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Dispensa di diritto amministrativo n. 7
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Potere amministrativo e riparto di giurisdizione
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Indice
IL RIPARTO ORDINARIO
1. L'ENTE IN HOUSE È SOGGETTO ALLA GIURISDIZIONE CONTABILE DI
RESPONSABILITÀ: Cass. S.U., 19.12.2009, n. 26806;
2. DIRITTI INAFFIEVOLIBILI: QUANDO C’E’ DIRITTO NON C’E’ POTERE: C.Cost. n.
140/2007;
3. SPETTA AL G.O. IL DANNO DA PROVVEDIMENTI FAVOREVOLI ANNULLATI:
Cass. S.U., 23.03.2011, ord. n. 6594.
IL RIPARTO PER MATERIA
1. I LIMITI GENERALI ALLA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA: C. Cost. 204/2004 e 191/2006;
2. L'ANNULLAMENTO IN AUTOTUTELA DOPO L'AGGIUDICAZIONE COMPETE AL
G.A.: Cons. Stato, sez. V, n. 5032/2011;
3. RIPARTO E CONCESSIONE DI CONTRIBUTI: Cons. Stato, Ad. Pl., 6/2014;
4. L'INDENNIZZO EX ART. 42-BIS T.U.: LE SEZIONI UNITE AFFERMANO LA
GIURISDIZIONE ORDINARIA: Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 25 luglio 2016,n. 15283
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Selezione giurisprudenziale
IL RIPARTO ORDINARIO
1. L'ENTE IN HOUSE È SOGGETTO ALLA GIURISDIZIONE CONTABILE DI
RESPONSABILITÀ: Cass. S.U., 19.12.2009, n. 26806;
La questione analizzata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione attiene alla possibilità di applicare le
norme di diritto societario agli amministratori e dipendenti di una s.p.a. cosiddetta "in mano pubblica" o se
dalla presenza di capitali pubblici consegua invece l'assoggettamento di questi soggetti alle norme proprie della
responsabilità amministrativa, con la conseguente giurisdizione della Corte dei Conti.
Sulla disciplina delle società per azioni a partecipazione pubblica il codice civile detta solo alcune scarne
disposizioni dal che si desume che la scelta della pubblica amministrazione di acquisire partecipazioni in
società private implica il suo assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta.
In difetto di norme esplicite sul punto occorre guardare ai principi generali.
In quest’ottica bisogna distinguere tra la responsabilità in cui gli organi sociali possono incorrere nei confronti
della società e la responsabilità che essi possono assumere direttamente nei confronti di singoli soci o terzi. In
tale ultimo caso la configurabilità dell'azione del procuratore contabile, tesa a far valere la responsabilità
dell'amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata dall'ente pubblico quando
questo sia stato direttamente danneggiato dall'azione illegittima. Tipico esempio di questa situazione è il
danno all'immagine dell'ente pubblico che derivi da atti illegittimi posti in essere dagli organi della società
partecipata.
Ad opposta conclusione si deve invece pervenire nel caso in cui l'azione sia proposta per reagire ad un danno
cagionato al patrimonio della società.
Non solo non è configurabile alcun rapporto di servizio tra l'ente pubblico partecipante e l'amministratore (o
componente di un organo di controllo) della società partecipata, il cui patrimonio sia stato leso dall'atto di
mala gestio, ma neppure sussiste in tale ipotesi un danno qualificabile come danno erariale, inteso come
pregiudizio direttamente arrecato al patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico che della suindicata società
sia socio. La ben nota distinzione tra la personalità giuridica della società di capitali e quella dei singoli soci e
la piena autonomia patrimoniale dell'una rispetto agli altri non consentono di riferire al patrimonio del socio
pubblico il danno che l'illegittimo comportamento degli organi sociali abbia eventualmente arrecato al
patrimonio dell'ente: patrimonio che è e resta privato.
E' certo vero che il danno sofferto dal patrimonio della società è per lo più destinato a ripercuotersi anche sui
soci, incidendo negativamente sul valore o sulla redditività della loro quota di partecipazione; ma il sistema del
diritto societario impone di tener ben distinti i danni direttamente inferti al patrimonio del socio (o del terzo)
da quelli che siano il mero riflesso di danni sofferti dalla società.
Dei danni diretti, cioè di quelli prodotti immediatamente nella sfera giuridico - patrimoniale del socio e che
non consistano nella semplice ripercussione di un danno inferto alla società, solo il socio stesso è legittimato a
dolersi; di quelli sociali, invece, solo alla società compete il risarcimento, di modo che per il socio anche il
ristoro è destinato a realizzarsi unicamente nella medesima maniera indiretta in cui si è prodotto il suo
pregiudizio.
(omissis)
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Il problema che si pone è quello relativo alla questione se agli amministratori e dipendenti di una s.p.a.
cosiddetta "in mano pubblica" si applichino le norme di diritto societario o se dalla presenza di capitali
pubblici consegua invece l'assoggettamento di questi soggetti alle norme proprie della responsabilità
amministrativa, con la conseguente giurisdizione della Corte dei Conti.
Il problema non è quello di definire se, come e quando una s.p.a. "pubblica" risponda, come persona giuridica
per danno erariale ad una P.A., ma si tratta di stabilire sulla base di quale statuto gli amministratori o i
dipendenti di una s.p.a. "pubblica" rispondano dei danni ad essa direttamente prodotti ed
indirettamente riflessi sulla p.a., in quanto titolare della partecipazione azionaria.
La differenza è rilevante, se si considera che nel primo caso la s.p.a. "pubblica" è il soggetto responsabile del
danno che deve risarcire con il proprio patrimonio sociale, nel secondo caso essa diviene il soggetto danneggiato
il cui patrimonio deve essere reintegrato.
Vanno, quindi, fissati alcuni principi generali.
3.1. Com'è noto, il limite esterno della giurisdizione della Corte dei conti, sul quale le sezioni unite della Corte di
cassazione sono chiamate a pronunciarsi, ha rilevanza costituzionale: discende dal disposto dell'art. 103 Cost.,
comma 2, a tenore del quale "la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre
specificate dalla legge".
Al di fuori delle materie di contabilità pubblica, e quindi anche in tema di responsabilità, occorre
dunque che la giurisdizione della Corte dei conti abbia il suo fondamento in una specifica disposizione
di legge.
In termini generali, il contenuto ed i limiti della giurisdizione della Corte dei conti in tema di responsabilità
trovano la loro base normativa nella previsione del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, art. 13, secondo cui la corte
giudica sulla responsabilità per danni arrecati all'erario da pubblici funzionari nell'esercizio delle loro
funzioni.
Tali limiti sono stati successivamente ampliati della L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 4, che ha esteso il
giudizio della Corte dei conti alla responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici anche per
danni cagionati ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza. La giurisdizione di
detta corte non è quindi circoscritta alla sola ipotesi di responsabilità contrattuale dell'agente, ma può esplicarsi
anche in caso di responsabilità aquiliana.
3.2. In passato i limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti, al pari di quella del giudice amministrativo,
erano però (relativamente) più agevoli da tracciare: la più netta distinzione tra l'area del pubblico e quella del
privato, la normale corrispondenza tra la natura pubblica dell'attività svolta dall'agente ed il suo organico
inserimento nei ranghi della pubblica amministrazione, la conseguente più agevole demarcazione di confini tra
l'agire dell'amministrazione in forza della potestà pubblica ad essa spettante e per le finalità tipicamente a questa
connesse ed il suo agire invece iure privatorum: erano tutti elementi che facilitavano anche l'individuazione dei
limiti esterni della giurisdizione in esame.
La più recente evoluzione dell'ordinamento ha reso ora questi confini assai meno chiari, (omissis)
In quest'ottica anche le sezioni unite della Cassazione, per evitare il rischio di un sostanziale svuotamento - o
almeno di un grave indebolimento - della giurisdizione della corte contabile in punto di responsabilità, ha teso a
privilegiare un approccio più "sostanzialistico", sostituendo ad un criterio eminentemente soggettivo, che
identificava l'elemento fondante della giurisdizione della Corte dei conti nella condizione giuridica pubblica
dell'agente, un criterio oggettivo che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse
finanziarie a tal fine adoperate.
Si è perciò affermato che, quando si discute del riparto della giurisdizione tra Corte dei conti e giudice ordinario,
occorre aver riguardo al rapporto di servizio tra l'agente e la pubblica amministrazione, ma che per tale può
intendersi anche una relazione con la pubblica amministrazione caratterizzata dal fatto di investire un
soggetto, altrimenti estraneo all'amministrazione medesima, del compito di porre in essere in sua vece
un'attività, senza che rilevi nè la natura giuridica dell'atto di investitura - provvedimento, convenzione o
contratto - nè quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona giuridica o fisica, privata o
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pubblica (Sez. un. 3 luglio 2009, n. 15599; 31 gennaio 2008, n. 2289; 22 febbraio 2007, n. 4112; 20 ottobre 2006,
n. 22513; 5 giugno 2000, n. 400; Sez. un., 30 marzo 1990, n. 2611, ed altre conformi).
L'affidamento da parte di un ente pubblico ad un soggetto esterno, da esso controllato, della gestione di un
servizio pubblico integra quindi una relazione funzionale incentrata sull'inserimento del soggetto
medesimo nell'organizzazione funzionale dell'ente pubblico e ne implica, conseguentemente,
l'assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale, a prescindere dalla natura
privatistica dello stesso soggetto e dello strumento contrattuale con il quale si sia costituito ed attuato il
rapporto (Sez. un. 27 settembre 2006, n. 20886; 1 aprile 2008, n. 8409; 1 marzo 2006, n. 4511; 19 febbraio 2004,
2004, n. 3351), anche se l'estraneo venga investito solo di fatto dello svolgimento di una data attività in favore
della pubblica amministrazione (Sez. un. 9 settembre 2008, n. 22652) ed anche se difetti una gestione del danaro
secondo moduli contabili di tipo pubblico o secondo procedure di rendicontazione proprie della giurisdizione
contabile in senso stretto (Sez. un. 12 ottobre 2004, n. 20132).
(omissis). Si è sottolineato che si esercita attività amministrativa non solo quando si svolgono pubbliche funzioni
e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall'ordinamento, si perseguono le finalità istituzionali
proprie dell'amministrazione pubblica mediante un'attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato; con
la conseguenza - si è precisato - che, nell'attuale assetto normativo, il dato essenziale che radica la
giurisdizione della corte contabile è rappresentato dall'evento dannoso verificatosi a carico di una
pubblica amministrazione e non più dal quadro di riferimento - pubblico o privato - nel quale si colloca
la condotta produttiva del danno (Sez. un., 25 maggio 2005, n. 10973; 20 giugno 2006, n. 14101; 1 marzo
2006, n. 4511; Cass. 15 febbraio 2007, n. 3367).
3.3. Se quanto appena osservato vale certamente per gli enti pubblici economici, i quali restano nell'alveo della
pubblica amministrazione pur quando eventualmente operino imprenditorialmente con strumenti privatistici, è
da stabilire entro quali limiti alla medesima conclusione si debba pervenire anche nel diverso caso della
responsabilità di amministratori di società di diritto privato partecipate da un ente pubblico. Le quali non
perdono la loro natura di enti privati per il solo fatto che il loro capitale sia alimentato anche da conferimenti
provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico.
Il codice civile dedica alla società per azioni a partecipazione pubblica solo alcune scarne disposizioni, (omissis)
Ma siffatte residue disposizioni del codice non valgono a configurare uno statuto speciale per dette società
(spesso, viceversa, interessate da norme speciali, non sempre tra loro ben coordinate), (omissis) Se ne è desunto -
anche alla luce di quanto espressamente indicato nella relazione ("E' lo Stato medesimo che si assoggetta alla
legge delle società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità
realizzatrici") - che la scelta della pubblica amministrazione di acquisire partecipazioni in società private
implica il suo assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta.
Dall'identità dei diritti e degli obblighi facenti capo ai componenti degli organi sociali di una società a
partecipazione pubblica, pur quando direttamente designati dal socio pubblico, logicamente perciò discende la
responsabilità di detti organi nei confronti della società, dei soci, dei creditori e dei terzi in genere, nei medesimi
termini - contemplati dagli artt. 2392 c.c. e segg. - in cui tali diverse possibili proiezioni della responsabilità sono
configurabili per gli amministratori e per gli organi di controllo di qualsivoglia altra società privata.
3.4. (omissis) Entra allora in gioco un ulteriore importante elemento normativo, cui finora non si è fatto
riferimento ma che occorre adesso prendere in considerazione. Si allude alla disposizione della L. 28 febbraio
2008, n. 31, art. 16 bis, (che ha convertito il D.L. 31 dicembre 2007, n. 248), così concepita: "Per le società con
azioni quotate in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre amministrazioni
o di enti pubblici, inferiore al 50 per cento, nonchè per le loro controllate, la responsabilità degli amministratori e
dei dipendenti è regolata dalle norme del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla
giurisdizione del giudice ordinario".
Tale norma, (omissis) lascia chiaramente intendere che, in ordine alla responsabilità di amministratori e
dipendenti di società a partecipazione pubblica, vi sia una naturale area di competenza giurisdizionale diversa da
quella ordinaria.
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Non si capirebbe, altrimenti, la ragione per la quale il legislatore ha inteso stabilire che, per l'avvenire (e
limitatamente alle società quotate, o loro controllate, con partecipazione pubblica inferiore al 50%), la
giurisdizione spetta invece in via esclusiva proprio al giudice ordinario.
Resta però da verificare entro quali limiti, al di fuori del ristretto campo d'applicazione della
disposizione da ultimo richiamata, sia davvero configurabile la giurisdizione del giudice contabile che
il legislatore ha in tal modo presupposto in rapporto ad atti di mala gestio degli organi di società a
partecipazione pubblica.
In difetto di norme esplicite in tal senso (e fatta salva la specificità di singole società a partecipazione pubblica il
cui statuto sia soggetto a regole legali sui generis, come nel caso della Rai), è ai principi generali ed alle linee
portanti del sistema che occorre aver riguardo. Ed è proprio in quest'ottica che assume rilievo decisivo la già
accennata distinzione tra la responsabilità in cui gli organi sociali possono incorrere nei confronti della
società (prevista e disciplinata, per le società azionarie, dagli artt. 2393 e segg. e, per le società a responsabilità
limitata, dell'art. 2476 c.c., commi 1, 3, 4 e 5) e la responsabilità che essi possono assumere direttamente
nei confronti di singoli soci o terzi (prevista e disciplinata, per le società azionarie, dall'art. 2395 c.c., per le
società a responsabilità limitata, del cit. art. 2476 c.c., comma 6).
3.6. In tale ultimo caso la configurabilità dell'azione del procuratore contabile, tesa a far valere la responsabilità
dell'amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata dall'ente pubblico quando
questo sia stato direttamente danneggiato dall'azione illegittima, non incontra particolari ostacoli (nè si pongono
difficoltà derivanti dalla possibile concorrenza di siffatta azione con quella ipotizzata in sede civile dai citati art.
2395 c.c. e art. 2476 c.c., comma 6, poichè l'una e l'altra mirerebbero in definitiva al medesimo risultato).
(omissis)
Quel che appare certo è che la presenza dell'ente pubblico all'interno della compagine sociale ed il fatto
che la sua partecipazione sia strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed abbia implicato
l'impiego di pubbliche risorse non può sfuggire agli organi della società e non può non comportare, per
loro, una peculiare cura nell'evitare comportamenti tali da compromettere la ragione stessa di detta
partecipazione sociale dell'ente pubblico o che possano comunque direttamente cagionare un
pregiudizio al patrimonio di quest'ultimo.
Tipico esempio di questa situazione è il danno all'immagine dell'ente pubblico (su cui si veda Sez. un. 20
giugno 2007, n. 14297) che derivi da atti illegittimi posti in essere dagli organi della società partecipata:
danno che può eventualmente prodursi immediatamente in capo a detto ente pubblico, per il fatto stesso di
essere partecipe di una società in cui quei comportamenti illegittimi si siano manifestati, e che non s'identifica
con il mero riflesso di un pregiudizio arrecato al patrimonio sociale (indipendentemente dall'essere o meno
configurabile e risarcibile anche un autonomo e distinto danno all'immagine della medesima società).
(omissis)
3.7. Ad opposta conclusione si deve invece pervenire nel caso in cui l'azione sia proposta per reagire ad un
danno cagionato al patrimonio della società.
Non solo, come detto, non è configurabile alcun rapporto di servizio tra l'ente pubblico partecipante e
l'amministratore (o componente di un organo di controllo) della società partecipata, il cui patrimonio sia stato
leso dall'atto di mala gestio, ma neppure sussiste in tale ipotesi un danno qualificabile come danno erariale, inteso
come pregiudizio direttamente arrecato al patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico che della suindicata
società sia socio. La ben nota distinzione tra la personalità giuridica della società di capitali e quella dei
singoli soci e la piena autonomia patrimoniale dell'una rispetto agli altri non consentono di riferire al
patrimonio del socio pubblico il danno che l'illegittimo comportamento degli organi sociali abbia
eventualmente arrecato al patrimonio dell'ente: patrimonio che è e resta privato.
E' certo vero che il danno sofferto dal patrimonio della società è per lo più destinato a ripercuotersi anche sui
soci, incidendo negativamente sul valore o sulla redditività della loro quota di partecipazione; ma - fatte salve le
limitate eccezioni oggi introdotte dall'art. 2497 c.c. (come modificato dal D.Lgs. n. 6 del 2003), in tema di
responsabilità dell'ente posto a capo di un gruppo di imprese societarie, che qui non rilevano - il sistema del
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diritto societario impone di tener ben distinti i danni direttamente inferti al patrimonio del socio (o del terzo) da
quelli che siano il mero riflesso di danni sofferti dalla società.
Dei danni diretti, cioè di quelli prodotti immediatamente nella sfera giuridico - patrimoniale del socio e
che non consistano nella semplice ripercussione di un danno inferto alla società, solo il socio stesso è
legittimato a dolersi; di quelli sociali, invece, solo alla società compete il risarcimento, di modo che per
il socio anche il ristoro è destinato a realizzarsi unicamente nella medesima maniera indiretta in cui si è
prodotto il suo pregiudizio (principio pacifico: si vedano, ex multis, Cass. 5 agosto 2008, n. 21130; 3 aprile
2007, n. 8359; 27 giugno 1998, n. 6364; e 28 febbraio 1998, n. 2251).
Si capisce, allora, come il danno inferto dagli organi della società al patrimonio sociale, che nel sistema del codice
civile può dar vita all'azione sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori sociali, non è idoneo
a configurare anche un'ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti: perchè non implica
alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto privato (appunto la società), riferibile al
patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli soci - pubblici o privati - i quali sono
unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione ed i cui originar conferimenti restano confusi ed
assorbiti nell'unico patrimonio sociale.
(omissis)
3.7. Giova ancora aggiungere che l'esclusione dell'ipotizzata giurisdizione del giudice contabile per l'azione di
risarcimento di danni cagionati al patrimonio della società partecipata da un ente pubblico neppure provoca, a
ben vedere, il rischio di una lacuna nella tutela dell'interesse pubblico coinvolto nella descritta situazione.
Nell'attuale disciplina della società azionaria - ed in misura ancor maggiore in quella della società a responsabilità
limitata - l'esercizio dell'azione sociale di responsabilità, in caso di mala gestio imputabile agli organi della società,
non è più monopolio dell'assemblea e non è più, quindi, unicamente rimessa alla discrezionalità della
maggioranza dei soci. Una minoranza qualificata dei partecipanti alla società azionaria (art. 2393 - bis c.c.) ed
addirittura ciascun singolo socio della società a responsabilità limitata (art. 2476 c.c., comma 3) sono infatti
legittimati ad esercitare tale azione (anche nel proprio interesse, ma a beneficio della società) eventualmente
sopperendo all'inerzia della maggioranza.
Ne consegue che, trattandosi di società a partecipazione pubblica, il socio pubblico è di regola in grado
di tutelare egli stesso i propri interessi sociali mediante l'esercizio delle suindicate azioni civili. Se ciò
non faccia e se, in conseguenza di tale omissione, l'ente pubblico abbia a subire un pregiudizio
derivante dalla perdita di valore della partecipazione, è sicuramente prospettabile l'azione del
procuratore contabile nei confronti (non già dell'amministratore della società partecipata, per il danno arrecato
al patrimonio sociale, bensì nei confronti) di chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque
titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di
socio ed abbia perciò pregiudicato il valore della partecipazione.
Ed è ovvio che, con riguardo ad un'azione siffatta, vi sia piena competenza giurisdizionale della Corte
dei conti.
4.1. (omissis)
2. DIRITTI INAFFIEVOLIBILI: QUANDO C’E’ DIRITTO NON C’E’ POTERE: C.Cost. n.
140/2007;
E’ legittima la norma censurata che ha riconosciuto esclusivamente al giudice naturale della legittimità
dell’esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela per il danno asseritamente
sofferto anche in violazione di diritti fondamentali in dipendenza dell’illegittimo esercizio del potere pubblico
da parte della pubblica amministrazione.
Essa è conforme all’orientamento espresso nelle sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 di questa Corte
secondo cui l’art. 103 Cost. ha riconosciuto al legislatore il potere di indicare «particolari materie» nelle quali
la tutela nei confronti della pubblica amministrazione investe «anche» diritti soggettivi. Detta giurisprudenza
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esclude che la giurisdizione possa competere al giudice ordinario per il solo fatto che la domanda abbia ad
oggetto esclusivo il risarcimento del danno (sentenza n. 191 del 2006). Il giudizio amministrativo, infatti, in
questi casi assicura la tutela di ogni diritto anche di quelli costituzionalmente garantiti, coinvolti nell’esercizio
della funzione amministrativa.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di Civitavecchia dubita, in riferimento agli articoli 103 e 25 della Costituzione, della
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 552, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2005), nella parte in cui devolve alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto le procedure ed i
provvedimenti in materia di impianti di energia elettrica di cui al decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 (Misure
urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 9
aprile 2002, n. 55 e le relative questioni risarcitorie.
2. – Sulle eccezioni di carattere preliminare sollevate da più parti si osserva quanto segue.
(omissis)
3. – Con riferimento all’altro parametro, costituito dall’art. 103, primo comma, Cost., il rimettente ricorda
che l’art. 1, comma 552 della legge n. 311 del 2004 – nella parte in cui dispone che «Le controversie aventi ad
oggetto le procedure ed i provvedimenti in materia di impianti di generazione di energia elettrica di cui al
decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2003 [recte: 2002], n. 55, e
le relative questioni risarcitorie sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo» – consente
di ricomprendere la fattispecie in esame, pur in considerazione delle peculiarità degli interessi fatti valere con il
ricorso introduttivo del giudizio cautelare. Ciò, sia perché la norma censurata include espressamente le azioni
risarcitorie (rispetto alle quali l’azione inibitoria promossa dal Comune ricorrente si colloca in posizione
anticipatoria), sia perché l’ambito delle controversie riservate alla giurisdizione esclusiva del TAR risulta definito
da una «endiadi (procedure e provvedimenti in materia di impianti) non agevolmente delimitabile». In tal modo –
a giudizio del rimettente - la norma finisce con l’includere, in modo del tutto indipendente dalla natura degli
interessi lesi, qualsiasi controversia interferente con la progettazione, la realizzazione, l’esistenza e il
funzionamento di un impianto di energia elettrica. E ciò, in violazione dell’art. 103, primo comma Cost.
La questione non è fondata.
(omissis)
Il procedimento seguito nel caso di specie s’inquadra perfettamente nella formulazione della norma
denunciata che parla di «procedure e […] provvedimenti in materia di impianti di generazione di energia
elettrica», proprio per indicare quel procedimento complesso, in ragione del coinvolgimento di più soggetti
pubblici, il quale si conclude con i provvedimenti specifici riguardanti le singole modalità attuative degli interventi
inerenti gli impianti in questione.
La norma censurata, d’altronde, è conforme all’orientamento espresso nelle sentenze n. 204 del 2004 e,
soprattutto, n. 191 del 2006 di questa Corte. Secondo tali pronunce, l’art. 103 Cost., pur non avendo conferito al
legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di
materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, gli ha riconosciuto il potere di indicare «particolari materie» nelle
quali la tutela nei confronti della pubblica amministrazione investe «anche» diritti soggettivi. Deve trattarsi
tuttavia, di materie determinate nelle quali la pubblica amministrazione agisce nell’esercizio del suo potere.
La richiamata giurisprudenza di questa Corte esclude, poi, che la giurisdizione possa competere al giudice
ordinario per il solo fatto che la domanda abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno (sentenza n. 191
del 2006). Il giudizio amministrativo, infatti, in questi casi assicura la tutela di ogni diritto: e ciò non soltanto per
effetto dell’esigenza, coerente con i princípi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti
ad un unico giudice l’intera protezione del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica, ma
anche perché quel giudice è idoneo ad offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti,
coinvolti nell’esercizio della funzione amministrativa.
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Nella fattispecie disciplinata dal censurato comma 552 dell’art. 1 della legge n. 311 del 2004 ricorrono tutti i
presupposti che questa Corte ha ritenuto sufficienti a legittimare il riconoscimento di una giurisdizione esclusiva
al giudice amministrativo. L’oggetto delle controversie è rigorosamente circoscritto alle particolari «procedure e
provvedimenti», tipizzati dalla legge (decreto-legge n. 7 del 2002), e concernenti una materia specifica (gli
impianti di generazione di energia elettrica).
Né osta - va ribadito - alla validità costituzionale del «sistema» in esame la natura «fondamentale» dei
diritti soggettivi coinvolti nelle controversie de quibus, su cui pure insiste il rimettente, non essendovi
alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario -
escludendone il giudice amministrativo - la tutela dei diritti costituzionalmente protetti. Peraltro,
l’orientamento – espresso dalle Sezioni unite della Corte di cassazione – circa la sussistenza della giurisdizione del
giudice ordinario in presenza di alcuni diritti assolutamente prioritari (tra cui quello alla salute) risulta enunciato
in ipotesi in cui venivano in considerazione meri comportamenti della pubblica amministrazione, e pertanto esso
è coerente con la sentenza n. 191 del 2006, con la quale questa Corte ha escluso dalla giurisdizione esclusiva la
cognizione del risarcimento del danno conseguente a meri comportamenti della pubblica amministrazione. Nel
caso in esame, invece, si tratta di specifici provvedimenti o procedimenti «tipizzati» normativamente.
Deve, dunque, concludersi che legittimamente la norma censurata ha riconosciuto esclusivamente al giudice
naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi
anche una tutela risarcitoria, per equivalente o in forma specifica, per il danno asseritamente sofferto anche in
violazione di diritti fondamentali in dipendenza dell’illegittimo esercizio del potere pubblico da parte della
pubblica amministrazione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 552, della legge 30
dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge
finanziaria 2005), sollevata, in riferimento all’art. 25 della Costituzione, dal Tribunale di Civitavecchia, con
l’ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dello stesso articolo 1, comma 552, della legge n.
311 del 2004 sollevata, in riferimento all’art. 103 della Costituzione, dal Tribunale di Civitavecchia, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
3. SPETTA AL G.O. IL DANNO DA PROVVEDIMENTI FAVOREVOLI ANNULLATI: Cass. S.U.,
23.03.2011, ord. n. 6594.
Le Sezioni Unite affermano che la domanda risarcitoria formulata dal soggetto destinatario del provvedimento
favorevole e relativa al danno subito per l’affidamento in esso ingenerato dalla decisione amministrativa non
sarebbe collegata all’esercizio, neppure mediato, del potere amministrativo per cui la giurisdizione spetterebbe al
giudice ordinario.
(omissis)
Con riferimento alla questione di giurisdizione sottoposta all'esame di questa Suprema Corte, si osserva:
se la pubblica amministrazione procede alla emanazione di provvedimenti illegittimi - contro i quali, ai sensi
dell'articolo 113 Cost., comma 1, e' sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi
lesi dinanzi agli organi di giustizia ordinaria o amministrativa - determina la lesione dei diritti o degli interessi in
maniera diversa a seconda che l'interesse leso rientri nella categoria generale degli interessi pretensivi o in quella
degli interessi oppositivi. Se l'interesse e' pretensivo la sua lesione si concretizza nello illegittimo diniego o nella
ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo (legittimo); se l'interesse e' oppositivo la sua lesione si
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concretizza nello illegittimo sacrificio di un bene o di una situazione di vantaggio. Il Decreto Legislativo 31
marzo 1998, n. 80, articolo 35, come sostituito dalla Legge 21 luglio 2000, n. 205, articolo 7, dispone che "il
giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la
reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto.".
La Corte Costituzionale, nelle sentenze n. 292 del 2000 e 281 del 2004, ha chiarito che con tale disposizione il
legislatore ha inteso rendere piena ed effettiva la tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione,
concentrando innanzi al giudice amministrativo non solo la fase del controllo di legittimita' dell'azione
amministrativa, ma anche (ove configurabile) quella della riparazione per equivalente, ossia il
risarcimento del danno, evitando per esso la necessita' di instaurare un successivo e separato giudizio innanzi al
giudice ordinario; ha chiarito, pero', che il risarcimento del danno ingiusto non costituisce una nuova materia
attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo, ma esclusivamente uno strumento di tutela ulteriore e di
completamento rispetto a quello classico demolitorio, da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti
della pubblica amministrazione.
In altre parole il legislatore ha inteso realizzare la unificazione della tutela avanti al giudice
amministrativo, concentrando dinanzi allo stesso sia i poteri di annullamento dell'atto illegittimo che la
tutela risarcitoria consequenziale alla pronuncia di legittimita' dell'atto o provvedimento contro cui si
ricorre (argomenta anche dal succitato articolo 113 Cost.), prima riservata al giudice ordinario.
Ne deriva che la attrazione della tutela risarcitoria nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo puo' verificarsi esclusivamente qualora il danno, patito dal soggetto che ha proceduto alla
impugnazione dell'atto, sia conseguenza immediata e diretta (articolo 1223 c.c.) della illegittimita' dell'atto
impugnato; pertanto, qualora si tratti di atto o provvedimento rispetto al quale l'interesse tutelabile e' quello
pretensivo, il soggetto che puo' chiedere la tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo, perche' vittima di
danno ricollegabile con nesso di causalita' immediato e diretto al provvedimento impugnato, e' colui che si e'
visto, a seguito di una fondata richiesta, ingiustamente negare o adottare con ritardo il provvedimento
amministrativo richiesto; qualora si tratti di atto o provvedimento amministrativo rispetto al quale l'interesse
tutelabile si configura come oppositivo, il soggetto che puo' chiedere la tutela risarcitoria dinanzi al giudice
amministrativo e' soltanto colui che e' portatore dello interesse alla conservazione del bene o della situazione di
vantaggio, che vengono direttamente pregiudicati dall'atto o provvedimento amministrativo contro il quale ha
proposto ricorso. Soltanto in queste situazioni la tutela risarcitoria si pone come tutela consequenziale e
comporta, quindi, la concentrazione della fase del controllo di legittimita' dell'azione amministrativa e quella della
riparazione per equivalente, ossia il risarcimento del danno, dinanzi all'unico giudice amministrativo.
Tra gli atti rispetto ai quali e' configurabile un interesse pretensivo rientra la concessione edilizia. Appare
opportuno precisare che la concessione edilizia prevista dalla legge n. 10/77 in sostituzione della licenza edilizia,
nonostante il nomen iuris, non e' una concessione. La Corte Costituzionale nella sentenza 5/1980 ha chiarito che
la concessione edilizia ha struttura e funzione di autorizzazione. In detta sentenza si afferma che il diritto di
edificare inerisce alla proprieta' dell'area da edificare (ius aedificandi), e che tale diritto, pero', puo' essere
esercitato solo entro i limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici; che sussistendo le condizioni
richieste solo il proprietario o il titolare di altro diritto reale, che legittimi a costruire, puo' edificare, non essendo
consentito dal sistema che altri possa, autoritativamente, essere a lui sostituito per la realizzazione dell'opera; che,
quindi, la concessione a edificare non e' attributiva di diritti nuovi, ma presuppone facolta' preesistenti, sicche'
sotto questo profilo non adempie a funzione sostanzialmente diversa da quella dell'antica licenza, avendo lo
scopo di accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall'ordinamento per l'esercizio del diritto, nei limiti in
cui il sistema normativo ne riconosce e tutela la consistenza.
Il proprietario del suolo o il titolare di altro diritto reale, che legittimi a costruire, hanno, quindi, un interesse
pretensivo al rilascio della concessione edilizia; se il richiedente che si trova nelle condizioni previste dalla legge
per il rilascio di detta li concessione, se la veda ingiustamente negare, puo' insorgere contro l'illegittimo
provvedimento di diniego chiedendo al giudice amministrativo sia il controllo della legittimita' dell'atto sia il
conseguente risarcimento del danno. In questo caso e' ammissibile la concentrazione di entrambe le tutele
dinanzi allo stesso giudice, potendo l'avente diritto al rilascio della licenza invocare entrambe le tutele. Diversa e'
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la situazione del proprietario o di altro titolare dello ius aedificandi che ottenuta la concessione edilizia
ed iniziata l'attivita' di edificazione sul fondo facendo affidamento (incolpevole) sulla (apparente)
legittimita' dell'atto, venga successivamente privato del diritto ad edificare a seguito di annullamento di
ufficio della concessione o di annullamento giurisdizionale della stessa su ricorso di un soggetto (in tal
caso titolare di un interesse oppositivo), che assuma la intervenuta lesione di un suo diritto da parte del
provvedimento impugnato.
In questo caso, intervenuto l'annullamento d'ufficio o giurisdizionale per la riscontrata illegittimita' della
concessione, il proprietario ed il titolare di altro diritto che lo legittima ad edificare, venendo giustamente privati
del diritto ad edificare, non possono invocare, adducendo la perdita di tale facolta', il risarcimento del danno.
Sulla base di questa situazione non possono invocare ne' la tutela demolitoria di un qualche atto (a meno che non
si ritenga di impugnare il provvedimento di ufficio, che, una volta riconosciuto legittimo non consente piu' di
invocare lo ius aedificandi quale fondamento di una ulteriore tutela) ne' quella risarcitoria alla possibilita' di quel
tipo di tutela strettamente collegata. La legittima privazione del diritto ad edificare non autorizza nessuna
delle due tutele e non consente, quindi, (non costituendo la tutela risarcitoria una autonoma ipotesi di
giurisdizione esclusiva) che possa essere invocata dinanzi al giudice amministrativo la tutela
risarcitoria.
Una volta intervenuto legittimamente l'annullamento della concessione edilizia puo' rilevare
esclusivamente una diversa situazione, sulla quale fondare il risarcimento del danno.
Il titolare dello ius aedificandi, cui sia venuto meno tale diritto, a seguito di annullamento della concessione
edilizia o d'ufficio o su ricorso di un altro soggetto, che sia insorto contro detto provvedimento (soggetto che, in
quanto portatore di un interesse oppositivo all'annullamento dell'atto puo' chiedere dinanzi al medesimo giudice
amministrativo sia la tutela demolitoria che la correlata tutela risarcitoria), una volta che sia stata definitivamente
accertata la illegittimita' della concessione, si trova privato dello ius aedificandi, senza che sussista un qualche
altro provvedimento amministrativo contro il quale possa insorgere.
Si ha soltanto che il provvedimento che aveva concesso il diritto ad edificare e che, perche' illegittimo,
legittimamente e' stato posto nel nulla e che non rileva, quindi, piu' come provvedimento che rimuove un
ostacolo all'esercizio di un diritto, continua a rilevare per il proprietario del fondo o il titolare di altro diritto, che
lo abiliti a costruire sul fondo, esclusivamente quale mero comportamento degli organi che hanno
provveduto al suo rilascio, integrando cosi', ex articolo 2043 c.c., gli estremi di un atto illecito per
violazione del principio del neminem laedere, imputabile alla pubblica amministrazione in virtu' del
principio di immedesimazione organica, per avere tale atto con la sua apparente legittimita' ingenerato
nel suo destinatario l'incolpevole convincimento (avendo questo il diritto di fare affidamento sulla
legittimita' dell'atto amministrativo e, quindi, sulla correttezza dell'azione amministrativa) di poter
legittimamente procedere alla edificazione del fondo.
In mancanza di un atto impugnabile il proprietario o il titolare di altro diritto che lo abiliti a costruire sul fondo
hanno la esclusiva possibilita' di invocare un'unica tutela (che non essendo collegata alla impugnabilita' di
un atto non puo' essere attratta nell'ambito di applicazione della giurisdizione esclusiva, atteso che, appare
opportuno ribadirlo, la autonoma tutela risarcitoria non costituisce una ulteriore ipotesi di giurisdizione
esclusiva): quella risarcitoria fondata sull'affidamento; viene in considerazione un danno che oggettivamente
prescinde da valutazioni sull'esercizio del potere pubblico, fondandosi su doveri di comportamento il cui
contenuto certamente non dipende dalla natura privatistica o pubblicistica del soggetto che ne e' responsabile,
atteso che anche la pubblica amministrazione, come qualsiasi privato, e' tenuta a rispettare nell'esercizio della
attivita' amministrativa principi generali di comportamento, quali la perizia, la prudenza, la diligenza, la
correttezza. Di quanto si e' osservato sin qui si puo' offrire questa sintesi.
In base agli articoli 103 e 113 Cost., il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno
giurisdizione per la tutela contro gli atti della pubblica amministrazione.
La giurisdizione amministrativa e' dunque ordinata ad apprestare tutela - cautelare, cognitoria ed
esecutiva - contro l'agire della pubblica amministrazione, manifestazione di poteri pubblici, quale si e'
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concretato nei confronti della parte, che in conseguenza del modo in cui il potere e' stato esercitato ha
visto illegittimamente impedita la realizzazione del proprio interesse sostanziale o la sua fruizione.
Dei poteri che al giudice amministrativo e' stato dato di esercitare per la tutela degli interessi sacrificati dall'agire
illegittimo della pubblica amministrazione, dal Decreto Legislativo n. 80 del 1998, in poi, ha iniziato a far parte
anche il potere di condanna al risarcimento del danno, in forma di completamento o sostitutiva: risarcimento che
e' percio' volto a contribuire ad elidere le conseguenze di quell'esercizio del potere che si e' risolto in sacrificio
illegittimo dell'interesse sostanziale del destinatario dell'atto.
Casi, come quello in esame, non prospettano un'esigenza di tutela quale quella appena delineata.
La parte che agisce in giudizio non e' stata destinataria di un provvedimento ablatorio, di un comportamento
silenzioso mantenuto su una domanda di provvedimento favorevole o del diniego di un tale procedimento, atti o
comportamenti di cui avrebbe potuto avere ragione di postulare l'illegittimita' e sollecitare di tale illegittimita'
l'affermazione con l'ulteriore eventuale ristoro del danno che quella illegittimita' gli avesse provocato.
Nel caso in esame, la parte ha ottenuto il rilascio di una concessione edilizia e ha iniziato a realizzare il manufatto
oggetto della concessione.
Questa situazione di fatto non era tale da sollecitare alcuna esigenza di tutela contro un agire illegittimo della
pubblica amministrazione.
L'esigenza di tutela - risarcitoria e solo di tale tipo - affiora in questo come in analoghi casi solo per
l'affidamento ingenerato dal provvedimento favorevole e non richiede che per ottenere il risarcimento la
parte domandi al giudice amministrativo un accertamento a proposito della illegittimita' del
comportamento tenuto dall'amministrazione, perche' questo accertamento essa ha invece interesse a
contrastarlo nel giudizio di annullamento del provvedimento summenzionato da altri provocato e puo'
solo subirlo.
La parte che invoca la tutela risarcitoria non postula dunque un esercizio illegittimo del potere,
consumato in suo confronto con sacrificio del corrispondente interesse sostanziale, ma la colpa che
connota un comportamento consistito per contro nella emissione di atti favorevoli, poi ritirati per
pronunzia giudiziale o in autotutela, atti che hanno creato affidamento nella loro legittimita' ed
orientato una corrispondente successiva condotta pratica, poi dovuta arrestare.
La possibilita' di questa sola e, quindi, autonoma tutela porta ad escludere la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, invocata dalle controparti in applicazione del Decreto Legislativo n. 80 del 1998, articolo 34,
come sostituito dalla Legge n. 205 del 2000, articolo 7, non solo, ma anche quella generale di legittimita', stante la
consistenza di diritto soggettivo della situazione, nel caso di specie, fatta valere. Va dichiarata, pertanto, la
giurisdizione del giudice ordinario, compensando integralmente tra le parti, data la complessita' della questione, le
spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; compensa le spese.
IL RIPARTO PER MATERIA
1. I LIMITI GENERALI ALLA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA: C. Cost. 204/2004 e 191/2006;
Corte Costituzionale, sentenza n. 204 del 2004 (estratto)
L’art. 103, primo comma, Cost. non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata
discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva,
ma gli ha conferito il potere di indicare “particolari materie” nelle quali “la tutela nei confronti della pubblica
amministrazione” investe “anche” diritti soggettivi». Le materie particolari, e pertanto assoggettabili alla
giurisdizione esclusiva del g.a., sono tali rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità,
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partecipando, cioè, della loro natura in quanto contrassegnate dalla circostanza che la pubblica
amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al
giudice amministrativo», sicché, «da un lato, è escluso che la mera partecipazione della pubblica
amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo […]
e, dall'altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella
controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo» .
..."Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove
disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione
nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4,
della legge 15 marzo 1997, n. 59), come sostituito dall’art. 7, lettera a, della legge 21 luglio 2000, n. 205
(Disposizioni in materia di giustizia amministrativa), nella parte in cui prevede che sono devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi
quelli» anziché «le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse
quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica
amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge
7 agosto 1990, n. 241, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo
nei confronti del gestore, nonché»;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 2, del medesimo decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80,
come sostituito dall’art. 7, lettera a, della legge 21 luglio 2000, n. 205;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 1, del medesimo decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80,
come sostituito dall’art. 7, lettera b, della legge 21 luglio 2000, n. 205, nella parte in cui prevede che sono
devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto «gli atti, i
provvedimenti e i comportamenti» anziché «gli atti e i provvedimenti» delle pubbliche amministrazioni e dei
soggetti alle stesse equiparati, in materia urbanistica ed edilizia."
Corte costituzionale, sentenza n. 191 del 2006
Deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
delle controversie relative a “comportamenti” (di impossessamento del bene altrui) collegati all'esercizio, pur se
illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima la devoluzione
alla giurisdizione esclusiva di “comportamenti” posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto.
L'attribuzione alla giurisdizione del giudice amministrativo della tutela risarcitoria si fonda sull'esigenza,
coerente con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti ad un unico
giudice l'intera tutela del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica (così Corte di
cassazione, sez. un., 22 luglio 1999, n. 500 ), ma non si giustifica quando la pubblica amministrazione non
abbia in concreto esercitato, nemmeno mediatamente, il potere che la legge le attribuisce per la cura
dell'interesse pubblico.
Considerato in diritto
(omissis)
Entrambe le ordinanze – emesse nel corso di giudizi nei quali era stata proposta domanda di risarcimento dei
danni per avere subìto, il fondo di proprietà dei ricorrenti, radicali trasformazioni durante il periodo di
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occupazione disposta per la realizzazione di un'opera pubblica senza che fosse intervenuto il decreto di
esproprio – osservano che l'art. 53, comma 1, prevede la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo delle controversie aventi ad oggetto (anche) «i comportamenti» delle pubbliche
amministrazioni, e cioè la medesima ipotesi che questa Corte – con la sentenza n. 204 del 2004 – ha espunto,
ritenendola costituzionalmente illegittima, dall'art. 34, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80
(Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di
giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell'articolo
11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), come sostituito dall'art. 7, comma 1, lettera b), della legge 21
luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa).
L'ordinanza n. 36 del 2005 precisa che il dubbio circa la conformità a Costituzione della norma de qua non
avrebbe ragion d'essere ove la dichiarazione di pubblica utilità ed urgenza fosse stata pronunciata dopo
l'entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001 (e cioè dopo il 30 giugno 2003: art. 1 del decreto legislativo n.
302 del 2002), dal momento che in tal caso opererebbe (ex art. 57 del d.P.R. n. 327, come modificato dal
citato art. 1 del decreto legislativo n. 302 del 2002) anche l'art. 43 del medesimo d.P.R., il quale attribuisce
alla pubblica amministrazione il potere (certamente sindacabile dal giudice amministrativo) di acquisire
l'immobile, «modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della
pubblica utilità», al patrimonio indisponibile con «condanna al risarcimento del danno e con esclusione della
restituzione del bene senza limiti di tempo»; poiché nel caso sottoposto al suo esame la dichiarazione di
pubblica utilità è intervenuta «ben prima del 30 giugno 2003», la previsione (che sarebbe certamente di diritto
sostanziale) dell'art. 43 non potrebbe operare e, pertanto, ci si troverebbe in una situazione perfettamente
analoga a quella che era disciplinata dall'art. 34 (dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 204 del 2004),
del quale l'art. 53, comma 1, riproduce (aggiungendovi soltanto «gli accordi») il contenuto.
2.– Va rilevato che mentre una ordinanza (n. 425 del 2005) vede nella dichiarazione di illegittimità
costituzionale dell'art. 53, comma 1, una sorta di completamento di quanto, ex art. 27 della legge n. 87 del
1953, già con la sentenza n. 204 del 2004 questa Corte avrebbe potuto fare; l'altra (n. 36 del 2005) osserva
che il mancato utilizzo da parte della Corte dello strumento della dichiarazione consequenziale di illegittimità
costituzionale si giustificherebbe per il collegamento, sopra ricordato, della previsione di cui all'art. 53,
comma 1, con quella di cui all'art. 43: sicché, ove tale collegamento ratione temporis non operi, il riferimento
ai “comportamenti” dovrebbe essere cassato come lo fu quello contenuto nell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del
1998.
Ne discende che il petitum delle due ordinanze diverge in ciò, che l'una (n. 425) sollecita una pronuncia che
definitivamente espunga dalla norma censurata la locuzione “i comportamenti”, mentre l'altra (n. 36) chiede
che la Corte ciò faccia relativamente ai giudizi nei quali non potrebbe trovare applicazione la norma
(ritenuta) di diritto sostanziale (art. 43), che, sola, giustifica la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in quanto contempla un potere della pubblica amministrazione sindacabile da parte di quel
giudice.
3.– Questa Corte, con la sentenza n. 204 del 2004, ha giudicato di questioni di legittimità costituzionale che
investivano, da un lato, l'art. 33 (relativo ai pubblici servizi) e, dall'altro, l'art. 34 (relativo all'edilizia ed
urbanistica) del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificati dall'art. 7 (lettere a e b) della legge n. 205 del 2000, in
quanto con tali norme il legislatore aveva «sostituito al criterio di riparto della giurisdizione fissato in
Costituzione, e costituito dalla dicotomia diritti soggettivi-interessi legittimi, il diverso criterio dei “blocchi di
materie”» (punto 2.1. del Considerato in diritto).La Corte ha osservato che le censure mosse dai giudici
rimettenti «colgono nel segno nella parte in cui denunciano l'adozione, da parte del legislatore
ordinario del 1998-2000, di un'idea di giurisdizione esclusiva ancorata alla pura e semplice presenza,
in un certo settore dell'ordinamento, di un rilevante pubblico interesse», laddove «è evidente che il
vigente art. 103, primo comma, Cost., non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed
incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla
sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare “particolari materie” nelle quali
“la tutela nei confronti della pubblica amministrazione” investe “anche” diritti soggettivi». «Tale
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necessario collegamento delle “materie” assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo con la natura delle situazioni soggettive – e cioè con il parametro adottato dal
Costituente come ordinario discrimine tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa – è espresso
dall'art. 103 laddove statuisce che quelle materie devono essere “particolari” rispetto a quelle
devolute alla giurisdizione generale di legittimità: e cioè devono partecipare della loro medesima
natura, che è contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come
autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo»,
sicché, «da un lato, è escluso che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio
sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo […] e, dall'altro lato, è
escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia
perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo» (punto 3.2.).
Sulla base di tali premesse, questa Corte – dopo aver distinto nell'ambito dell'art. 33 le ipotesi in cui la
materia dei servizi pubblici era legittimamente devoluta al giudice amministrativo in quanto «la pubblica
amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo» da quelle prive di tale connotato (punto 3.4.2.)
– ha osservato che «analoghi rilievi investono la nuova formulazione dell'art. 34», la quale «si pone in
contrasto con la Costituzione nella parte in cui, comprendendo nella giurisdizione esclusiva – oltre “gli atti e
i provvedimenti” attraverso i quali le pubbliche amministrazioni […] svolgono le loro funzioni pubblicistiche
in materia urbanistica ed edilizia – anche “i comportamenti”, la estende a controversie nelle quali la pubblica
amministrazione non esercita – nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare
strumenti intrinsecamente privatistici – alcun pubblico potere» (punto 4.3.3. del Considerato in diritto).
3.1.– Discende, dalla sommaria esposizione dell'iter argomentativo seguito dalla sentenza n. 204 del 2004,
che non è corretta la premessa dalla quale implicitamente muovono entrambe le ordinanze di rimessione, e
cioè che, avendo questa Corte espunto dalla disposizione di cui all'art. 34 la locuzione “i comportamenti”,
tale espunzione non possa non estendersi all'identica locuzione impiegata nell'art. 53, comma 1, del d.P.R. n.
327 del 2001.
Tale tesi, infatti, si fonda esclusivamente sulla circostanza che, con il suo dispositivo, la sentenza n. 204 del
2004 ha inciso sul testo dell'art. 34, ma trascura del tutto non soltanto la motivazione che è alla base di quel
dispositivo, ma anche, e soprattutto, la valenza che la locuzione espunta aveva, specie in relazione alla
questione di legittimità costituzionale allora sottoposta alla Corte, nella disposizione dell'art. 34 del d.lgs. n.
80 del 1998.
Ed infatti, nell'affrontare la questione del se fosse costituzionalmente legittimo devolvere alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo “blocchi di materie” ed in particolare l'intera “materia urbanistica ed
edilizia” (comprensiva, la prima, di “tutti gli aspetti dell'uso del territorio”), questa Corte ha ravvisato – come
risulta dalla motivazione della sentenza – nella locuzione “i comportamenti” lo strumento utilizzato dal
legislatore per operare l'indiscriminata devoluzione che si andava a censurare: sicché l'espunzione di tale
locuzione, per la funzione “di chiusura” assegnatale dal legislatore nell'art. 34, valeva a ribadire che la
“materia edilizia ed urbanistica” non poteva essere devoluta “in blocco” alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, ma poteva esserlo nei limiti precisati nella motivazione.
3.2.– La questione di legittimità costituzionale sulla quale questa Corte è ora chiamata a pronunciarsi investe
(non più la pretesa del legislatore ordinario di attribuire alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
“in blocco” la materia edilizia ed urbanistica, ma) specificamente la conformità a Costituzione – e,
segnatamente, agli artt. 25, 102, comma secondo, e 103 – della norma che, in tema di espropriazione
per pubblica utilità, devolve «alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie
aventi per oggetto», oltre che «gli atti, i provvedimenti, gli accordi», anche «i comportamenti delle
amministrazioni pubbliche e dei soggetti ad esse equiparati»; questione che, per quanto si è fin qui
osservato, non può essere risolta attraverso la semplice e meccanica estensione a questa
disposizione dell'espunzione (solo perché, allora, operata) della locuzione de qua dall'art. 34 del d.lgs.
n. 80 del 1998.
(omissis)
17
4.– Le questioni sono fondate nei limiti di seguito precisati.
4.1.– Entrambe le fattispecie oggetto dei giudizi a quibus sono riconducibili alle ipotesi tradizionalmente
denominate (in giurisprudenza e dottrina) di occupazione appropriativa (ovvero, anche, di accessione
invertita o espropriazione sostanziale): il che si verifica quando il fondo è stato occupato a seguito di
dichiarazione di pubblica utilità, e pertanto nell'ambito di una procedura di espropriazione, ed ha subìto una
irreversibile trasformazione in esecuzione dell'opera di pubblica utilità senza che, tuttavia, sia intervenuto il
decreto di esproprio o altro atto idoneo a produrre l'effetto traslativo della proprietà.
Tale fenomeno viene contrapposto a quello cosiddetto di occupazione usurpativa, caratterizzato
dall'apprensione del fondo altrui in carenza di titolo: carenza universalmente ravvisata nell'ipotesi di assenza
ab initio della dichiarazione di pubblica utilità, e da taluni anche nell'ipotesi di annullamento, con efficacia ex
tunc, della dichiarazione inizialmente esistente ovvero di sua inefficacia per inutile decorso dei termini
previsti per l'esecuzione dell'opera pubblica.
Nel caso dell'occupazione appropriativa, perfezionandosi con l'irreversibile trasformazione del fondo la
traslazione in capo all'amministrazione del diritto di proprietà, il proprietario del fondo non può che chiedere
la tutela per equivalente, laddove, nel caso dell'occupazione usurpativa (rectius: nelle ipotesi – in relazione a
taluna delle quali non v'è unanimità di consensi – ad essa riconducibili) il proprietario può scegliere tra la
restituzione del bene e, ove a questa rinunci così determinando il prodursi (dei presupposti) dell'effetto
traslativo, la tutela per equivalente.
4.2.– È evidente che la soluzione della questione di legittimità costituzionale in esame non può che muovere
da quanto questa Corte, con la più volte citata sentenza n. 204 del 2004, ha statuito riguardo all'art. 35 (come
modificato dall'art. 7, lettera c, della legge n. 205 del 2000) del d.lgs. n. 80 del 1998; statuizione, va precisato,
e non già obiter dictum, in quanto la Corte – investita della questione di legittimità costituzionale della
devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dei “blocchi di materie” relative ai servizi
pubblici ed all'edilizia ed urbanistica e del potere, altresì, di giudicare di azioni risarcitorie riconosciutogli
come attributo della giurisdizione esclusiva – non poteva non considerare, quanto meno con riferimento al
disposto dell'art. 35, comma 1, se anche la tutela risarcitoria fosse configurabile come una “materia” devoluta
in blocco alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
In proposito questa Corte ha statuito che «il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche
attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun
profilo una nuova “materia” attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto
a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti
della pubblica amministrazione».
4.3.– I principi appena ricordati impongono di escludere che, per ciò solo che la domanda proposta dal
cittadino abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno, la giurisdizione competa al giudice ordinario:
ciò dicendo non intende questa Corte prendere posizione sul tema della natura della situazione soggettiva
sottesa alla pretesa risarcitoria, ovvero sulla natura (di norma secondaria, id est sanzionatoria di condotte
aliunde vietate, oppure primaria) dell'art. 2043 cod. civ., ma esclusivamente ribadire che laddove la legge –
come fa l'art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998 – costruisce il risarcimento del danno, ai fini del riparto di
giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, come strumento di tutela affermandone – come
è stato detto – il carattere “rimediale”, essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi, costituisce
attuazione del precetto dell'art. 24 Cost. laddove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia
resa in tempi ragionevoli.
In altri termini, al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca di diritto soggettivo della
situazione giuridica conseguente all'annullamento del provvedimento amministrativo, attribuiva al giudice
ordinario «le controversie sul risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti amministrativi»
(così l'art. 35, comma 5, del d. lgs. n. 80 del 1998, come modificato dall'art. 7, lettera c della legge n. 205 del
2000), il legislatore ha sostituito (appunto con l'art. 35 cit.) un sistema che riconosce esclusivamente al
giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela,
e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per
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l'illegittimo esercizio della funzione.
Da ciò consegue che, ai fini del riparto di giurisdizione, è irrilevante la circostanza che la pretesa risarcitoria
abbia – come si ritiene da alcuni –, o non abbia, intrinseca natura di diritto soggettivo: avendo la legge, a
questi fini, inequivocabilmente privilegiato la considerazione della situazione soggettiva incisa dall'illegittimo
esercizio della funzione amministrativa, a questa Corte competeva (e
compete) solo di valutare se tale scelta del legislatore – di collegare, cioè, quanto all'attribuzione della
giurisdizione, la tutela risarcitoria a quella della situazione soggettiva incisa dal provvedimento
amministrativo illegittimo – confligga, o non, con norme costituzionali; ciò che, con la più volte ricordata
sentenza n. 204 del 2004, questa Corte ha escluso.
5.– Le considerazioni fin qui esposte rendono palese che la questione di legittimità costituzionale sollevata
dalle ordinanze de quibus non può risolversi in base al solo petitum, id est alla domanda di risarcimento del
danno, bensì considerando il fatto, dedotto a fondamento della domanda, che si assume causativo del danno
ingiusto.
Con espressione ellittica l'art. 53, comma 1, individua (anche) nei “comportamenti” della pubblica
amministrazione il fatto causativo del danno ingiusto, in parte qua riproducendo il contenuto dell'art. 34 del
d.lgs. n. 80 del 1998 (come modificato dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000).
Tale previsione è costituzionalmente illegittima là dove la locuzione, prescindendo da ogni qualificazione di
tali “comportamenti”, attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo controversie nelle
quali sia parte - e per ciò solo che essa è parte - la pubblica amministrazione, e cioè fa del giudice
amministrativo il giudice dell'amministrazione piuttosto che l'organo di garanzia della giustizia
nell'amministrazione (art. 100 Cost.).
Viceversa, nelle ipotesi in cui i “comportamenti” causativi di danno ingiusto – e cioè, nella specie, la
realizzazione dell'opera – costituiscono esecuzione di atti o provvedimenti amministrativi (dichiarazione di
pubblica utilità e/o di indifferibilità e urgenza) e sono quindi riconducibili all'esercizio del pubblico potere
dell'amministrazione, la norma si sottrae alla censura di illegittimità costituzionale, costituendo anche tali
“comportamenti” esercizio, ancorché viziato da illegittimità,
della funzione pubblica della pubblica amministrazione.
In sintesi, i principi sopra esposti – peraltro già enunciati da questa Corte con la sentenza n. 204 del 2004 –
comportano che deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo delle controversie relative a “comportamenti” (di impossessamento del
bene altrui) collegati all'esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere
dichiarata costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di
“comportamenti” posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto.
L'attribuzione alla giurisdizione del giudice amministrativo della tutela risarcitoria – non a caso con
la medesima ampiezza, e cioè sia per equivalente sia in forma specifica, che davanti al giudice ordinario, e
con la previsione di mezzi istruttori, in primis la consulenza tecnica, schiettamente “civilistici” (art. 35,
comma 3) – si fonda sull'esigenza, coerente con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111
Cost., di concentrare davanti ad un unico giudice l'intera tutela del cittadino avverso le modalità di
esercizio della funzione pubblica (così Corte di cassazione, sez. un., 22 luglio 1999, n. 500 ), ma non si
giustifica quando la pubblica amministrazione non abbia in concreto esercitato, nemmeno
mediatamente, il potere che la legge le attribuisce per la cura dell'interesse pubblico.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo
unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo B), trasfuso
nell'art. 53, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle
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disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), nella
parte in cui, devolvendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative a «i
comportamenti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparati», non esclude i
comportamenti non riconducibili, nemmeno mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere.
2. L'ANNULLAMENTO IN AUTOTUTELA DOPO L'AGGIUDICAZIONE COMPETE AL
G.A.: Cons. Stato, sez. V, n. 5032/2011;
Il collegio si sofferma, in via preliminare, sulla natura giuridica dei provvedimenti impugnati. Ci si
interroga, in particolare, se essi costituiscano manifestazione del potere pubblicistico di provvedere, anche in
autotutela, sussistendo su di essi il sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, quale giudice del
corretto esercizio della funzione pubblica, ovvero se essi siano atti di gestione/esecuzione dei contratti stipulati
(di strumenti finanziari derivati), ipotesi che invece radicherebbe la giurisdizione del giudice ordinario.
In caso di riconosciuta natura giuridica pubblicistica, occorre poi stabilire se in astratto esista in capo
all’amministrazione, e quali ne siano eventualmente i limiti, un potere amministrativo idoneo a togliere effetto
all’attività svolta nell’ambito della serie procedimentale inerenti ai contratti pubblici, ancorchè essa si sia
esaurita con l’aggiudicazione definitiva ed il contratto sia stato stipulato e sia in corso di esecuzione, e, per
altro verso, qualora tale potere sussista, se esso sia stato in concreto correttamente esercitato
dall’amministrazione provinciale.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, anche in relazione ai procedimenti ad evidenza pubblica
per l’affidamento di lavori, servizi e forniture, l’amministrazione conserva il potere di annullare il bando, le
singole operazioni di gara e lo stesso provvedimento di aggiudicazione, ancorché definitivo, in presenza di gravi
vizi dell’intera procedura, dovendo tener conto delle preminenti ragioni di salvaguardia del pubblico interesse.
"E’ stato più volte ribadito che, anche se nei contratti della pubblica amministrazione l’aggiudicazione, quale
atto conclusivo del procedimento di scelta del contraente, segna normalmente il momento dell’incontro delle
volontà dell’amministrazione e del privato in ordine alla conclusione del contratto (volontà che per quanto
riguarda la posizione dell’amministrazione si è manifestata con la individuazione dell’offerta ritenuta
migliore), non è tuttavia precluso all’amministrazione di procedere con successivo atto (e con un richiamo ad
un preciso e concreto interesse pubblico) all’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione".
Quanto alla verifica, in concreto, del potere esercitato dall’amministrazione con i provvedimenti impugnati,
deve osservarsi che, secondo il dominante indirizzo giurisprudenziale, in linea generale, la legittimità di un
provvedimento di autotutela è subordinata, oltre che alla comunicazione di avvio del procedimento, anche ad
una adeguata motivazione circa la natura e la gravità delle anomalie verificatesi, la sussistenza di un interesse
pubblico attuale alla sua eliminazione, la comparazione tra quest’ultimo e la contrapposta posizione
consolidata dell’aggiudicatario e la ragionevole durata del tempo intercorso tra l’atto illegittimo e la sua
rimozione.
(omissis)
VI.1.1. Il corretto ed esaustivo esame del motivo impone innanzitutto l’individuazione e l’esatta
qualificazione giuridica degli impugnati provvedimenti, se cioè essi costituiscono manifestazione del
potere pubblicistico di provvedere, anche in autotutela, sussistendo su di essi il sindacato
giurisdizionale del giudice amministrativo, quale giudice del corretto esercizio della funzione pubblica,
ovvero se essi siano atti di gestione/esecuzione dei contratti stipulati (di strumenti finanziari derivati),
ipotesi che invece radicherebbe la giurisdizione del giudice ordinario.
20
Peraltro, in relazione alla eventuale natura giuridica pubblicistica dei predetti provvedimenti, occorre poi stabilire
se in astratto esista in capo all’amministrazione, e quali ne siano eventualmente i limiti, un potere
amministrativo idoneo a togliere effetto all’attività svolta nell’ambito della serie procedimentale inerenti
ai contratti pubblici, ancorchè essa si sia esaurita con l’aggiudicazione definitiva ed il contratto sia stato
stipulato e sia in corso di esecuzione, e, per altro verso, qualora tale potere sussista, se esso sia stato in
concreto correttamente esercitato dall’amministrazione provinciale di Pisa.
VI.1.2. Deve innanzitutto premettersi che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è
motivo alcun per discostarsi, anche in relazione ai procedimenti ad evidenza pubblica per l’affidamento di
lavori, servizi e forniture, l’amministrazione conserva il potere di annullare il bando, le singole
operazioni di gara e lo stesso provvedimento di aggiudicazione, ancorché definitivo, in presenza di
gravi vizi dell’intera procedura, dovendo tener conto delle preminenti ragioni di salvaguardia del
pubblico interesse (ex pluribus, C.d.S., sez. V, 1° ottobre 2010, n. 7273; sez. IV, 15 settembre 2006, n. 5374;
sez. VI, 6 dicembre 2010, n. 8554).
E’ stato più volte ribadito che, anche se nei contratti della pubblica amministrazione l’aggiudicazione, quale atto
conclusivo del procedimento di scelta del contraente, segna normalmente il momento dell’incontro delle volontà
dell’amministrazione e del privato in ordine alla conclusione del contratto (volontà che per quanto riguarda la
posizione dell’amministrazione si è manifestata con la individuazione dell’offerta ritenuta migliore), non è tuttavia
precluso all’amministrazione di procedere con successivo atto (e con un richiamo ad un preciso e concreto
interesse pubblico) all’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione.
Tale potere di autotutela trova fondamento nei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, cui deve
essere improntata l’attività della pubblica amministrazione, ai sensi dell’articolo 97 della Costituzione, in
attuazione dei quali l’amministrazione deve adottare atti il più possibile rispondenti ai fini da conseguire (fermo
l’obbligo nell’esercizio di tale delicato potere, anche in considerazione del legittimo affidamento eventualmente
ingeneratosi nel privato, di rendere effettive le garanzie procedimentali, di fornire un’adeguata motivazione in
ordine alle ragioni che giustificano la differente determinazione e di una ponderata valutazione degli interessi,
pubblici e privati, in gioco (C.d.S., sez. V, 4 gennaio 2011, n. 11; 10 settembre 2009, n. 5427; sez. IV, 31 ottobre
2006, n. 6456; sez. VI, 26 luglio 2010, n.4864).
Poiché pertanto il provvedimento di aggiudicazione definitiva non costituisce di per sé ostacolo
giuridicamente insormontabile al suo stesso annullamento, anche in autotutela, oltre che
all’annullamento degli atti amministrativi che ne costituiscono il presupposto, non può accogliersi la
tesi propugnata dalle appellanti secondo cui le sole (peraltro pacifiche) circostanze dell’intervenuta
stipulazione del contratto e della sua attuale esecuzione, costituirebbero elementi sufficienti ad
escludere nella fattispecie in esame la giurisdizione del giudice amministrativo e a radicare quella del
giudice ordinario.
Di fronte all’esercizio del potere di annullamento la situazione del privato è di interesse legittimo, a
nulla rilevando che tale esercizio, in ultima analisi, produca effetti indiretti su di un contratto stipulato
da cui sono derivati diritti.
(omissis)
VI.1.3. Quanto alla verifica in concreto del potere esercitato dall’amministrazione provinciale con i
provvedimenti impugnati, deve osservarsi che, sempre secondo il già ricordato consolidato indirizzo
giurisprudenziale, in linea generale la legittimità di un provvedimento di autotutela è subordinata, oltre che alla
comunicazione di avvio del procedimento, anche ad una adeguata motivazione circa la natura e la gravità delle
anomalie verificatesi, la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla sua eliminazione (che tuttavia non può
giammai ridursi all’esigenza del mero ripristino della legalità violata, C.d.S, 24 settembre 2010, n. 7125), la
comparazione tra quest’ultimo e la contrapposta posizione consolidata dell’aggiudicatario e la ragionevole durata
del tempo intercorso tra l’atto illegittimo e la sua rimozione (ex multis, C.d.S., sez. V, 1° ottobre 2010, n. 7273; 7
aprile 2010, n. 1946; 7 gennaio 2009, n. 1; sez. VI, 16 aprile 2010, n. 2178; 11 gennaio 2010, n. 4; 18 agosto 2009,
n. 4958).
21
VI.1.3.1. Orbene, tralasciando per il momento la problematica concernente la sussistenza nel caso di specie di tali
presupposti (questione che attiene alla verifica del corretto esercizio del potere e che costituisce oggetto del
secondo, terzo e quarto motivo degli appelli in trattazione) e focalizzando invece l’attenzione sulla qualificazione
giuridica da attribuire ai provvedimenti impugnati, occorre evidenziare che, come pure emerge dalla lettura della
determinazione dirigenziale n. 2799 del 29 giugno 2009, l’amministrazione provinciale di Pisa non ha inteso
esercitare un potere negoziale di recesso unilaterale dai contratti stipulati in data 4 luglio 2007, avendo
piuttosto esercitato il potere amministrativo di annullare in autotutela l’aggiudicazione in favore di Depfa
Bank Plc e Dexia Crediop S.p.A. dell’operazione di ristrutturazione del proprio debito, nella parte relativa
all’operazione in strumenti finanziari derivati, con effetto caducante sui contratti già stipulati.
(omissis)
VI.1.3.2. (omissis)
In definitiva il potere di autotutela culminato nella ricordata determinazione dirigenziale non è stato
esercitato per sottrarsi puramente e semplicemente ad un contratto economicamente squilibrato,
quanto piuttosto a causa della mancata corretta valutazione della convenienza economica che
legittimava l’operazione di ristrutturazione del debito, ai sensi dell’articolo 41 della legge 28 dicembre
2001, n. 448, e che, come tale, non rientrava nella “causa” del contratto di swap, costituendone piuttosto
il presupposto logico – giuridico.
Che questo, e solo questo, sia effettivamente il fondamento del potere esercitato è confermato anche dal
richiamo operato nella motivazione della determinazione impugnata all’articolo 1, comma 136, della legge
finanziaria del 2006, che consente di provvedere anche all’annullamento di atti amministrativi legittimi al fine di
conseguire risparmi o minori oneri finanziari.
IV. 1.3.4. Del resto, a fronte della così delineata “causa” del potere concretamente esercitato
dall’amministrazione provinciale, la tesi sostenuta dalle banche appellanti, secondo cui si sarebbe invece in
presenza di un illegittimo esercizio di potere unilaterale di recesso dai contratti stipulati, non risultata confortata
da alcun elemento probatorio.
(omissis)
E’ pertanto priva di qualsiasi fondamento la tesi della negoziazione (del contenuto) dei contratti swap, che si
sarebbe svolta successiva all’aggiudicazione e prima della loro stipulazione, in ragione della quale la mancata
conoscenza dei “costi impliciti” dell’operazione configurerebbe un vizio della volontà negoziale, con
conseguente natura negoziale (con valore di unilaterale dichiarazione di invalidità del contratto) degli atti
impugnati.
VI. 1.4. Sulla scorta di tali osservazioni non sussiste nella controversia in esame l’eccepito difetto di giurisdizione
del giudice amministrativo.
(omissis)
VI.1.5. Esigenze sistematiche inducono la Sezione ad esaminare di seguito la questione concernente la
sussistenza o meno della giurisdizione del giudice amministrativo in ordine agli effetti
dell’annullamento dell’aggiudicazione del contratto di derivati finanziari, anche se tale questione in
realtà costituisce oggetto dei motivi di gravame dei due appelli proposti dall’amministrazione
provinciale di Pisa.
Secondo i primi giudici la decisione sull’efficacia del contratto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione
spetterebbe al giudice ordinario; la Sezione tuttavia non condivide tale assunto.
VI.1.5.1. Invero, posto che, come si è già rilevato, non vi è dubbio circa l’effettiva configurabilità del
potere della pubblica amministrazione di procedere in via di autotutela all’annullamento degli atti di un
procedura ad evidenza pubblica, ivi compreso il provvedimento di aggiudicazione definitiva
dell’appalto (di lavori, di servizi o di fornitura) e fermo restando quanto si dirà in seguito sul corretto esercizio
nel caso di specie del predetto potere di autotutela, occorre rilevare che, come per altro già puntualmente
sottolineato dalla giurisprudenza di questo consesso, l’annullamento dell’aggiudicazione “…in virtù
della stretta consequenzialità tra l’aggiudicazione della gara pubblica e la stipula del relativo contratto,
l’annullamento giurisdizionale ovvero l’annullamento a seguito di autotutela della procedura
22
amministrativa comporta la caducazione automatica degli effetti negoziali del contratto
successivamente stipulato, stante la preordinazione funzionale tra tali atti” (C.d.S,, sez. V, 14 gennaio
2011, n. 11; 20 ottobre 2010, n. 7578), con attribuzione delle relative controversie alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.
Ciò in virtù della disciplina introdotta dal decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53, poi trasfusa nell’articolo 122
del codice del processo amministrativo, imperniata sulle esigenze di semplificazione e concentrazione delle tutele
ai fini della loro effettività, dovendo precisarsi al riguardo che le disposizioni contenute negli articoli 121 e 122,
riferiti alle modalità di esercizio di un potere di decisione del giudice, trovano piena applicazione anche in
relazione ai contratti stipulati sulla base di aggiudicazioni annullate in epoca anteriore all’entrata in vigore del
citato decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53, purché, come nel caso di specie, sia ancora controversa l’efficacia
del contratto, stante la loro pacifica natura processuale (così C.d.S., sez. III, 11 marzo 2011, n. 1570).
Non ha pregio la tesi che pretende di distinguere tra annullamento giurisdizionale e annullamento in autotutela.
Ciò che rileva, infatti, è il collegamento sostanziale tra i due atti, l’aggiudicazione e il contratto, i quali simul
stabunt, simul cadent, qualunque sia la sede dell’annullamento (illegittimità dichiarata dal giudice a seguito di
ricorso ovvero illegittimità o inopportunità, conseguente dell’esercizio del potere di autotutela da parte
dell’amministrazione).
D’altra parte, anche a non voler condividere la tesi dell’effetto immediatamente caducante dell’annullamento
dell’aggiudicazione sul contratto successivamente stipulato, così che l’inefficacia conseguirebbe solo all’esito di
una specifica decisione dell’organo giurisdizionale competente, deve osservarsi che i ricordati articoli 121 e 122
attribuiscono esclusivamente al giudice amministrativo tali poteri di decisione (e valutazione) dell’efficacia del
contratto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione; né può ammettersi una (peraltro) irragionevole
diversificazione della disciplina in esame, con la reviviscenza del potere del giudice ordinario sulla sorte del
contratto, allorquando l’annullamento dell’aggiudicazione (o degli atti ad essa presupposti) sia effetto
dell’esercizio del potere di autotutela.
(omissis)
Né d’altra parte può dubitarsi della ragionevolezza della scelta del legislatore di affidare la decisione di tali
controversie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, laddove si tenga effettivamente conto che
esse, come del resto emerge dagli atti di causa, sono caratterizzate da una inestricabile commistione di interessi,
pubblici e privati, tra i quali è quanto meno problematico, se non impossibile, individuare con assoluta certezza
posizioni di interesse legittimo e/o di diritto soggettivo che, com’è noto, costituiscono il discrimine
fondamentale della giurisdizione ordinaria e di quella generale di legittimità del giudice amministrativo.
VI.1.5.2. (omissis).
VI.1.5.3. In definitiva va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo anche in ordine agli effetti
sul contratto dell’annullamento in via di autotutela dell’aggiudicazione (e degli atti ad essa presupposti).
(omissis)
3.. RIPARTO E CONCESSIONE DI CONTRIBUTI: Cons. Stato, Ad. Pl., 6/2014;
1. Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, in materia di controversie
riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche, deve essere attuato sulla base del
generale criterio di riparto fondato sulla natura della situazione soggettiva azionata, con la conseguenza che:
- sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto direttamente
dalla legge, mentre alla Pubblica Amministrazione è demandato soltanto il compito di verificare l’effettiva
esistenza dei relativi presupposti senza procedere ad alcun apprezzamento discrezionale circa l’an, il quid, il
quomodo dell’erogazione;
- qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto di un
addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o dall’acclarato sviamento
dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche se si
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faccia questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si fondino
sull'inadempimento alle obbligazioni assunte di fronte alla concessione del contributo. In tal caso, infatti, il
privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario, attenendo la
controversia alla fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e all'inadempimento degli obblighi cui è subordinato
il concreto provvedimento di attribuzione;
- è configurabile una situazione soggettiva d’interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice
amministrativo, solo ove la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento
discrezionale attributivo del beneficio, oppure quando, a seguito della concessione del beneficio, il
provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico
interesse, ma non per inadempienze del beneficiario.
2. E’ esclusa l’equiparabilità tra concessione di beni ed erogazione del denaro, in quanto, anche se il denaro è
annoverabile nella categoria dei beni, non va confusa la figura della concessione a privati di benefici pubblici,
che presuppone l’uso temporaneo da parte dei privati di detti bene per una finalità di pubblico interesse, con
quella del finanziamento, che implica un tipo di rapporto giuridico del tutto diverso, in forza del quale il
finanziato acquisisce la piena proprietà del denaro erogatogli ed eventualmente assume l’obbligo di restituirlo
in tutto o in parte ad una determinata scadenza.
3. Salvo deroghe normative espresse, vige nell’ordinamento processuale il principio generale dell'inderogabilità
della giurisdizione per motivi di connessione, potendosi risolvere i problemi di coordinamento posti dalla
concomitante operatività della giurisdizione ordinaria e di quella amministrativa su rapporti diversi, ma
interdipendenti, secondo le regole della sospensione del procedimento pregiudicato.
4. Ricorre lo speciale potere di autotutela privatistica (di cui peraltro l’ordinamento conosce altre tassative
ipotesi, le più importanti delle quali si riscontrano nell’esecuzione dei contratti pubblici: cfr. le ipotesi di
recesso e risoluzione di cui agli artt. 134-136 d.lgs. 12 aprile 2006 recante Codice dei contratti pubblici relativi
a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) quando, nell’ambito di un
rapporto ormai paritetico, l’Amministrazione fa valere le conseguenze derivanti dall’inadempimento del
privato alle obbligazioni assunte per ottenere la sovvenzione, come nel caso di declaratoria della sopravvenienza
di un fatto cui la legge ricollega l’effetto di determinare la decadenza dal diritto di godere del beneficio e trova
ragione non già in una rinnovata ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato, ma nell’asserito
inadempimento degli obblighi imposti al beneficiario e nella verifica dei presupposti di esigibilità del credito.
Ne deriva che le contestazioni che investono l’esercizio di tale forma di autotutela, sono sottratte alla
giurisdizione del giudice amministrativo e sono devolute a quella del giudice ordinario.
(omissis)
3. Gli appellanti contestano la decisione, evidenziando che la revoca costituisce esercizio di un pubblico potere,
sindacabile perciò dal giudice amministrativo.
4. La Sesta Sezione, con ordinanza 15 luglio 2013, n. 3789, ha rimesso all’Adunanza Plenaria la questione relativa
alla individuazione del giudice avente giurisdizione sulla domanda relativa all’impugnazione della revoca dei
contributi o agevolazioni concesse alle imprese.
L’ordinanza di rimessione richiama la consolidata giurisprudenza (delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione
del Consiglio di Stato) secondo cui sussiste la cognizione del giudice ordinario quanto alle controversie
instaurate per contrastare l’Amministrazione che, servendosi degli istituti della revoca, della decadenza
o della risoluzione, abbia ritirato il finanziamento o la sovvenzione sulla scorta di un preteso
inadempimento, da parte del beneficiario, degli obblighi impostigli dalla legge o dagli atti concessivi
del contributo in esame, mentre è configurabile una situazione soggettiva d’interesse legittimo, con
conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, se, a seguito della concessione del beneficio, il
24
provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il
pubblico interesse.
5. La Sezione remittente, pur riconoscendo che in fattispecie corrispondenti a quella ora in esame l’indirizzo
giurisprudenziale appena richiamato ravvisa pacificamente la sussistenza di un diritto soggettivo e, quindi, la
giurisdizione civile, ritiene, tuttavia, che i principi espressi da tale giurisprudenza circa l’individuazione del giudice
competente a pronunciarsi sulla legittimità della revoca (basata su considerazioni generali circa la nascita di un
diritto soggettivo a seguito del rilascio del contributo o della sovvenzione, e sulla qualificazione in termini di
provvedimento obbligato della revoca del finanziamento a causa della mancata conformità alle norme che lo
consentono: cfr. Cass. Sez. Un. 21 novembre 2011, n. 24409) possano essere oggetto di una rimeditazione
generale, che valga alla riconduzione sistematica delle diverse questioni alla sola giurisdizione amministrativa.
6. A sostegno del superamento del precedente indirizzo giurisprudenziale, la Sezione, in parte anche richiamando
le considerazioni svolte nella precedente ordinanza di rimessione n. 517 del 2013, indica i seguenti argomenti:
a) il potere di autotutela dell’Amministrazione, esercitato con un atto di revoca (o di decadenza), in base ai
principi del contrarius actus, incide di per sé sempre su posizioni d’interesse legittimo (come si evince dalla
pacifica giurisprudenza della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato attinente ai casi in cui una concessione
di un bene pubblico o di un servizio pubblico sia ritirata per qualsiasi ragione, anche nell’ipotesi
d’inadempimento del concessionario);
b) l’art. 7 del codice del processo amministrativo dispone che il giudice amministrativo ha giurisdizione nelle
controversie “riguardanti provvedimenti, atti […] riconducibili anche mediatamente all’esercizio” del potere
pubblico, fra i quali rientrerebbe anche il provvedimento di ritiro di un precedente atto a sua volta di natura
autoritativa;
c) la configurabilità di un potere autoritativo e di un correlativo interesse legittimo, in presenza dell’esercizio del
potere di autotutela, risulta più rispondente alle esigenze di certezza del diritto pubblico (divenendo l’atto di
revoca inoppugnabile, nel caso di mancata tempestiva impugnazione) ed a quelle di corretta gestione del denaro
pubblico, poiché l’esercizio del medesimo potere autoritativo agevola non solo il rapido recupero della somma in
ipotesi non dovuta, ma anche la conseguente erogazione dei relativi importi ad altri soggetti, con ulteriori atti
aventi natura autoritativa (onde neppure si giustificherebbe sul piano della logica giuridica l’attribuzione alla
giurisdizione civile della controversia riguardante la legittimità dell’atto di ritiro, mentre indubbiamente sussiste
quella amministrativa per le controversie riguardanti la fase di ulteriore attribuzione delle risorse recuperate a
seguito dell’atto di ritiro);
d) la sussistenza della giurisdizione amministrativa potrebbe anche essere affermata, in via esclusiva, in
considerazione dell’art. 12 della legge n. 241 del 1990, riguardante i “provvedimenti attributivi di vantaggi
economici”, che disciplina la “concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari”, attribuendo il
nomen iuris di concessione a qualsiasi provvedimento che disponga l’erogazione del denaro pubblico. Sotto tale
profilo, potrebbe, allora, risultare rilevante l’art. 133, comma 1, lettera b), cod. proc. amm. sulla sussistenza della
giurisdizione esclusiva per le “controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di
concessione di beni pubblici”.
e) la portata applicativa delle disposizioni di legge sopra richiamate non sarebbe riducibile in via interpretativa,
per il rilievo da attribuire all’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha condotto all’approvazione del codice
del processo amministrativo, disponendo che il riassetto del medesimo dovesse avvenire “al fine di adeguare le
norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, di coordinarle con le
norme del codice di procedura civile in quanto espressione di princìpi generali e di assicurare la concentrazione
delle tutele”). Infatti, la finalità di adeguamento alla giurisprudenza della Corte costituzionale ha consentito
l’elaborazione dell’art. 7 del codice, ripetitivo di espressioni contenute nelle sentenze della Corte stessa 6 luglio
2004, n. 204 e 11 maggio 2006, n. 191.
Inoltre, la distinta, e parimenti rilevante, finalità di “assicurare la concentrazione delle tutele” può aver giustificato
l’attribuzione alla giurisdizione amministrativa delle controversie riguardanti - per il tramite dell’esercizio del
potere di autotutela - il ritiro dei provvedimenti “attributivi di vantaggi economici”, aventi ex lege natura
concessoria, e dunque delle controversie che peraltro già di per sé potevano essere riferite ai rapporti inerenti alla
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concessione di un bene pubblico (il denaro), prima ancora delle modificazioni disposte dal codice del processo
amministrativo.
7. Alla camera di consiglio del 20 novembre 2013 la causa è stata trattenuta per la decisione.
8. L’Adunanza Plenaria ritiene di dover confermare il tradizionale e consolidato indirizzo
giurisprudenziale, condiviso sia dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Cass. Sez. Un., ordinanza 25
gennaio 2013, n. 1776; Cass. Sez. Un. 24 gennaio 2013, n. 1710; Cass. Sez. Un. 7 gennaio 2013, n. 150; Cass. Sez.
Un. 20 luglio 2011, n. 15867; Cass. Sez. Un. 18 luglio 2008, n. 19806; Cass. Sez. Un. 26 luglio 2006, n. 16896;
Cass. Sez. Un. 10 aprile 2003, n. 5617), sia dal Consiglio di Stato (cfr., da ultimo, Ad. Plen. 29 luglio 2013, n. 13),
secondo cui il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di
controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche deve essere
attuato sulla base del generale criterio di riparto fondato sulla natura della situazione soggettiva
azionata, con la conseguenza che:
- sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto
direttamente dalla legge, mentre alla Pubblica Amministrazione è demandato soltanto il compito di
verificare l’effettiva esistenza dei relativi presupposti senza procedere ad alcun apprezzamento
discrezionale circa l’an, il quid, il quomodo dell’erogazione (cfr. Cass. Sez. Un. 7 gennaio 2013, n. 150);
- qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto
di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o
dall’acclarato sviamento dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato, la giurisdizione spetta al
giudice ordinario, anche se si faccia questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o
risoluzione, purché essi si fondino sull'inadempimento alle obbligazioni assunte di fronte alla
concessione del contributo. In tal caso, infatti, il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, come
tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario, attenendo la controversia alla fase esecutiva del rapporto di
sovvenzione e all'inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di
attribuzione (cfr. Cass. Sez. Un., ord. 25 gennaio 2013, n. 1776);
- viceversa, è configurabile una situazione soggettiva d’interesse legittimo, con conseguente
giurisdizione del giudice amministrativo, solo ove la controversia riguardi una fase procedimentale
precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio, oppure quando, a seguito della
concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per
contrasto iniziale con il pubblico interesse, ma non per inadempienze del beneficiario (Cass. Sez. Un.
24 gennaio 2013, n. 1710; Cons. Stato, Ad. Plen. 29 luglio 2013, n. 17).
9. Le pur suggestive ed articolate argomentazioni invocate nell’ordinanza di rimessione al fine di superare tale
indirizzo giurisprudenziale non possono essere condivise.
10. Anzitutto, deve essere disatteso l’argomento che – muovendo dalla qualificazione del denaro come bene
pubblico e, di conseguenza, dell’atto di erogazione come provvedimento di natura concessoria – sostiene che le
controversie in materia di attribuzione (e, quindi, di revoca) di contributi o agevolazioni finanziarie
rientrerebbero nella giurisdizione esclusiva di cui il giudice amministrativo dispone in materia di concessioni di
beni pubblici ai sensi dell’art. 133, lett. b) cod. proc. amm. (tesi sostenuta, oltre che dall’ordinanza di remissione,
anche da una parte minoritaria della giurisprudenza amministrativa: cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 luglio 1993, n.
727; Cons. Stato, sez. IV, 2 agosto 2000, n. 4255; Cons. Stato, sez. VI, 16 febbraio 2005, n. 516).
Come hanno bene evidenziato le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza 19 maggio 2008, n.
12641, deve essere esclusa l’equiparabilità tra concessione di beni ed erogazione del denaro, in quanto, anche se il
denaro è annoverabile nella categoria dei beni, non va confusa la figura della concessione a privati di benefici
pubblici, che presuppone l’uso temporaneo da parte dei privati di detti bene per una finalità di pubblico interesse,
con quella del finanziamento, che implica un tipo di rapporto giuridico del tutto diverso, in forza del quale il
finanziato acquisisce la piena proprietà del denaro erogatogli ed eventualmente assume l’obbligo di restituirlo in
tutto o in parte ad una determinata scadenza. Ben altrimenti, infatti, nell'uno e nell'altro caso, le finalità pubbliche
s'intrecciano con l'interesse del concessionario o del finanziato, e le ragioni di non agevole distinguibilità tra
posizioni di diritto soggettivo e d’interesse legittimo, che sottostanno alla scelta legislativa di attribuire alla
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cognizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in tema di concessione di beni o servizi pubblici,
non necessariamente ricorrono nei rapporti di finanziamento. Né, d’altronde, il carattere eccezionale della
giurisdizione esclusiva ne consente l’applicazione al di là dei casi indicati dalla legge (in questi termini Cass. Sez.
Un. 19 maggio 2008, n. 12641, par. 3 della motivazione).
10.2. Inoltre, anche a prescindere dalla possibilità di riconoscere natura concessoria all’atto di erogazione del
contributo, va ulteriormente evidenziato che alla sussistenza della giurisdizione amministrativa osterebbe,
comunque, la riserva, prevista dallo stesso art. 133, lett. b) cod. proc. amm., a favore della giurisdizione ordinaria
di tutte le questioni patrimoniali inerenti a compensi vantati dal concessionario, qualunque sia il nomen in
concreto utilizzato (“canoni, indennità ed altri corrispettivi”) (in tal senso cfr., fra le altre, Cons. Stato, sez. IV, 11
aprile 2002, n. 1989; Cass. Sez. Un. 11 gennaio 1994, n. 215; Cass. Sez. Un. 10 dicembre 1993, n. 12164).
10.3. L’insussistenza di una giurisdizione esclusiva afferente, in generale, alla materia di contributi pubblici risulta,
inoltre, confermata, argomentando a contrario, dalla recente introduzione, ad opera della legge 24 dicembre
2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e
delle politiche dell'Unione europea), nel testo dell’art. 133 del codice del processo amministrativo della lettera z-
sexies. La disposizione in esame ha espressamente devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
“le controversie relative agli atti ed ai provvedimenti che concedono aiuti di Stato in violazione dell'articolo 108,
paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e le controversie aventi ad oggetto gli atti e i
provvedimenti adottati in esecuzione di una decisione di recupero di cui all'articolo 14 del regolamento (CE) n.
659/1999 del Consiglio del 22 marzo 1999, a prescindere dalla forma dell'aiuto e dal soggetto che l’ha concesso”.
In questo modo, la “concessione” di aiuti non notificati e il “recupero” di aiuti incompatibili diventano, per
tabulas, materia di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Nell’ambito della variegata categoria dei
contributi pubblici, il legislatore ha, dunque, selezionato una species, (quella dei contributi che costituiscono aiuti
di Stato), attribuendoli espressamente alla giurisdizione esclusiva, realizzando così una reductio ad unitatem, con
l’effetto di escludere le altre giurisdizioni nazionali (ordinaria e tributaria) e di superare le diversità delle molteplici
discipline sostanziali.
Appare evidente come una tale previsione, interferendo con la questione oggetto del presente giudizio, si
giustifichi proprio sul presupposto che, in assenza di norme speciali, la giurisdizione in materia di contributi e
agevolazioni finanziarie è soggetta agli ordinari criteri di riparto, con il conseguente possibile concorso, a seconda
del tipo di controversia e di situazione soggettiva dedotta, delle giurisdizioni ordinaria, amministrativa e tributaria.
11. L’esclusione della sussistenza di una giurisdizione esclusiva consente di superare anche l’argomento fondato
sull’art. 7 cod. proc. amm., laddove tale disposizione richiama, attraverso la formula “atti […] riconducibili anche
mediatamente all’esercizio del potere amministrativo” le espressioni contenute nelle note sentenze della Corte
costituzionale 6 luglio 2004, n. 204 e 11 maggio 2006, n. 191.
Nella citata giurisprudenza costituzionale, invero, il riferimento alla riconducibilità della controversia, anche in via
mediata o indiretta, all’esercizio del potere viene utilizzato non come criterio generale di riparto della
giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, ma come criterio legittimante, sotto il profilo della
compatibilità con il vincolo costituzionale delle “particolari materie” di cui all’art. 103 Cost., la stessa
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
In altri termini, dalla richiamata giurisprudenza costituzionale non può ricavarsi che ogni controversia
comunque riconducibile, sia pure in via indiretta o mediata, all’esercizio del potere pubblico possa
essere ricondotta alla giurisdizione amministrativa di legittimità, involgendo, per ciò solo, posizioni di
interesse legittimo. La Corte costituzionale, al contrario, ha individuato nella riconducibilità all’esercizio, pure
se in via indiretta o mediata, del potere pubblico, il criterio che legittima la scelta legislativa di introdurre una
ipotesi di giurisdizione esclusiva, escludendo, per converso, tale possibilità ove detto collegamento sia assente.
Ne deriva che il criterio della riconducibilità all’esercizio del potere opera all’interno della giurisdizione esclusiva,
come condizione in assenza della quale la controversia avente ad oggetto diritti soggettivi, nonostante l’afferenza
degli stessi alla materia oggetto della giurisdizione esclusiva, deve comunque essere devoluta al giudice ordinario.
L’art. 7 cod. proc. amm. che tale espressione ha recepito deve, quindi, essere interpretato nel senso che, ferma la
vigenza del generale criterio di riparto della giurisdizione fondato sulla dicotomia tra diritti soggettivi e interessi
27
legittimi, nelle materie di giurisdizione esclusiva è comunque necessario che il diritto soggettivo sia stato leso da
atti, accordi o comportamenti riconducibili, sia pure in via diretta o mediata, all’esercizio del potere.
12. Non può essere enfatizzata, per derogare a detto assetto, neanche la finalità “di assicurare la concentrazione
delle tutele”, pur richiamata dall’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69.
Quello della concentrazione delle tutele è, infatti, in primo luogo, un criterio direttivo che la legge delega ha
posto all’esercizio del potere legislativo delegato da parte del Governo e che ha legittimato, fra l’altro, la scelta
(già avallata dalla sopra citata giurisprudenza costituzionale) di concentrare in campo al giudice amministrativo
ogni forma di tutela dell’interesse legittimo, ivi compresa quella risarcitoria. Esso, tuttavia, non consente di
attrarre, in via meramente interpretativa e senza base normativa, nell’ambito della giurisdizione amministrativa
controversie relative a diritti soggettivi, pure a prescindere dall’individuazione di una disposizione legislativa
fondante un’ipotesi di giurisdizione esclusiva.
Ciò a maggior ragione se si considera che nel caso di specie la domanda proposta ha ad oggetto esclusivamente
diritti soggettivi (il diritto soggettivo al mantenimento del finanziamento già erogato) e non vi è alcuna
connessione con domande contestualmente proposte relative ad interessi legittimi.
13. Non può, peraltro, non ricordarsi come le Sezioni Unite, nella loro veste di giudice del riparto,
hanno in più occasioni disatteso la tesi dello spostamento della giurisdizione per motivi di connessione
(anche in presenza di connessione tra domande contestualmente proposte di fronte ad un unico giudice, ma
devolute a diverse giurisdizioni), affermando l’opposto principio secondo cui “salvo deroghe normative
espresse, vige nell’ordinamento processuale il principio generale dell'inderogabilità della giurisdizione
per motivi di connessione, potendosi risolvere i problemi di coordinamento posti dalla concomitante
operatività della giurisdizione ordinaria e di quella amministrativa su rapporti diversi, ma
interdipendenti, secondo le regole della sospensione del procedimento pregiudicato” (cfr., da ultimo,
Cass. Sez. Un. 19 aprile 2013, n. 9534; Cass. Sez. Un. 7 giugno 2012, n. 9185).
È vero che alcune sentenze delle Sezioni Unite, in presenza di controversie rimesse alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo ed interessate parallelamente da domande consequenzialmente nascenti da pretese di
diritto privato, di fronte all’esigenza di decisione unitaria, hanno ritenuto che le norme costituzionali sul giusto
processo e sulla sua ragionevole durata di esso (art. 111 Cost.) e sul diritto di difesa (art. 24 Cost.), coordinate con
l’art. 103 Cost., hanno escluso la possibilità di scindere il processo in tronconi affidati a giurisdizioni diverse ed
hanno imposto il giudizio unitario, di modo che è stata ritenuta prevalente la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo e si è rimessa allo stesso anche la decisione sulle domande accessorie su cui avrebbe dovuto
pronunziarsi il giudice ordinario (Cass. Sez. Un. 28 febbraio 2007 n. 4636 e 27 luglio 2005 n. 15660).
La giurisprudenza successiva ha, tuttavia, definitivamente chiarito che la prevalenza del potere cognitivo del
giudice amministrativo presuppone, oltre che la contestuale proposizione delle domande, che egli sia titolare di
giurisdizione esclusiva, a fronte della giurisdizione sui soli diritti propria del giudice ordinario. In questo caso,
infatti, il giudice amministrativo è titolare di poteri maggiori che non quelli riconosciuti al giudice ordinario (cfr.
Cass. Sez. Un. 24 giugno 2009, n. 14805; Cass. Sez. Un. 7 giugno 2012, n. 9185).
Nel caso di specie, oltre alla già rilevata circostanza dell’assenza di domande propriamente “connesse”, è
assorbente la considerazione che il giudice amministrativo non è titolare di giurisdizione esclusiva, il che esclude
ulteriormente la possibilità di invocare la concentrazione delle tutele per giustificare deroghe all’assetto del riparto
della giurisdizione normativamente delineato.
15. A favore della tesi secondo cui il codice del processo amministrativo non abbia inteso, né direttamente, né
indirettamente, innovare il criterio di riparto della giurisdizione previgente (quale desumibile dal “diritto vivente”
delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione) deve ancora richiamarsi quanto affermato dalla Corte
costituzionale nella sentenza 27 giugno 2012, n. 162, che ha dichiarato incostituzionali, per eccesso di delega, gli
articoli 133, comma 1, lett. l); 134., comma 1, lett. c) e 135, comma 1, lett. c) del codice del processo
amministrativo, nella parte in cui attribuiscono al giudice amministrativo, con cognizione estesa al merito, con
competenza funzionale del T.a.r. Lazio, le controversie in materia di sanzioni amministrative applicate dalla
Consob.
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La Corte costituzionale ha ravvisato la violazione dell’art. 76 Cost. nella circostanza che il legislatore delegato,
disattendendo l’obbligo previsto dalla legge delega (art. 44 legge n. 69 del 2009) di “tenere conto della
giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori”, ha attribuito le sanzioni irrogate dalla
Consob alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, discostandosi dalla giurisprudenza delle Sezioni
Unite della Corte di cassazione formatasi sul tema (che, invece, avrebbe dovuto orientare l’intervento del
legislatore delegato, secondo quanto previsto dalla legge delega).
È evidente, quindi, che, anche alla luce dei principi affermati nella sentenza costituzionale n. 162 del 2012, deve
escludersi una interpretazione delle norme del codice del processo amministrativo volta a riconoscere al giudice
amministrativo spazi di giurisdizione innovativi rispetto a quelli già ad esso attribuiti in base all’assetto normativo
previgente come risultante dall’interpretazione univocamente fornitane dalle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione.
16. Non risulta, del resto, condivisibile neanche l’argomento secondo cui gli atti di ritiro di cui si discute, in
quanto espressione di “autotutela”, sarebbero per ciò solo atti di esercizio di un potere autoritativo, a fronte del
quale non potrebbe che configurarsi una posizione di interesse legittimo del privato. Nel caso di specie, al
contrario, non viene in rilievo il generale potere di autotutela pubblicistica (fondato sul riesame della legittimità o
dell’opportunità dell’iniziale provvedimento di attribuzione del contributo e sulla valutazione dell’interesse
pubblico), ma lo speciale potere di autotutela privatistica dell’Amministrazione (di cui peraltro l’ordinamento
conosce altre tassative ipotesi, le più importanti delle quali si riscontrano nell’esecuzione dei contratti pubblici:
cfr. le ipotesi di recesso e risoluzione di cui agli artt. 134-136 d.lgs. 12 aprile 2006 recante Codice dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), con il
quale, nell’ambito di un rapporto ormai paritetico, l’Amministrazione fa valere le conseguenze derivanti
dall’inadempimento del privato alle obbligazioni assunte per ottenere la sovvenzione. L’atto in questione si
configura come declaratoria della sopravvenienza di un fatto cui la legge ricollega l’effetto di determinare la
decadenza dal diritto di godere del beneficio e trova ragione non già in una rinnovata ponderazione tra l’interesse
pubblico e quello privato, ma nell’asserito inadempimento degli obblighi imposti al beneficiario e nella verifica
dei presupposti di esigibilità del credito. Ne deriva che le contestazioni che investono l’esercizio di tale forma di
autotutela, sono sottratte alla giurisdizione del giudice amministrativo e sono devolute a quella del giudice
ordinario.
17. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello deve essere respinto, in quanto nel caso di specie la
revoca del contributo finanziario è stato disposto assumendo l’inadempimento da parte del beneficiario delle
obbligazioni assunte, per avere realizzato un programma di investimento (servizi di manutenzione) diverso da
quello approvato per l’ottenimento delle agevolazioni (produzione di mobili metallici).
Ed invero, l’erogazione del contributo – anche se avvenuto, come nella specie, in via provvisoria – crea un
credito dell’impresa all’agevolazione, che viene adempiuto, senza margini di discrezionalità,
dall’Amministrazione erogante, sussistendo già, per effetto di una siffatta concessione, un diritto
soggettivo (relativamente alla concreta erogazione delle somme di denaro oggetto del finanziamento e alla
conservazione degli importi a tale titolo già riscossi o da riscuotere), con la conseguenza che il giudice
ordinario è competente a conoscere le controversie instaurate per ottenere gli importi dovuti o per
contrastare l'Amministrazione che, servendosi degli istituti della revoca, della decadenza o della
risoluzione, abbia ritirato il finanziamento o la sovvenzione concessi, adducendo l’inadempimento, da
parte del beneficiario, degli obblighi impostigli dalla legge o dagli atti concessivi del contributo.
4. L'INDENNIZZO EX ART. 42-BIS T.U.: LE SEZIONI UNITE AFFERMANO LA
GIURISDIZIONE ORDINARIA: Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 25 luglio 2016,n. 15283
Sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, ed alla competenza in unico grado della corte di
appello operante in materia di indennità di esproprio, le controversie relative alla determinazione degli
indennizzi previsti in caso di adozione di provvedimento di “acquisizione sanante” ex art. 42 bis del
29
d.P.R. n. 327 del 2001, incluse le somme dovute per il periodo di occupazione senza titolo del bene – a
norma del comma 3 di detto articolo – nella misura del 5 per cento annuo del valore venale dello stesso.
(omissis) 2. — Conviene premettere, per maggiore chiarezza dell'esposizione, il testo dei commi 1, 3 e 4
del richiamato art. 42 bis d.P.R. n. 327 del 2001, introdotto dall'art. 34 d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv., con
modif., in 1. 15 luglio 2011, n. 111: (omissis) Partendo, quindi, dalla questione di giurisdizione, va detto
che essa è stata già risolta da queste Sezioni Unite in favore del giudice ordinario con l'ordinanza
n. 22096 del 2015. In tale ordinanza si afferma, anche sulla scorta di condivise considerazioni svolte dalla
Corte costituzionale nella sentenza n. 71 del 2015 (…) che «nella fattispecie delineata dall'art. 42 bis del
d.P.R. n. 327 del 2001, l'illecita o l'illegittima utilizzazione di un bene immobile da parte
dell'amministrazione per scopi di interesse pubblico costituisce soltanto il presupposto indispensabile,
unitamente alle altre specifiche condizioni previste da tale articolo, per l'adozione — si noti: nell'ambito di
un apposito procedimento espropriativo, del tutto autonomo rispetto alla precedente attività della stessa
amministrazione (...) — del peculiare provvedimento di acquisizione ivi previsto (...), con la conseguenza
che, ove detto autonomo, speciale ed eccezionale procedimento espropriativo sia stato legittimamente
promosso, attuato e concluso, «indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale», in quanto
previsto dal legislatore per la perdita della proprietà del predetto bene immobile, non può che conferire
all'indennizzo medesimo natura non già risarcitoria ma indennitaria, con l'ulteriore corollario che
le controversie aventi ad oggetto la domanda di «determinazione [o di] corresponsione delle
indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa» sono attribuite
alla giurisdizione del Giudice ordinario» ai sensi dell'art. 53, comma 2, d.P.R. n. 327 del 2001 e
dell'art. 133, lett. ult. parte, c.p.a. Tale precedente, tuttavia, riguarda una fattispecie in cui la pretesa
degli espropriati era limitata alla liquidazione del valore venale del suolo, onde in esso si parla, come si è
visto, di «indennizzo ... per la perdita della proprietà» dell'immobile; nel caso ora in esame, invece, la
domanda è estesa anche all'interesse sul valore venale, da corrispondere «a titolo di risarcimento», come
recita il comma 3, ult. parte, dell'art. 42 bis. Sorge perciò il dubbio se l'espressa indicazione di detto titolo
nel testo della norma valga ad attribuire al corrispondente diritto dell'espropriato natura non più
indennitaria, bensì propriamente risarcitoria, con conseguente ribaltamento delle precedenti conclusioni in
punto di giurisdizione e attribuzione, quindi, della relativa controversia alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo ai sensi dell'art. 133, lett. g), c.p.a., non operando più la salvezza prevista per le
"indennità" dall'ultima parte di tale disposizione e all'art. 53, comma 2, d.P.R, n. 327 del 2001. Il dubbio
va risolto in senso negativo. Dalla lettura coordinata dei commi 1, 3 e 4 dell'art. 42 bis, sopra trascritti,
emerge infatti che l'interesse del cinque per cento annuo sul valore venale dell'immobile, menzionato al
comma 3, non è che una voce del complessivo "indennizzo per il pregiudizio patrimoniale" previsto dal
comma 1 e da liquidarsi, appunto, ai sensi del comma 3; indennizzo il diritto al quale (nella sua integralità,
comprensiva delle voci valore venale, pregiudizio non patrimoniale e interesse del cinque per cento annuo
per il periodo di occupazione) sorge solo a seguito dell'adozione del provvedimento di espropriazione c.d.
sanante, che deve peraltro contenerne la liquidazione, e il versamento del quale all'espropriato condiziona
sospensivamente lo stesso prodursi dell'effetto ablativo. Deve quindi concludersi che l'uso
dell'espressione "a titolo risarcitorio" nel comma 3 dell'art. 42 bis, riferita all'interesse, sia una
mera imprecisione lessicale, che non altera la natura della corrispondente voce dell'indennizzo, il
quale essendo unitario non può che avere natura unitaria. Tale interpretazione, peraltro, è imposta
anche dai principi di concentrazione ed effettività della tutela giurisdizionale, coerenti con gli artt. 24 e 111
Cost., con cui mal si concilierebbe l'onere dell'espropriato di richiedere davanti al giudice ordinario
l'indennizzo per la perdita della proprietà e davanti al giudice amministrativo il "risarcimento" per
l'occupazione dell'immobile, la quale costituisce peraltro non un mera eventualità, bensì un indefet tibile
presupposto della fattispecie espropriativa in questione. 3. — Dalla corretta individuazione della natura
del diritto dell'espropriato occorre muovere anche in vista della soluzione della questione di
competenza. Una volta qualificato l'indennizzo di cui all'art. 42 bis d.P.R. n. 327 del 2001 come
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«indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa», ai sensi dell'art. 133, lett.
g), ult. parte, c.p.a., si pone la questione se sia applicabile il disposto di cui all'art. 29, commi 1 e 2,
digs. 1° settembre 2011, n. 150, per il quale sulle «controversie aventi ad oggetto l'opposizione alla
stima di cui all'art. 54 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327... è
competente la corte d'appello nel cui distretto si trova il bene espropriato», ovvero se la relativa
domanda sia soggetta alla disciplina ordinaria, che prevede la competenza del tribunale e il
doppio grado di giurisdizione di merito: infatti nessuna norma espressa collega l'indennizzo di cui
all'art. 42 bis al giudizio di opposizione alla stima di cui all'art. 54 (che ha riferimento all'ordinario
procedimento espropriativo), oggetto di richiamo testuale nel menzionato art. 29 d.lgs. n. 150 del 2011.
Evidenti esigenze di coerenza del sistema depongono per la prima soluzione, alla quale tuttavia i
ricorrenti oppongono il carattere eccezionale della previsione della competenza in unico grado della corte
d'appello, che deroga alla regola generale della competenza del tribunale e del doppio grado di
giurisdizione di merito e osterebbe, quindi, all'interpretazione analogica o estensiva della disposizione
normativa, considerata anche la peculiarità dell'istituto della c.d. acquisizione sanante, di cui all'art. 42 bis,
che postula la mancanza di un legittimo ordinario procedimento espropriativo, alla quale è intesa appunto
a porre rimedio. Sennonché, nello specifico settore delle espropriazioni per pubblica utilità, e segnatamente
della determinazione delle indennità in favore dell'espropriato, la legge espressamente prevede altre ipotesi
di competenza in unico grado della corte d'appello, oltre a quella della opposizione alla stima ai sensi
dell'art. 54 d.P.R. n. 327 del 2001. Si tratta della determinazione dell'indennità per la reiterazione di vincoli
preordinati all'esproprio o sostanzialmente espropriativi, di cui all'art. 39 d.P.R. cit., e dell'indennità di
occupazione, di cui all'art. 50 del medesimo decreto. Da tali espresse previsioni, che coprono l'intera
gamma delle indennità collegate a provvedimenti espropriativi note all'epoca in cui sono entrate in vigore,
è lecito trarre la conclusione — analoga a quella già tratta dalla giurisprudenza di questa Corte nell'assetto
normativo precedente al d.P.R. n. 327 del 2001 (cfr., per tutte, Cass. Sez. Un. 7191/1997) — che quella
della competenza della corte d'appello in unico grado è in realtà la regola generale prevista
dall'ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità dovute, nell'ambito di
un procedimento espropriativo, a fronte della privazione o compressione del diritto dominicale
dell'espropriato. L'applicazione della medesima regola anche alla determinazione dell'indennità per la c.d.
occupazione sanante, di cui all'art. 42 bis, cit., consegue, dunque, alla interpretazione estensiva dell'art. 29
dIgs. n. 150 del 2011, il quale non avrebbe potuto fare espresso riferimento a un istituto introdotto
nell'ordinamento solo in epoca successiva. Né infine rileva in senso contrario la caratteristica della c.d.
espropriazione sanante, sottolineata dai ricorrenti, di rimedio alla mancanza di un valido provvedimento di
esproprio. Tale particolarità, infatti, nulla toglie alla natura certamente espropriativa del relativo
provvedimento e alla natura certamente indennitaria del ditino dell'espropriato . 4. — Il ricorso va
pertanto rigettato e va dichiarata la competenza della Corte d'appello di Roma. (omissis)
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