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Corte Costituzionale - 10/04/2020, n. 61
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Aldo CAROSI Presidente
- Marta CARTABIA Giudice
- Mario Rosario MORELLI "
- Giancarlo CORAGGIO "
- Giuliano AMATO "
- Silvana SCIARRA "
- Daria de PRETIS "
- Nicolò ZANON "
- Franco MODUGNO "
- Augusto Antonio BARBERA "
- Giulio PROSPERETTI "
- Giovanni AMOROSO "
- Francesco VIGANÒ "
- Luca ANTONINI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 55-quater, comma
3-quater, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche), inserito dall'art. 1, comma 1, lettera
b), del decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116, recante
«Modifiche all'articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165, ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lettera s), della
legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di licenziamento
disciplinare», promosso dalla Corte dei conti, sezione
giurisdizionale regionale per l'Umbria, nel giudizio vertente tra il
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Procuratore regionale presso la sezione giurisdizionale della Corte
dei conti per l'Umbria e C. S. con ordinanza del 9 ottobre 2018,
iscritta al n. 180 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale,
dell'anno 2018.
Visti l'atto di costituzione, fuori termine, di C. S., nonché l'atto
di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 ottobre 2019 il Giudice
relatore Aldo Carosi;
deliberato nella camera di consiglio del 9 gennaio 2020.
Ritenuto in fatto
1.- Con sentenza non definitiva e ordinanza del 9 ottobre 2018, la Corte dei conti, sezione
giurisdizionale regionale per l'Umbria, nel giudizio di responsabilità promosso dalla Procura regionale
nei confronti di C. S., ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 55-quater, comma 3-
quater, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), inserito dall'art. 1, comma 1, lettera b), del
decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116, recante «Modifiche all'articolo 55-quater del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lettera s), della legge 7 agosto
2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare», in attuazione dell'art. 17, comma 1, lettera s)
della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche), in riferimento all'art 76 della Costituzione, nonché all'art. 3 Cost., anche in
combinazione con gli artt. 23 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della Convenzione,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e all'art. 4 del Protocollo n. 7 di
detta Convenzione fatto a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile
1990, n. 98.
1.1.- Il giudice a quo riferisce che la Procura regionale aveva convenuto in giudizio la sig.ra C. S. per
sentirla condannare al pagamento di euro 20.064,81 in quanto, in qualità di pubblica dipendente, aveva
falsamente attestato la propria presenza in servizio in quattro giornate tra le ore 17:00 e le ore 18:00.
Più specificamente, la Procura regionale aveva contestato alla convenuta un danno patrimoniale pari a
64,81 euro, derivante dalla percezione indebita della retribuzione nei periodi per i quali era mancata la
prestazione lavorativa. Aveva chiesto inoltre la condanna al pagamento del danno all'immagine da
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determinarsi in via equitativa, per un importo ritenuto congruo e pari a 20.000,00 euro, tanto ai sensi
dell'art. 55-quater, comma 3-quater, del d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dal d.lgs. n. 116 del
2016, in attuazione dell'art. 17, comma 1, lettera s), della legge n. 124 del 2015.
Il giudice a quo riferisce ancora che la causa, in quanto ritenuta matura, è stata trattenuta in decisione
ed è stata definita nella camera di consiglio del 19 luglio 2018, tenutasi al termine della complessiva
udienza pubblica.
Il Collegio, con sentenza non definitiva, ha ritenuto fondata l'azione risarcitoria promossa nei confronti
della convenuta, condannandola al risarcimento del danno patrimoniale da percezione indebita della
retribuzione in mancanza di prestazione lavorativa e, limitatamente all'an debeatur, anche a risarcire il
pregiudizio recato all'immagine della pubblica amministrazione di appartenenza.
In particolare, il giudice contabile umbro ha ritenuto integrata dalla convenuta la condotta di falsa
attestazione della presenza in servizio mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento e altre modalità
fraudolente di cui all'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotto dall'art. 69, comma 1, del
decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 115, in materia di
ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche
amministrazioni), nella formulazione in vigore al tempo dei fatti in questione, in quanto la condotta era
stata accertata attraverso strumenti di sorveglianza e di registrazione.
Il giudice rimettente rammenta che gli artt. 55-quater e 55-quinquies del d.lgs. n. 165 del 2001
prevedono, inoltre, che la Procura regionale della Corte dei conti debba perseguire i responsabili
richiedendo la condanna al risarcimento sia del «danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a
titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione», che del danno
all'immagine, la cui liquidazione è rimessa alla «valutazione equitativa del giudice anche in relazione
alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione [fermo restando che] l'eventuale condanna non può
essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di giustizia».
Osserva che i dipendenti pubblici tenuti al rispetto di un orario di lavoro, in quanto la prestazione può
essere svolta solo presso l'ufficio pubblico, sono obbligati a prestarla secondo le modalità, le forme e i
tempi stabiliti dal datore di lavoro pubblico, avendo l'utenza un vero e proprio diritto pubblico
soggettivo all'esercizio del potere e al disbrigo delle pratiche di ufficio per tutto il periodo di apertura
della struttura.
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La convenuta, invece, in violazione delle predette regole di condotta e degli obblighi di presenza in
servizio, aveva modificato l'orario di uscita, anticipandolo di un'ora rispetto a quello da lei dichiarato e
attestato, disvelando una predeterminazione intenzionale.
Per tali ragioni, il giudice a quo ha condannato la convenuta al pagamento di euro 64,81, pari alle
retribuzioni indebitamente percepite in assenza di prestazione lavorativa.
Quanto al danno all'immagine, il Collegio ha ritenuto sussistenti nella fattispecie tutti gli elementi
oggettivi, soggettivi e sociali della posta risarcitoria avendo avuto la vicenda risonanza nella stampa
locale allegata agli atti del giudizio.
Osserva che le nuove previsioni normative applicabili alla specie presenterebbero funzioni
sanzionatorie e deterrenti per rendere efficace il contrasto dei comportamenti assenteistici. Sicché
l'azione di responsabilità contabile intestata alla procura regionale, ontologicamente compensativa,
tendendo al ripristino del patrimonio pubblico danneggiato, come anche riconosciuto dalla Corte
europea dei diritti dell'uomo nella sentenza 13 maggio 2014, Rigolio contro Italia, subirebbe nella
norma impugnata una evidente «torsione sanzionatoria» che, comunque, secondo il giudice rimettente,
non si presenterebbe, sotto questo specifico profilo funzionale, costituzionalmente irragionevole, in
considerazione delle condotte che tende a contrastare.
Tuttavia, il giudice a quo ritiene che la quantificazione del danno all'immagine come introdotta dalla
riforma del 2016, renderebbe rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità
costituzionale secondo i seguenti profili.
1.2.- Il giudice a quo ritiene che sia innanzitutto violato l'art. 76 Cost.
Espone il rimettente che la norma è stata introdotta dal legislatore delegato (art. 1, comma 1, del d.lgs.
n. 116 del 2016, rubricato «Modifiche all'art. 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165»),
in attuazione dell'art. 17, comma 1, lettera s), della legge n. 124 del 2015, il quale fissa il seguente
principio e criterio direttivo: «introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei
pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di
conclusione l'esercizio dell'azione disciplinare».
Secondo il Collegio rimettente, il decreto delegato non avrebbe potuto incidere sulla disciplina
dell'azione di responsabilità amministrativa intestata alla Procura regionale della Corte dei conti, né
tanto meno avrebbe potuto porre regole finalizzate a far assumere ai criteri di computo del danno
all'immagine una funzione sanzionatoria, comunque non confondibile, sia funzionalmente che
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strutturalmente, con il procedimento disciplinare che il legislatore delegato aveva posto a oggetto della
delega.
Anche in ragione della natura di mero «riordino» del decreto legislativo in materia disciplinare, fissata
espressamente dall'art. 17 della legge n. 124 del 2015, il giudice a quo sostiene che il legislatore
delegato non avrebbe potuto introdurre norme di diritto sostanziale volte a fissare criteri di liquidazione
del danno all'immagine da falsa attestazione della presenza in servizio fissando una soglia sanzionatoria
inderogabile nel minimo, che potrebbe essere sproporzionata rispetto al caso concreto.
Osserva che nell'ordinamento italiano sarebbe ampiamente ammesso, nella materia del rapporto di
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il cumulo di sanzioni civili, penali,
amministrative e contabili (viene citata la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, Grande
camera, 15 novembre 2016, A. e B. contro Norvegia; nonché la sentenza di questa Corte n. 43 del
2018).
Ciò posto, secondo il giudice rimettente, la descritta eterogeneità e non confondibilità tra i poteri
sanzionatori disciplinari del datore di lavoro pubblico e i poteri di azione nell'interesse generale
intestati alla Procura regionale della Corte dei conti, renderebbe palese l'eccesso di delega in cui
sarebbe incorso il legislatore.
1.3.- La Corte dei conti ritiene violato altresì l'art. 3 Cost., anche in combinazione con gli art. 23 e 117,
primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della CEDU e all'art. 4 del Protocollo n. 7, in quanto norme
interposte, per violazione dei principi di gradualità e proporzionalità sanzionatoria.
Secondo il rimettente la previsione normativa sarebbe manifestamente irragionevole in quanto
obbligherebbe il giudice contabile a infliggere una condanna sanzionatoria senza tener conto
dell'offensività in concreto della condotta posta in essere.
Obietta, inoltre, che l'obbligatorietà del minimo sanzionatorio («sei mensilità dell'ultimo stipendio in
godimento, oltre interessi e spese di giustizia»), in ipotesi di fondatezza della contestazione relativa al
danno all'immagine, impedirebbe al Collegio di dare rilevanza ad altre circostanze peculiari e
caratterizzanti il caso concreto, imponendo al giudicante un verdetto condannatorio pur in presenza di
condotte marginali e tenui che abbiano prodotto un pregiudizio minimo, violando sia il principio di
proporzionalità che quello della gradualità sanzionatoria.
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La disposizione violerebbe pertanto i principi fondamentali e generali in materia sanzionatoria
impedendo una valutazione appropriata della fattispecie concreta ponendosi in contrasto con la citata
giurisprudenza sovranazionale convenzionale ed eurounitaria.
Evidenzia infine il giudice a quo che la formulazione normativa precluderebbe ogni margine
all'interpretazione giudiziale costituzionalmente orientata, in quanto obbligherebbe comunque il
giudice, in caso di fondatezza dell'azione risarcitoria pubblicistica esperita dalla procura regionale, a
condannare il convenuto nella misura minima non inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in
godimento.
L'obbligatorietà del minimo edittale sanzionatorio renderebbe pertanto impossibile ogni adeguamento
al caso concreto, precludendo l'operatività del principio di proporzionalità della sanzione che impone
l'adeguamento della tipologia e consistenza della misura sanzionatoria al grado, natura e carattere della
violazione riscontrata.
Il Collegio rimettente osserva ulteriormente che, stante la fondatezza dell'azione e nonostante la tenuità
del fatto e il carattere lieve delle violazioni riscontrate (pochissime ore di falsa attestazione in relazione
a quattro giornate non reiterate), dovrebbe applicare il minimo sanzionatorio che, a giudizio del
medesimo, apparirebbe eccessivo, sproporzionato e irragionevole.
2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, deducendo l'infondatezza delle questioni sollevate.
In riferimento alla violazione dei principi e criteri direttivi di cui all'art. 76 Cost., il Presidente del
Consiglio rammenta che la Corte ha affermato in più occasioni che la determinazione dei principi e dei
criteri direttivi, ai sensi dell'art. 76 Cost., soprattutto ove riguardi interi settori di disciplina od organici
complessi normativi, non osta all'emanazione da parte del legislatore delegato di norme che
rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante,
non essendo il suo compito limitato a una «mera scansione linguistica» delle previsioni contenute nella
delega (sono richiamate le sentenze n. 10 del 2018, n. 278 del 2016, n. 194 e n. 146 del 2015, n. 47 e n.
229 del 2014, n. 426 del 2008). Il legislatore delegato sarebbe quindi libero di individuare e tracciare i
necessari contenuti attuativi, secondo l'ordinaria sfera della discrezionalità legislativa (è richiamata la
sentenza n. 44 del 1993) e, pur nell'ambito invalicabile dei confini dati dalle possibilità applicative
desumibili dalle norme di delega, sarebbe ugualmente libero di interpretare e scegliere fra le alternative
che gli si offrono, di valutare le specifiche situazioni da disciplinare e di effettuare le conseguenti scelte
nella fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi (sono richiamate le sentenze n.
229 del 2014, n. 98 del 2008 e n. 163 del 2000). Ove così non fosse, si prosegue, al legislatore delegato
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verrebbe riservata una funzione di rango quasi regolamentare, priva di autonomia precettiva, in aperto
contrasto con il carattere pur sempre primario del provvedimento legislativo delegato.
Il controllo di conformità della norma delegata alla norma delegante richiederebbe un confronto tra gli
esiti di due processi ermeneutici paralleli: l'uno, relativo alle norme che determinano l'oggetto, i
principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, da svolgere tenendo conto del complessivo contesto in
cui esse si collocano e individuando le ragioni e le finalità poste a fondamento della stessa; l'altro,
relativo alle norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i
principi e i criteri direttivi della delega. Il contenuto della delega e dei relativi principi e criteri direttivi
dovrebbe essere identificato, dunque, accertando il complessivo contesto normativo e le finalità che la
ispirano, tenendo conto che i principi posti dal legislatore delegante costituiscono non solo la base e il
limite delle norme delegate, ma strumenti per l'interpretazione della loro portata. Queste, fintanto che
sia possibile, andrebbero lette nel significato compatibile con detti principi, i quali, a loro volta,
dovrebbero essere interpretati avendo riguardo alla ratio della delega e al complessivo quadro di
riferimento.
2.1.- Tanto premesso, osserva l'interveniente che la disposizione impugnata, alla luce della
giurisprudenza sopra richiamata, risulterebbe pienamente riconducibile nell'ambito della delega di cui
alla legge n. 124 del 2015, costituendo un coerente sviluppo e un completamento dei principi e dei
criteri direttivi impartiti con la legge delega, essendo funzionale alla tutela di un bene-valore, il buon
andamento della pubblica amministrazione, coessenziale all'esercizio dei poteri e delle funzioni
pubbliche.
Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri la responsabilità per danno all'immagine, sebbene non
si sovrapponga a quella disciplinare, si inserirebbe nella più ampia definizione di responsabilità
amministrativa, di cui costituirebbe una ulteriore declinazione, sostanziandosi nella responsabilità con
carattere evidentemente anche sanzionatorio per la grave perdita di prestigio della personalità pubblica
e nel pregiudizio arrecato al rapporto di fiducia intercorrente tra cittadini e amministrazione, che
affievolisce il desiderio di partecipazione e il sentimento di appartenenza e di affidamento alle
istituzioni (è richiamata la sentenza n. 355 del 2010).
Proprio gli interessi lesi, riconducibili al buon andamento della pubblica amministrazione,
consentirebbero di ritenerla una forma di responsabilità strettamente connessa a quella disciplinare
conseguente alla violazione degli obblighi comportamentali propri del dipendente, considerata la
peculiarità del lavoro presso la pubblica amministrazione.
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Posto che nei riguardi del dipendente incombe un dovere costituzionale di servire la Repubblica con
impegno e responsabilità e di rispettare i principi di buon andamento e imparzialità dell'attività che
svolge, la funzione della responsabilità disciplinare, non diversamente da quella della responsabilità
amministrativa posta a tutela dell'immagine della pubblica amministrazione nell'ambito dei rapporti tra
amministrazione e cittadino, consisterebbe nell'assicurare il rispetto del pubblico interesse al buon
andamento dell'amministrazione seppure all'interno del rapporto lavorativo.
Il danno all'immagine sarebbe, dunque, intrinsecamente correlato alla condotta fraudolenta realizzata
dal dipendente pubblico e alle sanzioni disciplinari che da questa derivano in quanto si sostanzierebbe,
seppure sotto un diverso aspetto, nel pregiudizio arrecato al medesimo bene giuridico tutelato, ovvero il
buon andamento e l'imparzialità che l'apparato pubblico è chiamato ad assicurare ai sensi dell'art. 97
Cost.
L'interdipendenza intercorrente tra la sanzione disciplinare del licenziamento e l'azione di
responsabilità per il risarcimento del danno all'immagine della pubblica amministrazione deriverebbe,
in sintesi, dalla particolarità del rapporto lavorativo considerato, il pubblico impiego, e dalla specificità
e rilevanza attribuita alla finalità di contrasto dei comportamenti di falsa attestazione della presenza, in
ragione della quale è stata disposta una disciplina singolare comprensiva di un procedimento
disciplinare accelerato e di un licenziamento in assenza di preavviso e la previsione del danno
all'immagine secondo una quantificazione minima.
Nonostante la fattispecie della falsa attestazione della presenza in servizio si muova nell'ambito del
rapporto di lavoro, essa giungerebbe necessariamente a coinvolgere quello sociale.
La tutela del diritto all'immagine della pubblica amministrazione, introdotta con il d.lgs. n. 116 del
2016, non confliggerebbe, pertanto, con l'art. 76 Cost. in quanto si inquadrerebbe coerentemente con
l'introduzione nel sistema di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti,
attesa la comune finalità, in ambiti diversi ma strettamente contigui, di assicurare il prestigio, la
credibilità e il corretto funzionamento degli uffici della pubblica amministrazione.
La peculiarità del pubblico impiego, unita all'esigenza di costruire un sistema di responsabilità in grado
di coniugare le finalità richiamate, potrebbe indubbiamente giustificare l'introduzione di una sanzione
non propriamente disciplinare, ma capace di completarne la funzione perché indirizzata a fronteggiare
gli attuali gravi e frequenti fenomeni di assenteismo che la legge delega intendeva reprimere,
considerato soprattutto l'ampio clamore mediatico suscitato da tali violazioni.
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L'obiettivo che la legge delega n. 124 del 2015 mirerebbe a conseguire sarebbe, in altre parole, quello
di un potenziamento del livello di efficienza dei pubblici uffici finalizzato a contrastare i fenomeni di
scarsa produttività e di assenteismo - proposito che anche il decreto attuativo ha perseguito mediante un
potenziamento dei meccanismi di repressione - e, conseguentemente, l'introduzione di un'azione di
responsabilità per il danno all'immagine cagionato dal dipendente con la sua condotta.
Il legislatore delegato avrebbe così posto l'accento sulla volontà del legislatore delegante di introdurre
regole stringenti in ordine all'esercizio del potere disciplinare da parte dei soggetti pubblici,
declinandone la volontà, implicita e connessa, di perseguire il previsto rafforzamento dell'efficienza
della pubblica amministrazione anche attraverso l'azione richiamata, avente un evidente effetto
deterrente rispetto alle condotte fraudolente dei dipendenti pubblici.
L'intervento normativo censurato dai giudici rimettenti sarebbe, dunque, rigorosamente in linea con le
esigenze di efficienza e di salvaguardia del prestigio dell'amministrazione perseguite dal legislatore.
Sarebbe, infatti, indubbio che la perpetrata condotta infedele del dipendente incida negativamente
sull'efficienza, sul decoro, sulla reputazione e sul buon andamento dell'amministrazione di
appartenenza, non solo all'interno del rapporto di lavoro, ma anche negli stessi amministrati, generando
sfiducia verso l'amministrazione statuale.
2.2.- In relazione all'ulteriore questione di legittimità costituzionale dell'art. 55-quater, comma 3-quater,
del d.lgs. n. 165 del 2001, nella parte in cui prevede che l'eventuale condanna per il danno all'immagine
non possa essere inferiore alle sei mensilità dell'ultimo stipendio in godimento, il Presidente del
Consiglio ritiene innanzitutto opportuno vagliare la natura cosiddetta mista della responsabilità per
danno all'immagine, che presenterebbe sia profili sanzionatori che risarcitori.
Per un verso, sussisterebbe la finalità anche risarcitoria di tale responsabilità, volta al ristoro della
screditata immagine della pubblica amministrazione, con conseguente danno suscettibile di valutazione
economica in quanto lesivo del principio di legittimo affidamento del cittadino nei confronti della
pubblica amministrazione, che secondo la giurisprudenza di questa Corte, in ragione della natura della
situazione giuridica lesa, non avrebbe valenza patrimoniale. Il riferimento alla patrimonialità del danno
dovrebbe essere inteso come attinente alla quantificazione monetaria del pregiudizio subìto e non
all'individuazione della natura giuridica di esso (è richiamata la sentenza n. 355 del 2010).
Per altro verso, posto che la responsabilità amministrativa, rispetto alle altre forme di responsabilità
previste dall'ordinamento, presenta una peculiare connotazione data dall'accentuazione dei profili
sanzionatori rispetto a quelli risarcitori (sono richiamate le sentenze n. 355 del 2010, n. 453 e n. 371 del
1998), la responsabilità qui considerata assumerebbe anche natura sanzionatoria.
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Pertanto, considerata la natura anche punitiva della condanna al risarcimento, secondo l'interveniente la
fissazione di un criterio di determinazione del quantum dovuto per la violazione posta in essere dal
dipendente risulterebbe ragionevole e in armonia con un sistema che guarda all'efficienza dell'azione
amministrativa.
La disposizione impugnata non prescinderebbe, invero, dall'identificazione di un puntuale pregiudizio
arrecato all'amministrazione danneggiata, ma, a monte, tenderebbe a porre riparo a un comportamento
contraddistinto da un elevato livello di offensività, prevedendo un minimo di danno in considerazione
del fatto che la stessa sussistenza della violazione rappresenterebbe un fatto grave, che il legislatore
delegato ha inteso in ogni caso sanzionare secondo un minimo ragionevolmente stabilito.
Si tratterebbe di una violazione presuntivamente grave che non precluderebbe, peraltro, dato un
minimo di condanna in ragione del vulnus che il comportamento illecito in sé comporta, una
valutazione giudiziale di proporzionalità in relazione alla fattispecie concreta, tanto che lo stesso art.
55-quater, comma 3-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, presuppone sempre una valutazione equitativa
del giudice nel caso di condotte che meritino una maggiore condanna da parte del dipendente.
Pertanto, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri dovrebbe escludersi che la citata disposizione
configuri tout court un automatismo nell'indicazione del danno minimo risarcibile, né questa potrebbe
essere ritenuta irragionevole data anche la difficoltà di quantificazione di un pregiudizio di tal tipo,
vista la specificità della sanzione connessa alla gravità di una condotta dolosa indubbiamente grave,
immediatamente lesiva del vincolo fiduciario intercorrente non solo tra il lavoratore e la pubblica
amministrazione, quale datore di lavoro, ma anche tra quest'ultima e l'intera collettività.
Inoltre, secondo il Presidente del Consiglio la proporzionalità nella quantificazione del danno minimo
sarebbe anche assicurata dal riferimento espresso della disposizione all'ultimo stipendio del dipendente
a cui è ascritta la violazione, tenuto conto del fatto che lo stipendio varia in ragione della posizione
ricoperta dal dipendente nell'ambito dell'amministrazione e del rilievo delle relative mansioni, cui
conseguentemente è ancorata anche la lesività della condotta in relazione al buon andamento e al
prestigio di cui all'art. 97 Cost.
Il danno minimo predefinito così determinato sarebbe congruo rispetto alla lesione perpetrata dalla
condotta infedele, qualificabile in termini di lesione dei principi di rango costituzionale ed eurounitario,
quali il buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione, atteso l'alto grado di discredito
sociale che intrinsecamente connota la condotta del dipendente.
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La predeterminazione della misura minima del risarcimento del danno all'immagine, contenuta nell'art.
55-quater, comma 3-quater, ultimo periodo, non sarebbe, quindi, manifestamente irragionevole, poiché
corrisponde alla natura polifunzionale di questa ipotesi di responsabilità.
Più precisamente, la norma costituirebbe il necessario riconoscimento a livello di fonte primaria
dell'interesse non solo compensativo, ma anche sanzionatorio, sotteso alla responsabilità
amministrativa (è richiamata la pronuncia della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 5 luglio 2017,
n. 16601).
In altri termini, si prosegue, la disposizione risulterebbe costituzionalmente legittima poiché verrebbe a
soddisfare l'esigenza di esplicitare, mediante la predeterminazione della misura minima del
risarcimento, il carattere al tempo stesso riparatorio e sanzionatorio della responsabilità amministrativa
per danno all'immagine, realizzando in questo modo un adeguato contemperamento tra le diverse
funzioni dell'istituto, che non apparirebbe né manifestatamente irragionevole, né confliggente con
alcuno dei parametri evocati dal giudice rimettente.
L'episodicità del comportamento o la sua limitazione ad alcune ore o a un'unica giornata lavorativa non
costituirebbero ragioni sufficienti per negare la sussistenza di un inadempimento così grave e le
conseguenze, poiché anche in tali ipotesi non si potrebbe giustificare chi commette una violazione
connotata da un così peculiare disvalore disciplinare e sociale.
Il limite minimo inderogabile risulterebbe, quindi, conforme al principio di proporzionalità
riconosciuto nel nostro ordinamento, in quanto finalizzato a garantire un minimo e giusto equilibrio tra
gli interessi giuridici coinvolti anche in presenza della violazione di minore offensività.
3.- Si è costituita in giudizio C. S. con memoria spedita a mezzo posta l'8 maggio 2019 e pervenuta in
data 9 maggio 2019.
Considerato in diritto
1.- La Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l'Umbria, con sentenza non definitiva e
ordinanza del 9 ottobre 2018, pronunciata nel giudizio di responsabilità promosso dalla Procura
regionale nei confronti di C. S., ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 55-quater,
comma 3-quater, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali
sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), inserito dall'art. 1,
comma 1, lettera b), del decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116 (Modifiche all'articolo 55-quater del
12
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lettera s, della legge 7
agosto 2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare), in attuazione dell'art. 17, comma 1,
lettera s), della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche), in riferimento all'art. 76 della Costituzione, nonché all'art. 3 Cost., anche
in combinato disposto con gli artt. 23 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all'art. 4 del
Protocollo n. 7 di detta Convenzione, fatto a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso
esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98.
1.1.- Espone il giudice a quo che la Procura regionale aveva esercitato l'azione di responsabilità
amministrativa nei confronti di una dipendente comunale che, per quattro giorni, pur uscendo
effettivamente alle ore 17:00, aveva attestato falsamente la propria presenza in servizio sino alle ore
18:00.
La Procura regionale aveva contestato alla convenuta un danno patrimoniale pari a 64,81 euro,
derivante dalla percezione indebita della retribuzione nei periodi per i quali è mancata la prestazione
lavorativa. Aveva chiesto, inoltre, la condanna al risarcimento del danno all'immagine, determinato in
via equitativa nell'importo di euro 20.000,00, ai sensi dell'art. 55-quater, comma 3-quater, del d.lgs. n.
165 del 2001, come modificato dal d.lgs. n. 116 del 2016.
Il rimettente, con sentenza non definitiva, ha ritenuto fondata l'azione risarcitoria promossa nei
confronti della convenuta, condannandola al risarcimento del danno patrimoniale derivante dalla
percezione indebita della retribuzione in mancanza di prestazione lavorativa e, limitatamente all'an
debeatur, condannandola altresì a risarcire il pregiudizio recato all'immagine della pubblica
amministrazione di appartenenza, ritenendo integrata la condotta di falsa attestazione della presenza in
servizio mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento e altre modalità fraudolente, come previsto
dall'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotto dall'art. 69, comma 1, del decreto legislativo 27
ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della
produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), nella
formulazione in vigore al tempo dei fatti in questione.
Con particolare riferimento al danno all'immagine, il giudice a quo ritiene sussistenti nella fattispecie
tutti gli elementi oggettivi, soggettivi e sociali della posta risarcitoria, avendo avuto la vicenda
risonanza nella stampa locale, come risulterebbe dagli atti del giudizio.
13
Osserva poi che le nuove previsioni normative applicabili alla fattispecie presenterebbero valenza
sanzionatoria e deterrente onde rendere efficace il contrasto dei comportamenti assenteistici. Sicché,
aggiunge, l'azione di responsabilità contabile, ontologicamente compensativa, tendendo al ripristino del
patrimonio pubblico danneggiato - come anche riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell'uomo
nella sentenza 13 maggio 2014, Rigolio contro Italia - subirebbe con la norma impugnata un'evidente
«torsione sanzionatoria» che, comunque, non si presenterebbe, sotto questo specifico profilo
funzionale, costituzionalmente irragionevole, in considerazione delle condotte che tende a contrastare.
Nondimeno, il giudice a quo ritiene che la quantificazione del danno all'immagine, come introdotta
dalla riforma del 2016, renderebbe non manifestamente infondate le questioni di legittimità
costituzionale secondo i seguenti profili.
1.2.- Il giudice a quo ritiene anzitutto violato l'art. 76 Cost.
Espone il rimettente che la norma è stata introdotta dal legislatore delegato (art. 1, comma 1, del d.lgs.
n. 116 del 2016) in attuazione dell'art. 17, comma 1, lettera s), della legge n. 124 del 2015, il quale fissa
il seguente principio e criterio direttivo: «introduzione di norme in materia di responsabilità
disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di
espletamento e di conclusione l'esercizio dell'azione disciplinare».
Secondo il rimettente, il decreto delegato non avrebbe potuto incidere sulla disciplina dell'azione di
responsabilità amministrativa, né tanto meno avrebbe potuto porre regole finalizzate a far assumere ai
criteri di computo del danno all'immagine una valenza sanzionatoria, comunque non confondibile, sia
funzionalmente che strutturalmente, con il procedimento disciplinare che il legislatore delegato aveva
posto a oggetto della delega.
Anche in ragione della natura di mero «riordino» del decreto legislativo in materia disciplinare,
espressamente prevista dall'art. 17 della legge n. 124 del 2015, secondo il giudice a quo il legislatore
delegato non avrebbe potuto introdurre norme di diritto sostanziale volte a fissare criteri di liquidazione
del danno all'immagine da falsa attestazione della presenza in servizio, fissando una soglia
sanzionatoria inderogabile nel minimo, che potrebbe essere sproporzionata rispetto al caso concreto.
1.3.- La Corte dei conti ritiene violato altresì l'art. 3 Cost., anche in combinato disposto con gli artt. 2 e
117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della CEDU e all'art. 4 del Protocollo n. 7 di detta
Convenzione, in quanto la norma denunciata obbligherebbe il giudice contabile a infliggere una
condanna sanzionatoria senza tener conto dell'offensività in concreto della condotta posta in essere.
14
L'obbligatorietà del minimo sanzionatorio, imponendo al giudice di condannare il responsabile nella
misura non inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in godimento, gli impedirebbe di dare
rilevanza ad altre circostanze peculiari e caratterizzanti il caso concreto, anche in presenza di condotte
marginali e tenui che avessero prodotto un pregiudizio minimo, violando sia il principio di
proporzionalità che quello della gradualità sanzionatoria.
2.- Anzitutto deve essere dichiarata inammissibile la costituzione in giudizio di C. S., avvenuta con atto
spedito a mezzo posta l'8 maggio 2019 e pervenuto in data 9 maggio 2019, in quanto il termine di venti
giorni previsto dall'art. 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale,
computato dalla pubblicazione dell'ordinanza sulla Gazzetta ufficiale del 27 dicembre 2018, n. 51,
scadeva il 16 gennaio 2019.
3.- Giova poi riassumere sinteticamente il quadro normativo, sia in relazione alla più generale
fattispecie del danno all'immagine, sia in riferimento alla specifica configurazione di quello causato da
indebite assenze realizzate mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza in servizio o
con altre modalità fraudolente.
3.1.- Il danno all'immagine, frutto di un'elaborazione giurisprudenziale del giudice contabile come
categoria particolare del danno erariale, ha trovato una sua normazione con l'art. 17, comma 30-ter, del
decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito,
con modificazioni, nella legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato, in pari data, dall'art. 1, comma
1, lettera c), numero 1), del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-
legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito, con modificazioni, nella legge 3 ottobre 2009, n. 141
(Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, recante disposizioni
correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009).
Stabilisce il citato art. 17, comma 30-ter, che «[l]e procure della Corte dei conti esercitano l'azione per
il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 della legge 27
marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti
del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche). A tale ultimo fine, il
decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20,
è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale [...]».
L'art. 7 della legge n. 97 del 2001 prevedeva che «[l]a sentenza irrevocabile di condanna pronunciata
nei confronti dei dipendenti indicati nell'articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione
previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente
procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l'eventuale
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procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto
disposto dall'articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di
procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271».
Tale fattispecie è stata identificata da questa Corte come «danno derivante dalla lesione del diritto
all'immagine della p.a. nel pregiudizio recato alla rappresentazione che essa ha di sé in conformità al
modello delineato dall'art. 97 Cost.» (sentenza n. 355 del 2010).
In ordine alla tipizzazione delle fattispecie di danno all'immagine è stato anche affermato che «il
legislatore non [ha] inteso prevedere una limitazione della giurisdizione contabile a favore di altra
giurisdizione, e segnatamente di quella ordinaria, bensì circoscrivere oggettivamente i casi in cui è
possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza della
lesione dell'immagine dell'amministrazione imputabile a un dipendente di questa. In altri termini, non è
condivisibile una interpretazione della normativa censurata nel senso che il legislatore abbia voluto
prevedere una responsabilità nei confronti dell'amministrazione diversamente modulata a seconda
dell'autorità giudiziaria competente a pronunciarsi in ordine alla domanda risarcitoria. La norma deve
essere univocamente interpretata, invece, nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste
di responsabilità per danni all'immagine dell'ente pubblico di appartenenza, non è configurabile siffatto
tipo di tutela risarcitoria» (sentenza n. 355 del 2010).
Successivamente, l'art. 51, comma 7, del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia
contabile, adottato ai sensi dell'articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), ha previsto che «[l]a
sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché
degli organismi e degli enti da esse controllati, per i delitti commessi a danno delle stesse, è comunicata
al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova l'eventuale procedimento
di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto
dall'articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura
penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271».
Inoltre, l'art. 4, comma 1, lettera g), dell'allegato 3 (Norme transitorie e abrogazioni) al medesimo
codice di giustizia contabile ha abrogato l'art. 7 della legge n. 97 del 2001. Sul punto, tuttavia, questa
Corte ha affermato che «il giudice a quo non ha vagliato la possibilità che il dato normativo di
riferimento legittimi un'interpretazione secondo cui, nonostante l'abrogazione dell'art. 7 della legge n.
97 del 2001, che si riferisce ai soli delitti dei pubblici ufficiali contro la PA, non rimanga privo di
effetto il rinvio ad esso operato da parte dell'art. 17, comma 30-ter, del d.l. n. 78 del 2009, e non si è
chiesto se si tratta di rinvio fisso o mobile. L'ordinanza, quindi, trascura di approfondire la natura del
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rinvio, per stabilire se è tuttora operante o se, essendo venuto meno, la norma di riferimento è oggi
interamente costituita dal censurato art. 51, comma 7» (sentenza n. 191 del 2019).
Ancora, la Corte europea dei diritti dell'uomo, con la sentenza 13 maggio 2014, nella causa Rigolio
contro Italia, nel respingere il ricorso ha affermato che il giudizio di responsabilità amministrativa
davanti alla Corte dei conti per danno all'immagine cagionato all'amministrazione non attiene a
un'accusa penale ai sensi dell'art. 6 della Convenzione (paragrafi 38 e 46) e che, pertanto, non può
essere applicato, nella fattispecie, il paragrafo 3 dello stesso art. 6. Analogamente, non sono state
accolte le censure formulate in riferimento all'art. 7 della CEDU e all'art. 2 del Protocollo 7, sulla base
della considerazione che la somma che il ricorrente è stato condannato a pagare ha natura di
risarcimento e non di pena (paragrafo 46).
3.2.- Relativamente alla particolare fattispecie del danno all'immagine prodotto in conseguenza di
indebite assenze dal servizio, l'art. 7 (Princìpi e criteri in materia di sanzioni disciplinari e
responsabilità dei dipendenti pubblici) della legge 4 marzo 2009, n. 15 (Delega al Governo finalizzata
all'ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche
amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale
dell'economia e del lavoro e alla Corte dei conti), stabiliva al comma 1, primo periodo, che
«[l]'esercizio della delega nella materia di cui al presente articolo è finalizzato a modificare la
disciplina delle sanzioni disciplinari e della responsabilità dei dipendenti delle amministrazioni
pubbliche ai sensi dell'articolo 55 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e delle norme speciali
vigenti in materia, al fine di potenziare il livello di efficienza degli uffici pubblici contrastando i
fenomeni di scarsa produttività ed assenteismo». Il comma 2 di tale disposizione disponeva che,
nell'esercizio della delega di cui al citato articolo, il Governo si attenesse ai seguenti princìpi e criteri
direttivi: «[...] lettera e) prevedere, a carico del dipendente responsabile, l'obbligo del risarcimento del
danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia
accertata la mancata prestazione, nonché del danno all'immagine subìto dall'amministrazione».
In attuazione di detta delega, il d.lgs. n. 150 del 2009 ha introdotto nel d.lgs. n. 165 del 2001 l'art. 55-
quinquies (False attestazioni o certificazioni), secondo cui: «1. Fermo quanto previsto dal codice
penale, il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria
presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre
modalità fraudolente, ovvero giustifica l'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o
falsamente attestante uno stato di malattia è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la
multa da euro 400 ad euro 1.600. La medesima pena si applica al medico e a chiunque altro concorre
nella commissione del delitto. 2. Nei casi di cui al comma 1, il lavoratore, ferme la responsabilità
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penale e disciplinare e le relative sanzioni, è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al
compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione,
nonché il danno all'immagine» subiti dall'amministrazione.
In seguito, l'art. 16 (Procedure e criteri comuni per l'esercizio di deleghe legislative di semplificazione),
comma 1, della legge n. 124 del 2015 ha delegato il Governo ad adottare «[...] decreti legislativi di
semplificazione dei seguenti settori [...] a) lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e
connessi profili di organizzazione amministrativa». Quindi, l'art. 17 (Riordino della disciplina del
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), comma 1, lettera s), della legge n. 124 del
2015 ha previsto che «[i] decreti legislativi per il riordino della disciplina in materia di lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche e connessi profili di organizzazione amministrativa sono
adottati [...] nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi, che si aggiungono a quelli di cui
all'articolo 16: [...] s) introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici
dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di
conclusione l'esercizio dell'azione disciplinare [...]».
In attuazione di tale delega l'art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 116 del 2016 ha inserito il comma
3-quater all'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, il quale prevede che, nel caso in cui la falsa
attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza
o con altre modalità fraudolente (comma 1, lettera a), sia accertata in flagranza ovvero mediante
strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze (comma 3-bis), la denuncia al
pubblico ministero e la segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei conti avvengono
entro quindici giorni dall'avvio del procedimento disciplinare. La procura della Corte dei conti, quando
ne ricorrono i presupposti, emette invito a dedurre per danno d'immagine entro tre mesi dalla
conclusione della procedura di licenziamento. L'azione di responsabilità è esercitata, con le modalità e
nei termini di cui all'art. 5 del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di
giurisdizione e controllo della Corte dei conti) - convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio
1994, n. 19 - entro i centoventi giorni successivi alla denuncia, senza possibilità di proroga.
L'ammontare del danno risarcibile è rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione
alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale condanna non può essere
inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di giustizia.
Questa Corte, con sentenza n. 251 del 2016, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, tra l'altro,
dell'art. 17, comma 1, lettera s), della legge n. 124 del 2015, nella parte in cui, in combinato disposto
con l'art. 16, commi 1 e 4, della medesima legge, prevede che il Governo adotti i relativi decreti
legislativi attuativi previo parere in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di
18
Conferenza Stato-Regioni. La medesima sentenza ha precisato inoltre che «[l]e pronunce di
illegittimità costituzionale, contenute in questa decisione, sono circoscritte alle disposizioni di
delegazione della legge n. 124 del 2015, oggetto del ricorso, e non si estendono alle relative
disposizioni attuative. Nel caso di impugnazione di tali disposizioni, si dovrà accertare l'effettiva
lesione delle competenze regionali, anche alla luce delle soluzioni correttive che il Governo riterrà di
apprestare al fine di assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione».
In seguito, il Governo, nell'ambito dei decreti legislativi adottati dopo aver acquisito l'intesa in sede di
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e
Bolzano - al fine di porre rimedio al vizio accertato dalla sentenza n. 251 del 2016 - con il decreto
legislativo 20 luglio 2017, n. 118 (Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 20 giugno
2016, n. 116, recante modifiche all'articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai
sensi dell'articolo 17, comma 1, lettera s, della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di licenziamento
disciplinare), ha previsto all'art. 1 che «[i]l decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116, è modificato e
integrato secondo le disposizioni del presente decreto. Per quanto non disciplinato dal presente decreto,
restano ferme le disposizioni del decreto legislativo n. 116 del 2016» e, all'art. 5 (Disposizioni finali),
che «[s]ono fatti salvi gli effetti già prodotti dal decreto legislativo n. 116 del 2016».
Infine, deve evidenziarsi che, con altro analogo precedente provvedimento (art. 16, comma 1, lettera a,
del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, recante «Modifiche e integrazioni al decreto legislativo
30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17,
comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in
materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»), è stato modificato anche l'art. 55-
quinquies del d.lgs. n. 165 del 2001, stabilendo che «al comma 2, le parole "il danno all'immagine
subiti dall'amministrazione" sono sostituite dalle seguenti: "il danno d'immagine di cui all'articolo 55-
quater, comma 3-quater"», in tal modo uniformando pro futuro la fattispecie del danno all'immagine
considerata dai due articoli, attraverso la regola già introdotta con il precedente d.lgs. n. 116 del 2016.
L'ulteriore fattispecie di danno erariale introdotta con l'art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 116 del
2016, enucleata da quella più generale già prevista dall'art. 55-quater, presenta indubbi aspetti peculiari,
in ragione del venir meno della cosiddetta pregiudizialità penale - in quanto sono dettate disposizioni
che impongono al Procuratore presso la Corte dei conti di agire sollecitamente entro ristrettissimi
tempi, senza attendere né l'instaurazione del processo penale né la sentenza che lo definisce - nonché
della predeterminazione legislativa di criteri per la determinazione del danno in via equitativa, salva la
fissazione di un minimo risarcibile pari a sei mensilità dell'ultimo stipendio percepito dal responsabile.
19
4.- Tanto premesso, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 55-quater, comma 3-quater, del
d.lgs. n. 165 del 2001, inserito dall'art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 116 del 2016, sollevata in
riferimento all'art. 76 Cost., è fondata.
4.1.- A differenza di quanto avvenuto con la precedente legge n. 15 del 2009, laddove il legislatore
aveva espressamente delegato il Governo a prevedere, a carico del dipendente responsabile, l'obbligo
del risarcimento sia del danno patrimoniale che del danno all'immagine subìti dall'amministrazione,
tanto non si rinviene nella legge di delegazione n. 124 del 2015.
L'art. 17, comma 1, lettera s), di detta legge prevede unicamente l'introduzione di norme in materia di
responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti, finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo
nei tempi di espletamento e di conclusione l'esercizio dell'azione disciplinare.
Tale particolare disposizione di delega, come risulta dagli atti preparatori, non era presente nel testo
iniziale del disegno di legge (A.S. n. 1577), ma è stata introdotta con emendamento (n. 13.500) del
relatore nel corso dell'esame in Senato. Nella discussione parlamentare la questione della responsabilità
amministrativa non risulta essere mai stata oggetto di trattazione.
Quindi, la materia delegata è unicamente quella attinente al procedimento disciplinare, senza che possa
ritenersi in essa contenuta l'introduzione di nuove fattispecie sostanziali in materia di responsabilità
amministrativa.
Deve essere ulteriormente sottolineato che detta delega è ricompresa in una più ampia, diretta a dettare
norme di semplificazione. In tale contesto è particolarmente significativa l'espressa prescrizione (art.
16, comma 2, della legge n. 124 del 2015) che, «[n]ell'esercizio della delega di cui al comma 1, il
Governo si attiene ai seguenti princìpi e criteri direttivi generali: a) elaborazione di un testo unico delle
disposizioni in ciascuna materia, con le modifiche strettamente necessarie per il coordinamento delle
disposizioni stesse, salvo quanto previsto nelle lettere successive; b) coordinamento formale e
sostanziale del testo delle disposizioni legislative vigenti, apportando le modifiche strettamente
necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e per adeguare,
aggiornare e semplificare il linguaggio normativo; [...]», in tal modo lasciando al legislatore delegato
ridottissimi margini innovativi, tanto che, nella fissazione degli ulteriori princìpi e criteri direttivi
(come previsto dall'art. 16, comma 3), il successivo art. 17 definisce i decreti delegati come
espressamente finalizzati al «riordino della disciplina in materia di lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche».
20
In proposito, questa Corte ha affermato più volte che, in quanto delega per il riordino, essa concede al
legislatore delegato un limitato margine di discrezionalità per l'introduzione di soluzioni innovative, le
quali devono comunque attenersi strettamente ai princìpi e ai criteri direttivi enunciati dal legislatore
delegante (ex multis, sentenze n. 94, n. 73 e n. 5 del 2014, n. 80 del 2012, n. 293 e n. 230 del 2010).
Non può dunque ritenersi compresa la materia della responsabilità amministrativa e, in particolare, la
specifica fattispecie del danno all'immagine arrecato dalle indebite assenze dal servizio dei dipendenti
pubblici.
4.2.- La disposizione in esame, già testualmente richiamata, prevede una nuova fattispecie di natura
sostanziale intrinsecamente collegata con l'avvio, la prosecuzione e la conclusione dell'azione di
responsabilità da parte del procuratore della Corte dei conti.
Applicando ad essa il criterio di stretta inerenza alla delega precedentemente enunciato, risulta
inequivocabile il suo contrasto con l'art. 76 Cost.
Sebbene le censure del giudice rimettente siano limitate all'ultimo periodo del comma 3-quater dell'art.
55-quater, che riguarda le modalità di stima e quantificazione del danno all'immagine, l'illegittimità
riguarda anche il secondo e il terzo periodo di detto comma perché essi sono funzionalmente
inscindibili con l'ultimo, così da costituire, nel loro complesso, un'autonoma fattispecie di
responsabilità amministrativa non consentita dalla legge di delega.
5.- Devono essere, dunque, dichiarati costituzionalmente illegittimi il secondo, terzo e quarto periodo
del comma 3-quater dell'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, come introdotto dall'art. 1, comma 1,
lettera b), del d.lgs. n. 116 del 2016.
Restano assorbiti i rimanenti profili di censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la costituzione di C.S. nel giudizio di legittimità costituzionale di cui in
epigrafe;
21
2) dichiara l'illegittimità costituzionale del secondo, terzo e quarto periodo del comma 3-quater dell'art.
55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, come introdotto dall'art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 116
del 2016.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 gennaio 2020.
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 10 APRILE 2020.
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