sui quali hanno il controllo (entitlements), ed un
insieme di capacità (capabilities) di convertirli in attività funzionali al raggiungimento dei propri fini
(functionings). L'insieme delle capabilities of functionings rappresenta dunque la libertà dell'individuo
di scegliere, tra gli stili di vita che gli sono possibili, quello a cui egli conferisce maggior valore. La
povertà non è solo data dalla mancanza, pur importante, di entitlements, cioè di mezzi per
raggiungere fini, ma anche da quella di capabilities, cioè di capacità/possibilità di fare che hanno un
valore in sé, oltre a permettere di raggiungere dati “funzionamenti”.
Il reddito non è il solo elemento ad incidere sulla mancanza di capacità, ma contano altri fattori
come l’esclusione sociale, l’istruzione e l’assistenza sanitaria di base. Un miglioramento delle capacità
può portare ad un avanzamento in termini di guadagno o in termini di ulteriori capabilities, così come
la ricchezza monetaria può permettere di acquisire ulteriore ricchezza, ma anche nuove capacità.
Queste sono opportunità, possibilità che si svilupperanno a seconda dei functionings scelti
dall'individuo secondo le proprie credenze e preferenze.
Con tale approccio è possibile rendere almeno in parte indipendente il concetto di povertà dalla
moneta. Esiste comunque un forte problema di misurazione: come indicare sinteticamente il grado di
povertà di una popolazione secondo un tale approccio? Una parziale risposta è stata trovata
dall'UNDP, il cui Indice di Sviluppo Umano è un indicatore sintetico ispirato alla teoria di Sen11.
11
Per una trattazione dettagliata dell’Indice di Sviluppo Umano si veda il Modulo III.
27
2. La disuguaglianza
Diversità (le diseguaglianze naturali)
Si deve al testo pubblicato da Jean-Jacques Rousseau nel 1755 la fondamentale distinzione fra
disuguaglianze naturali e morali. Il Discorso sull'ineguaglianza fu scritto per rispondere ad una
questione posta dall’Accademia di Digione: "Qual è l'origine dell'ineguaglianza tra gli uomini e se essa
sia autorizzata dalla legge naturale". Rousseau sostiene con decisione che la disuguaglianza non ha
origine nello stato di natura originario, ma che sia scaturita insieme alla formazione della società. Essa
è illegittima e dannosa per la moralità e per il benessere dell'umanità:
Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire questo è mio e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quanti assassini, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i pioli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti! (Rousseau, 1997)
MDG 1 – SRADICARE LA FAME E LA POVERTÀ ESTREMA
I target fissati per il 2015 in tema di povertà sono: 1.1 Dimezzare, rispetto al 1990, la percentuale di persone che vivono in condizione di
povertà estrema (meno di un dollaro al giorno); 1.2 Garantire piena occupazione e un lavoro per tutti, compresi donne e giovani; 1.3 Dimezzare, rispetto al 1990, la proporzione di persone che soffre la fame. Le persone hanno abbastanza denaro per soddisfare i propri bisogni essenziali? Hanno
abbastanza cibo per raggiungere il loro fabbisogno calorico giornaliero? Più di un miliardo di persone nel mondo vive con meno di un dollaro al giorno, 238
milioni di questi sono giovani. Se si alza la soglia a due dollari al giorno, il numero di coloro che vivono al di sotto sale circa 2,8 miliardi,
Quali progressi?
Globalmente la percentuale di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno è scesa dal 30% nel 1990 al 23% nel 1999, ma alcuni paesi hanno peggiorato la loro situazione negli ultimi quindici anni. Mentre in molte aree del mondo si registrano lenti ma continui progressi, non si è avuto alcun miglioramento significativo in Africa Sub Sahariana, America Latina e i Caraibi. In Asia Occidentale, la povertà è aumentata. Nel 2001 circa la metà della popolazione in Africa Sub Sahariana si trovava al di sotto della linea di povertà.
Cosa fare?
Alcuni paesi si trovano in quella che viene chiamata la “trappola della povertà”: almeno 31 paesi sono così poveri che hanno bisogno dell’assistenza internazionale per raggiungere gli Obiettivi del Millennio. Le politiche da intraprendere per uscire dalla trappola di povertà riguardano lo sviluppo del sistema economico e produttivo, lo sviluppo delle aree rurali, il miglioramento dei sistemi di istruzione e di salute, la costruzione di infrastrutture, la promozione dei diritti umani e dello sviluppo sostenibile.
Bisogna poi ricordare che spesso povertà e fame, sia nel Nord che nel Sud del mondo, non sono determinate da un problema di assenza assoluta di risorse, ma di una loro diseguale distribuzione che ne impedisce la fruizione da parte di ampie fasce di popolazione.
28
Per comprendere il senso della diseguaglianza tra gli uomini è essenziale comprendere la natura
originaria dell'uomo, perché l'ineguaglianza si è sviluppata man mano che l'uomo si è allontanato
dalla sua condizione naturale. Per Rousseau l’uomo naturale è guidato da due principi che precedono
la ragione: il principio dell'autoconservazione e l'incapacità di veder soffrire i propri simili. Ciò che lo
differenzia dagli animali sono il libero arbitrio (come capacità di volere) e la capacità di perfezionarsi.
La tendenza a migliorare è la causa del progresso, ma anche l’origine delle disuguaglianze della
società civile. Rousseau distingue poi tra due tipi di diseguaglianze tra gli uomini:
• Diseguaglianza naturale, che riguarda sole le differenze fisiche;
• Diseguaglianza morale, che deriva dalla società e si manifesta con i privilegi.
È la società a produrre le diseguaglianze o ad ampliare quelle minime esistenti in natura. L’uso
degli strumenti, la necessità di intessere relazioni per lavorare insieme (necessario con l’avvento
dell’agricoltura e della metallurgia) e quindi abitare insieme, portano ad una costante frequentazione
reciproca tra gli uomini: nascono la stima e l'apprezzamento, il desiderio di essere stimati dagli altri,
l'orgoglio, la vanità, il senso dell'oltraggio e la necessità di vendetta. Le differenze individuali, di
capacità e ingegno, che permettono ad alcuni di produrre di più e ad altri di meno, generano tensioni.
Nascono i poveri e i ricchi. I conflitti che la diversità produce generano uno stato di insicurezza
permanente. I ricchi, che hanno più da perdere, propongono l'istituzione del diritto per avere
sicurezza. I poveri sono ingannati perché il diritto legalizza uno stato di fatto di disuguaglianza. I
passaggi dalla proprietà privata alle leggi, dalle leggi alle cariche elettive, e infine a quelle ereditarie
dovrebbero essere una soluzione contro gli abusi di potere, ma in realtà si confermano come nuove
occasioni per ulteriori abusi. Le distinzioni politiche aumentano le ineguaglianze.
In conclusione, Rousseau tenta quindi di dimostrare che qualunque diseguaglianza di origine
morale, non può essere considerata legittima quanto più si allontana dalla diseguaglianza fisica
naturale e auspica che si possa costruire uno stato civile giusto che ponga rimedio ai danni morali e
materiali in cui l'uomo si dibatte, senza dover necessariamente tornare allo stato di natura. Questo
progetto sarà concretamente analizzato ed esposto nel Contratto sociale, che Rousseau pubblica nel
1762.
Diseguaglianza come concetto globale
Le scienze sociali, economiche e antropologiche hanno affrontato il tema della disuguaglianza da
Rousseau ai giorni nostri. Il problema della definizione e della valutazione economica e sociale della
disuguaglianza è sempre stata al centro del dibatto, portando gli studiosi ad avanzare numerosi
interrogativi ed importanti conclusioni. In gioco ci sono considerazioni etiche che influiscono
inevitabilmente sulla scelta dei termini di rilevazione, valutazione e confronto delle diseguaglianze
socio-economiche. Per introdurre i molteplici significati che oggi la parola può assumere, sono qui
riportate le parole di Ralf Darhendorf12:
Io penso che la disuguaglianza sia un elemento della libertà. Una società libera lascia molto spazio alle differenze tra gli uomini, e non solo a quelle di carattere, ma anche a quelle di grado. La disuguaglianza, però, non è più compatibile con la libertà quando i privilegiati possono negare i diritti di partecipazione degli svantaggiati, ovvero quando gli svantaggiati restano nei fatti del tutto esclusi dalla partecipazione al processo sociale, economico e politico.
Le disuguaglianze tra gli individui, tra differenti gruppi di popolazione e tra diverse aree
geografiche sono spesso inevitabili perché dipendono, ad esempio, da fattori legati al patrimonio
12 Ralf Dahrendorf (1929-2009) è stato un filosofo e un sociologo tedesco. Oltre che per la sua produzione
saggistica, è conosciuto al pubblico italiano anche per i suoi editoriali sul quotidiano la Repubblica. La citazione è tratta da: Libertà attiva. Sei lezioni su un mondo instabile, Laterza, 2003, pp. 19-20.
29
genetico o alla presenza casuale ad un determinato agente patogeno, oppure a diversità necessarie
come quelle dipendenti dal sesso o dall’età. Non tutte le disuguaglianze sono uguale o ugualmente
giustificabili. Il tema che questo testo cerca di affrontare sotto vari punti di vista è la distinzione
ancora valida tra le diversità (o disuguaglianze naturali) e le disuguaglianze riconosciute come
evitabili, eticamente e moralmente ingiuste.
Utilizzando le categorie proposte dall’approccio delle capabilities di Sen, se lo sviluppo è un
processo di promozione e garanzia delle libertà sostanziali dell’individuo all’interno del gruppo
sociale di riferimento, piuttosto che un accrescimento della capacità di creare reddito, allora le
disuguaglianze devono essere pensate come iniquità socio-economiche tra individui, comunità o
fasce di popolazione. L’analisi delle disuguaglianze in termini di sviluppo e benessere tra Paesi e
popolazioni sarà dunque il filo conduttore dei prossimi moduli nell’affrontare grandi temi globali,
quali l’ambiente, la salute, le migrazioni.
MDG 4 – RIDURRE LA MORTALITÀ INFANTILE
4.1 Ridurre di due terzi, fra il 1990 e il 2015, la mortalità tra i bambini con meno di cinque anni di età.
Ridurre la mortalità infantile gioca un ruolo chiave nel determinare i tassi di crescita di
una popolazione: più figli sopravvivono, minore sarà il numero di figli per ogni famiglia. Ci si concentra dunque sui problemi che i bambini incontrano nei loro primi cinque anni di vita. Più di 10 milioni di bambini muoiono ogni anno nei PVS a causa di malattie prevenibili. Se nei PVS un bambino su 10 muore prima di arrivare a cinque anni, nei PS accade ad un bambino su 143. Le cause principali sono l’HIV/AIDS, la malaria, la diarrea e le infezioni respiratorie acute.
- Nelle aree più colpite, ci si aspetta che la mortalità sotto i 5 anni dovuta all’HIV/AIDS raddoppierà entro il 2010.
- La malaria uccide oltre 400000 bambini all’anno. - Il 20% delle morti è causato da problemi respiratori gravi; solo un quarto dei bambini
con queste patologie riceve cure sanitarie. - Il tasso di vaccinazioni, dopo un incremento negli anni ’80, è rimasto costante negli
anni ’90 e in Africa Sub Sahariana è diminuito. Quali progressi?
America Latina, Caraibi e Stati arabi hanno registrato alcuni miglioramenti; l’Africa Sub Sahariana non ha avuto sostanziali cambiamenti. È però cresciuto il divario tra PS e PVS: se nei primi anni ’90 un bambino in Africa Sub Sahariana aveva una possibilità di morte19 volte superiore che nei paesi sviluppati, oggi le probabilità sono 26 volte maggiori.
Cosa fare?
Devono migliorare l’accesso alla sanità riproduttiva, aumentare la distribuzione di vitamine e integratori dove non è presente un sistema sanitario funzionante, la disponibilità di acqua pulita, la distribuzione di zanzariere insetticide, il numero di personale sanitario occupato nelle aree rurali.
30
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