Milanoaprile 2013
via Bagutta, 14 – 20121 Milanotel. +39 02 76 00 22 14fax +39 02 76 00 40 [email protected]
CARLO ORSI
Andrea Bacchi
Matilde di CanossaUn bronzetto di Bernini degli anni Trenta
Andrea B
acchiB
ernini, Matilde di C
anossa
CARLO ORSI
Milanoaprile 2013
Andrea Bacchi
Matilde di CanossaUn bronzetto di Bernini degli anni Trenta
Per la realizzazione di questo catalogo
desidero ringraziare:
Andrea BacchiFernando LoffredoStefano PierguidiSusanna Zanuso
Carlo Orsi
Catalogo a cura di:
Ferdinando Corberi
Indice
«Una statuetta cioè la Contessa Amatilde di bronzo»p. 4
Fortuna di un’invenzionep. 17
«Statue di metallo di sua mano»p. 28
Il monumento alla contessa Matildep. 37
Bibliografiap. 44
GIAN LORENZO BERNINI
(Napoli 1598 – Roma 1680)
La contessa Matilde di Canossa
bronzo, altezza: 40,2 cm
PROVENIENZA:collezione Barberini, Roma
BIBLIOGRAFIA:MUÑOZ 1917, pp. 188-189; WITTKOWER 1955, cat. 33, p. 196; WITTKOWER 1966,p. 202; LAVIN 1967, p. 103; WEIHRAUCH 1967, p. 240; WITTKOWER 1970-1971, pp.11-14; ARONBERG LAVIN 1975, pp. 393, 423, 465-466, 636-637; SCHLEGEL 1978,pp. 165-167; MEZZATESTA 1982, s.i.p.; VISONÀ 1995, p. 101; BACCHI 1996, p. 779;MONTAGU 1996, p. 214, n. 219; AVERY 1997, p. 76; BEWER 1999, pp. 165-166, nota9; MONTANARI 2000, p. 709; GUERRINI 2003, pp. 94-95.
«Una statuetta cioè la Contessa Amatilde di bronzo»
Nel corso degli anni Trenta del Seicento l’impegno professionale di
Gian Lorenzo Bernini è tutto «pubblico», rivolto cioè alle monu-
mentali imprese commissionategli da Urbano VIII Barberini soprat-
tutto per la basilica di San Pietro: quasi solo alcuni busti straordina-
ri rimangono a testimoniare la sua attività nel campo delle opere da
stanza o da galleria; un’attività attestata però anche dal bronzetto raf-
figurante la Contessa Matilde. In quest’opera, infatti, l’artista ha volu-
to eternare nel bronzo per il suo maggiore committente, Urbano
VIII, l’impronta fedele di un modelletto da lui realizzato. Il model-
letto preparatorio, cioè, per la figura principale di uno dei monu-
menti più fortemente voluti dal pontefice, quello della contessa
Matilde, «proda guerriera e duce», «alla chiesa romana scudo», come
l’aveva cantata proprio il Barberini che ne aveva trafugato le spoglie
da San Benedetto Po per portarle a Roma, dove aveva voluto per lei
la prima sepoltura di una donna entro le mura di San Pietro, realiz-
zata tra il 1633 e il 1637.
In questi anni il collezionismo di bozzetti in terracotta era ancora di
là da venire e Bernini, insieme ad Urbano VIII, doveva avere deciso
che la fusione in bronzo avrebbe nobilitato il modelletto, gli avrebbe
garantito una maggiore durevolezza e ne avrebbe altresì consentito la
4
identificare con certezza l’esemplare in questione con quello in
bronzo dorato oggi alla National Gallery of Victoria di
Melbourne, in Australia, provvisto ancora di una base in pietra
«mischia» (ovvero pietra negra venata bianca), e dell’iscrizione
MATHILDI/ GRATI ANIMI/ ERGO/ VRBANVS VIII/ POSVIT4.
Nel 1687, tra i beni del figlio di Maffeo, Francesco Barberini
(1662-1738), ricomparivano entrambi i bronzetti:
Una statuetta cioè la Contessa Amatilde di bronzo con piedestallo di
ebano5.
Una statuetta indorata di metallo, cioè la contessa Amatilde con
basa di pietra6.
Negli inventari Barberini sono dunque citati due bronzetti raffi-
guranti Matilde; l’identificazione di quello in bronzo dorato, come
già detto, è certa, e quello qui in esame, già presso gli eredi
Barberini, è senza dubbio l’altro, che nel corso dei secoli ha perso
la sua originaria, più povera, base in ebano. In merito a quest’ul-
timo, pur non potendo stabilirne la collocazione nel corso degli
anni Trenta del Seicento, è comunque possibile fare qualche ipo-
tesi circa la sua assenza dagli inventari più antichi. È possibile
intanto che, privo dell’iscrizione, non venisse identificato fino a
quando non venne riunito all’esemplare dorato; poteva forse tro-
varsi in ambienti poco prestigiosi ed essere quindi ignorato da chi
redigeva l’inventario e non è neppure da escludere che, a un certo
punto, fosse stato donato da Urbano VIII a qualche personaggio
della sua cerchia che, in seguito, secondo una prassi attestata in
altri casi, l’avrebbe lasciato a sua volta agli eredi del pontefice.
Come per tutti gli altri bronzetti citati negli inventari a cui si è fatto
qui riferimento, il nome dell’autore del modello e/o del fonditore
è taciuto; la questione dell’attribuzione delle due opere è stata però
risolta già da molti anni. Il bronzetto qui esaminato venne pubbli-
cato per la prima volta nel 1917 da Antonio Muñoz, allorché si tro-
vava «nella collezione privata del principe Barberini», a quel
tempo Luigi Sacchetti Barberini (1863-1936). Lo studioso lo aveva
semplicisticamente presentato come un «modelletto» o un «boz-
zetto» eseguito prima dell’opera da collocare in San Pietro. Ne
aveva comunque bene evidenziato le differenze nei confronti della
statua: «nel marmo la matrona ha forme opulente, poderose; largo
è il collo, il volto pieno; e il panneggio forma grandi pieghe, ampie
riproduzione. Fu inoltre il frutto di una precisa scelta quella di
volere mantenere nel bronzo il carattere non perfettamente finito
che doveva contraddistinguere la terracotta e serbare dunque,
anche nel materiale più nobile, la percezione di un pensiero figu-
rativo còlto nel suo divenire. Si trattò peraltro di una pratica del
tutto eccezionale anche all’interno del percorso berniniano e la
ricomparsa dell’esemplare rimasto fino ad oggi presso i discen-
denti del pontefice sollecita a riconsiderare la questione.
Il bronzetto qui in esame proviene infatti dalla collezione
Barberini ed è identificabile con quello citato per la prima volta
nell’inventario post mortem dei beni del pronipote di Urbano
VIII, il principe Maffeo Barberini (1631-1685), inventario stilato
nel 1686, nel quale compaiono insieme due raffigurazioni del
medesimo soggetto:
Due Contesse Matilde di bronzo, cioè una dorata, e l’altra semplice,
con piedestalli, uno di pietra, e l’altro d’ebano1.
L’esemplare dorato, e con piedistallo di pietra, era certamente
quello menzionato una prima volta nell’inventario dei beni del
padre di Maffeo, Taddeo Barberini (1603-1647), a sua volta figlio
di Carlo, fratello del pontefice. Taddeo era morto in esilio a Parigi
e l’inventario dei suoi beni venne redatto a Roma alcuni mesi
dopo la sua scomparsa. Nel febbraio 1648 troviamo infatti regi-
strata a Palazzo dei Giubbonari:
Una statua della Contessa Amatilda di bronzo indorato alto palmi
1 ¾ con suo piedestallo di pietra nera mischia2.
Il bronzo appartenuto a Taddeo ricompare di lì a poco, nel 1649,
descritto più analiticamente, nell’inventario dei beni del fratello di
Taddeo, il cardinale Francesco Barberini (1597-1679):
Una statua di bronzo di Matilda tutta in dorata con un regno in
mano alto d.a statua p.mi uno e mezzo con il suo piedestallo ovato
e scorniciato di pietra negra venata bianca con l’re [i.e. lettere]che
dicono Mathildi3.
La leggera discrepanza fra i due inventari (1648 e 1649) relativa-
mente all’altezza del bronzo – palmi 1 e tre quarti (39,8 cm ca.) a
fronte di un palmo e mezzo (33,5 cm ca.) – si spiega con le con-
suete approssimazioni nel rilevamento delle dimensioni riscontra-
bili molto spesso negli inventari antichi. Inoltre, la citazione par-
ticolarmente puntuale nell’inventario di Francesco permette di
8
1 ARONBERG LAVIN 1975, p. 393, n. WW
2 ARONBERG LAVIN 1975, p. 197, n. 207
3 ARONBERG LAVIN 1975, p. 255, n. 968
4 WITTKOWER 1970-1971, pp. 11-12. Il bronzo oggi a Melbourne misura 40,5 cm
Alla pagina precedente (Figure 1,2,3,4):In senso orario partendo in alto a sin.:Contessa Matilde, Raleigh; Contessa Matilde, Berlino (KunstgewerbeMuseum);Contessa Matilde Cambridge (Mass.);Contessa Matilde, Melbourne
5 ARONBERG LAVIN 1975, p. 423, n. 17
6 ARONBERG LAVIN 1975, p. 423, n. 23
9
Alla pagina seguente (Figure 5,6,7,8):In senso orario partendo in alto a sin.:Contessa Matilde, Raleigh; Contessa Matilde, Berlino (KunstgewerbeMuseum);Contessa Matilde Cambridge (Mass.);Contessa Matilde, Melbourne
cannellature, e si distacca molto dal corpo. Invece il modellino di
bronzo è più raccolto; le forme sono più fini; il panneggio più stret-
to intorno alla persona; e il manto non si annoda affagottato intor-
no alla cintola, ma è più serrato e aderente. Il volto della gentil-
donna è fine, i capelli raccolti e tirati, mentre nella statua grande
ricadono abbondantemente dalle due parti»7.
Fu poi Rudolf Wittkower a notare come il trattamento della parte
7 MUÑOZ 1917, pp. 188-189
12
8 WITTKOWER 1955, p. 256, cat. 33;WITTKOWER 1970-1971, pp. 11-13. Lostudioso poté esaminare il bronzetto aPalazzo Barberini negli anni Cinquantadel secolo scorso allorché appartenevaal figlio di Enrico, Urbano Barberini,scomparso nel 1973
posteriore, che traduce fedelmente l’aspetto abbozzato di una ter-
racotta, tradisse la derivazione diretta da quello che doveva esse-
re stato il modelletto piccolo approntato da Bernini per l’appro-
vazione da parte del pontefice8. Siffatti modelletti non erano ini-
zialmente realizzati per essere fusi in bronzo, ma solo per servire
da traccia per l’esecuzione dei modelli in grande, destinati a loro
volta alla traduzione in marmo (o alla fusione). L’opera in esame è
Figura 9:Fotografia storica della Matilde giàBarberini, pubblicata da Muñoz nel 1917Alla pagina a fianco (Figura 10):Monumento alla contessa Matilde,Roma, basilica di San Pietro, part.
quindi del tutto eccezionale all’interno del corpus berniniano, ed
è bene chiarire fin da subito come, al pari del Baldacchino o del
Monumento funebre di Urbano VIII, pur non essendo certo para-
gonabile per importanza a quelle imprese colossali, deve essere
collocata all’interno della seconda delle quattro categorie delle
opere berniniane individuate da Wittkower, quella cioè delle scul-
ture «realizzate, in maggiore o minore misura, da lui». È ben noto,
infatti, che Wittkower, a tutt’oggi il massimo studioso dell’artista,
individuò quattro categorie di opere berniniane: «le opere da lui
disegnate, ed eseguite di sua mano; quelle realizzate, in maggiore
o minore misura, da lui; altre, nelle quali egli teneva saldamente le
redini, contribuendo poco o nulla all’esecuzione; ed infine quelle
per le quali non fece altro che alcuni schizzi preliminari»9. Se tra
le prime andavano naturalmente annoverati prima di tutto i cele-
berrimi marmi Borghese, dal Plutone e Proserpina all’Apollo e
Dafne, tra le seconde Wittkower indicava, sintomaticamente, pro-
prio due opere «in metallo», il Baldacchino e il Monumento fune-
bre di Urbano VIII, entrambi in San Pietro10. Sempre Wittkower,
nella sua fondamentale monografia sull’artista, fin dal 1955 aveva
sottolineato come il bronzetto qui in oggetto non fosse una repli-
ca dalla figura della contessa del Monumento funebre di Matilde di
Canossa in San Pietro, realizzato da Bernini con ampio intervento
della bottega11, bensì una fusione da un modelletto approntato
dall’artista in preparazione di quella monumentale statua in
marmo, poi scolpita in gran parte da un suo collaboratore,
Niccolò Sale. A un modelletto preparatorio per la statua della
contessa allude del resto esplicitamente una relazione autografa
dell’artista, stesa nel 1644, alla conclusione dei lavori al monu-
mento, nella quale Gian Lorenzo precisa il proprio ruolo, affer-
mando fra l’altro di avere eseguito «di sua mano tutti li modelli
del’opere di scoltura, cioè dela statua dela matilda, del bassorilie-
vo e delli quattro angeli»12. Da allora il riferimento a Bernini del
bronzetto barberiniano non è mai stato messo in discussione dalla
critica.
Fortuna di un’invenzione
Per circa quarant’anni il bronzetto pubblicato da Muñoz rimase
un esemplare unico ma poi, a partire dalla fine degli anni
Cinquanta del secolo scorso, iniziarono a emergere numerose,
nuove versioni della composizione. Oggi ne sono note una dozzi-
na ma nessuna di quelle comparse negli ultimi sessant’anni ha
messo seriamente in discussione il primato del bronzetto
Barberini, quello che Wittkower riteneva richiesto proprio da
Urbano VIII per possedere «a small bronze as a memento of the
venerated Countess in his private apartment»13. Manca uno studio
comparativo delle varie versioni oggi note, uno studio reso più
complicato dal fatto che solo una parte di questi bronzi sono nel
frattempo approdati in collezioni pubbliche e dunque la difficile
accessibilità e la mancanza di buone fotografie per alcuni degli
esemplari citati nella bibliografia non consente una analisi sistema-
tica. Il riemergere di tanti bronzetti raffiguranti la contessa Matilde
negli anni successivi alla pubblicazione del Bernini di Wittkower
(1955), dove era riprodotto quello Barberini qui discusso, forse
non è casuale e costituisce indubbiamente un capitolo minore ma
significativo della fortuna berniniana, una vicenda dunque che vale
la pena ripercorrere nelle sue tappe fondamentali.
La sequenza si apre con la Contessa Matilde acquistata nel 1958
dal North Carolina Museum of Art, un bronzetto che reca incisa
sulla parte posteriore della base la scritta OPUS EQUITIS BERNINI14.
Successivamente, nel 1970-71, Rudolf Wittkower rendeva note
altre tre versioni della composizione: la prima si trovava allora
nella collezione Max Falk a New York15, la seconda apparteneva
all’antiquario Cyril Humphris16 e la terza, in bronzo dorato, era
stata appena venduta da Heim alla National Gallery of Victoria a
Melbourne17. Di lì a poco, la pubblicazione degli inventari
Barberini consentiva di stabilire un’antica provenienza dalla col-
lezione di quella famiglia non solo per l’esemplare ancora in loro
proprietà ma anche, come abbiamo già visto, per quello del museo
di Melbourne18. Frattanto, nel 1975, la Contessa Matilde di Cyril
Humphris entrava nei Musei statali di Berlino e, in occasione della
sua pubblicazione, Ursula Schlegel segnalava un’altra versione
conservata sempre a Berlino19.
1716
12 POLLAK 1931, II, p. 207, doc. 617. Giàsolo questa dichiarazione rende difficilecondividere l’ipotesi di attribuire la rea-lizzazione del modelletto da cui venne-ro tratti i bronzetti a Stefano Speranza,cui i documenti assegnano l’esecuzionedel rilievo nel Monumento (VISONÀ
1995, p. 101). Inoltre Stefano Speranzarimane di fatto uno scultore privo diopere autonome e dunque di impreci-sata fisionomia artistica. E soprattutto icaratteri stilistici del modelletto, quali siricavano dai bronzetti, appaiono quellitipici e inconfondibili di Gian Lorenzo
9 WITTKOWER 1958, p. 144; MONTANARI
2004, p. 180
10 WITTKOWER 1958, p. 164, note 33-34
11 BELDON SCOTT 1985; BACCHI, TUMIDEI
1998, pp. 26-31 e 104; MONTANARI
2000, pp. 707-710
13 WITTKOWER 1970-71, p. 12
14 WITTKOWER 1970-71, p. 12. Il bronzetto, dapprima nella collezione diKarl Henschel a Kassel, era appartenutoquindi a G. Cramer all’Aia in Olanda eda questi era stato venduto al Museodi Raleigh
15 Ibidem, p. 12 e fig. 20. Questo bronzetto reca incisa sulla base la scritta: CONTESSA MATILDA
16 Ibidem, p. 12 e fig. 21
17 Ibidem, p. 12 e figg. 15, 17. Wittkowersegnala come vi fosse una tradizioneche voleva che questo bronzetto si trovasse in Palazzo Altieri, fosse poipassato ai Ruspoli e quindi in una colle-zione di Parigi. Fra le illustrazioni checorredavano i testi sulla scultura prepa-rati da Wittkower per le MellonLectures (testi che sarebbero stati pub-blicati dopo la sua scomparsa nel1977), lo studioso segnalava una versio-ne della Contessa Matilde indicata comenella Art Gallery della University ofSaint Thomas a Houston ma che, esa-minando la fotografia, sembrerebbe ilbronzo già Falk e oggi a Cambridge
18 ARONBERG LAVIN 1975, pp. 197, 255,393, 423
19 SCHLEGEL 1978, pp. 164-167Alla pagina precedente (Figura 11):Contessa Matilde, Melbourne
6. Berlino, Kunstgewerbe Museum im Schloss Köpenick; h. 40
cm. Nel pubblicare la versione al punto 5, la Schlegel (1978, p.
166) segnalava altresì un altro bronzetto con la Contessa Matilde
che nel 1978 si trovava a Köpenick e che la studiosa riteneva pro-
venisse dalla Kunstkammer dei re di Prussia. Di questa versione
non sono state pubblicate riproduzioni fotografiche;
7. New York, Michael Hall, (cfr. BEWER, 1999, p. 166; non ripro-
dotta);
8. New York, Michael Hall (già Christie’s, Londra, 2 dicembre
1997, lotto 116); h. 39,1 cm;
9. Stati Uniti, collezione privata (già Sotheby’s Londra, 11 dicem-
bre 1980, lotto 264; vd. MEZZATESTA 1982, n. 4, h. 41,5 cm). Non
è possibile stabilire se questa versione sia quella citata da
Francesca Bewer (1999, p. 166) come in una collezione privata
statunitense;
10. Amsterdam, C. Vecht;
11. Roma, collezione privata (cfr. BEWER 1999, p.166 che non la
riproduce ma la definisce un «very rough cast» che presenta anco-
ra visibili i «core pins»);
12. Collezione privata, già Milano, Carlo Orsi (si tratta di una ver-
sione in bronzo dorato, h. 39,2 cm)24.
A Francesca Bewer dobbiamo alcune interessanti osservazioni
tecniche, fondate però soltanto sull’esame dell’esemplare di
Cambridge (il solo illustrato nel testo), dei due di Michael Hall e
di quello di collezione privata romana. Già Mezzatesta aveva indi-
cato come verosimilmente fosse stato tratto uno stampo in stucco,
un «cavo» in più pezzi della terracotta (o della cera25?) originale di
Bernini e, da questo, fossero poi stati realizzati vari esemplari in
cera per le diverse fusioni. Ogni cera sarebbe poi stata rilavorata
e questo spiega le varianti che distinguono i diversi esemplari in
dettagli quali ad esempio le decorazioni della tiara; nondimeno è
ben possibile che alcune versioni derivino direttamente da un
bronzo e solo uno studio sistematico dei diversi esemplari potreb-
be recare utili chiarimenti sulla questione.
Come evidenzia la lista delle varie versioni non sono disponibili
misurazioni attendibili per tutti gli esemplari (in alcuni casi poi le
dimensioni di uno stesso bronzo variano da pubblicazione a pub-
Nel 1982 alcuni di questi bronzetti venivano quindi esposti al
Kimbell Art Museum di Fort Worth in una mostra sullo scultore
organizzata da Michael Mezzatesta: un’apposita sezione era dedi-
cata proprio ai bronzetti della Contessa Matilde e vi comparivano
la versione di Raleigh, quella allora di Max Falk20 e un terzo esem-
plare in collezione privata che proveniva da una vendita
Sotheby’s21.
Il Fogg Art Museum di Cambridge (Massachusetts) avrebbe inve-
ce acquistato nel 1998 la versione della Matilde appartenuta a
Max Falk e già pubblicata da Wittkower22. Venne quindi promos-
so un fascicolo monografico berniniano dell’«Harvard University
Art Museum Bulletin», nel quale Francesca Bewer esaminava pro-
prio il bronzetto appena entrato al Museo e stilava un elenco delle
varie versioni della composizione. Oltre alla maggior parte di
quelle già pubblicate, la studiosa ne segnalava altre quattro: una
presso Michael Hall a New York, una seconda già Christie’s
(London, 2 dicembre 1997, lotto 116), acquisita successivamente
anche questa da Hall, una terza in collezione privata americana
(forse identificabile con quella pubblicata da Mezzatesta nel 1982)
e una quarta in una collezione privata romana23.
Un’ulteriore versione della composizione, presso C. Vecht ad
Amsterdam, era stata resa nota da Charles Avery all’interno della
monografia berniniana da lui pubblicata nel 1997, mentre in
seguito è comparsa una seconda versione in bronzo dorato presso
Carlo Orsi a Milano, presentata alla XXII Biennale dell’Antiqua -
riato di Firenze del 2001 e oggi in collezione privata.
Dunque le versioni oggi note del bronzetto dovrebbero essere le
seguenti:
1. Milano, Carlo Orsi (già Roma, collezione Barberini); h. 40,2 cm;
2. Melbourne, National Gallery of Victoria (già Roma, collezione
Barberini); h. 40, 5 cm;
3. Cambridge (Massachusetts), Fogg Art Museum (inv. 1998.1);
h. 40,3 cm;
4. Raleigh North Carolina Museum of Art (inv. 58.4.20); h. 40 cm;
5. Berlino, Kunstgewerbe Museum im Schloss Köpenick (inv.
1977, 159); h. 39,4 cm; si tratta della versione pubblicata dalla
Schlegel nel 1978 allorché si trovava nel museo di Berlino-
Dahlem, passata in seguito alla sede attuale;
2120
20 MEZZATESTA (1982, nn. 2-4, s.i.p.)aveva segnalato che questo bronzo nel1941 era stato messo in vendita aNew York presso le Parke-BernetGalleries (asta 30 aprile-3 maggio, lotto1306) e che proveniva dalla collezionedella moglie di Henry Walters
21 Sotheby’s, London, 11 dicembre1980, lotto 264. Stando a Mezzatesta(1982), questo bronzo misura 41,5 cme sarebbe quindi più alto della maggiorparte degli altri. Ma, a giudicare dallafoto, la base sembra più alta di quelladegli altri esemplari. Inoltre Mezzatestasegnalava come questa versione nonpresentasse sul retro quei segni dellaspatola, visibili di contro negli altriesemplari fino a quel momento noti
22 WITTKOWER 1970-71, p. 12. Alcunefoto di un bronzo che sembra senzadubbio quello oggi a Cambridge si conservano nella fototeca delKunsthistorisches Institut di Firenze (inv. 498423-498429) e vi si affermache la scultura si trovava a Princetonnella collezione di Irving Lavin
23 Non mi è possibile stabilire se laContessa Matilde di collezione privata(già Sotheby’s 1980) illustrata daMezzatesta nel 1982 sia la stessa indi-cata dalla Bewer (1999, p. 166) sempli-cemente come di collezione privatastatunitense
24 Non è chiaro se possa essere identificato con uno degli esemplarinoti quello di cui esiste una vecchiafotografia presso il KunsthistorischesInstitut di Firenze (inv. 173713), indicato come di ubicazione ignota
25 L’ipotesi che il modelletto di partenzafosse in terracotta sembrerebbe la piùverosimile anche perché non sonogiunti fino a noi modelletti in cera riferibili a Bernini. Nondimeno si dovràricordare come Joachim von Sandrart,che visitò lo studio di Bernini negli anniTrenta, affermi di avervi visto oltre venti modelli in cera per il Longino(cfr. SANDRART 1675, p. 414)
Alla pagina precedente (Figure 12,13,14):In senso orario partendo in alto a sin.:Contessa Matilde, Raleigh; Contessa Matilde, Berlino (KunstgewerbeMuseum);Contessa Matilde Cambridge (Mass.);
blicazione); inoltre la Bewer ha osservato che «due to the number
of variables introduced by distortions resulting from the manipu-
lation of the wax, casting flaws or chasing the metal, most measu-
rements are of limited use26». Un elemento dunque, quello delle
dimensioni, che non aiuta più di tanto nel tentativo di stabilire
una gerarchia fra i vari esemplari. Significativa invece, anche da
questo punto di vista, è piuttosto la storia collezionistica delle
diverse versioni. Gli inventari secenteschi barberiniani menziona-
no solo due bronzetti con questo soggetto, identificabili in quello
di Melbourne e in quello qui discusso mentre tutte le altre versio-
ni sono venute alla luce nella seconda metà del XX secolo e per
nessuna di queste è possibile individuare una storia più antica. Ciò
non significa, è ovvio, che si tratti di fusioni moderne ma, nondi-
meno, va ribadito il primato dei due esemplari barberiniani. Un
primato confermato peraltro dalla qualità delle fusioni e della suc-
cessiva rinettatura; già Wittkower, del resto, segnalava come i
bronzi Barberini, insieme a quello di Cyril Humphris, fossero
«beautifully chased» con «rich and warm surfaces27». La campa-
gna fotografica realizzata in questa occasione credo confermi pie-
namente lo straordinario livello qualitativo della versione già
Barberini.
Con l’eccezione dell’esemplare di collezione privata pubblicato da
Mezzatesta (il solo peraltro con una base rettangolare), quasi tutte
le varie versioni presentano sul retro le medesime caratteristiche
del bronzetto barberiniano: è possibile quindi che si tratti di fusio-
ni antiche, realizzate forse sempre a partire dal medesimo model-
letto, o comunque dal primo esemplare. I bronzetti più accessibili
e quindi meglio esaminabili sono naturalmente quelli apparte nenti
a collezioni pubbliche (Melbourne, Cambridge, Berlino, Raleigh)
alcuni dei quali sono con evidenza fusioni meno nitide, più stanche
rispetto a quella Barberini. Un aspetto che risulta evidente, ad
esempio, nel particolare dei piedi, ben individuati anche nelle dita
nel nostro esemplare e in quelli di Melbourne e Raleigh, quasi
informi invece in quelli di Berlino e Cambridge, a denunciare la
possibile derivazione di questi ultimi da un bronzetto e non dall’o-
riginaria terracotta berniniana. Il volto della Matilde barberiniana
presenta una qualità quasi impressionistica, risultato di un inter-
vento di rinettatura molto sottile, vòlto a mantenerne il carattere
24
Alla pagina precedente (Figure 15,16,17,18): In senso orario partendo in alto a sin.:Contessa Matilde, Raleigh; Contessa Matilde, Berlino (KunstgewerbeMuseum);Contessa Matilde Cambridge (Mass.);Contessa Matilde, Melbourne
27 WITTKOWER 1970-1971, p. 13
26 BEWER 1999, p. 167
zettistico accanto ad altre rinettate con un minuziosissimo lavoro
di cesello vòlto a individuare le varie superfici: dalle stoffe agli
incarnati, specificate da diversi gradi di lavorazione con lo scopo
di esaltare le vibrazioni chiaroscurali. Se non sappiamo chi ha
fuso questo bronzo, vi è però da credere che Bernini abbia forni-
to precise indicazioni al fonditore. Non si spiegherebbe diversa-
mente la volontà di far trapelare dal metallo la freschezza scabra
della terracotta: un aspetto che, come vedremo meglio più avan-
ti, troviamo anche in altre opere eseguite da Bernini negli anni
Trenta del Seicento e che, a quanto mi risulta, non si ritrova in
altri bronzi romani dell’epoca.
A giudicare dai bronzetti, la terracotta (o la cera) da cui Bernini
partiva doveva essere un modelletto, un’opera dunque complessi-
vamente rifinita nelle parti principali ma ancora in grado di
mostrare la freschezza del bozzetto, specie nel retro.
Lo status di prima fusione del bronzetto qui in discussione è com-
provato infine non solo dalla qualità e dalla sua provenienza, ma
anche dall’assenza di ogni iscrizione. Il bronzetto di Raleigh reca
nella base, sul retro, l’indicazione OPUS EQUITIS BERNINI e sulla
fronte quella di COMTESSA MATILDA, variata in CONTESSA MATILDA
nell’esemplare di Cambridge. Per un’opera destinata a rimanere
nelle collezioni barberiniane non era certo necessario specificare
l’autore dell’invenzione, né tanto meno il soggetto. Come aveva
già affermato Wittkower, quindi, se ne deduce che il bronzetto qui
in esame fosse stato fuso come ricordo per il pontefice commit-
tente, mentre quello dorato, e provvisto di un’elegante iscrizione
in latino posta sulla preziosa base in pietra «mischia» (non diret-
tamente sul bronzetto), poteva essere stato pensato come un dono
per una figura di prestigio (magari semplicemente per uno dei
componenti della famiglia Barberini29).
Da un punto di vista strettamente stilistico, il bronzetto barberi-
niano della Matilde, che dovrebbe risalire al 1635 circa, appartie-
ne, al pari del corrispondente marmo in San Pietro, a quella che è
stata definita la fase classicista di Bernini, sostanzialmente rivalu-
tata dalla critica più recente dopo i numerosi attacchi di tanti stu-
diosi30. Se l’immagine della contessa non ha certo l’irruenza del
San Longino, la cui esecuzione, del tutto autografa, è immediata-
mente successiva, questo si deve certamente al soggetto stesso del-
27
bozzettistico, diversamente da quanto osserviamo negli esemplari
di Berlino e Cambridge. Nel bronzo di Berlino inoltre la resa del
diadema appare molto rifinita ma fraintende, nel taglio smussato
delle gemme, la soluzione studiata da Bernini che ritroviamo inve-
ce nel nostro bronzetto e in quelli di Melbourne e Raleigh.
Anche a confronto con la versione di Raleigh – una delle migliori –
quella Barberini appare più sottilmente rifinita, in virtù di una lavo-
razione del bronzo che mira ad esaltare il carattere vibrante e mosso
delle superfici. Si vedano ad esempio le tracce del minutissimo
lavoro di cesello in corrispondenza del collo o del risvolto della
veste e anche la maggiore incisività e nitidezza dell’intaglio nelle
chiavi, tanto nella parte finale quanto nell’impugnatura. Quanto
all’aspetto più abbozzato della versione qui discussa a confronto
con quella di Melbourne (per la quale si dovrà però tenere in
conto l’effetto della doratura), è intanto istruttivo osservare la
diversità con cui sono rese nei due bronzi le decorazioni della
tiara: ben delineate nell’esemplare australiano, indicate in modo
più compendiario in quello qui presentato. Ma solo un confronto
diretto e ravvicinato fra gli originali consentirebbe di valutarne in
modo sistematico le singole differenze che le riproduzioni foto-
grafiche non sempre consentono di precisare.
Già la Bewer osservava come in alcuni esemplari compaiano sulla
superficie una serie di linee sottili e rilevate ad indicare il segno
della giuntura fra le varie parti del cavo, un dettaglio che ritrovia-
mo anche nel bronzetto qui esaminato, ad esempio nella testa, in
corrispondenza dei capelli. La studiosa affermava inoltre che, per
quanto riguarda il retro con le superfici abbozzate, i bronzetti
lasciano scorgere solo parzialmente la freschezza della terracotta.
Una considerazione del tutto condivisibile di fronte all’esemplare
di Cambridge (rivisto recentemente alla mostra delle terrecotte
berniniane28), discutibile invece davanti alla illusionistica fragran-
za materica che anche la foto qui pubblicata restituisce piena-
mente per l’esemplare Barberini (che, va ricordato, la Bewer sem-
bra conoscere solo attraverso le foto): un bronzetto che, soprat-
tutto in questa parte, appare difficilmente distinguibile da una ter-
racotta patinata a finto bronzo.
Una ricognizione ravvicinata del bronzetto Barberini mette in
luce proprio come vi convivano parti di indubbio carattere boz-
28 New York 2012, pp. 132-135
26
29 WITTKOWER 1970-1971, pp. 11-12
30 Si veda, a tale proposito, BELDON
SCOTT 1985, p. 119
2928
dal Monumento funebre di Urbano VIII alla Cattedra di San Pietro.
Si spiega così perché Pier Filippo Bernini, il primogenito dello
scultore, potesse indicare come di sua mano queste opere del
padre. Nei primi anni Settanta del Seicento, infatti, quando Gian
Lorenzo era quasi al termine della sua lunga e prolifica carriera,
Pier Filippo stilò un elenco delle opere del padre, via via aggior-
nato, che sarebbe poi stato pubblicato in appendice della biogra-
fia di Filippo Baldinucci, uscita a Roma all’indomani della morte
l’opera, non ad un’improbabile influenza sull’artista da parte del
suo maggiore rivale nella scultura del tempo, Alessandro Algardi,
che a quella data non aveva ancora scolpito nulla di davvero
monumentale che potesse costituire un parametro di riferimento
per Gian Lorenzo. La ricchezza del panneggio, in particolare,
certo più convincente grazie al suo effetto bozzettistico, quasi
magmatico, del bronzo, nella sua traduzione in formato ridotto
dell’opera qui presentata, non può che essere indicata come un
risultato tipicamente «barocco», in un inedito (per Bernini) «com-
promesso classicista31».
«Statue di metallo di sua mano»
Il problema di Bernini scultore in bronzo è un tema spinoso, più
volte affrontato dalla critica novecentesca32. A questo proposito in
particolare, Jennifer Montagu ha invitato alla massima cautela,
ritenendo di fatto assai improbabile la diretta partecipazione di
Bernini alla realizzazione di bronzetti tratti dai suoi modelli33.
Nonostante la grande studiosa abbia giustamente rivalutato il
ruolo fondamentale giocato da artigiani specializzati e fonditori
per la nascita di opere in bronzo complesse come il Baldacchino34,
non possono però esserci dubbi che anche per i contemporanei di
Bernini, così come per noi oggi, la traduzione di un bozzetto o di
un modelletto in bronzo era un’operazione assai diversa da quel-
la della sua possibile traduzione in marmo: la prima era conside-
rata un processo prima di tutto tecnico, che l’autore dell’opera
non doveva necessariamente svolgere in prima persona, la secon-
da, invece, non poteva essere affidata ad un collaboratore senza
che venisse messa in discussione l’autografia della scultura. Se
quindi gli Angeli del ponte di Castel Sant’Angelo sono stati giu-
stamente indicati dalla Montagu come esempi paradigmatici di
Bernini Sculptures not by Bernini35, lo stesso discorso non può
essere valido per i bronzi. Non a caso le guide dell’epoca indica-
no spesso, come nel caso dei Fiumi della fontana di Piazza
Navona, anche i nomi degli scultori che tradussero in marmo le
invenzioni del maestro, mentre solo attraverso gli scavi documen-
tari novecenteschi abbiamo appreso i nomi di coloro che presero
parte alla fusione delle grandi realizzazioni bronzee berniniane,
del grande maestro avvenuta nel 168036. In una versione di quella
lista databile tra la fine del 1675 e l’inizio del 1676, e contenuta
nelle carte di Cristina di Svezia conservate a Stoccolma, le opere
erano divise in quattro grandi sezioni, ovvero i Retratti, le Statue
di marmo, le Statue di metallo di sua mano e le Opere d’architettu-
ra, e miste37: per quelle in bronzo, quindi, veniva specificato di sua
mano, una precisazione che non era sembrata necessaria in meri-
to a quelle in marmo. I contemporanei di Bernini sapevano bene
32 Cfr. da ultimo MONTANARI 2009
33 MONTAGU 1996, pp. 3-4; MONTANARI
2004, p. 180
34 MONTAGU 1989, pp. 70-75
35 MONTAGU 1985
31 BACCHI, TUMIDEI 1998, p. 26
37 D’ONOFRIO 1967, pp. 434-438
36 MONTANARI 1998, p. 403
Figura 19:Gian Lorenzo Bernini, Monumento alla contessa Matilde, Roma, basilica di San Pietro, particolare del rilievo
come il grande artista non fosse mai stato un fonditore di profes-
sione, e certo nessuno avrebbe mai potuto pensare che Gian
Lorenzo avesse fuso da solo i quattro colossali Padri della Chiesa
alla base dell’enorme Cattedra di San Pietro nella tribuna della
basilica vaticana, pure elencati in quella lista; l’espressione di sua
mano serviva sostanzialmente a indicare la paternità dell’invenzio-
ne, della realizzazione dei modelli ma anche una stretta sorve-
glianza nelle fasi di fusione e rinettatura. Opere da considerarsi
quindi, tanto per i parametri dell’epoca quanto per noi oggi, delle
creazioni assolutamente autografe dell’artista. L’elenco appronta-
to da Pier Filippo Bernini era piuttosto sintetico, e considerava
quasi unicamente le grandi opere monumentali in San Pietro.
Anche se potrebbe sembrare paradossale, il bronzetto della
Matilde, fusione fedele di un modelletto perduto di Bernini, è
dunque, lo ripetiamo, un’opera ascrivibile alla seconda delle quat-
tro categorie individuate da Wittkower, mentre lo stesso
Monumento funebre di Matilde di Canossa in San Pietro, scolpito
materialmente dai vari Niccolò Sale, Stefano Speranza, Andrea
Bolgi e Luigi Bernini, rientra nella terza, quella delle opere nelle
quali il maestro «tenne saldamente le redini, ma attivamente con-
tribuì poco o niente all’esecuzione38». Il carattere bozzettistico del
bronzetto barberiniano, connotato da una finitura scabra che non
mira ad ottenere superfici estremamente pulite e traslucide ma
piuttosto a sottolineare la prossimità del bronzo a materiali mor-
bidi come la terracotta e la cera e a restituirne un’irregolarità ric-
chissima di modulazioni chiaroscurali, assolutamente in linea con
quanto vediamo nei bronzi certamente fusi sotto la direzione del
maestro, a partire da quello del Ritratto di Urbano VIII in bronzo
e porfido anch’esso ancora oggi presso gli eredi del pontefice e
databile al 1632 circa39, è un’altra conferma dell’autografia dell’o-
pera. Si tratta, infatti, di una caratteristica davvero sorprendente,
che può trovare spiegazione proprio in una precisa scelta da parte
dell’artista: negli anni Trenta, infatti, Bernini sperimenta una sorta
di «non finito», forse di ideale ascendenza michelangiolesca, non
solo nel bronzo, ma anche nel marmo40. Nel San Longino colloca-
to in uno dei pilastri della cupola di San Pietro (1629-1638) è evi-
dente ovunque la finitura a scalpello dentato, che contrasta forte-
mente con il trattamento iper-levigato della Santa Veronica di
30
40 Un «non finito» che compare giànelle opere del padre di Gian Lorenzo,Pietro Bernini, come testimonial’Assunzione della Vergine in Santa MariaMaggiore a Roma e il Carlo Martellodella controfacciata del Duomo diNapoli, recentemente riconosciutoglida Fernando Loffredo (2010, p. 89)
38 WITTKOWER 1958, pp. 144 e 164,nota 35
39 BACCHI 2009, pp. 254-256
Francesco Mochi. Una finitura che ritroviamo, alle stesse date,
anche in vari passaggi della statua di Urbano VIII dei Palazzi
Capitolini (1635-1640). E proprio nel Monumento funebre a
Matilde di Canossa si ritrova il più clamoroso esempio di questa
innovativa scelta berniniana: il rilievo del sarcofago, la cui esecu-
zione venne affidata al già citato Stefano Speranza, esibisce la
medesima finitura a scalpello dentato, paragonabile a quella che si
vede nel retro del bronzetto della Matilde, senza dubbio voluta
proprio da Bernini, a dimostrazione che non era solo la distanza
33
dall’occhio del riguardante a determinare un diverso grado di fini-
tura, poiché in questo caso la statua di Matilde, posta più in alto e
in secondo piano, appare perfettamente lustrata laddove il rilievo,
assai più vicino all’occhio, mostra quest’aspetto quasi non finito.
Se Bernini non avesse diretto personalmente la fusione del suo
modelletto, o non avesse comunque dato direttive in proposito,
sarebbe stato più naturale per un allievo o imitatore rinettare il
bronzo fino ad ottenere quegli effetti di lucentezza e politezza che
lo stesso Bernini avrebbe perseguito nei suoi più tardi, autografi
Crocifissi bronzei, ma che non era evidentemente tra i suoi obiet-
Figura 20:Monumento alla contessa Matilde,Roma, basilica di San Pietro, part.
tivi negli anni Trenta41. Il nome dell’autore materiale della fusione
non è al momento individuabile. Nel 1621 era stato Sebastiano
Sebastiani a fondere i busti di Paolo V e Gregorio XV42 e poco
dopo, nel 1623-24, ancora Sebastiani insieme a Giacomo
Laurenziani aveva realizzato la traduzione in bronzo del model-
letto in cera del Ritratto di Paolo Giordano Orsini eseguito da
Bernini (le due opere sono probabilmente identificabili, rispetti-
34
vamente, con gli esemplari del Metropolitan Museum di New
York e del Plymouth City Museum and Art Gallery43). Sebastiani
era già morto nel 1626, mentre Laurenziani sarebbe scomparso
nel 1650 e avrebbe collaborato con Gian Lorenzo anche in altre
occasioni, come per il perduto Busto di Urbano VIII già nel refet-
torio della Trinità dei Pellegrini di Roma. Si dovranno poi qui
ricordare i fonditori documentati nell’impresa del Baldacchino
(1624-1633), in anni cioè non lontani dalla realizzazione del
Monumento di Matilde di Canossa: lo stesso Laurenziani, Orazio
Albrizzi, Gregorio de Rossi, Francesco Beltramelli, Innocenzo
Albertini e Ambrogio Lucenti. In particolare quest’ultimo avreb-
be lavorato con Bernini anche nel 1640, realizzando la fusione del
Busto di Urbano VIII del Duomo di Spoleto44. Per il Monumento
a Urbano VIII invece, in un primo tempo (1628-1630), quando
cioè si lavora alla statua del pontefice, troviamo gli stessi fondito-
ri del Baldacchino (Orazio Albrizzi, Gregorio de Rossi), peraltro
costantemente seguiti da Bernini che, nel momento della fusione
dichiara: «se bene sto convalescente, non mi parto dal focho ne
giorno ne notte che cosi e necessario»45. Successivamente (1639-
1643), allorché si eseguono le altre parti in bronzo, il fonditore è
Cesare Sebastiani, probabilmente un parente di Sebastiano.
Resta il fatto, però, che di nessun altro modelletto berniniano
sono giunte a noi tante fusioni come queste della Contessa
Matilde, e sorprende davvero il numero così alto di esemplari
noti. Se infatti, come ha osservato la Bewer, sono numerose le
«reductions», i bronzetti cioè derivati dalle opere monumentali
di Bernini in larga misura eseguiti fuori dal controllo del mae-
stro, molto più rari sono i «casts of models», categoria in cui,
oltre ai bronzetti con la contessa Matilde, è stato ipotizzato
possano rientrare il Costantino dell’Ashmoleam Museum di
Oxford e il Carlo II di collezione privata46. Uno statuto più incer-
to spetta ad altri bronzi come la Sant’Agnese e la Santa Caterina
(collegabili a due delle figure del colonnato), ma anche al Busto
di Richelieu e al Nettuno e il delfino47. Il solo confronto possibi-
le per il bronzetto barberiniano della Matilde, quanto alla fortu-
na di un determinato modello, è la Sant’Agnese, nota in cinque
esemplari, anch’essa tratta da un modelletto in terracotta,
eseguito tuttavia molto probabilmente da Lazzaro Morelli, il
principale collaboratore di Gian Lorenzo per il Colonnato48.
È probabile che fosse la valenza politica dell’immagine di Matilde
di Canossa a sollecitare la realizzazione di tante versioni di quel
bronzetto, destinate ad essere inviate agli ambasciatori e ai
regnanti d’Italia e d’Europa. Negli stessi anni del resto Urbano
VIII commissiona a Giovan Francesco Romanelli la decorazione
ad affresco con Storie della Contessa Matilde di un’intera sala dei
35
41 Su questi cfr. MONTANARI 2009
42 Los Angeles 2008, pp. 92-99
46 Per il Costantino si veda WEIHRAUCH
1967, p. 240; PENNY 1992, p. 15; BEWER
1999. Per il Carlo II, FAGIOLO DELL’ARCO
2002, pp. 122-123
44 Le notizie su questi fonditori sonoancora assai scarse; si vedano almeno idocumenti pubblicati da POLLAK 1931,II, e le rispettive voci nel THIEME-BECKER.Per il Busto di Urbano VIII a Spoleto sirimanda a MARTINELLI 1954-1955, ed.1994, p. 152
45 POLLAK 1931, II, pp. 602-603 doc.2414. Più in generale i documenti sulMonumento sono pubblicati alle pagine590- 611
47 Su questi bronzi si veda BEWER 1999,pp. 162, 164, 165 e FUSCO 2002 (conbibliografia precedente)
48 MONTAGU 1967, pp. 567-570 (che lariteneva una derivazione da un model-letto di Bernini). Ipotesi messa in dub-bio dalla stessa Montagu già nel 1989(MONTAGU 1989, p. 212 n.69). Più direcente inoltre (cfr. Edinburgh 1998, p.208 n. 68) la studiosa ha suggerito ilnome di Morelli quale autore delmodello. Per un elenco degli esemplarisi veda Emma Stirrup in Edinburgh1998, p. 111
43 BENOCCI 2006, pp. 57 e 60
Figura 21:Giovan Francesco Romanelli, LaPrudenza, Roma, Città del Vaticano,Palazzi Apostolici, sala della contessaMatilde, affresco
anche per le repliche dal Ratto di Elena di Guido Reni (Parigi,
Louvre56). I bronzetti raffiguranti la Contessa Matilde, quindi,
dovettero essere realizzati per conto dei Barberini come doni
diplomatici con l’obiettivo di richiamare i potenti d’Italia e
d’Europa al loro dovere di difensori della Chiesa. Ma il primo
esemplare, che doveva servire da prototipo agli altri, rimase sem-
pre presso la famiglia del pontefice.
Il Monumento alla contessa Matilde*
Già ai contemporanei non era certo sfuggito come, nella scelta del
nome da papa, per Maffeo Barberini avesse giocato non tanto la
memoria del predecessore trecentesco morto in odore di santità,
Urbano V, quanto quella ben più «militante» di Urbano II (1088-
1099). L’erede cioè di Gregorio VII nella sua mitica lotta contro
l’imperatore, il restauratore dell’idea universalistica del papato, il
pontefice della prima crociata, il rinnovatore della liturgia roma-
na. Ma importa ancor più che in quella scelta venisse allo scoper-
to una ben più profonda riflessione sul papato e la sua storia, che
per Maffeo, dalla traccia degli Annali del Baronio e del clima dei
tempi, era iniziata almeno dagli anni in cui era cardinale.
«Portava Urbano fin da Cardinale una profonda venerazione alla
memoria illustre della Contessa Matilde, che generosamente dotò
la Sede Apostolica con l’accrescimento di molti Stati che si disse-
ro Patrimonio di S. Pietro»1. L’identificazione con l’energico e vin-
citore Urbano II, rispetto al modello più sofferto ed esistenziale
offerto da Gregorio VII, morto in solitudine dopo una vita spesa
nella lotta contro Enrico IV, andrà tutta a credito del carattere del
nuovo pontefice. Ma in entrambi i casi il richiamo storico e, poi-
Palazzi Apostolici (1637-1642) ed è significativo osservare come
qui la raffigurazione della Prudenza alluda esplicitamente alla
Matilde berniniana49. E la contessa Matilde compare poi, accanto
al pontefice, anche negli arazzi con storie della Vita di Urbano
VIII realizzati dalla Arazzeria Barberini intorno al 1660 mentre,
alla fine del Seicento, le guide di Roma ricordavano a Palazzo
Barberini un Busto della Contessa Matilde oggi non più rintraccia-
bile ma probabilmente frutto di questa stessa stagione50.
Il significato del Monumento funebre di Matilde di Canossa nel
contesto della politica barberiniana è stato più volte indagato,
soprattutto da John Beldon Scott51. Urbano VIII aveva fatto tra-
slare a San Pietro le spoglie della contessa dal convento di San
Benedetto Po, al Polirone, in virtù del ruolo svolto dalla nobil-
donna al tempo della lotta per le investiture tra l’imperatore
Enrico IV e il pontefice Gregorio VII. Come avrebbe infatti sot-
tolineato il cardinale Guido Bentivoglio in una sua lettera, Maffeo
Barberini era «risoluto d’honorar quella memoria della Contessa,
per esempio ad altri principi della protettione che devono tenere
della Sede Apostolica»52. A quel tempo si era ancora nel pieno
della guerra dei Trent’anni (1618-1648), che nelle sue fasi più
recenti, il conflitto della Valtellina e quello per la successione al
ducato di Mantova, avevano interessato direttamente l’Italia, met-
tendo in allarme il pontefice, sempre alla ricerca di un equilibrio
tra la Francia di Luigi XIII (e del cardinale Richelieu) e la Spagna
di Filippo IV (e del conte-duca Olivares53). I Barberini utilizzaro-
no più volte le opere d’arte come doni diplomatici, senza limitarsi
a scegliere oggetti di grande valore, ma selezionandole con atten-
zione in rapporto ai loro soggetti: le due tele di Nicolas Poussin
raffiguranti Tito ferma la distruzione del Tempio di Gerusalemme,
una sorta di invito alla pace, donate dai Barberini agli ambasciato-
ri di Francia e dell’Impero, sono l’esempio più illuminante di que-
sta attenta politica delle immagini (il primo dipinto è stato identi-
ficato con la tela oggi all’Israel Museum di Gerusalemme; il secon-
do è certamente quello del Kunsthistorisches Museum di
Vienna54). Anche dell’Allegoria della Divina Sapienza affrescata da
Andrea Sacchi sulla volta di una sala di Palazzo Barberini alle
Quattro Fontane vennero tratte diverse copie impiegate come
doni diplomatici55, e lo stesso discorso poteva forse essere valido
36 37
* Viene qui ripubblicato, con alcunevarianti, il testo scritto nel 1998 insiemea Stefano Tumidei per il volume Berniniin San Pietro, Federico Motta editore,Milano 1998, pp. 26-32
54 Su queste tele cfr. da ultimo SPARTI
2004/05, pp. 190-195, che peraltro harifiutato la tradizionale lettura «politica»dei dipinti di Poussin
55 SUTHERLAND HARRIS 1977, p. 58, cat. 17
52 MONTANARI 2000, p. 708
53 Su tutte queste vicende cfr. soprattuttoCOLANTUONO 1997, pp. 24-48
51 BELDON SCOTT 1985, pp. 119-127. Siveda anche RICE 1997, p. 115 eANDRETTA 1999 e 2003
49 Sugli affreschi della sala della contessaMatilde si veda FALDI 1970, p. 321;BRUNO 1999, pp. 47-48
50 Per gli arazzi si veda HARPER 2007(con bibliografia precedente). Per ilBusto, ROSSINI 1693, p. 53: «la testa, ebusto della Contessa Matilde». Stessacitazione in DE’ ROSSI 1697, p. 347
56 COLANTUONO 1997, pp. 115-118
1 BERNINI 1713, p. 46
1631. È stato notato del resto come fossero santi per così dire
mantovani (per antica venerazione) anche San Longino e
Sant’Andrea cui, come abbiamo visto, s’era riservata una colloca-
zione di riguardo sotto la cupola michelangiolesca. E quanto alle
stesse implicazioni politiche della traslazione delle spoglie di
Matilde, non potrà tacersi il disappunto dell’ambasciatore vene-
ziano Alvise Contarini sul modo in cui Urbano aveva condotto
l’impresa: «Il papa ha fatto rubbar il corpo della Contessa
Manilda [sic], che con molta venerazione era custodito nella chie-
sa di S. Benedetto di Mantova […] senza che il Duca ne altri ne
habbino saputo cosa alcuna»2.
Sul piano internazionale Urbano VIII si trovava invece a dover
fronteggiare le rivendicazioni cesaropapiste dei più agguerriti stati
cattolici, dalla Spagna di Filippo IV alla Francia di Richelieu, spe-
cie in materia di nomine ecclesiastiche in una disputa che toccherà
toni accesissimi. Non sarà un caso allora che proprio l’episodio
dell’umiliazione di Enrico IV ai piedi di Gregorio VII (dai linea-
menti assai simili a quelli di Urbano VIII) venisse scelto ad illu-
strare il monumento di Matilde né che sin dall’inizio la colloca-
zione della tomba fosse pensata nell’intercolumnio del primo pila-
stro, in asse dunque con la porta santa. Là dove anche i principi
cattolici dovevano passare in occasione degli anni giubilari.
A simili aspettative, Bernini rispose anzitutto immaginando un
simulacro marmoreo, a figura intera, di Matilde ove nulla avrebbe
fatto pensare alla «santa» medievale. Piuttosto ad un’eroina clas-
sica con gli attributi della Santa Sede, la tiara e le chiavi, ben in
vista e lo scettro in segno di comando; un’idea che già si affaccia
nel solo disegno preparatorio conosciuto (Bruxelles, Musée des
Beaux Arts), certo riferibile, per le molte varianti presenti, ad uno
stadio relativamente precoce nell’elaborazione del monumento,
dunque alla fine del 1633 o agli inizi dell’anno successivo. Altro,
dei progressi ideativi che portarono alla realizzazione finale, non
conosciamo, nonostante l’insistenza delle fonti sull’esistenza di
disegni e di modelli autografi per ogni parte, comprese quelle
decorative. Fonti che del resto andranno rilette alla luce della
testimonianza di Domenico Bernini il quale, parlando del monu-
mento, non esitava a giudicarlo eseguito dal padre «più col dise-
gno, che colla mano».
ché di questo si trattava, l’affermazione del papato sul potere tem-
porale e nel consesso delle potenze europee sulla traccia di quegli
illustri predecessori medievali, comportava l’immediata contiguità
con un altro exemplum virtutis di non meno emblematica sugge-
stione: quello di Matilde di Canossa (1046-1115), alleata e sodale
di Gregorio prima e di Urbano poi, vera principessa cristiana,
benefattrice della Santa Sede. Matilde «proda guerriera e duce»,
«alla Chiesa Romana... scudo» come lo stesso Maffeo aveva scrit-
to, anni prima, nei versi cantilenanti di un’ode pindarica data alle
stampe solo nel 1635, nel vivo di un revival per la contessa cui,
appunto, il pontefice contribuiva ora sostanzialmente con la deci-
sione di erigerle in San Pietro una degna sepoltura. A quest’ulti-
ma faranno poi esplicita allusione, nel 1642, le Memorie di Matilda
la gran contessa propugnacolo della chiesa di Francesco Maria
Fiorentini stampate a Lucca con dedica allo stesso pontefice, e
pronte a dar giusta amplificazione retorica ad un’impresa che
andava ben oltre la reiterazione simbolica dei legami che, in vita,
avevano unito Urbano II alla contessa.
Pochi mesi dopo l’incarico affidato a Bernini per il monumento,
erano state traslate a Roma, nel 1634, le spoglie di Matilde, con-
servate fino ad allora nell’abbazia di San Benedetto a Polirone,
non lontano da Mantova. Dopo aver riunito sotto la cupola le reli-
quie dei santi, Urbano VIII, dunque e per la prima volta, apriva le
porte della nuova San Pietro a quelle di un laico, e per di più
donna. Ma in quella solenne affermazione del primato pontificio
che costituisce il filo rosso di tutti gli interventi barberiniani, l’im-
magine di Matilde introduceva in San Pietro, in modo inatteso, il
tema soprattutto scottante del potere temporale dei principi cat-
tolici in rapporto con la Santa Sede. A celebrare l’imperatore
Costantino, richiamo immancabile e quasi obbligato della propa-
ganda cattolica, avrebbe provveduto, anni dopo Innocenzo X (e
inizialmente con l’idea di posizionarne il monumento in ideale
raccordo visivo con Matilde). Eventi più immediati e cruciali por-
tavano Urbano VIII a spendere la memoria della contessa. Intanto
le mire politiche e militari del pontefice sulla stessa Mantova negli
anni in cui la sorte dell’ex capitale gonzaghesca era oggetto di con-
tese violentissime e allorché anche la politica territoriale della
Santa Sede era ritornata in auge con l’annessione di Urbino nel
3938
2 HAMMOND 1984, p. 34, n. 8
la garanzia di un diretto intervento nella rifinitura. Il che equiva-
leva per gli stessi fabbricieri di San Pietro a riferire sulla Matilde
che «si pol dire che habbia fatta quasi tutta perché non ci è parte
che non abbia ripassata e finita»4.
Con tutto ciò, fra le opere del maestro, il monumento a Matilde è
quello cui è toccata, nel Novecento, la più tiepida accoglienza cri-
tica. L’inattesa sterzata classicista del linguaggio berniniano che vi
si rivela e che in nulla ancora il Longino lasciava presagire, poteva
ancora costituire una felice eccezione nel percorso dell’artista per
il neoclassico Cicognara («diresse il Monumento della contessa
Matilde, uno de’ più saviamente inventati; dalla cui sobrietà si
vide recedere allorquando pose mano al monumento di Urbano
VIII»)5; non oltre. Al punto che talvolta si è persino fatto riferi-
mento ad un momento di sospensione creativa dovuto alla malat-
tia che, stando al biografo, avrebbe colpito Bernini proprio nel
1635.
Le ragioni dei nuovi scrupoli di ponderatezza compositiva che
come più volte rilevato, legano strettamente il Monumento a
Matilde al Pasce Ovas Meas, riflettendosi anche nell’invenzione
della Sant’Elena di Bolgi, dunque dal 1634 ai primi anni
Quaranta, saranno piuttosto culturali. Intanto di più organizzata
e intelleggibile ripartizione di ruoli fra architettura e scultura.
Nella prima idea per il monumento, tramandataci dallo schizzo di
Bruxelles, Bernini pensava ancora di sviluppare l’idea della Santa
Bibiana, il tema cioè della figura stante, accortamente variata nel
contrapposto e avvolta in un fremente viluppo di panneggi. Il
foglio è tagliato in alto e non è chiaro dunque se l’artista pensasse
di ambientarla poi entro una nicchia assai semplice e profonda
(l’incorniciatura laterale con un ordine minore di colonne, diffi-
cilmente accordabile tuttavia al binato monumentale preesistente
nel luogo ove il monumento sarebbe sorto, sembrerebbe in effet-
ti rimandare, ancora una volta, alla soluzione adottata nell’altare
di Santa Bibiana). Si aggiungano la presenza inizialmente prevista
di due figure allegoriche (la Fede e la Giustizia) collocate ai lati
dell’iscrizione, là dove saranno poi i putti, le forme più mosse (le
zampe leonine) del sarcofago e si avrà la misura di come nel segui-
to Bernini perfezionasse il progetto «per via di levare», puntando
ad un insieme più organico e cesellato, quasi diminuito di scala.
Davanti a quella nuova e difficilmente aggirabile richiesta del pon-
tefice e, in pratica, all’apertura di un nuovo fronte di impegno,
con i modelli del Longino ancora nello studio e il rilievo col Pasce
Ovas Meas già iniziato, è proprio a partire dal Monumento a
Matilde che Bernini organizza in modo sistematico l’opera dei col-
laboratori, gli stessi per altro già sperimentati (o in via di speri-
mentazione) nella decorazione dei pilastri. Un conto era evidente-
mente la divisione del lavoro in un’impresa ciclopica e di svilup-
po architettonico, un conto, ora, l’affiatamento di un’équipe
pronta quasi ad annullarsi nella riduzione su scala monumentale
dei progetti del maestro. Il problema si riproporrà con il
Monumento a Urbano VIII e soprattutto, con l’Alessandro VII, la
Cattedra e cioè quelle imprese dove tutto parla di Bernini e quasi
nulla nella realizzazione finale è materialmente suo. Per il
Monumento a Matilde basterà affidarci al solito bene informato
figlio biografo, ineccepibile nel segnalare che «il basso rilievo fu
scolpito da Stefano Speranza suo discepolo, il Putto sopra la cassa
da Andrea Bolgi, l’altro a man dritta da Luigi Bernino suo fratel-
lo, che medesimamente ancora fece la statua della Contessa, tolta-
ne la testa, che fu intieramente condotta a fine dal Cavaliere, e i
due Putti sopra l’arme furono intagliati da Matteo Bonarelli»3.
I documenti repertoriati da Pollack confermano nella sostanza la
divisione dei lavori e ne scandiscono i tempi. I primi pagamenti a
Stefano Speranza per il bassorilievo del sarcofago, ad Andrea
Bolgi, a Luigi Bernini per i putti sono del marzo 1634. La lunga e
ornata iscrizione posta sul sarcofago riferisce la messa in opera
delle parti sostanziali del monumento già all’anno successivo ma è
certo che Stefano Speranza non venne saldato per la sua parte
prima del febbraio 1636 e che ancora, dopo questa data, rimane-
vano da eseguirsi i due putti con lo stemma scolpiti da Matteo
Bonarelli e Andrea Bolgi fra il 1637 e il ‘38 (al Bolgi doveva poi
succedere nel 1642 Lorenzo Flori) e posti in opera soltanto nel
1644. È a questo punto che una memoria autografa di Bernini si
preoccupava di apporre il proprio sigillo all’impresa tutta, speci-
ficando che gli si dovevano i disegni, i modelli nonché la finitura
di ogni statua, in particolare nel rilievo e nella Matilde. Il sigillo
dunque non solo dell’inventio in termini tardo rinascimentali
quanto di un controllo onnipresente sull’opera dei collaboratori e
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3 BERNINI 1713, p. 47
5 CICOGNARA 1824, VI, p. 129
4 POLLAK 1931, p. 207, doc. 617
La soluzione adottata per la nicchia è emblematica, visto il modo
in cui Gian Lorenzo scelse alla fine di graduare l’affondo nella
parete ricorrendo ad un partito ad arco già studiato da Carlo
Maderno per l’incorniciatura delle finestre nell’ordine superiore
di Palazzo Barberini. Una sorta di arco trionfale ove l’intradosso
aperto e ripartito in specchiature minutamente decorate, amplifi-
ca l’effetto monumentale della statua di Matilde, e al tempo stes-
so funziona da raccordo prospettico fra i diversi piani e aggetti
della macchina celebrativa. Anche la scelta finale dei putti sul
sepolcro rispondeva ad un’omogeneità di scala dimensionale
rispetto alla Matilde, che le due figure allegoriche previste nel
disegno avrebbero potuto rispettare solo anteponendosi spavalda-
mente all’architettura, offrendosi in una tridimensionalità che ne
avrebbe contraddetto la più sobria e stiacciata griglia spaziale,
quasi da bassorilievo. Ma è appunto ciò che, a queste date, Bernini
si sforzava di evitare. Puntando ad un ordine compositivo in cui
all’architettura, come alla scultura, spettassero luoghi e ruoli intel-
legibilmente distinti anche se, ovviamente, concertati.
Non è irrilevante che lo scultore si ponesse in questo ordine di
problemi proprio intorno al 1634, l’anno in cui Algardi firmava il
contratto con il cardinale Ubaldini per il Monumento a Leone XI6.
Già Wittkower vedeva del resto, nella svolta segnata dalla Matilde,
dal Pasce ovas meas, così come dalla statua di Urbano VIII nel
Palazzo dei Conservatori (1635-40) e da alcuni ritratti coevi, «l’in-
flusso della crescente pressione da parte dei più entusiasti soste-
nitori della dottrina classica» a Roma7. È in effetti di questi anni
anche la polemica, all’Accademia di San Luca, fra Andrea Sacchi
e Pietro da Cortona in tema di pittura di storia. E se anche quella
disputa verteva poi sul numero delle figure adeguate all’azione
(quando Poussin aveva appena dimostrato che per rendere lo stra-
zio della Strage degli innocenti ne bastavano tre soltanto in primo
piano), è da credere che Sacchi arricchisse subito il suo argomen-
tare con il richiamo alle convenienze dell’invenzione, e con pas-
saggi che conosciamo dalla più tarda lettera a Francesco Lauri.
Critiche, dunque, anche alle «bizzarre», «fantastiche», «affettate»,
«sfarzose» pieghe delle vesti «che non secondano la positura dei
corpi che anno da ricoprire e che in vece di ricoprirli restano per
la lor grevezza e ammassamen[t]o oppressi, e deformi». Quando
però Pietro da Cortona irrideva l’impianto compositivo eccessiva-
mente paratattico delle Nozze di Bacco e Arianna di Guido Reni,
era implicito che chiamasse in causa le regole del bassorilievo clas-
sico, e che dunque anche la scultura fosse in qualche modo della
partita8.
L’entrata in scena, proprio a questo punto, di Algardi in San
Pietro sarà difficilmente casuale né si può credere che Bernini
rimanesse davvero all’oscuro delle riserve mosse al suo
Monumento a Urbano, già presenti nei primi progetti presentati
dal bolognese al cardinale Ubaldini. È indicativo allora che il con-
fronto tra i due scultori si riproponesse sul 1634 intorno a un’in-
venzione di grande futuro parallelamente svolta sia nel
Monumento a Leone XI sia nella Matilde: quella cioè di riservare
il fronte del sepolcro, sull’esempio dei sarcofagi antichi e paleo-
cristiani, al bassorilievo narrativo, dunque all’historia9. E poiché
una tale soluzione viene già prospettata nel disegno più volte cita-
to di Bruxelles, è possibile che, ancora una volta, la precedenza
spetti a Bernini, mai come in questo caso compunto nella pausata
articolazione narrativa delle figure (indipendentemente dall’ese-
cuzione di Stefano Speranza) come nei controllatissimi accenni di
illusione spaziale. Le regole del bassorilievo, di quella sorta di pit-
tura a tre dimensioni, rimarranno certo più congeniali ad Algardi,
ma va comunque segnalata, a fronte delle lisciatissime superfici
della Legazione di Alessandro de’ Medici in Francia posta sul sepol-
cro di Leone XI, fatta per essere vista da vicino, la sprezzatura del
rilievo berniniano studiato per la media distanza e lasciato dunque
senza finitura e lucidatura. Analogamente, nella Matilde, se pro-
prio come diceva Sacchi il decoro e la convenienza stavano nel
rendere «gran sembianti, atteggiamenti maestosi, panneggiamenti
facili e di poche larghe pieghe»10, per il Bernini anche più classici-
sta questo voleva dire rifarsi semmai all’umanità florida, impo-
nente eppur mobilissima che, in una Roma ancora di
Controriforma, Rubens aveva osato issare sugli altari della Chiesa
Nuova e di Santa Croce in Gerusalemme. Le fonti della paludata
Matilde sono appunto, come ha chiarito Lavin, nelle figure della
pala con i Santi Nereo, Domitilla e Achilleo e ancor più nella
Sant’Elena oggi a Grasse (ma un tempo in Santa Croce in
Gerusalemme)11.
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6 MONTAGU 1985a, pp. 39 ss., 434-436
7 WITTKOWER 1958, ed. 1983, p. 130
9 MONTAGU 1985a, p. 49
10 MISSIRINI 1823, pp. 111-112
11 LAVIN 1968, p. 33
8 Sulla polemica cfr. BRIGANTI 1962, ed.1982, pp. 88-89; SUTHERLAND HARRIS
1977, pp. 33-37 (che accetta la datazio-ne al 1636 fissata da MAHON 1962, p.97). La citazione è dalla lettera diSacchi inserita dal Pascoli nella vita diFrancesco Lauri (PASCOLI 1730, ed.1992, p. 524)
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Le fotografie dell’opera qui pubblicata sono diArrigo Coppitz, Firenze
Fotolito: Pixel Studio, Milano
Finito di stampare nell’aprile 2013
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