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Transnational Politics – a cura di G. Tintori Transnational politics. Attività politiche transnazionali degli immigrati peruviani, polacchi e rumeni nei territori di Roma e Torino. Team di ricerca 1

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Transnational Politics – a cura di G. Tintori

Transnational politics.Attività politiche transnazionali degli immigrati peruviani,

polacchi e rumeni nei territori di Roma e Torino.

Team di ricerca

Ricerca empirica: Francesco Tarantino (caso: Perú)Giordano Altarozzi (caso: Romania)Ewa Grzedzinska (caso: Polonia)

Contributo alla ricerca empirica: Elena Postelnicu (caso: Romania)

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Supervisione scientifica ecoordinamento: Guido Tintori

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Rapporto finale sulla ricerca

Guido Tintori

Contesto teorico

Nel campo degli studi migratori, dalla sua prima formulazione da parte delle antropologhe

Glick Schiller, Basch and Blanc-Szanton (1992), il paradigma transnazionale si è progressivamente

affermato come strumento analitico in grado di interpretare gli impatti che la globalizzazione e le

migrazioni internazionali determinano sulle società contemporanee. L’attenzione sulle attività e le

pratiche transnazionali dei migranti si è così estesa dagli ambiti culturali, sociali, economici, fino a

includere anche la dimensione politica (Castles e Miller 2003: 255; Vertovec 2004). Esistono

visioni differenti di ciò che significa transnazionalismo politico. Dopo i primi pioneristici tentativi

di concettualizzare il fenomeno (Stack 1981; Sheffer 1986), sono state proposte numerose

definizioni che si differenziano per una maggiore enfasi posta sul ruolo degli stati di provenienza

(Basch, Glick Schiller, e Szanton-Blanc 1994; Itzigsohn 2000) o degli stati di accoglienza

(Martiniello and Statham 1999; Faist 2000; Koopmans and Statham 2000), come fattore principale

di mobilitazione.

Una prospettiva ancora differente è quella che osserva le pratiche politiche transnazionali

come un fenomeno che ha luogo contemporaneamente a livelli multipli – locale, nazionale,

internazionale –, dando vita a una interazione triangolare tra migranti, stati di partenza e stati di

insediamento (Smith 1994). Secondo tale approccio, questa interazione triangolare è meglio

compresa, se ci si concentra sui migranti stessi, come principale fattore politico di mobilitazione,

adottando cioè la prospettiva “dal basso” (Smith e Guarnizo 1998). Muovendo da tale approccio,

Eva Østergaard-Nielsen (2003a: 762-63; cfr anche Smith 1998; Martiniello e Lafleur 2008: 651-54)

ha proposto una categorizzazione sistematica delle pratiche politiche transnazionali dei migranti.

Østergaard-Nielsen indica tre modalità principali di attività politica transnazionale: a) per la

promozione dei propri diritti come immigrati (immigrant politics), quando le attività sono intraprese

essenzialmente nel paese di insediamento e mirate a un avanzamento dello status sociale, politico o

economico o contro forme di discriminazione – l’intervento delle autorità del paese di origine a

sostegno di tali iniziative è condizione necessaria affinché si possano definire transnazionali; b)

verso lo stato di origine (homeland politics), quando le comunità immigrate si mobilitano nello

stato di insediamento essenzialmente per istanze che riguardano la loro nazione di provenienza; c)

translocali (translocal politics), quando e attività di una comunità immigrata di una determinata

area di insediamento sono incentrate su istanze specifiche di una regione particolare, generalmente

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quella di provenienza, dello stato di partenza – spesso tali attività prevedono il coinvolgimento delle

istituzioni locali, senza passare per gli attori politici nazionali.

La nostra ricerca ha adottato l’interpretazione proposta da Østergaard-Nielsen, integrandola

con tre elementi ulteriori. In primo luogo, pur essendo consapevoli di una produzione cospicua di

lavori che teorizzano il declino del modello di stato-nazione di fronte all’azione congiunta di

globalizzazione e mobilità internazionali, e riconoscendo a tali analisi alcuni elementi di fondatezza

(Strange 1996; Sassen 1996; Vertovec e Cohen 2002), nella nostra indagine siamo partiti dalla

prospettiva cosiddetta “neo-istituzionalista” (March and Olsen 1984; Hall and Taylor 1996),

privilegiando le interpretazioni fornite da più recenti studi sul ruolo ancora decisivo che gli stati-

nazione, soprattutto di provenienza, sembrerebbero mantenere nell’influenzare forme, intensità e

direzione delle attività politiche transnazionali dei migranti. In particolare, gli stati – di

insediamento e di provenienza – intervengono a connotare i migranti come soggetti politici

transnazionali, attraverso le loro politiche di cittadinanza, di controllo, di integrazione, attraverso le

loro political opportunity structures, le leggi elettorali. I migranti, inoltre, sono da sempre

destinatari di azioni di stampo nazionalistico e protagonisti di processi di nation-building (Bauböck

2003: 708-719; Østergaard-Nielsen 2003b; Choate 2008).In secondo luogo, sulla scorta degli studi di Joppke e Morawska (2003), abbiamo inteso

indagare se la presenza di attività politiche transnazionali tra i migranti comporti un minore o

maggiore grado di integrazione nella società di insediamento, se la mobilitazione politica

transnazionale favorisca l’assimilazione delle prime generazioni e/o dei loro figli, se i processi di

integrazione politica e mobilitazione transnazionale siano processi coesistenti o meno.

Terzo, abbiamo ritenuto essenziale utilizzare una decisa prospettiva storica nell’analisi dei

tre casi selezionati. È noto che l’utilizzo del termine transnazionale per descrivere le connessioni –

economiche, culturali, sociali e politiche – tra i contesti di provenienza e quelli di arrivo, che

sorgevano attorno alla presenza dei migranti, risale perlomeno all’inizio del secolo scorso (Bourne

1916) ed è ormai acquisito che pratiche transnazionali, anche in ambito politico, abbiano

caratterizzato i fenomeni migratori anche in un passato relativamente remoto (Foner 2005, 1997;

Gerstle e Mollenkopf 2001; Gabaccia 2003; Smith 2003; Martiniello e Lafleur 2008). Alla luce di

entrambe queste considerazioni, l’adozione di una prospettiva storica nell’analisi ci è sembrata

necessaria, per una migliore comprensione del ruolo che le istituzioni coinvolte ricoprono

nell’influenzare eventuali attività politiche transnazionali dei migranti e, rovesciando il punto di

osservazione, per evidenziare possibili path dependencies nelle interazioni tra gli stati e i migranti

considerati.

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Nel contesto teorico descritto, il progetto si è dunque posto l’obiettivo di condurre

un’indagine sistematica del comportamento e delle attività politiche transnazionali di tre gruppi

immigrati – peruviani, polacchi e rumeni – in due ambiti locali – i territori comunali di Roma e

Torino. La durata del programma dei lavori prevedeva di distribuirsi su dodici mesi, per

l’impostazione e il completamento della ricerca a iniziare dal febbraio 2008, a cui si aggiungeranno

i prossimi tre mesi per l’organizzazione e il perfezionamento della disseminazione dei risultati.

Le tre comunità immigrate sono state selezionate secondo ragioni di ordine quantitativo e

qualitativo, che le rendono casi particolarmente rappresentativi. Come si avrà modo di leggere in

maniera più dettagliata nel capitolo I, di cui è autore Francesco Tarantino, l’immigrazione

peruviana è presente in misura consistente in entrambi i territori comunali ed è caratterizzata da un

forte livello di urbanizzazione. Si tratta di un’immigrazione non recente, ma che ha conosciuto

un’espansione costante nel tempo. Presenta la caratteristica di un’alta propensione ad attivarsi

politicamente verso il paese di origine. Un fattore di mobilitazione determinante è l’obbligatorietà

del voto per tutti i cittadini peruviani, anche per i residenti all’estero, pena una sanzione pecuniaria

di 40 dollari americani – obbligatorietà che, ci informa Tarantino, è stata rimossa di recente.

Tuttavia, un livello apprezzabile di attivazione si può constatare anche verso la dimensione pubblica

locale, attraverso molteplici forme di associazionismo e la partecipazione a forme di rappresentanza

che superano l’identità nazionale per assumerne una dai caratteri “panetnici” (più genericamente

“latinoamericani”).

L’immigrazione romena in Italia è relativamente recente, ma al primo posto per numero di

residenti, secondo le ultime statistiche ufficiali. Come evidenzia l’autore della ricerca sul caso della

comunità romena, Giordano Altarozzi, nel corso del capitolo II, è questo un gruppo che presenta,

negli ultimi anni, il più alto ritmo di crescita nelle presenze. I romeni hanno finora manifestato una

discreta propensione a comparire nell’arena pubblica italiana, principalmente attraverso iniziative di

carattere culturale e associativo, spesso promosse su iniziativa di o in collaborazione con le autorità

consolari della madrepatria, e non senza un certo coinvolgimento delle amministrazioni locali

italiane. Aldilà dei motivi di ordine quantitativo, quello romeno è al momento il gruppo immigrato

su cui si incentrano maggiormente le attenzioni del dibattito pubblico italiano, specialmente in

conseguenza di episodi di cronaca nera e criminosi, che hanno visto protagonisti esponenti di tale

comunità. L’esposizione mediatica, il coinvolgimento delle istituzioni italiane e romene, con il

trasferimento del dibattito sulla “integrabilità” dei romeni nella società italiana da una dimensione

politica interna a livello di relazioni internazionali, fanno sì che sia questo uno studio di caso

particolarmente significativo per gli obiettivi che il progetto si pone. Due elementi ulteriori, poi,

contribuiscono a rafforzare l’interesse verso lo studio degli immigrati romeni: 1) è loro attribuito il

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diritto di votare all’estero e, come illustra Altarozzi nel suo capitolo, nell’autunno 2008 si sono

tenute le elezioni generali; 2) è interessante verificare se, per una sorta di retaggio storico che risale

alla vita sotto il regime di Ceausescu, i romeni nutrano scarsi livelli di fiducia nelle relazioni con le

istituzioni nazionali e nella politica in senso lato.

L’immigrazione polacca non è numericamente tra le più significative sul territorio

nazionale, ma lo è nella provincia di Roma, come emerge dal capitolo III, a opera di Ewa

Grzedzinska. Verso la capitale italiana, infatti, si sono concentrati i flussi a partire dalla caduta del

Muro, alla fine degli anni ’80. Si tratta di una collettività radicata anche a Torino, seppure

numericamente poco significativa, per una consuetudine storica di rapporti che l’associazionismo

polacco è stato in grado di stabilire nell’ambito cittadino. In entrambi i territori, la comunità polacca

è nutrita da flussi continui, anche se non ingenti, ma sufficienti a mantenere attive le interazioni con

la madrepatria. In apparenza, non sembra oggi presentare propensioni ad attivarsi sulla scena

pubblica italiana, perlomeno non con la stessa visibilità e rispondenza mediatica che era riuscita ad

assicurarsi nel periodo del pontificato di Karol Woityla e delle battaglie sindacali e civili di

Solidarnosc. Tuttavia, proprio la presenza storica di interazioni politiche tra comunità polacca e

istituzioni italiane, grazie ai canali attivati da Solidarnosc e quelli, per la verità mai interrotti, con

gerarchie, istituzioni e associazioni cattoliche rende il caso particolarmente degno di essere

analizzato. La scelta degli immigrati polacchi, infine, trova una ragione ulteriore nella cornice

comparativa del progetto. L’esistenza di una letteratura sul transnazionalismo politico delle

comunità polacche negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania (cfr. Babiński 1977, 1986,

1988; Friszke 1994, 1995, 1999; Habielski 1991, 1999; Kołodziej 1998; Lenczarowicz 1996;

Misiak 1991; Paleczny 1989) potrà consentire, nella fase di disseminazione dei risultati, di valutare

similitudini e differenze tra quei casi e quello della collettività polacca in Italia. Non solo, sarà

possibile altresì comprendere se eventuali differenze siano da imputare allo stadio in cui si trovano i

diversi processi migratori oppure ai diversi sistemi politici dei paesi di insediamento.

Un aspetto che è importante sottolineare è che immigrati polacchi e romeni hanno visto

modificarsi il proprio status giuridico da immigrati residenti non comunitari a residenti stranieri

comunitari, dopo l’ingresso nell’Unione Europea dei loro paesi, rispettivamente nel 2004 e 2007.

Tale cambiamento giuridico porta con sé anche l’acquisizione dei diritti politici pieni – di elezione

attiva e passiva – per le elezioni locali ed europee presso il comune di residenza. Si è quindi cercato

di valutare, adottando una prospettiva storica, se l’accesso alla condizione di cittadino comunitario

abbia generato delle variazioni nei comportamenti e nelle attività politiche dei due gruppi

considerati.

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Implementazione e metodologia

Il nostro lavoro, sia dal punto di vista dei contenuti, sia dal punto di vista metodologico,

presenta i tratti di uno studio pilota nel panorama degli studi italiani sui gruppi immigrati, i quali

sono stati finora studiati come attori transnazionali in ambito culturale, sociale ed economico, ma

non in ambito politico, soprattutto adottando una prospettiva decisamente istituzionale.

Trattandosi di un ricerca “multi-situata”, come amano definirla gli antropologi, o più

semplicemente con periodi di lavoro in due contesti urbani italiani e tre nazioni estere, portati a

termine da ricercatori residenti in aree distanti dalla sede di FIERI, il coordinamento del team è

avvenuto esclusivamente attraverso un popolare software di chiamate/videoconferenze su internet.

Per i primi sei mesi con cadenza bisettimanale, successivamente con cadenza mensile o legata alle

diverse fasi di lavoro, hanno avuto modo attraverso tale modalità le attività di networking,

formazione dei ricercatori, definizione dettagliata del programma di ricerca, formulazione del

questionario utilizzato per le interviste al campione di immigrati, analisi e discussione dei risultati

intermedi, definizione delle linee guida per la compilazione dei rapporti sulla ricerca empirica,

correzione e discussione dei capitoli. Tale modalità di lavoro ha consentito di abbattere

sensibilmente – se non azzerare – i costi del networking e, nel complesso, ha funzionato in maniera

soddisfacente.

Le principali questioni che il progetto di ricerca si prefiggeva di analizzare, in chiave

comparata, erano:

a) se le politiche di emigrazione e leggi sulla cittadinanza, gli attori politici formali e informali dei

paesi di origine dei gruppi immigrati giochino un ruolo determinante nell’influenzare le attività

politiche transnazionali delle loro diaspore, in che misura e in che direzione;

b) se esistano attività politiche transnazionali da parte dei soggetti considerati, quali forme

assumano, che intensità presentino, su quali istanze si concentrino, quali conseguenze determinino,

se siano prevalentemente dirette verso la madrepatria, l’ambito politico locale di residenza o

entrambi i luoghi;

c) se la peculiarità del sistema politico italiano, la sua organizzazione e modalità di funzionamento,

unitamente alle politiche di integrazione attuate a livello nazionale e locale incoraggino o

scoraggino l’insorgere di un transnazionalismo politico tra i gruppi immigrati;

d) se la presenza di attività politiche transnazionali agevoli o ostacoli l’integrazione – in primo

luogo politica, ma non solo – dei gruppi immigrati considerati nelle società di insediamento.

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Per cercare di rispondere al maggior numero possibile di tali quesiti, si è stabilito di

procedere secondo un metodo di lavoro comune a tutti e tre i casi considerati, a stadi di analisi

successivi.

Il primo passo ha avuto come obiettivo quello di delineare in dettaglio la legislazione dei

paesi di partenza dei tre gruppi migranti a livello statale e sub-statale. I ricercatori hanno effettuato

una rassegna dei principali provvedimenti legislativi riguardanti la condizione giuridica, politica,

economica e sociale dei nazionali residenti all’estero (legislazione riguardante la cittadinanza degli

emigrati, il voto all’estero, o altre forme di partecipazione politica a distanza, normativa

sull’associazionismo, sulle rimesse, sui programmi di cosviluppo, di rientro); una raccolta dei

dibattiti parlamentari e pubblici relativi ai principali provvedimenti adottati verso gli espatriati; un

monitoraggio di eventuali progetti di riforma della legislazione corrente.

Tale lavoro ha contemplato un livello ragionevole di prospettiva storica, coerente con le

singole situazioni nazionali considerate, andando tuttavia a comprendere eventuali riforme o

evoluzioni della normativa perlomeno degli ultimi 20-25 anni. In tale fase, si è cercato anche di

tracciare lo schema delle competenze tra le varie istituzioni nella gestione del voto all’estero e delle

altre forme di partecipazione politica a distanza (es. quali ministeri sono competenti? Sono

competenze “esclusive” o “ concorrenti”? Esiste un ministero specifico per le questioni degli

emigrati?). Nello studio sul campo delle istituzioni e del loro ruolo, sono stati inclusi anche i partiti

politici e i sindacati, sia nel paese di destinazione sia nel paese di partenza, ed è stato chiesto ai

ricercatori di valutare il loro livello di attenzione nei confronti dei migranti come attori politici.

Il secondo stadio della ricerca è stato il rilevamento quantitativo dei livelli di presenza e

rappresentanza dei tre gruppi immigrati nel panorama politico istituzionale nelle aree di Roma e

Torino, considerando anche il livello politico informale. Si è cercato di restituire un profilo

quantitativo delle tre comunità residenti in Italia e delle relative associazioni. Per il primo aspetto si

sono utilizzate sia fonti italiane (Istat, ministero dell’Interno) sia fonti ufficiali dei paesi d’origine,

nell’intento di evidenziare eventuali discrepanze. Anche per il secondo, i tre ricercatori hanno

provveduto a compilare una mappatura delle principali associazioni dei tre gruppi nazionali, dunque

non sistematica, cercando di considerare sia fonti italiane (eventuali anagrafi delle associazioni

registrate nei Comuni di Roma e Torino) sia quelle dei paesi di residenza (eventuali elenchi

disponibili presso i Consolati in Italia o presso il ministero degli Esteri nei paesi di partenza).

Il terzo stadio dell’attività di ricerca è stata la somministrazione di interviste strutturate,

basate su un questionario identico per tutti e tre i gruppi immigrati, a singoli individui,

preferibilmente reclutati secondo un metodo casuale, in seconda istanza attraverso il metodo “a

palla di neve”. L’obiettivo del questionario era di registrare il livello di conoscenza e l’intensità di

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partecipazione nei confronti della politica del luogo in cui i gruppi immigrati risiedono, determinare

presenza, natura e scopi delle loro attività politiche verso il paese di provenienza e transnazionali,

comprendere il ruolo delle istituzioni, dei network di associazioni nel favorire o scoraggiare la

possibilità di tali attività. Si è cercato di raggiungere un campione idealmente casuale e

rappresentativo della composizione di genere di circa 80/100 intervistati per ognuno dei tre gruppi.

In questa fase, accanto alla somministrazione del questionario, sono state condotte interviste a

community leader, testimoni privilegiati e stakeholders in entrambi i paesi coinvolti (esponenti del

ministero, consoli, candidati a liste locali, presidenti di associazioni, responsabili delle sezioni

estere dei partiti, leader sindacali).

È stato altresì chiesto ai ricercatori, per tutto l’arco temporale della ricerca, di osservare per

quanto possibile i principali media e mezzi di informazione (newsletter, newsgroup, giornali, tv

satellitari, blog), al fine di registrate i dibattiti pubblici in corso in relazione alla presenza delle

comunità in Italia, la loro frequenza, i principali argomenti e l’indirizzo delle istanze politiche

sollevate.

Portata a termine le tre fasi di ricerca sul campo, i rapporti di ricerca che sono ospitati in

veste di capitoli nel presente rapporto sono stati compilati secondo le seguenti linee guida:

1. Quando e come l’emigrazione diventa un tema politico e una questione che necessita

provvedimenti di governance nel paese di partenza? Quali sono le principali motivazioni alla base

degli interventi legislativi e amministrativi (protezione sociale, gestione delle risorse economiche,

utilizzo politico come lobby nel contesto delle relazioni internazionali, timori di spopolamento)?

Quali evoluzioni manifestano le politiche dei paesi di partenza nell’arco di tempo considerato?

Quali le principali cause alla base dei cambiamenti o del mantenimento delle politiche?

2. Quali sono i principali soggetti istituzionali coinvolti nella definizione e nella applicazione

di politiche verso gli emigrati (paese di partenza) e verso gli immigrati (paese di insediamento)?

Qual è il ruolo delle amministrazioni locali e dei soggetti informali (associazionismo etc.) in

entrambi i lati del processo migratorio?

3. Esistono attività politiche transnazionali da parte delle comunità considerate? Quali forme e

direzioni manifestano in prevalenza (secondo la categorizzazione proposta Østergaard-Nielsen)? Su

quali istanze si concentrano? Quali conseguenze determinano? Che intensità presentano?

4. Qual è il ruolo delle politiche dei paesi di partenza nel determinare e influenzare (favorire o

scoraggiare) le attività politiche transnazionali degli emigrati? Quale interazione si ha tra le

politiche di immigrazione e integrazione del paese di insediamento e le politiche di emigrazione e

mantenimento dei legami con gli espatriati del paese di partenza (quadri legislativi che mutano in

paese di insediamento hanno conseguenze e influenza su legislazione paese di partenza)?

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5. Qual è il ruolo che il contesto giuridico e politico del paese di insediamento gioca nel

connotare le attività politiche transnazionali del gruppo considerato?

6. Quali reazioni adottano gli emigrati in risposta alle politiche a loro dedicate e come agiscono

nel quadro politico-legislativo delineato dalle politiche dei due paesi (prospettiva dal basso)? Che

grado di indipendenza d’azione e di iniziativa manifestano e quali canali istituzionali o di pressione

utilizzano? Qual è il ruolo e l’effettiva capacità di rappresentanza dell’associazionismo nel campo

politico transnazionale?

Pianificazione della disseminazione e prime conclusioni

Il presente rapporto si configura con i tratti del work in progress. Gli obiettivi principali,

relativamente alla disseminazione dei risultati, sono tre:

una presentazione pubblica degli esiti della ricerca, organizzata da FIERI nella città

di Torino tra metà aprile e inizio maggio, alla quale potrebbe affiancarsene, senza

particolari costi aggiuntivi, una seconda presso l’Università La Sapienza di Roma –

dove uno dei tre ricercatori, Giordano Altarozzi è inquadrato;

la redazione di un volume da sottoporre entro la metà di maggio al vaglio di referee

esterni in vista di una pubblicazione all’interno della linea editoriale FIERI-Carocci;

due conference papers in inglese, a opera di Francesco Tarantino e di chi scrive. Le

comunicazioni avranno luogo in occasione della conferenza internazionale The

Transnational Political Practices of Latin American Migrants in Europe, che si terrà

a Liegi l’11-12 giugno 2009, all’interno delle attività di IMISCOE (cluster B3).

Obiettivo principale della conferenza è di raccogliere un numero sufficiente di

contributi originali e di qualità, e proporre un numero speciale a una rivista

scientifica internazionale.

Passiamo ora ad alcune brevi riflessioni sui risultati evidenziati dalla nostra ricerca, in

riferimento alle principali questioni che il progetto di ricerca si prefiggeva di analizzare, in chiave

comparata.

Iniziamo col considerare il ruolo degli stati di partenza, la loro tendenza a mobilitare

politicamente i loro emigrati, la loro capacità di influenzarne le attività politiche transnazionali.

Come si avrà modo di leggere in dettaglio nei capitoli che seguono, nonostante presentassero

condizioni politiche storicamente differenti, tutti e tre gli stati considerati manifestano una decisa

inclinazione a riconfigurare il loro ruolo e la loro sovranità al di fuori dei confini nazionali,

attraverso politiche specificamente dedicate agli emigrati, specialmente in questi ultimi cinque anni.

Se si guarda, dunque, alle istituzioni, trovano conferma le analisi di Aleinikoff e Klusmeyer (2001:

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87) circa la tendenza a una gestione delle opportunità dischiuse dalle appartenenze politiche

molteplici di cui i migranti sono portatori, mentre si riducono i tentativi di contrastare la diffusione

della doppia cittadinanza e/o la partecipazione in più sistemi politici nazionali. Così come paiono

essere calzanti le osservazioni di Levitt e de la Dehesa (2003) in merito alle variazioni provocate

dalle migrazioni transnazionali ai concetti di membership, ai tentativi di svincolare, superandolo,

l’ambito di intervento politico dalla territorialità, in particolare attraverso la costituzione di nuovi

apparati dello stato – ministeri o dipartimenti dedicati ai cittadini all’estero e alla definizione delle

politiche nei loro confronti – e l’attribuzione del diritto di voto all’estero. Tutti e tre gli stati

analizzati, per di più, stanno valutando di introdurre – o lo hanno appena fatto, nel caso della

Romania con le elezioni del novembre 2008 – una rappresentanza parlamentare per i cittadini

emigrati, con la formazione di circoscrizioni estere, sul modello del sistema italiano. Da quanto ci

illustrano gli autori dei tre studi di caso, però, è anche vero che gli sviluppi descritti vanno

inquadrati nella prospettiva suggerita da Østergaard-Nielsen (2003b) per la quale, le trasformazioni

istituzionali e le politiche che gli stati di partenza introducono come conseguenza della presenza di

cittadini all’estero, procederebbero da una ambiguità di fondo che ne fa, essenzialmente sul piano

retorico, dei provvedimenti di attenzione verso le istanze e le esigenze di rappresentanza degli

emigrati. Nella realtà, si tratterebbe di politiche di controllo, le cui intenzioni sono di tracciare i

confini di azione entro i quali gli stati codificano o intendono circoscrivere gli spazi di manovra

politica transnazionale dei migranti. In breve, gli stati di partenza cercano di disegnare un quadro

giuridico che consenta loro di concedere l’idea di una rappresentanza e di una “voce” agli emigrati,

per ottenerne la “fedeltà” intorno a politiche di interesse interno e internazionale.

Purtroppo, i limiti – temporali e di risorse – entro i quali si è dovuta modulare la nostra

ricerca non ci hanno consentito di verificare un ambito di azione sul quale un nuovo filone di studi

particolarmente interessante sta dedicando le proprie attenzioni. Ci riferiamo alle attività di

cosviluppo transnazionali, promosse congiuntamente da stati di partenza e di approdo, quasi sempre

a livello di amministrazioni locali, molto spesso in collaborazione con istituti di credito e alcune

associazioni di migranti. Tali azioni si traducono generalmente in piani di intervento, che utilizzano

le rimesse dei cittadini all’estero, e fanno leva sul loro sentimento di orgoglio di “migrante di

successo”, per finanziare progetti di lavori pubblici delle amministrazioni locali o programmi di

microcredito per la creazione di imprese nelle regioni da cui provengono in prevalenza i migranti

(Lacroix 2003, Orozco 2000, Orozco e Rouse 2007; OECD 2005).

Delineata la cornice di interventi degli stati di partenza verso i loro cittadini all’estero, che

contribuiscono a disegnare uno spazio politico transnazionale, passiamo a considerare l’effettiva

incidenza di tali misure sul comportamento politico transnazionale degli emigrati nei tre gruppi

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considerati. Spostando il fuoco dell’attenzione sui migranti stessi, la ricerca ha cercato di trovare

risposte su come essi interpretino il loro ruolo di attori politici a cavallo dei confini, con che

intensità e frequenza si attivino, se le istanze selle quali si mobilitano siano prevalentemente dirette

verso la madrepatria, l’ambito politico locale di residenza o entrambi i luoghi.

Un primo dato da sottolineare è che, malgrado gli sforzi messi in campo dagli stati di

partenza per attivare politicamente i propri cittadini all’estero, i migranti peruviani, polacchi e

romeni, nonostante i dati relativi alle forme di partecipazione politica convenzionali – voto per le

presidenziali o le politiche del paese di origine – non siano certo trascurabili, mostrano tutti e tre

segnali di forte insoddisfazione verso le modalità di rappresentanza decise dagli stati di partenza. Le

percentuali di votanti all’estero marcano una tendenza a calare, soprattutto nel caso dei peruviani e

dei polacchi, e gli intervistati dichiarano di avere contatti sporadici con le autorità della madrepatria.

Tuttavia, soltanto i peruviani sembrerebbero mobilitarsi in Italia, attraverso l’associazionismo e i

Consejos de Consulta, per cercare di porre rimedio a quello che viene da loro avvertito come un

“deficit democratico”. Polacchi e romeni appaiono meno interessati o meno in grado di attivarsi

verso lo stato di origine. Per quanto riguarda i romeni, in special modo, Altarozzi sottolinea come le

recenti riforme nella legislazione riguardante la partecipazione politica dei cittadini all’estero e le

campagne a sostegno dei diritti delle comunità emigrate siano, in verità, state adottate per iniziativa

esclusiva delle autorità di Bucarest, senza che siano state registrate pressioni particolari da parte

delle comunità romene all’estero.

Nessuna delle tre comunità studiate mostra un coinvolgimento degno di nota nel tipo di

attività che abbiamo definito translocali. Un risultato che, onestamente, desta una certa sorpresa, in

particolare per i peruviani, considerata l’esistenza di ricerche di segno contrario in letteratura e, in

particolare, nel contesto romano (Rhi-Sausi e Conato 2008). Può darsi che ciò dipenda dalle

caratteristiche evidenziate dal campione intervistato, proveniente in prevalenza da contesti urbani,

la capitale Lima in testa, e con un livello di istruzione medio alto, per cui è assai più probabile che

si sia maturato un interesse verso i temi di politica generale, con un minore coinvolgimento verso le

politiche locali. Secondo la ricerca empirica, infatti, i peruviani di Roma e Torino sarebbero più

inclini a un attivismo politico per la promozione dei propri diritti come immigrati nel contesto di

insediamento.

Come già ricordato, in letteratura è ormai assodato che la presenza di pratiche transnazionali

non rappresenti una novità nel comportamento dei migranti internazionali. Tuttavia, si distingue, il

transnazionalismo recente rispetto a quello del passato presenta la novità di riguardare una porzione

più estesa della comunità migrante e di risultare una condizione che si prolunga nel tempo (Smith e

Guarnizo 1998). Osservando differenze e similarità nelle attitudini dei tre gruppi considerati nel

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nostro studio, da una parte, rimane aperta la questione, cui neanche la nostra ricerca sul campo

contribuisce a fornire una seppur limitata risposta, se pratiche transnazionali siano empiricamente

riscontrabili anche nelle cosiddette seconde generazioni o riguardino soltanto la generazione di chi

lascia il paese per insediarsi in uno nuovo. Dall’altra, in tema di intensità e frequenza di pratiche

transnazionali, il campione intervistato in tutti e tre i gruppi analizzati, davvero in una ridotta

minoranza dichiara di recarsi nel paese di provenienza almeno una volta l’anno, anche là dove, nel

caso dei romeni e dei polacchi, per esempio, le connessioni sarebbero a buon mercato e

relativamente agevoli. Non pare, perlomeno su questo specifico punto, di potere apprezzare

variazioni tanto marcate rispetto al caso, per esempio, delle migrazioni transoceaniche degli italiani

a cavallo di XIX e XX secolo, quando per la stagionalità dei loro passaggi, erano definiti

golondrinas o birds of passage. Ancora più bassa è la porzione di intervistati che dichiara di avere

contatti con le autorità o gli attori politici della madrepatria, che rimangono sporadici e occasionali.

Per quanto concerne l’ambito politico, qundue, certe affermazioni su intensità e frequenza delle

pratiche transnazionali odierne andrebbero un po’ ricalibrate e, probabilmente, limitate alla fruzione

della tivù satellitare e dei sistemi di comunicazione informatici, riconducendo quindi l’attenzione a

una dimensione privata/culturale di tali pratiche.

Variabili importanti nel determinare intensità e direzione delle pratiche politiche

transnazionali sono senz’altro anzianità migratoria e orizzonte del progetto migratorio. Per esempio,

tra i peruviani, coloro che sono da più tempo in Italia manifestano maggiore interesse verso il la

politica del loro paese. Intutitivamente, ci si aspetterebe che chi ha da poco lasciato la nazione porti

con sé, ancora attivi, interessi e partecipazione verso un dibattito politico da cui ci si è appena

distanziati. Tuttavia, come bene ricorda Tarantino, appogiandosi a Joppke e Morawska (2003),

ricorre in molti studi di caso che presenza di attività politiche transnazionali e compimento del

percorso di integrazione nella società di insediamento si presentino come processi coesistenti. Tra i

romeni di Torino e quelli di Roma, il fattore discriminante nel differenziare modalità e frequenza

delle attività politiche parrebbe essere, invece, una maggiore o minore decisione nell’orientare il

percorso migratorio sul breve o lungo periodo. In ogni modo, le osservazioni su entrambe le

variabili sembrano determinare utili informazioni sul comportamento all’interno dei singoli gruppi

analizzati, ma non indicano modelli di condotta più generali ed applicabili ad altri casi.

Proseguendo nella comparazione, tra le tre, la comunità peruviana si conferma, come nelle

ipotesi di ricerca, la più “politicizzata”. Lo mette in luce anche Tarantino, nel rendere conto della

frequenza con cui il campione intervistato dichiara di informarsi sui temi politici del loro paese e

italiani, i peruviani denotano un alto livello di coinvolgimento sui temi politici legati al paese di

provenienza e di destinazione. Se la comunità polacca mostra davvero un grado estremamente basso

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non solo di mobilitazione, ma anche di consapevolezza di quelli che sono i suoi diritti politici nel

contesto comunitario, peruviani e romeni appaiono invece assai più informati sulle questioni

fondamentali concernenti il panorama politico di origine, di insediamento e delle relazioni tra

l’Italia e il loro paese. È apprezzabile il livello di militanza in partiti o sindacati della madrepatria da

parte dei romeni osservati, ma anche nei sindacati del contesto di destinazione, a parziale smentita

dell’ipotesi iniziale di un rigetto, che ci si attendeva più marcato, verso la politica romena come

effetto “lungo” della dittatura di Ceausescu, dell’alto livello di corruzione della classe dirigente e

delle difficoltà sistemiche emerse nel periodo della transizione.

Tuttavia, non si deve sovrastimare la capacità di tradurre l’interesse mostrato verso i temi

della politica, anche internazionale, in effettiva mobilitazione. Da un parte, infatti, la

politicizzazione dei romeni appare come una reazione innescata dalla specificità del loro caso nel

contesto italiano, dove il dibattito pubblico e mediatico degli ultimi mesi si è concentrato

sensibilmente sui problemi di ordine pubblico, sorti intorno alla loro presenza nel paese – in

particolare, come ricorda Altarozzi, subito dopo il cosiddetto “caso Mailat” o “caso Reggiani”, la

comunità romena ha reagito all’onda mass-mediatica e politica di accuse mosse nei suoi confronti,

anche attraverso la formazione di associazioni di tutela dei diritti e dell’immagine dei lavoratori

romeni1. Dall’altra, sono le autorità istituzionali romene, in un momento politico particolare come

questo dell’ingresso del paese nella Unione Europea, ad avere interesse a mobilitare gli emigrati

come attori transnazionali e potenziare la loro visibilità politica come strumento di pressione da

utilizzare nelle relazioni con gli stati partner europei. Come emerge dalla lettura del secondo

capitolo, la partecipazione politica in Italia risulta però debole all’atto pratico, non solo per

responsabilità di un sistema politico italiano particolarmente chiuso verso nuovi soggetti, ma anche

per una scarsa capacità o uno basso interesse dei romeni stessi a mobilitarsi.

È il momento, dunque, di dedicarsi alla peculiarità del sistema politico italiano nei confronti

dell’integrazione politica delle tre comunità considerate. È vero che il quadro legislativo delle tre

nazioni di origine può presentare differenze – anche se non troppo, come evidenziano le precise

ricostruzioni storiche dell’evoluzione delle politiche verso gli emigrati, ospitate all’inizio dei singoli

capitoli –, così come la condizione di appartenenza alla Unione Europea può comportare, già in

partenza, uno spettro più ampio di opportunità di partecipazione per i cittadini polacchi e romeni –

diritto di voto alle elezioni amministrative e per le elezioni europee – rispetto ai peruviani. Tuttavia

il contesto italiano, specialmente per quanto concerne la militanza politica attiva e l’accesso alle

partecipazione politica, si caratterizza per essere un sistema particolarmente chiuso, a bassissimo

1 Si veda a mo’ di esempio il sito http://www.romanilatorino.net/ dell’associazione Amici Romania Forum, nata nel gennaio 2007 per iniziativa di cittadini italiani e romeni, con l’intento di promuovere una maggiore integrazione tra i due popoli.

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tasso di turn over, poco in grado di recepire le trasformazioni in atto nella società, soprattutto in

termini di rappresentanza (Urbinati 2008). Nei confronti degli immigrati, poi, gli effetti di una

discriminazione positiva nei confronti del cittadino comunitario sono ridotti, nella prassi, da un

generico atteggiamento di rifiuto verso lo “straniero”, che ha caratterizzato ancora più

marcatamente l’Italia recente. È interessante notare come, nel campione intervistato, siano gli

immigrati romeni, oggetto di una campagna politica e mediatica di discriminazione molto violenta,

a tratti xenofoba, (quasi) senza precedenti (Mai 2002), gli unici a ritenere che un coinvolgimento in

attività politiche possa essere nocivo alla loro integrazione nel paese. Chiusura e discriminazione, ci

insegna spesso la storia, sortiscono però l’effetto contrario a quello desiderato e finiscono per

accelerare la politicizzazione delle comunità immigrate e la loro domanda di partecipazione. Per di

più in termini transnazionali, chiedendo cioè diritti e rappresentanza nel paese di insediamento,

mentre si esercitano pressioni sulle istituzioni dello stato di origine perché intervenga. Come

osserva correttamente Altarozzi – e come se ne lamenta l’eurodeputata Weber da lui citata – per

adesso, la mobilitazione degli immigrati romeni in Italia sembra essere molto bassa, in parte per la

chiusura del sistema politico italiano – l’accusa in tal senso, di nuovo, è della Weber – ma in parte

anche per la scarsa motivazione a chiedere “voce” fin qui manifestata dalla comunità.

Il sistema della rappresentanza politica in Italia, però, non è nemmeno così impermeabile

agli immigrati, se consideriamo i dati forniti dagli studi sui casi romeni e peruviani, dove un numero

non risibile di intervistati dichiara di essere iscritto a un partito o a un sindacato italiani e di

prendere parte attivamente alle loro iniziative. Senza trascurare, poi, la possibilità di praticare in

alternativa altri canali, rappresentati dall’associazionismo a matrice cattolica e dalla Chiesa, come

dimostra emblematicamente. In sintesi, come in altri settori delle politiche di integrazione – il caso

della scuola e delle seconde generazioni ne è l’esempio forse più eclatante (Ambrosini e Molina

2004, Ministero della Pubblica istruzione 2008a, 2008b), in politica soprattutto il nostro paese

mostra di procedere verso l’integrazione degli immigrati con un passo estremamente lento.

In conclusione, possiamo parlare, per tutti e tre i casi analizzati, di presenza di attività

politiche transnazionali? E in caso di risposta affermativa, che tipo di impatto possiamo prevedere

avranno sul loro percorso di integrazione politica? Con tutti i limiti che denuncia, anche in termini

di accuratezza e consolidamento di strumenti metodologici, l’aproccio transnazionale allo studio

dell’integrazione e della mobilitazione politica dei migranti (Martiniello e Lafleur 2008: 654-657),

un paradigma analitico relativamente nuovo e ancora poco supportato da ricerche empiriche, i

risultati della nostra ricerca non si discostano molto da quelli di altri lavori a carattere

“pionieristico”, conclusi di recente in Italia su altre nazionalità immigrate (Boccagni 2007; Coslovi

e Gomes Faria 2009). La nostra indagine ha l’indubbio valore di ricostruire le politiche

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emigratorie dei paesi di partenza considerati, le strategie implementate, con il valore aggiunto della prospettiva storica, per conseguire una riterritorializzazione delle relazioni tra istituzioni ed emigrati. Si evidenzia come i provvedimenti di (re-)inclusione politica della popolazione residente all’estero siano, per la verità, soggetti a obiettivi, che mutano nel tempo, di politica interna o internazionale degli stati di origine, e mai la risultante di una domanda di partecipazione e rappresentanza efficacemente incanalata dalle diaspore verso le istituzioni della madrepatria. L’indagine empirica conferma che sono poco diffuse forme di transnazionalismo politico – in tutte e tre le declinazioni mututate da Østergaard-Nielsen – tra le comunità peruviana, polacca e romena

in Italia.

Bibliografia

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and Practices, (Carnegie Endowment for International Peace, Washington, DC 2001).

Maurizio Ambrosini e Stefano Molina (a cura di), Seconde generazioni, (Edizioni Fondazione

Giovanni Agnelli, Torino, 2004).

Grzegorz Babiński, Lokalna społeczność polonijna w Stanach Zjednoczonych Ameryki w procesie

przemian. (Wrocław: Zakład Narodowy im. Ossolińskich, 1977).

-------- Więź etniczna a procesy asymilacji: przemiany organizacji etnicznych: zagadnienia

teoretyczne i metodologiczne (Kraków: UJ, 1986.)

-------- Studia nad organizacjami polonijnymi w Ameryce Północnej (Wrocław: Zakł. Nar. im.

Ossolińskich, 1988).

, 2002).

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APPENDICE: Questionario somministrato al campione di intervistati

Sez. 1 – ANAGRAFICA

1.1 Città di residenza/domicilio (area in cui la persona vive e lavora abitualmente: la provincia):

1.2 Luogo di nascita (città e provincia/regione/stato):

1.3 Provincia/regione/stato dove ha vissuto per la maggior parte del tempo in Perù/Romania/Polonia:

1.4 La città/il paese dove ha vissuto per la maggior parte del tempo in Perù/Romani/Perù aveva un numero di abitanti compreso tra: < 1.000 abitanti tra 1.000-5.000 tra 5.000-15.000 tra 15.000-50.000 tra 50.000-100.000 100.000-500.000 > 500.000

1.5 Anno di nascita:

(Classi di età: 18-25 26-30 31-35 36-40 41-45 46-50 51-55 56-60 61-65 65-oltre )

1.6 Sesso: F M

1.7 Stato civile: Nubile/Celibe Coniugata/o Separata/o-Divorziata/o Vedova/o

1.8 Nazionalità dell’eventuale coniuge:

1.9 Numero eventuali figli/e: 0 1 2 3 > 3

1.10 La sua famiglia risiede in Italia? Coniuge Coniuge e figli (almeno un figlio) Figli (almeno un figlio) Non sa/Non risponde

1.11 Titolo di studio conseguito? Nessuno Scuola Elementare/Primaria Scuola Superiore/Secondaria Università Post-universitario Non sa/Non risponde

1.12 Occupazione: Lavoro dipendente Lavoro autonomo Studente Disoccupato Pensionata/o Non sa/Non risponde

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1.13 Settore d’impiego:

Industrie (più di 15 dipendenti) Servizi alle imprese Industrie (meno di 15 dipendenti) Insegnamento (lingua, danza, cucina etc) Edilizia Ristorazione/alberghi Trasporti, movimentazione merci Pulizie Agricoltura Ambulantato Commercio:Abbigliamento Alimentare Internet/Phone Center Altro (specificare: )

Lavoro domestico o di cura (Badante, Colf, ecc.)

Artigianato Terzo settore Impiegatizio Altro (specificare )

1.14 Anno in cui si è trasferito in Italia:

1.15 Principale motivo del trasferimento all’estero: Professionale/economico Affettivo/ricongiungimento familiare Studio Politico Personale/altro (specificare: ) Non sa/Non risponde

1.16 Come giudica il suo livello di conoscenza dell’italiano? nullo scarso sufficiente buono ottimo

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Sez. 2 (paese di provenienza)

2.1 Quante volte è tornato nel suo paese nell’arco di un anno? 0 0,5 1 1,5 2 2,5 3 3,5 4 > 4 Non sa/Non risponde

2.1 bis Per Romeni e Polacchi: la frequenza dei ritorni in patria è cambiata dopo l’ingresso del Suo paese nella UE? Sì, è aumentata No, stessa frequenza Sì, diminuita Non sa/Non risponde

2.2 Quanto dista approssimativamente in Km dall’Ambasciata o dal Consolato del Suo paese di provenienza (anche Ag.Consolare): Stessa città _________(tot. Km) Non sa/Non risponde

2.3 Quante volte ha avuto contatti con l’Ambasciata o il Consolato del Suo paese nell’arco di un anno? 0 0,5 1 1,5 2 2,5 3 3,5 4 > 4 Non sa/Non risponde

2.4 Quanto conosce i temi della politica del suo paese 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

2.5 Nel suo paese era iscritto a un partito? Sì No Non sa/Non risponde

Se sì2.5.bis È ancora iscritto o frequenta abitualmente il partito? Sì No Non sa/Non risponde

2.6 Era iscritto a un sindacato? Sì No Non sa/Non risponde

Se sì2.6 bis È ancora iscritto o frequenta abitualmente il sindacato? Sì No Non sa/Non risponde

2.7 Era membro o frequentava abitualmente qualche Associazione a carattere politico-sociale (ong, gruppi di pressione, movimenti)? Sì No Non sa/Non risponde

Se sì2.7 bis È ancora iscritto o frequenta abitualmente l’associazione? Sì No Non sa/Non risponde

2.8 Conosceva il nome del sindaco della sua città/ del suo villaggio al momento della sua partenza? Sì No Non sa/Non risponde

2.9 Conosce il nome dell’attuale sindaco della sua città/del suo villaggio da cui proviene? Sì No Non sa/Non risponde

2.10 Conosceva il nome del presidente della Provincia/Regione/Stato in cui si trova la sua città di provenienza al momento della sua partenza? Sì No Non sa/Non risponde

2.11 Conosce il nome dell’attuale presidente della Provincia/Regione/Stato in cui si trova la sua città di provenienza? Sì No Non sa/Non risponde

2.12 Sa indicare l’orientamento politico o la composizione della coalizione che governa attualmente la sua Provincia/Regione/Stato? Sì No Non sa/Non risponde

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2.13 Conosce il nome del presidente/primo ministro attualmente in carica in Perù/Polonia/Romania? Sì No Non sa/Non risponde

2.14 Sa indicare l’orientamento politico o la composizione della coalizione che sono attualmente al governo nel Suo paese? Sì No Non sa/Non risponde

2.15 Esprima il suo grado di interesse verso i seguenti temi politici, riguardanti il suo paese di provenienza:Amministrazione/Governo locale della Sua Provincia/Regione/Stato di provenienza: 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

Dibattito tra i partiti e campagne elettorali 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

Rapporti Romania/Polonia/Perù-Italia 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

Rapporti Romania/Polonia/Perù-UE 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

Economia (politica fiscale, aiuti allo sviluppo e all’occupazione) 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

Emigrazione (assistenza, rimesse, pensioni, etc) 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

Diritti dei lavoratori, Sindacati, Politiche del lavoro 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

2.16 Lei ha il diritto di voto all’estero per le elezioni del Suo paese? Sì No Non sa/Non risponde

2.17 Se sì, quante volte ha esercitato il suo diritto da quando risiede all’estero? Mai < del 50% > del 50% Sempre Non sa/Non risponde

2.18 Quanto considera importante l’opportunità di esercitare il suo diritto di voto all’estero? 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

2.19 Quali di queste forme di attività politica rivolte al Suo paese ha svolto da quando è in Italia? (al massimo 3) ha avviato e/o preso parte a discussioni politiche (comizio o assemblea politica) ha avuto contatti con un dirigente politico/sindacale ha versato offerte in denaro per un candidato o per un partito ha contribuito economicamente a progetti di sviluppo nell’area da cui proviene ha costituito una associazione politica o una sezione di partito/sindacato si è candidato per qualche carica elettiva ha scritto a un giornale ha aderito a un boicottaggio ha firmato una petizione ha preso parte a cortei e manifestazioni ha utilizzato forme di protesta violenta

Altro. Specificare:______________________________________________________________________ Nessuna Non sa/Non risponde

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2.20 Con che frequenza partecipa a forme di attività politica rivolte al Suo paese? Mai Solo per le elezioni Saltuariamente (1-2 volte l’anno) Spesso (almeno 1-2 volte al mese Tutte le settimane/giorni Non sa/Non risponde

2.21 Con che frequenza partecipa ad iniziative con lo scopo di celebrare festività del suo paese? Mai Solo quando ero in Perù/Polonia/Romania Solo da quando sono in Italia Sempre Non sa/Non risponde

2.21 bis In caso di partecipazione a iniziative di celebrazione di festività nazionali, che tipo di forma generalmente assumono tali iniziative? (massimo 2 opzioni) Cortei e manifestazioni pubbliche Raccolta fondi Raccolta firme, petizioni Spettacoli, concerti, cena in spazi pubblici Riunione in sede associazioni Celebrazione privata (casa o gruppi di famiglie)

Altro. Specificare:______________________________________________________________________ Non sa/Non risponde

2.22 Scelga dalla lista i metodi principali attraverso i quali si informa sulla politica e gli avvenimenti del Suo paese: (al massimo 3) Stampa della comunità polacca romena peruviana in Italia Stampa polacca romena peruviana (cioè giornali del paese di provenienza su internet o cartacaeo) Bollettino/Newsletter di associazione a carattere locale del paese di provenienza Stampa italiana Radio e Televisione satellitare del Suo paese di provenienza Radio e Televisione italiana Internet – siti italiani Internet – siti peruviani/polacchi/romeni Associazione frequentata in Italia Associazione del paese di origine Sindacato in patria Partito in patria Partito in Italia (sede estera) Sindacato in Italia (sede estera) I Consolati in Italia I connazionali in Italia I connazionali in patria I miei colleghi Altro (specificare)_______________________________________________________________________ Nessuno di questi/ non mi reputo informato Non sa/Non risponde

2.23 Con che frequenza si informa sugli avvenimenti politici del Suo paese? Mai Solo per le elezioni Saltuariamente (1-2 volte l’anno) Spesso (almeno 1-2 volte al mese Tutte le settimane/giorni Non sa/Non risponde

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Sez. 3 (paese di residenza)

3.1 Quanto conosce i temi della politica italiana? 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

3.2 È iscritto a o frequenta un partito italiano? Sì No Non sa/Non risponde

3.3 È iscritto a o frequenta un sindacato italiano? Sì No Non sa/Non risponde

3.4 È membro di qualche associazione a carattere politico o sociale (associazione di immigrati, ong, gruppi di pressione, movimenti)? Sì No Non sa/Non risponde

3.5 Conosce il nome dell’attuale sindaco della città italiana in cui vive? Sì No Non sa/Non risponde

3.6 Conosce il nome dell’attuale presidente della Regione italiana in cui vive? Sì No Non sa/Non risponde

3.7 Sa indicare l’orientamento politico o la composizione della coalizione che governa attualmente la Regione italiana in cui vive? Sì No Non sa/Non risponde

3.8 Conosce il nome del presidente del Consiglio attualmente in carica in Italia? Sì No Non sa/Non risponde

3.9 Sa indicare l’orientamento politico o la composizione della coalizione che sono attualmente al governo in Italia? Sì No Non sa/Non risponde

3.10 Potrebbe collegare a ogni partito il rispettivo leader, scegliendo dalla lista dei nomi proposti?

La Destra Silvio Berlusconi

Fausto Bertinotti

Italia dei Valori (IDV) Emma Bonino

Umberto Bossi

Partito Democratico (PD) Pierferdinando Casini

Antonio Di Pietro

Udc (Unione di Centro) Gianfranco Fini

Clemente Mastella

La Sinistra Arcobaleno Alessandra Mussolini

Giorgio Napolitano

Lega Nord Romano Prodi

Francesco Rutelli

PdL (Popolo della Libertà) Daniela Santanché

Francesco Storace

Udeur Walter Veltroni

Non sa/Non risponde

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3.11 Esprima il suo grado di interesse verso i seguenti temi politici, riguardanti l’Italia:Amministrazione/Governo locale della Regione in cui vive 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

Dibattito tra i partiti e campagne elettorali 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

Rapporti Italia/Romania/Polonia/Perù 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

Economia (politica fiscale, aiuti allo sviluppo e all’occupazione) 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

Immigrazione (quote, assistenza, rimesse, pensioni, etc) 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

Diritti dei lavoratori, Sindacati, Politiche del lavoro 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

Cittadinanza (norme che regolano l’accesso alla cittadinanza italiana, anche per i minori e gli stranieri nati in Italia) 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

3.12 Lei ha il diritto di voto per le elezioni italiane? Sì No Non sa/Non risponde

Se sì3.12.1 per quali elezioni tra quelle nell’elenco ha diritto di voto in Italia? (barrare anche più di una) Politiche/generali italiane Amministrative/Locali Europee Tutte Non sa/Non risponde

3.12.2 Se sì, quante volte ha esercitato il suo diritto da quando ne ha facoltà? Mai < del 50% > del 50% Sempre Non sa/Non risponde

3.13 Quanto considera importante l’opportunità di possedere il diritto di voto in Italia? 0 per niente 1 poco 2 abbastanza 3 molto Non sa/Non risponde

3.14 Quali di queste forme di attività politica su questioni che riguardano la sua vita qui ha svolto da quando è in Italia? (al massimo 3) ha avviato e/o preso parte a discussioni politiche (comizio o assemblea politica) ha avuto contatti con un dirigente politico/sindacale ha versato offerte in denaro per un candidato o per un partito ha costituito una associazione politica o una sezione di partito/sindacato si è candidato per qualche carica elettiva ha scritto a un giornale ha aderito a uno sciopero o un boicottaggio ha firmato una petizione ha preso parte a cortei e manifestazioni ha utilizzato forme di protesta violenta Altro (specificare)_______________________________________________________________________ Nessuna Non sa/Non risponde

3.15 Con che frequenza partecipa a forme di attività politica legate alla sua vita in Italia? Mai Solo per le elezioni Saltuariamente (1-2 volte l’anno) Spesso (almeno 1-2 volte al mese Tutte le settimane/giorni Non sa/Non risponde

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3.16 Scelga dalla lista i tre metodi principali attraverso i quali si informa sulla politica e gli avvenimenti italiani: Stampa della comunità polacca romena peruviana in Italia Stampa polacca romena peruviana (cioè giornali del paese di provenienza) Stampa italiana Radio e Televisione satellitare del Suo paese di provenienza Radio e Televisione italiana Internet – siti italiani Internet – siti peruviani/polacchi/romeni Associazione frequentata in Italia Associazione del paese di origine Sindacato (italiano) Partito (italiano) I connazionali in Italia I connazionali in patria I miei colleghi Altro (specificare)______________________________________________________________________ Nessuno di questi/ non mi reputo informato Non sa/Non risponde

3.17 Con che frequenza si informa sugli avvenimenti politici italiani? Mai Solo per le elezioni Saltuariamente (1-2 volte l’anno) Spesso (almeno 1-2 volte al mese Tutte le settimane/giorni Non sa/Non risponde

3.18 Ha mai pensato che fare attività politica in Italia e fare attività politica in Perù/Romania/Polonia possa essere fonte di complicazioni per la sua vita o per i rapporti tra i due paesi? Sì No Non sa/Non risponde

3.19 Crede che le Autorità del suo paese possano considerare scorretto o sconveniente il fatto che lei svolga qualche attività politica in Italia? Sì No Non sa/Non risponde

3.20 Crede che le Autorità italiane possano considerare scorretto o sconveniente il fatto che lei svolga qualche attività politica nel suo paese? Sì No Non sa/Non risponde

3.21 Con quale di queste affermazioni si sente maggiormente d’accordo? prendere parte ad alcune attività politiche nel mio paese/per il mio paese è assolutamente incompatibile con la mia integrazione in Italia prendere parte ad alcune attività politiche nel mio paese/per il mio paese è perfettamente compatibile con la mia integrazione in Italia prendere parte ad alcune attività politiche nel mio paese/per il mio paese non ha nulla a che fare con la mia integrazione in Italia Non sa/Non risponde

3.22 Con quale di queste affermazioni si sente maggiormente d’accordo? prendere parte ad attività politiche in Italia mi stimola a prendere parte ad attività politiche nel mio paese/per il mio paese prendere parte ad attività politiche in Italia mi disincentiva a prendere parte ad attività politiche nel mio paese/per il mio paese prendere parte ad attività politiche in Italia non ha nessuna influenza sulla mia partecipazione ad attività politiche per il mio paese/nel mio paese Non sa/Non risponde

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Questionario

Pe #______

Pl #______

R #______

Data dell’intervista: ____________________

Luogo dell’intervista: ____________________

Durata dell’intervista:____________________

Grado di disponibilità dimostrato dall’intervistato: elevato buono discreto scarso nullo

Grado di interesse per il tema dimostrato dall’intervistato: elevato buono discreto scarso nullo

Grado di competenza rispetto al tema dimostrato dall’intervistato: elevato buono discreto scarso nullo

Lingua utilizzata per l’intervista:

italiano polacco rumeno spagnolo

Se in italiano, grado di competenza linguistica riscontrato dall’intervistato: elevato buono discreto scarso nullo

Commenti dell’intervistatore:

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I. IL CASO PERUVIANO. LE COMUNITÀ PERUVIANE A ROMA E TORINO.Francesco Tarantino

INDICE

I.1 -La nascita della questione migratoria in Perú: fasi e caratteristiche di un esodo

I.1.1 “El quinto suyo” e la nascita della questione migratoria.I.1.2 Fasi e caratteristiche dell’emigrazione peruviana nel mondo.

I.2 - Legislazione e politica migratoria dello Stato peruviano

I.2.1 La questione migratoria come issue centrale nelle politiche stataliI.2.2 I Consejos de Consulta tra partecipazione e deficit democratico.I.2.3 Le istituzioni coinvolte e lo schema delle competenze.I.2.4 Dal Governo Toledo al Governo Garcìa: i principali punti dell’attuale politica migratoria dello Stato peruvianoI.2.5 Le “sette politiche” migratorie del Governo peruviano

I.3 La comunità peruviana in Italia: i casi di Roma e Torino.

I.3.1 La comunità peruviana in Italia.I.3.2 Peruviani a Roma e Torino, nei dati dell’ISTAT e delle Amministrazioni Comunali: numero, genere ed etàI.3.3 Alcuni dati dei Consolati: provenienza, età, stato civile, livello di istruzione e occupazione.I.3.4 Le Associazioni peruviane a Roma e Torino.I.3.5 La partecipazione politica dei peruviani in Italia: il voto per le presidenziali del 2006

I.4 L’indagine empirica nelle città di Roma e Torino

I.4.1 Peruviani a Roma e Torino: i dati emersi dall’indagine empiricaI.4.2 Comportamento politico transnazionale nelle città di Roma e Torino

BIBLIOGRAFIA

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I.1. La nascita della questione migratoria in Perú: fasi e caratteristiche di un esodo

I.1.1 “El Quinto Suyo” e la nascita della questione migratoria.

L’antico impero Inca, che aveva la sua capitale nella città peruviana di Cusco, esisté per poco più

di trecento anni, prima di essere definitivamente annientato dai conquistadores spagnoli nel

sedicesimo secolo. Nel periodo di massima espansione, l’Impero contava quattro grandi regioni e i

suoi confini andavano ben oltre quelli attuali dello Stato peruviano. Era chiamato, nella lingua

quechua, Tawantisuyu, letteralmente “le quattro regioni unite tra loro”2.

Negli ultimi decenni, quando il fenomeno migratorio peruviano ha iniziato a prendere la

consistenza di un vero e proprio esodo è stato introdotto il termine “El Quinto Suyo”, derivato

proprio dall’antica parola quechua che indicava il nome dell’Impero Inca. Tale espressione, ormai

ampiamente utilizzata sia in ambito politico che accademico, indica un’ipotetica quinta regione del

Perú, costituita dall’insieme dei peruviani emigrati nel mondo. La nazione peruviana, ormai, ha

confini che vanno aldilà di quelli territoriali, e l’importanza politica ed economica dei milioni di

emigrati non è sfuggita all’attuale classe politica che, attraverso la retorica del “Quinto Suyo”, tenta

in ogni modo di mantenerli legati alla madrepatria. Tale attenzione, nata con il Governo del

Presidente Alejandro Toledo (2001-2006), è coincisa con il periodo di massima espansione dei

flussi migratori in uscita, che hanno portato a un notevole incremento del peso economico delle

rimesse inviate dall’estero e del peso politico del voto esercitato dai peruviani nel mondo. Sotto

questo profilo infatti, come osservato nell’analisi del voto peruviano del 2000 del politologo

Gregory Schmidt, per la prima volta il voto dall’estero si è rivelato essere decisivo nella scelta del

futuro Presidente, essendo stata minima la differenza tra i due candidati al primo turno (Schmidt,

2002, p. 346)3.

Se la nascita di una questione migratoria per i governi di Lima è cosa relativamente recente,

l’emigrazione peruviana ha radici un po’ più lontane. Vale la pena osservarne brevemente le tappe

storiche, nonché l’entità numerica, prima di vedere in che modo la questione è stata affrontata a

livello politico.

La mancanza di un registro anagrafico dei residenti all’estero rende impossibile, per lo Stato

peruviano, quantificare esattamente il numero di connazionali che vivono fuori dei propri confini.

Sono pochi anni, peraltro, che le istituzioni peruviane, a vari livelli, hanno intrapreso studi e

ricerche per quantificare e studiare le caratteristiche della presenza peruviana nel mondo.

2 L’espansione della civiltà Inca nella Valle di Cusco risalirebbe al 1250 circa, ma è solo dopo la prima metà del ‘400 che il Regno si espande a dismisura riuscendo a sottomettere numerose altre civiltà limitrofe. L’arrivo di Pizarro e dei conquistadores spagnoli risale al 1527 mentre la scomparsa definitiva del Tawantisuyu risale al 1572, quando l’ultimo imperatore Tupac Amaru fu decapitato.3 Inoltre, in occasione delle consultazioni del 2000 si è parlato ampiamente di possibili brogli elettorali che sarebbero stati concertati dal capo del SIN (Servizio di Intelligence Nazionale Peruviano), Vladimiro Montesinos, braccio destro del Presidente Fujimori, proprio attraverso la manipolazione del voto dall’estero (Berg-Tamagno, 2006, p. 261)

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I.1.2 Fasi e caratteristiche dell’emigrazione peruviana nel mondo

Teófilo Altamirano, esperto di storia dell’emigrazione peruviana, ha studiato le caratteristiche, i

motivi e l’entità dell’esodo che hanno portato i peruviani in ogni parte del mondo, individuando

cinque fasi principali di tale fenomeno, alle quali è possibile aggiungere una sesta fase

corrispondente agli ultimi 8 anni:

- prima fase: 1910-1920/1950 ;

- seconda fase: 1950/1960;

- terza fase: 1960/1980;

- quarta fase: 1980/1992;

- quinta fase: 1992/2000;

- sesta fase: 2000/oggi.

La prima fase (1910-1950) dell’emigrazione peruviana vede come principale destinazione i

distretti industriali nordamericani di New York e del New Jersey che stavano sperimentando un

notevole sviluppo industriale. La domanda di lavoro, soprattutto nel settore tessile, era notevole e

molti peruviani, già specializzati nella lavorazione della lana di alpaca, furono ben accolti nelle

fabbriche di Patterson e delle altre città della costa atlantica. In questi stessi anni vi era, inoltre,

un’emigrazione d’élite (per ragioni di studio, potere e prestigio) verso gli Stati dell’Europa

occidentale, dove avevano sede le università più prestigiose (Altamirano, 2000). Andare in Europa

«era un rito di passaggio che formava parte dell’identità oligarchica, soprattutto se significava

andare a studiare in Università come quella di Salamanca, Oxford, la Sorbona o Cambridge»

(Altamirano, 1999: p. 26). L’entità di questa prima ondata migratoria è piuttosto bassa e il Perú, in

quegli anni, continuava a essere principalmente un paese di immigrazione, dove arrivavano molti

giapponesi, italiani, spagnoli, nordamericani e argentini.

La seconda fase (1950-1960) è quella cruciale che vede un cambiamento netto e irreversibile nei

segni dei flussi migratori: il passaggio del Perú da paese di immigrazione a paese di emigrazione.

Tale tendenza era già cominciata nei primi anni cinquanta quando, avviata la ricostruzione post-

guerra in Europa, la situazione economica del vecchio continente migliorò notevolmente e molti

peruviani furono attratti dalle nuove possibilità di lavoro. Di contro, in molti paesi latinoamericani,

la situazione economica peggiorò gradualmente soprattutto per le classi medie che videro ridotto il

loro potere d’acquisto. Le politiche adottate dai vari Governi peggiorarono la situazione, portando

la disoccupazione a livelli insostenibili. Le destinazioni preferite erano Spagna, Italia e Francia. Ma

soprattutto la maggior parte dei peruviani si dirigeva verso gli Stati Uniti, grazie ad un’offerta di

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lavoro certamente più attraente. Non si hanno dati esatti della popolazione peruviana emigrata fino

al 1960 ma, confrontando le stime delle uscite dal paese con i dati in calo delle entrate, appare

abbastanza evidente che, a partire dagli anni cinquanta, il numero di emigrati inizia a superare il

numero di immigrati

La terza fase (1960-1980) vede un aumento ulteriore dei flussi in uscita, insieme ai livelli più

bassi di flussi in entrata nel paese. Investitori stranieri e lavoratori immigrati, infatti, abbandonano

gradualmente la possibilità di scegliere Lima come luogo di opportunità per lavoro e affari. È

l’epoca dei governi militari nazionalisti che si opponevano al mondo occidentale: nazionalizzazioni

delle banche, delle industrie e la riforma agraria furono i fattori che più influenzarono l’inversione

dei flussi emigratori di questo periodo. Tale indirizzo politico, che comportò un’apertura

diplomatica e commerciale con i paesi del blocco comunista, fu la causa di una nuova ondata

migratoria di studenti verso le Università di Praga, Mosca e Budapest. Inizia anche un consistente

flusso migratorio verso altre destinazioni continentali come Messico, Argentina e Venezuela.

L’emigrazione verso l’Europa Occidentale (Francia e Spagna soprattutto) è piuttosto bassa in questo

periodo e, contrariamente a quella verso gli Stati Uniti, non è connotata da una forte presenza di

lavoratori quanto piuttosto di studenti dell’élite bianca e mestiza di Lima4. Da questa fase è

possibile anche formulare le prime stime sul numero di peruviani nel mondo. Secondo Altamirano

(1999: p. 28), nel 1980, era già di 500.000 il numero di emigrati mai rientrati di cui oltre 300.000

residenti negli Stati Uniti.

La quarta fase (1980-1992) corrisponde con il difficile ritorno a un regime democratico e con il

periodo di più grande violenza politica della storia del paese. La dura lotta dello Stato peruviano

contro il terrorismo interno di stampo marxista-rivoluzionario di Sendero Luminoso, lasciò sul

campo numerose vittime, un alto grado di paura e incertezza, e una profonda crisi politica e

culturale che avrebbe pesantemente segnato anche gli anni successivi. La violenza politica degli

anni ottanta, peraltro, non produsse solo l’emigrazione volontaria, ma anche una buona quantità di

esiliati politici. Si stima che uno ogni quattro migranti di questa fase sia stato costretto a lasciare il

paese per motivi politici (Altamirano, 1999: p. 28). Internamente questi anni di violenza produssero

circa 800.000 rifugiati, che dalle zone più periferiche e instabili del paese si riversarono in massa

intorno alla capitale Lima e alla zona costiera dando vita a quegli agglomerati di baracche e case

fatiscenti noti come pueblos jovenes. Neanche l’epoca della dittatura militare riuscì a produrre un

numero così elevato di rifugiati interni.

La crisi economica e il forte impoverimento del paese furono, inoltre, gli altri fattori che

produssero un deciso aumento dell’emigrazione nonché un cambio nelle destinazioni raggiunte. A

4 La società peruviana è costituita da amerindi o nativi 45%, mestizos (nati dall’unione tra spagnoli e nativi) 37%, Europei 15%, Afro-Peruviani 2%, Asiatici 1%.

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partire dalla seconda metà degli anni ottanta, infatti, gli Stati dell’Europa occidentale (soprattutto

Spagna e Italia, ma anche Germania, Francia e Belgio) diventano le mete principali per i lavoratori

peruviani, così come il Giappone che aprì negli stessi anni le frontiere ai discendenti dei suoi

emigrati in Perú5. Stando alle stime del Ministero degli Esteri e della Direzione Generale per le

Migrazioni e le Naturalizzazioni (DIGEMIN) presso il Ministero dell’Interno, l’anno di maggiore

emigrazione fu il 1989, lo stesso anno in cui la violenza politica nel paese e gli attentati terroristici

in piena città a Lima raggiunsero il loro apice: circa 80.000 peruviani partiti in quell’anno non

hanno fatto più ritorno6. L’incremento dell’emigrazione in questa fase portò a superare ampiamente

la cifra di un milione di emigrati. Secondo le stime di Altamirano (1999: p. 28), nel 1992, la

popolazione peruviana nel mondo sarebbe ammontata a circa 1.500.000 unità.

La quinta fase (1992-1999) è caratterizzata da un ulteriore incremento dei flussi migratori,

questa volta dovuto alla stabilizzazione economica e al miglioramento della situazione politica nel

paese, con una netta prevalenza delle destinazioni europee, in particolare Italia e Spagna. Di questo

periodo è possibile anche avere delle cifre ufficiali sui flussi in uscita: secondo un’indagine

recentemente pubblicata, condotta congiuntamente dall’OIM (Organizzazione Internazionale delle

Migrazioni) e dall’INEI (Instituto Naciónal de Estadistica y Informatica del Perú), nel periodo

1992-1999 sarebbero emigrati 420.239 peruviani, con una media, dunque, di oltre 52.000 unità

all’anno7. È ipotizzabile, di conseguenza, che il numero di peruviani all’estero negli ultimi anni

novanta sfiorasse la quota dei due milioni, a fronte di una popolazione totale di 25.230.0008.

La sesta fase (2000-oggi) vede un incremento senza precedenti dei flussi in uscita con aumenti

fino a sei volte rispetto alla media del periodo precedente; nel solo anno 2006 sono emigrate

complessivamente 291.500 persone.

Tale balzo in avanti, certamente inatteso anche dai più illustri studiosi dei fenomeni

migratori in Perú, ha di colpo portato l’attenzione dei policy-makers sulla questione, inaugurando

una fase assolutamente nuova nella gestione migratoria dello Stato peruviano. Per aver un’idea

dell’entità di tale aumento, si consideri che tra il 2000 e il 2007 sarebbero emigrati dal Perú

1.405.633 cittadini, vale a dire 175.700 all’anno di media, con aumento del 250% rispetto agli otto

anni precedenti. In altre parole, nel solo periodo 2000-2007, sarebbero partiti tanti cittadini quanti

5 È interessante vedere che tra le mete di destinazione dei peruviani risaltano proprio quei paesi da dove, decenni prima, erano emigrate migliaia di persone in Perú, confermando sostanzialmente un legame già esistente tra il paese andino e le altre destinazioni europee, americane o asiatiche. Sulla relazione tra immigrazione ed emigrazione in Perú: Ulla D. Berg e Karsten Pærregaard, El 5to Suyo, Introducción, IEP, 2005, Lima, p. 12.6 Le stime del DIGEMIN sull’entità del flusso migratorio sono basate sul numero di cittadini peruviani che si sono presentati presso un posto di frontiera lasciando il paese e che non hanno più fatto ritorno. 7 Fonte: Perú: estadisticas de la migración internacional de peruanos 1990-2007, Organización Internacional para las Migraciones, Lima, 2008, p. 21, tab. n.1. Le stime sono ricavate dai dati forniti dal DIGEMIN sulle uscite e sugli ingressi nel paese.8 Fonte: INEI

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quelli emigrati in totale tra gli anni venti e gli anni novanta. Le cause di questo vero e proprio esodo

sono da ricercarsi certamente nel peggioramento delle condizioni economiche e politiche del paese,

nel ritorno di un grave deficit democratico e della violenza di Stato, nell’era del Governo Fujimori.

In realtà negli ultimi quattro anni le condizioni economiche sembrano essere migliorate decisamente

con un aumento del PIL e dei tassi di occupazione; nonostante ciò, fatta eccezione per l’anno 2007

che ha registrato una leggera flessione, l’emigrazione continua a ritmi sostenuti, testimoniando così

l’importanza dell’emigrazione come fattore strutturale dell’economia peruviana oltre ad una certa

rilevanza del fattore inerziale tra le cause del movimento migratorio peruviano.

Attraverso le stime costruite dall’OIM e dal DIGEMIN, si può solo calcolare che, in totale,

nel periodo compreso tra il 1990 e il 2007 il numero di peruviani usciti dal paese e mai rientrati è

pari a 1.940.8179. È possibile quindi ipotizzare, al netto dei rientri registrati e senza calcolare

l’enorme numero di emigrati irregolari, che siano circa 3.000.000 i peruviani che oggi risiedono

legalmente all’estero, vale a dire circa il 10% dell’intera popolazione.

Il Grafico n.1 mette in evidenza i paesi di destinazione dell’emigrazione peruviana negli

ultimi diciotto anni.

Grafico n.1 – Destinazione dell’emigrazione peruviana dal 1990 al 2008.

Fonte: Elaborazione su dati OIM e DIGEMIN.

I.2 Legislazione e politica migratoria dello Stato peruviano

I.2.1 La questione migratoria come issue centrale nelle politiche statali

9 Fonte: ibidem, p. 20.

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L’importanza di studiare e comprendere le linee generali della politica migratoria dello Stato

peruviano rientra nella consapevolezza che gli Stati di origine dei migranti svolgono un ruolo

chiave nei processi migratori, nei processi di integrazione e nello sviluppo di pratiche transnazionali

(Østergaard-Nielsen, 2003).

La nascita di una questione migratoria, come issue centrale nelle politiche pubbliche dello Stato

peruviano, è relativamente recente e coincide con il periodo di esplosione dell’emigrazione. Fino

agli anni novanta, infatti, non vi era il minimo interesse da parte delle istituzioni alla questione

migratoria, ritenuta probabilmente meno rilevante dei temi legati al terrorismo interno e alla

stabilità economica.

La prima iniziativa degna di rilevanza risale al 1997, quando il Dipartimento di Sostegno e

Protezione del Cittadino, una sezione dell’Ufficio Affari Consolari del Ministero degli Esteri,

promosse alcune iniziative bilaterali per regolamentare l’immigrazione in Argentina, per

regolarizzare alcuni migranti peruviani in Giappone e per facilitare la concessione di visti di studio

per i migranti verso la Bolivia (Berg e Tamagno, 2006; p.260).

Negli anni successivi, con l’aumento significativo dei peruviani che lasciavano il paese, la

questione si impose in maniera più decisa e durante la presidenza di Alejandro Toledo (2001-2006)

il tema divenne centrale sia durante la campagna elettorale che durante il suo mandato, con l’avvio

di una serie di significative riforme e la scelta di intraprendere una politica migratoria coerente con

la nuova situazione. I motivi di tale svolta sono da ricercarsi senza dubbio negli effetti economici e

politici di un’improvvisa crescita del numero di persone che lasciavano il paese. I primi fanno

riferimento innanzitutto alla questione delle rimesse: basti pensare che le rimesse inviate dai

peruviani nel mondo sono passate, dal 2001 al 2006, da 930 milioni di dollari a 2.689 milioni di

dollari, con un relativo aumento dell’influenza sul PIL nazionale dal 1,3% al 2,0%10.

Gli effetti politici sono essenzialmente riconducibili al tema del voto all’estero sia da un punto di

vista quantitativo che, potremmo dire, qualitativo. L’aumento esponenziale dell’emigrazione ha

portato, come è ovvio, a un aumento proporzionale dell’elettorato all’estero e a un’indiscussa

centralità del relativo comportamento di voto, rivelatosi quasi decisivo, per la prima volta, proprio

nelle elezioni presidenziali del 2001. In Perú i cittadini residenti all’estero hanno diritto di voto per

le elezioni presidenziali e per il rinnovo dei membri del Congresso, così come stabilito dalla Legge

Organica delle Elezioni n. 26859. L’articolo 21 di tale legge stabilisce che “gli elettori residenti

all’estero sono considerati dentro il Distretto Elettorale di Lima”. Non esiste pertanto, fino a questo

momento, una rappresentanza politica ad hoc per i peruviani all’estero e il loro voto confluisce, e si

“disperde”, in quello del distretto elettorale della capitale.

10 Fonte: Observatorio Socio Laboral Lima Norte, El comportamiento de las remesas internacionales: el caso de Lima Metropolitana 2002-2006, Universidad Sedes Sapientiae, Lima, 2008, p. 29.

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La retorica del “Quinto Suyo”, ampiamente utilizzata dal Governo Toledo, mise per la prima

volta in luce la dimensione numerica ed economica dell’emigrazione peruviana. L’Impero Inca

(Tawantisuyu) fu preso come modello di efficienza da imitare, nell’amministrazione di uno Stato

disperso e frammentato, il cui popolo viveva ormai in ogni angolo del mondo11.

Nel 2001 è stato creato il Sottosegretariato delle Comunità Peruviane all’Estero, presso il

Ministero degli Affari Esteri, nato con l’obiettivo di fornire assistenza legale e umanitaria sia ai

connazionali nel mondo, sia alle loro famiglie rimaste in patria12. Tra gli obiettivi principali di

questo nuovo organo c’è quello di creare un canale permanente di comunicazione e coordinamento

tra le comunità peruviane nel mondo e lo Stato peruviano, nonché quello di promuovere le politiche

migratorie adatte a difendere l’interesse nazionale e quello del migrante. Per rendere effettivi parte

di questi obiettivi si annunciava inoltre la nascita dei Consejos de Consulta come organizzazioni

autonome di supporto all’attività consolare ed espressione diretta delle comunità peruviane nel

mondo13. Alcuni forti elementi di crisi tra lo Stato peruviano e le comunità all’estero, però, sono

recentemente emersi intorno a tale questione; nel paragrafo successivo vedremo brevemente

l’evoluzione e le problematiche legate a tali organi.

Tra le ultime rilevanti iniziative in materia migratoria, messe in atto dal Governo di Toledo,

merita accennare anche alla Ley de incentivos migratorios del 2005. Tali norme sono state adottate

con lo scopo di facilitare e incentivare il rientro di connazionali professionalizzati in Perú e

arginare, in qualche modo, l’emorragia di peruviani che in quegli anni subiva un’accelerazione

senza precedenti14. La legge prevede una serie di sgravi fiscali doganali per il rientro di capitale, sia

in denaro sia sottoforma di strumenti professionali e macchinari da lavoro, al fine di incentivare gli

investimenti e il reinserimento lavorativo degli emigrati. Tale pacchetto di norme si rivolge ai

peruviani che sono all’estero da almeno 5 anni, i quali devono presentare un’istanza scritta in cui

dichiarano la volontà di rientrare in Perú e di volersi avvalere della cosiddetta legge sul ritorno.

In realtà, secondo quanto affermato dallo stesso Sottosegretariato delle Comunità Peruviane nel

Mondo tali norme si sono rivelate abbastanza inutili, se si pensa che dall’entrata in vigore della

11 Vale la pena ricordare che il Presidente Toledo scelse addirittura di celebrare la sua cerimonia di investitura tra le spettacolari rovine Inca di Machu Picchu. Berg e Tamagno forniscono un’ interpretazione interessante della retorica sul “Quinto Suyo”, affermando come l’origine indigena-mestiza del Presidente Toledo e la necessità di essere riconosciuto dall’élite bianca di Lima, da sempre al potere in Perú, abbia giocato un ruolo fondamentale nel suo discorso politico anche in tema migratorio, confermando sostanzialmente la rigida impostazione classista e razzista della classe politica peruviana. (Berg e Tamagno 2006, p. 263).12 Decreto Presidenziale n.051-2001-RE, Ministero degli Affari Esteri.13 L’organizzazione e le funzioni dei Consejos de Consulta sono regolate dalla Risoluzione Ministeriale n.1197/RE dell’8 novembre 2002 e dalle modifiche introdotte con la Risoluzione Ministeriale .0687/RE del 21 luglio 2004. Sono state inoltre apportate ulteriori modifiche nel mese di dicembre 2008 per le quali si rimanda al testo.14 Legge n. 28182/2005 e relativo regolamento d’attuazione D.S. 028-2005-EF, 1 marzo 2005.

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legge fino a oggi sono rientrate solo 130 persone che si sono avvalse delle norme in questione, di

contro all’uscita di oltre mezzo milione di persone15.

I.2.2 I Consejos de Consulta tra partecipazione e deficit democratico.

I Consejos de Consulta, nati per soddisfare la domanda partecipativa e associativa delle

comunità peruviane nel mondo, non fanno parte dello Stato peruviano, ma si pongono come realtà

di collegamento tra gli Uffici consolari e i cittadini migranti.

Nel novembre del 2002 iniziarono a essere creati ed eletti i primi Consejos de Consulta e

attualmente ne sono in funzione 96, presenti nelle circoscrizioni consolari del mondo dove la

presenza peruviana è più consistente16. Dal 2005, inoltre, ogni anno si svolge una Conferenza

mondiale dei Consejos de Consulta alla quale prendono parte anche rappresentanti del Governo

centrale e del Ministero degli Esteri. Alla prima di queste conferenze, svoltasi nel settembre del

2005 in New Jersey negli Stati Uniti, presero parte 17 Consejos de Consulta, di cui 11 americani e 6

di altre parti del mondo. L’anno seguente, nella conferenza di Barcellona in Spagna, si riunirono 10

Consejos de Consulta insieme a 9 delegazioni di associazioni internazionali coinvolte nella

protezione del migrante peruviano. La conferenza del 2007 si è svolta invece a Lima e ha visto la

partecipazione di ben 25 Consejos de Consulta e di 21 associazioni e istituzioni legate

all’emigrazione dei peruviani.

L’utilità di questi incontri annuali, in crescita negli ultimi due anni, è quella di elaborare richieste

di policy specifiche alle Autorità di Governo, nonché sollecitare e vigilare sull’attuazione delle

norme già messe in campo per la tutela delle comunità peruviane nel mondo.

La realtà degli ultimi mesi, però, ha messo in evidenza come la creazione dei Consejos abbia

rivelato tutto il potenziale di conflitto tra comunità peruviane nel mondo e Governo di Lima,

probabilmente preoccupato da un eccessivo potere e autonomia di tali organi consultivi.

Nel corso della III Conferenza Internazionale dei Consejos de Consulta nel 2007 era emersa, ad

esempio, l’esigenza di modificare il Regolamento che organizza e stabilisce il funzionamento degli

stessi Consejos per garantire maggiore rappresentatività, maggiore partecipazione e regole di

funzionamento più democratiche. Il problema è scoppiato proprio tra il 2007 e il 2008 laddove

alcuni Presidenti dei Consejos sono entrati in conflitto aperto con i Consoli, talvolta tacciati di vero

e proprio autoritarismo17. A Roma, ad esempio, dopo lo scioglimento del Consejo appena eletto non

si è riusciti ad eleggere un nuovo organo e le conflittualità interne alla comunità e quelle tra questa e

il Consolato hanno prodotto la vacanza del Consejo, che dura a tutt’oggi.15 Intervista al Consigliere José Mariano De Cossio Rivas, Direttore della Protezione delle Collettività Nazionali, Ministero degli Esteri, Lima, personalmente raccolta il 24 luglio 2008.16 Fonte: Ministerio de Relaciones Exteriores; www.consejosdeconsulta.com 17 É il caso ad esempio dei Consoli di Roma e Barcellona secondo quanto affermato da Jorge Varas, ex membro del Consejo de Consulta di Barcellona in un’intervista rilasciata il 22 dicembre del 2008 e apparsa sul sito web dei Consejos de Consulta peruviani, www.consejodeconsulta.com, nel gennaio 2009.

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L’ultimo atto di questa vera e propria battaglia tra comunità all’estero e Stato Peruviano è andato

in scena nel mese di dicembre del 2008 quando, a sorpresa, il Governo ha modificato con un colpo

di mano il Regolamento dei Consejos de Consulta, suscitando aspre critiche nei confronti della

gestione migratoria del Partido Aprista.

La Risoluzione Ministeriale 1414/2008/RE, infatti, firmata dal Ministero degli Esteri Antonio

Garcia Belaunde ha derogato le precedenti risoluzioni che regolavano il funzionamento dei

Consejos, oltre ad emanare le nuove “Linee guida per l’organizzazione delle Relazioni tra il Capo

dell’Ufficio Consolare e i Consejos de Consulta”. Queste nuove linee guida modificano, tra le altre

cose, i requisiti di eleggibilità (introducendo all’art.17 limiti a chi ha avuto precedenti penali o ha

commesso reati politici) e fissano il limite massimo di esercizio della carica di membro del Consejo

a soli dodici mesi (art.21).

Secondo le Comunità peruviane nel mondo, però, la maggiore gravità di tali risoluzioni,

assolutamente non concordate con i Consejos, risiede nei più ristretti criteri di elezione dell’organo.

L’art.12 delle Linee guida approvate stabilisce che all’elezione deve partecipare almeno il 5% degli

aventi diritto al voto all’estero, residenti nel territorio circoscrizionale. Per fare un esempio, nelle

prossime elezioni del Consejo de Consulta di Barcellona, in programma per il 25 gennaio 2009,

dovranno partecipare almeno 2.500 cittadini, pena la vacanza dell’organo e la riconvocazione dei

comizi dopo sei mesi. Passato questo lasso di tempo, qualora non si raggiungesse nuovamente il

quorum, l’elezione del Consejo potrebbe essere indetta nuovamente solo previa richiesta di almeno

il 3% dell’elettorato della circoscrizione (1.500 persone, nel caso di Barcellona).

La difficoltà di radunare tanti consensi, testimoniata anche dalla bassissima partecipazione

elettorale di questi anni, ha scatenato l’ira delle comunità peruviane nel mondo, che non hanno

esitato a riconoscere come antidemocratica e autoritaria tale scelta del Governo di Alan Garcìa e dei

suoi ministri.

Il caso dei Consejos è solo un esempio dei rapporti critici tra Stato peruviano e comunità

all’estero, e le critiche volte alla Politica migratoria peruviana restano molto forti.

Ciò che è stato riscontrato da molti analisti e studiosi è che di contro a tali importanti riforme,

volte a strutturare per la prima volta la gestione migratoria dello Stato peruviano, non ci sia stato un

adeguato finanziamento per portare avanti le nuove istituzioni. I membri dei vari Consejos de

Consulta rimangono ancora coinvolti a titolo gratuito e volontario. Anche il ruolo svolto dal

Sottosegretariato delle Comunità Peruviane all’Estero appare tutt’oggi per molti assolutamente

insufficiente e inadeguato a proteggere e garantire i diritti di quasi tre milioni di peruviani nel

mondo.

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Le iniziative degli ultimi governi del Perú confermano sostanzialmente quanto osservato da

alcuni studiosi dei fenomeni transnazionali, circa gli interessi degli Stati di origine che sono alla

base delle loro policies18. Appare chiaro che vi sia un duplice indirizzo delle politiche adottate dai

Governi di Lima: da un lato c’è l’indirizzo prettamente economico, legato all’importanza ormai

vitale delle rimesse per l’economia statale e alla possibilità di rientro di capitale umano

specializzato da poter impiegare per far fronte all’emorragia di personale professionalizzato degli

ultimi anni. Dall’altro si dichiara la necessità di garantire una rappresentanza politica autonoma del

“Quinto Suyo”, rafforzando e controllando il ruolo dei Consejos de Consulta e ipotizzando una

rappresentanza ad hoc in Parlamento per i peruviani nel mondo, sul modello italiano. È questo

l’indirizzo di alcuni progetti di legge attualmente in discussione nelle competenti commissioni del

Congresso: in sostanza si propone di modificare l’art.21 della Legge Organica delle Elezioni

n.26859, introducendo un numero di parlamentari eletti solamente dai peruviani nel mondo, sul

modello della Circoscrizione Estero introdotta in Italia con la Legge Cost. n.1/200119. L’attuale

Presidente Alan Garcìa ha promesso l’approvazione di tale riforma nell’arco del suo mandato

presidenziale.

La volontà di garantire la rappresentanza politica dei peruviani nel mondo è emersa solo negli

ultimi anni, quando i responsabili di Governo per le questioni migratorie si sono resi conto che

l’elevato numero di connazionali all’estero, oltre a rappresentare un importante serbatoio elettorale,

imponeva una serie riflessione sugli strumenti e sugli spazi politici da creare per la loro

rappresentanza e per la loro partecipazione e, ovviamente, per il loro controllo. Nonostante ciò il

primo indirizzo, quello economico, appare ancora come il più seguito e il più rilevante: dall’analisi

di alcune recenti politiche del Governo in tema di emigrazione, che illustreremo tra breve, emerge

chiaramente un’attenzione speciale alle questioni legate alle rimesse, agli investimenti in patria e al

ritorno di capitale umano specializzato. Prima, però, conviene spendere alcune parole sulle

istituzioni coinvolte ai vari livelli nella gestione migratoria e sulla ripartizione delle competenze tra

loro.

I.2.3 Le istituzioni coinvolte e lo schema delle competenze.

La gestione migratoria dei peruviani all’estero è competenza, come spesso accade, di una

pluralità di istituzioni che dovrebbero coordinare i loro sforzi e le loro azioni. In Perú non esiste un

singolo Ministero che curi gli interessi dei peruviani all’estero e la maggior parte delle competenze

sono suddivise tra tre principali attori: il Ministero dell’Interno e in particolare la DIGEMIN; il

Ministero degli Esteri, competente ovviamente dei Servizi Consolari e presso cui è incardinato il

18 Sul punto si rimanda alle riflessioni riportate nell’Introduzione al testo.19 Progetti di legge n. 579/2006-PE, 611/2006-PE e 576/2006-PE.

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Sottosegretariato delle Comunità Peruviane all’Estero, massimo organo governativo nella gestione e

nella tutela degli interessi dei connazionali nel mondo; il Jurado Nacional de Elecciones (JNE),

organo competente per l’organizzazione e l’amministrazione elettorale, anche del voto all’estero.

La DIGEMIN è l’ufficio competente per il controllo dei flussi migratori in entrata e in uscita,

nonché della concessione dei passaporti e dei visti d’uscita e di ingresso. Negli ultimi anni l’attività

di questo ufficio si è concentrata sul problema della quantificazione dei peruviani nel mondo e, per

la prima volta, sono stati condotti studi e ricerche approfondite con l’intento di quantificare l’esodo

e di delineare le caratteristiche sociodemografiche dei connazionali nel mondo. La totale assenza di

un registro anagrafico, come già accennato, ha reso tale compito particolarmente difficile. L’unica

strada che si è potuta seguire, nella costruzione di tali stime, è stata quella di considerare

l’emissione delle Tarjetas Andinas de Migraciòn, il documento ufficiale che ogni peruviano che

esce dal paese deve consegnare ai posti di frontiera terrestre, portuale o aeroportuale. Calcolando il

numero di quelle emesse, cui non ha fatto riscontro un rientro, la DIGEMIN elabora attualmente

una stima dei flussi migratori in uscita dal Paese20.

La Creazione della Sub-Secretarìa nel 2001, invece, presso il Ministero degli Esteri, ha

rappresentato un momento di svolta importante nella gestione migratoria dello Stato Peruviano. La

tutela dei peruviani nel mondo, in quell’anno, «ha smesso di essere un atto puramente

amministrativo-consolare e ha cominciato a mirare maggiormente alla persona, alla storia del

migrante e ai suoi bisogni non solo amministrativi»21. Tale Ufficio è, dunque, incaricato di elaborare

le politiche migratorie del Governo Peruviano ed è in stretto contatto con la Cancelleria del

Presidente. L’attuale Sub-Secretario in carica, Marco Nuñez Melgar Maguiña, è dunque il

principale esponente del Governo responsabile delle politiche migratorie e di protezione delle

comunità all’estero. È, di conseguenza, il destinatario delle principali critiche da parte del mondo

accademico e delle associazioni che denunciano una vera e propria assenza di politiche migratorie

adeguate nell’agenda del Governo peruviano.

Per quanto riguarda la gestione e l’organizzazione del voto all’estero, è il JNE l’istituzione che,

secondo la Costituzione del Perú, ha il dovere di amministrare i processi elettorali. Contrariamente a

quanto avviene in molti sistemi politici europei, dove storicamente la fiducia nei Governi è

maggiore, nei sistemi sudamericani tale delicata funzione è spesso affidata ad appositi organismi

indipendenti dal Governo, nella speranza di garantire una maggiore trasparenza e sicurezza del

procedimento elettorale. Tale Istituto, dunque, organizza, segue e amministra l’intero processo

elettorale in Perú e all’estero, insieme all’aiuto della rete consolare. I peruviani nel mondo sono

20 Evidentemente il numero di peruviani che lasciano illegalmente il paese, poiché sprovvisti ad esempio di un visto turistico, non rientra mai nelle stime ufficiali fornite dalla DIGEMIN.21 Intervista al Consigliere José Mariano De Cossio Rivas, Direttore di Protezione delle Collettività Nazionali, Ministero degli Esteri, Lima, personalmente raccolta il 24 luglio 2008.

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obbligati a partecipare alle elezioni presentandosi presso il Consolato in cui sono registrati ed

esprimendo il voto presso i seggi allestiti. La norma che permette l’esercizio del diritto di voto

all’estero è contenuta nella Costituzione del 1993, ma tale diritto era riconosciuto e garantito già

dalla Costituzione del 1979.

L’obbligatorietà del voto, considerata uno dei capisaldi nella Costituzione repubblicana, era

accompagnata, fino al 2006, dal pagamento di una multa di 40 dollari americani nel caso non fosse

stata rispettata. Da due anni questa multa è stata abrogata proprio per un’iniziativa legislativa

promossa dal Jurado Nacional de Elecciones: il sommarsi delle multe da pagare, nel caso non si

fosse votato per più di un’elezione, infatti, aveva creato un meccanismo perverso di astensionismo,

in particolare all’estero. Dopo almeno due volte in cui non si aveva votato, era molto difficile che il

cittadino si ripresentasse nuovamente al Consolato per evitare di incorrere nel pagamento della

multa. Lo scopo di questa importante riforma è stato proprio quello di facilitare il più possibile la

partecipazione politico-elettorale delle comunità peruviane nel mondo.

Il Jurado Nacional de Elecciones, dunque, non appare una mera istituzione amministrativa ma,

pur non esprimendo alcun indirizzo politico, svolge una rilevante funzione di iniziativa legislativa

circa i temi del voto all’estero e della partecipazione politica, di concerto con le comunità peruviane

nel mondo.22 La più importante di queste iniziative è quella che ha dato vita ai progetti di legge n.

579/2006-PE, 611/2006-PE e 576/2006-PE, attualmente in discussione nelle competenti

commissioni del Congresso peruviano e che propongono di modificare l’art.21 della Legge

Organica delle Elezioni n.26859, introducendo una rappresentanza parlamentare ad hoc per i

peruviani nel mondo. Il ruolo del JNE, nella fase di elaborazione della proposta nonché negli studi e

nelle simulazioni condotte, è stato centrale e il modello adottato dal Parlamento italiano tra il 2001

ed il 2003 ha rappresentato uno spunto fondamentale per la formulazione della proposta.23

I.2.4 Dal Governo Toledo (2001-2006) al Governo Garcìa (2006-oggi): i principali punti

dell’attuale politica migratoria dello Stato peruviano

Le elezioni del 2006 hanno visto il ritorno al Palazzo di Governo di una vecchia conoscenza del

popolo peruviano, Alan Garcìa, le cui malefatte e l’odore di corruzione che avevano infangato la

sua precedente esperienza di Governo tra il 1985 e il 1990 sembrano già state dimenticate.

Proprio la tornata elettorale del 2006 ha rivelato tutto il potenziale politico di un corpo elettorale

all’estero ormai triplicato: al primo turno elettorale, infatti, Garcìa, candidato del Partido Aprista, si

22

23 Il Jurado, infatti, ha condotto diverse simulazioni e studi di fattibilità circa la proposta di introdurre una rappresentanza parlamentare ad hoc per i peruviani nel mondo. Sono state promosse alcune giornate di studio sul tema e funzionari del Jurado hanno partecipato, in maniera continuativa, agli incontri politici che avevano l’obiettivo di strutturare la proposta di legge.

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è imposto sulla candidata di Unidad Nacional, Lourdes Flores, per uno scarto dello 0,5% di

maggioranza relativa. I peruviani che potevano votare dall’estero, con una quota di elettori di

457.891 unità, rappresentavano il 2,7% dell’elettorato nazionale (16.494.906 il totale di iscritti nelle

liste). Nonostante i suoi ripetuti appelli ai peruviani nel mondo, la candidata Lourdes Flores non

riuscì a ribaltare la situazione nel secondo turno di ballottaggio e Alan Garcìa ha così assunto il suo

secondo mandato presidenziale, consapevole del discreto peso politico degli emigrati che si cela

dietro la sua vittoria

I.2.5 Le “sette politiche” migratorie del Governo peruviano

La politica migratoria dell’attuale Governo in carica è strutturata in sette principali aree di

intervento all’interno delle quali sono individuati i rispettivi campi di azione. Mai nella storia

politica del Perú vi era stata una simile organizzazione e classificazione delle politiche pubbliche in

tema migratorio. La realtà dimostra, però, che ciò che è stato realmente eseguito è una minima parte

di quanto enfaticamente dichiarato sulla carta, soprattutto per la inadeguatezza dei relativi

finanziamenti.

Le “sette politiche”, o meglio le aree in cui è suddivisa la politica migratoria, sono:I) Politica di Riforma e di miglioramento dei Servizi Consolari;II) Politica di protezione legale dei migranti:a. Tutela dei diritti conformemente alle leggi dello Stato di destinazioneb. Informazione e Assistenza sui diritti garantiti nello Stato di destinazioneIII) Politica di Assistenza umanitaria;IV) Politica di sostegno all’inserimento produttivo, legale e rispettoso dei diritti umani, dei

peruviani nelle società di destinazione;V) Politica di promozione del vincolo culturale e nazionale:a. Incentivo e Sviluppo del vincolo nazionale con il Perúb. Continuazione del Programma Educativo PeruvianoVI) Politica di “vincolamento” dei peruviani con il Perú, da una prospettiva produttiva:a. Incentivo e Sicurezze delle rimesseb. Incentivo all’investimento delle rimessec. Appoggio al ritorno volontarioVII) Politica di promozione dell’esercizio della cittadinanza e della partecipazione democratica dei peruviani all’estero a. Partecipazione alla vita politica nazionaleb. Partecipazione alla vita sociale delle società di residenza all’esteroc. Interazione democratica con le Autorità consolari

Dando uno sguardo alla complessa organizzazione delle politiche migratorie e a ciò che

effettivamente si sta realizzando, emerge un gap non trascurabile. Se la normativa sul ritorno appare

sostanzialmente fallita, le altre politiche non sembrano particolarmente implementate, fatta

eccezione di quelle relative alle rimesse e agli investimenti dall’estero da un lato, e quelle relative

alla partecipazione politica e democratica dei peruviani nel mondo.

Ciò che è chiaro e che il Perú si configura ancora perfettamente come un labor exporting

country, secondo la tripartizione di sending countries proposta da Eva Østergaard-Nielsen (2003 p.

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7): a differenza però di molti atri casi non esistono molti accordi bilaterali in tema di lavoro stipulati

dal Governo peruviano anche se “l’esportazione”di forza lavoro, più o meno incentivata, rimane

una caratteristica di questo caso.

Sul tema degli investimenti dall’estero e delle rimesse merita di essere citata l’importante

iniziativa del Presidente Garcìa sulla possibilità di assicurare le rimesse inviate e sulla creazione di

un Fondo di Assicurazione per gli emigrati. Questi infatti, insieme alle loro famiglie rimaste in

patria, possono essere assicurati grazie al “Fondo de Solidaridad a favor de los Peruanos en el

Exterior” e al “Seguro de Remesas del Exterior” che garantisce la possibilità di stipulare una

polizza assicurativa all’emigrato e ai membri della sua famiglia al prezzo di 5/9 dollari americani al

mese. In caso di decesso all’estero del connazionale, la sua famiglia continuerà a ricevere per 36

mesi la stessa quantità inviata in rimesse dal familiare emigrante, nonché una quota per il

pagamento dei consumi di acqua, luce e gas. Nel caso di morte di un familiare dell’emigrato

residente in Perú, invece, il programma copre le spese aeree di andata e ritorno dell’emigrato,

nonché le spese per il funerale

Ultimamente, inoltre, c’è da segnalare una accresciuta attenzione del mondo politico nei

confronti delle rimesse degli emigrati anche come aiuto concreto a combattere la povertà di alcune

zone rurali del paese. Rimesse e co-sviluppo, infatti, è diventato un tema di eccezionale attualità in

Perú e sono allo studio anche forme di microcredito garantite proprio dal flusso di rimesse inviato

dall’estero24.

Sotto il secondo profilo, invece, l’attenzione è rivolta soprattutto all’approvazione della riforma

del voto all’estero di cui abbiamo accennato e alla modifica dei Regolamenti per i Consejos de

Consulta per i quali, però, il problema più grave rimane la carenza, o sarebbe meglio dire l’assenza,

di fondi stanziati.

Per quanto riguarda il rafforzamento del vincolo culturale e nazionale con lo Stato Peruviano

merita citare l’iniziativa del 2006 del Presidente Garcìa, una delle prime del suo mandato, con la

quale ha istituto il 18 ottobre di ogni anno il “giorno del peruviano all’estero”25. Una sorta di

celebrazione nazionale e internazionale per ricordare il valore e il sacrificio dei milioni di peruviani

emigrati, in occasione della quale lo Stato peruviano premia gli emigrati che si sono distinti per

qualche merito. A tal fine è stata istituita anche una Commissione Speciale presso il Ministero degli

esteri presieduta dal Segretario Generale degli Affari Esteri e integrata dal Sottosegretario per le

Comunità peruviane all’estero, che ha il compito di ricevere la rosa di nomi di candidati al premio 24 Sul tema si è svolta un’importante Conferenza Internazionale a Lima il 19,20 e 21 febbraio 2008 dal titolo Migrazioni e co-sviluppo, organizzata dal CIAM (Centro de Información y Asesoramiento al Migrante) e alla quale hanno preso parte esponenti politici e di Governo, esponenti del mondo accademico e rappresentanti di associazioni e organi della comunità peruviana nel mondo. Cfr. Conferencia Internacional Migraciones y Desarrollo, en pos de buenas practicas, CIAM, 2008.25 Decreto Supremo Nº 060-2006-RE.

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annuale presentata dai Consejos de Consulta nel mondo. L’ufficialità di tale procedura, nonché

l’importanza che sta assumendo anno dopo anno questa nuova festività del calendario nazionale,

confermano una chiara volontà dell’attuale Governo di aumentare i vincoli tra migranti e istituzioni

statali, con l’obiettivo di rafforzare i benefici economici derivanti dalle rimesse e di sostenere una

fedeltà politica che può rivelarsi utile e decisiva nel momento elettorale.

I.3 La comunità peruviana in Italia: i casi di Roma e Torino.

I.3.1 La comunità peruviana in Italia.Nei precedenti capitoli è emerso come l’Italia rappresenti una delle mete privilegiate dai migranti

peruviani nel mondo. Secondo le stime dell’OIM, infatti, tra il 1990 e il 2007, 199.557 peruviani

hanno lasciato il paese alla volta dell’Italia senza fare più ritorno. Il nostro paese occupa il quarto

posto nella classifica delle destinazioni dell’immigrazione peruviana, dopo gli Stati Uniti,

l’Argentina, e la Spagna. Questo dato, seppure utile per un confronto, ci dice poco però sulla reale

presenza di peruviani nel nostro paese per vari motivi: innanzitutto non considera le partenze

antecedenti il 1990, inoltre non dice nulla sul numero dei nati all’estero e, soprattutto, non tiene

conto degli spostamenti da un paese di destinazione ad un altro. Aldilà di questo, è cosa certa che

l’Italia occupi il secondo posto in Europa, dopo la Spagna, tra le mete preferite dall’immigrazione

peruviana. In questa sezione cercheremo di focalizzare maggiormente l’attenzione su alcune

caratteristiche della presenza peruviana in Italia, partendo da una definizione numerica. Terremo in

considerazione sia il caso italiano nel suo complesso, sia le città di Roma e Torino, prese come

studio di caso in questo lavoro.

Per conoscere con precisione il numero di cittadini peruviani in Italia, e confrontarlo con la cifra

stimata dall’OIM delle uscite verso il nostro paese, è necessario considerare soltanto il numero dei

residenti regolari, tralasciando la quota degli irregolari dei quali sarebbe possibile solo avere una

stima26.

Le fonti che utilizziamo per questa operazione sono i dati dell’ISTAT da un lato, e i dati in

possesso delle singole Amministrazioni comunali per quanto riguarda le città di Roma e Torino.

L’Ambasciata del Perú in Italia non possiede invece alcun dato certo della presenza peruviana sul

territorio italiano, poiché manca un registro anagrafico dei residenti peruviani all’estero. Anche in

questo caso è possibile solo effettuare delle stime, piuttosto relative e scarsamente utilizzabili

scientificamente27.

26 Marco Caselli, autore di una ricerca sull’immigrazione peruviana a Milano promossa dall’ISMU, stima in circa 96.000 il totale di peruviani presenti in Italia nel 2007. La stessa Fondazione ISMU aveva stimato che nel 2005 erano presenti in Italia circa 78.300 peruviani di cui il 76,4% residenti regolari, il 7,8% immigrati regolari non residenti e il restante 15,8% da irregolari. (Caselli, 2009 p.35; Blangiardo e Menonna, 2008, p.97)27 Tali stime sono elaborate dal Ministerio de Relaciones Exteriores peruviano a partire dal numero di pratiche espletate in un anno dai Consolati peruviani nel mondo. Nell’anno 2004, considerando la classifica delle quindici circoscrizioni

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Come abbiamo segnalato nel primo capitolo, tra il 2000 e il 2007, l’emigrazione peruviana ha

subito un incremento senza precedenti con una media annua di uscite dal paese che sfiorava quota

176.000. I dati ISTAT sulla popolazione straniera residente fotografano perfettamente tale tendenza.

Tra il 2002 e il 2007 la popolazione peruviana regolarmente residente in Italia è aumentata del

106%. L’incremento annuo maggiore si è registrato tra il 2003 e il 2004 quando la quota di

peruviani in Italia è passata da 43.009 a 53.378 unità. A partire dal 2005 gli aumenti annui sono

continuati ma in misura più contenuta. Secondo i dati presentati lo scorso ottobre 2008, la

popolazione peruviana residente in Italia al 31/12/2007 ammontava a 70.755 unità.

Fino al 2004, peraltro, i peruviani rappresentavano la prima comunità immigrata sudamericana

presente sul nostro territorio; dal censimento del 2005 tale primato spetta agli ecuadoriani. La

tabella n. 1 mostra l’evoluzione della presenza peruviana in Italia negli ultimi cinque anni.

Tab. n. 1 – Popolazione peruviana residente in Italia, per sesso (2002-2006)

Anno Maschi Femmine Totale Variazione

2002 12.500 21.707 34.207 -

2003 15.824 27.185 43.009 + 8.802

2004 19.908 33.470 53.378 +10.369

2005 22.625 38.183 61.953 + 8.575

2006 25.884 40.622 66.506 + 4.913

2007 27.809 42.946 70.755 + 4.249

Fonte: elaborazione su dati ISTAT

C’è un aspetto sul quale il caso italiano si discosta fortemente dalle tendenze generali cui

abbiamo accennato in coda al primo capitolo di questo lavoro.

A livello mondiale l’equilibrio tra generi è abbastanza forte ma, nel caso italiano, c’è una

fortissima predominanza della componente femminile. Nel 2004 le donne peruviane sono oltre il

doppio degli uomini; lo scarto si è leggermente ridotto tra il 2006 e il 2007 grazie anche ai

ricongiungimenti familiari, anche se la prevalenza del genere femminile rimane una caratteristica

dell’immigrazione peruviana in Italia. I dati dell’OIM sui flussi in uscita dal Perú, disaggregati per

Stato di destinazione, dimostrano chiaramente come soltanto Germania, Francia e Italia attirino una

prevalenza femminile dell’immigrazione peruviana, mentre Spagna e Stati Uniti, ad esempio,

consolari più grandi nel mondo, Milano occupava il quinto posto, Roma il tredicesimo. Si tratta evidentemente di stime particolarmente suscettibili di altre influenze come la maggiore o minore attività consolare e pertanto scarsamente utili nel definire la reale presenza di peruviani nel nostro paese.

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vedono un maggiore equilibrio di genere28. Tali differenze sono legate intuitivamente ai differenti

percorsi di inserimento professionale nei vari paesi di destinazione e possiamo ragionevolmente

ipotizzare che dipendano dall’alta richiesta di lavoro domestico, nonché di professioni

infermieristiche, che caratterizza il nostro paese.

Se si confronta il dato di genere disaggregato per paese con quello occupazionale disaggregato

per genere, emerge che il 20,1% delle donne emigrate nel mondo tra il 1995 ed il 2005 ha dichiarato

ai posti di frontiera di essere occupata come casalinga, il 26,7% di essere studente, il 10,4% di

essere una professionista (insegnanti, avvocati, medici, ingegneri, architetti etc.), l’8,5% di essere

una scienziata, ricercatrice o intellettuale; il 4,5% ha dichiarato di essere tecnica e professionista di

ambito scientifico. Per quanto riguarda la componente maschile, il 29,8% è rappresentato da

studenti, il 16,2% da impiegati d’ufficio, il 13,9% da venditori e commercianti e solo il 10,3% da

appartenenti a ordini professionali, scienziati o intellettuali.29

Questi dati, visti alla luce del caso italiano dove la maggior parte delle donne peruviane è

impiegata nelle faccende domestiche o in piccole attività commerciali in proprio o alle dipendenze,

fa emergere uno degli aspetti sociali più allarmanti dell’ultima ondata migratoria dal Perú; la fuga di

intellettuali e professionisti, in grande prevalenza donne, rappresenta un problema sociale di

notevole rilevanza soprattutto per la società dello Stato di provenienza, che viene privata di una

componente importante del mercato del lavoro e della società nel suo complesso. Lo stato ricevente,

in questo caso l’Italia, non è sempre in grado di assimilare e integrare nel mondo del lavoro tale

personale specializzato sia per la struttura complessa del mercato del lavoro, sia per una

legislazione poco favorevole agli stranieri, sia per la maggiore offerta in altri settori d’impiego. Il

risultato è che molti immigrati, soprattutto donne, con un curriculum e un expertise di tutto rispetto

si ritrovino a svolgere lavori sotto qualificati.

I.3.2 Peruviani a Roma e Torino, nei dati dell’ISTAT e delle Amministrazioni Comunali: numero, genere ed età

Vediamo ora nel dettaglio alcune caratteristiche della presenza peruviana nelle città di Roma e

Torino utilizzando le fonti italiane dell’Istat e delle due Amministrazioni comunali. Nel capitolo

successivo confronteremo poi i risultati della nostra indagine empirica con i dati ufficiali qui di

seguito presentati.

La comunità di Roma, numericamente molto consistente, sconta la dispersione sul territorio tra

Provincia e città mentre quella torinese, la più giovane, offre caratteri di dinamicità assolutamente

28 Fonte: Perú: estadisticas de la migración internacional de peruanos 1990-2007, Organización Internacional para las Migraciones, Lima, 2008, p. 26.29 Ibidem, p. 55.

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interessanti che affronteremo meglio anche nella parte dedicata alla partecipazione elettorale per le

elezioni peruviane. Consideriamo i due casi insieme per offrire la possibilità di un rapido confronto,

cercando inoltre di apprezzare le variazioni del numero di peruviani con le variazioni del numero

totale di stranieri residenti nelle città di nostro interesse.

Le tabelle n. 2 e n. 3 offrono una panoramica della variazione, tra il 2005 ed il 2007, di residenti

stranieri e residenti peruviani nelle città di Roma e Torino:

Tab. n.2 – Residenti stranieri e residenti peruviani a Torino (2002-2007)

AnnoTotale residenti

stranieri 30Totale residenti

peruviani% peruviani su

residenti stranieri

2002 40.633 - -

2003 55.500 4.362 7,8%

2004 69.312 5.009 7,2%

2005 76.807 5.502 7,1%

2006 83.977 5.968 7,7%

2007 102.921 6.301 6,1%

Variazione

2002-2007

+ 165% + 45% - 1,7%

Fonte: Elaborazione su dati ISTAT

Tab. n.3 – Residenti stranieri e residenti peruviani a Roma (2002-2007).

AnnoTotale residenti

stranieri31Totale residenti

peruviani% peruviani su

residenti stranieri

2002 107.606

2003 122.758 5.647 4,6%

2004 145.004 6.503 4,4%

2005 156.833 6.897 4,3%

2006 199.417 9.235 4,6%

2007 218.426 9.501 4,3%

Variazioni + 103% + 68% - 0,3%

30 I totali residenti si riferiscono al numero registrato al 31/12 dell’anno indicato (Fonte:ISTAT).31 I totali residenti si riferiscono al numero registrato al 31/12 dell’anno indicato (Fonte: ISTAT).

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2002-2007

Fonte: Elaborazione su dati ISTAT

Un primo dato su cui ragionare è certamente l’aumento consistente degli stranieri residenti nella

città di Torino rispetto al dato di Roma. Tra il 2002 e il 2007 l’aumento di stranieri residenti nel

capoluogo piemontese è stato del 165% con un incremento di 67.257 presenze. La quota di

peruviani sul totale degli stranieri, assolutamente non maggioritaria, si è tenuta però

sostanzialmente costante con un lieve aumento nel 2006, anno di eccezionali partenze dal Perú e un

lieve calo nel corso del 2007, dovuto soprattutto all’aumento di altre comunità, tra cui quella

rumena. Nella città di Roma l’aumento degli stranieri residenti, tra il 2002 e il 2007, è stato di circa

il 103% con un incremento di 110.820 presenze.

Se dunque a Roma gli stranieri sono aumentati maggiormente in valore assoluto, il dato

percentuale fa emergere la specificità e la rilevanza del contesto torinese in uno studio

sull’immigrazione. D’altro canto, se è vero che a Torino è aumentato maggiormente il numero

generale di immigrati, va anche detto che una quota superiore di peruviani, negli ultimi anni, ha

scelto la Capitale, dove l’aumento percentuale è stato del 68% rispetto al 45% del capoluogo

piemontese.

Gli ultimi dati disponibili dell’Ufficio Stranieri del Comune di Torino differiscono appena dai

dati ISTAT. Secondo l’Amministrazione piemontese, infatti, alla data del 3 dicembre 2007

risultavano residenti a Torino 106.176 stranieri, di cui 60.595 extra Unione Europea e 45.211

dell’Unione Europea. C’è accordo invece sul numero dei peruviani residenti (6.312) di cui 3.861

maschi e 2.451 femmine. Il grafico n.1 riassume la composizione di genere della comunità

peruviana a Torino, evidenziando, ancora una volta, la predominanza della componente femminile,

caratteristica costante della comunità peruviana in Italia. Il grafico n.2 mostra la variazione della

composizione di genere della comunità peruviana a Torino tra il 2004 e il 2007, evidenziando la

crescita proporzionale, anno dopo anno, dei peruviani residenti.

Grafico n.1 – Composizione di genere della comunità peruviana a Torino (dicembre 2007).

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Fonte: Ufficio Stranieri, Città di Torino (dicembre 2007)

Grafico n.2 - Composizione di genere della comunità peruviana a Torino, variazione 2004-2007.

Fonte: Ufficio Stranieri, Città di Torino

Per quanto riguarda la composizione generazionale dell’immigrazione peruviana a Torino c’è da

riscontrare una prevalenza delle fasce d’età più giovani ma pur sempre maggiorenni, senza

significative differenze tra maschi e femmine. Dei 6.312 peruviani censiti dal Comune, 1.850 sono i

maschi maggiorenni, 601 i maschi minorenni, 3.172 le donne maggiorenni e 689 le donne

minorenni. Questo dato suggerisce già che il 79,6% della comunità peruviana è maggiorenne ed è

titolare, ad esempio, di diritto di voto all’estero. La fascia d’età più cospicua è rappresentata dai

peruviani che hanno tra i 26 e i 45 anni.

Per quanto riguarda la città di Roma, i dati dell’Ufficio Stranieri capitolino registravano 10.747

cittadini peruviani residenti in città, alla data del 31/12/2006, di cui 3.867 maschi (36,0%) e 6.880

femmine (64,0%), come riassunto nel grafico n.3.

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Grafico n.3 – Composizione di genere della comunità peruviana a Roma (dicembre 2007)

Fonte: Ufficio Statistica e Censimento, Comune di Roma.

Come si vede la composizione di genere è simile tra le città di Roma e Torino con una leggera

predominanza della componente femminile nella capitale. Anche per le fasce generazionali non si

riscontrano sostanziali differenze tra le due città, a parte una leggera maggioranza di maggiorenni

nella capitale, dovuta probabilmente a una maggiore anzianità migratoria. Il 18,9% dei peruviani a

Roma, infatti, è minorenne (2.029) e il restante 81,1% (8.718) è maggiorenne, e gode dunque del

diritto di voto all’estero. La fascia d’età più rappresentata è ancora quella tra i 26 e i 45 anni.

I.3.3 Alcuni dati dei Consolati: provenienza, età, stato civile, livello di istruzione e occupazione.

In questo paragrafo tratteremo alcuni dati generali forniti dall’Ambasciata del Perú, circa il

profilo della comunità peruviana in Italia. Non è possibile disaggregare le informazioni per le

singole città di interesse in quanto i dati in possesso dei rispettivi Consolati sono frammentari e non

risultano aggiornati.

Innanzitutto osserviamo che la maggioranza dei peruviani residenti in Italia (46%) proviene dalla

provincia e dalla città di Lima mentre la parte restante si suddivide, quasi equamente, tra le altre

province del Perú, con una predominanza delle Province di Huancayo (5%), Callao (4%), Arequipa

e Huaral (3%), Cuzco e Trujillo (2%). Le altre Province rappresentano il restante 33%.

Questo dato potrebbe risultare ingannevole. La grandissima maggioranza dei peruviani che

emigrano verso l’Italia, infatti, non è originario di Lima ma spesso è a sua volta emigrato da aree

interne del paese alla volta della capitale, per poi decidere di emigrare all’estero e in Italia.

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«L’emigrazione internazionale peruviana, dunque, si configurerebbe, in larga parte, come la

seconda tappa di un progetto migratorio più ampio prima interno e poi esterno.»32

Questa affermazione appare confermata se si analizza il profilo delle maggiori realtà associative

dei peruviani in Italia, come vedremo fra breve. La maggior parte di esse, infatti, sono di ispirazione

locale e regionale e tendono a raggruppare comunità omogenee originarie di stesse aree del paese,

delle zone andine piuttosto che di quelle costiere, della capitale piuttosto che del nord o del sud del

paese.

Come già accennato riguardo ai casi di Torino e Roma, la popolazione peruviana residente in

Italia è relativamente giovane e in età di lavoro. Il 44% di questi hanno tra i 26 e i 45 anni, il 17%

tra i 18 e i 25 anni (tra cui molti studenti universitari) e il 18% in età infantile (0-5 anni) e sono in

maggioranza nati in Italia. Il restante 11% ha tra i 6 e i 17 anni, l’8% ha tra i 45 e i 59 anni e solo un

2% ha più di 60 anni33. È interessante osservare che il numero dei peruviani ultra 45enni è in

crescita negli ultimi anni, a testimonianza di un crescente flusso migratorio di madri, padri, nonne e

nonni, grazie ai processi di ricongiungimento familiare.

L’analisi dei dati relativi allo stato civile fa emergere un dato interessante: la grande

maggioranza dei peruviani in Italia (78% circa) è celibe o nubile. Questo è senz’altro dovuto all’età

relativamente giovane della popolazione migrante che generalmente intraprende il viaggio

oltreoceano al termine degli studi secondari o universitari. Le persone vedove o divorziate

rappresentano un numero molto esiguo (0,5%) così come relativamente basso il numero di celibi e

nubili che hanno dichiarato di convivere con un connazionale in Italia (6% circa)34.

Sul livello di istruzione, le informazioni fornite dall’Ambasciata del Perú confermano,

sostanzialmente, quanto già detto in precedenza sui dati della ricerca OIM. L’occupazione svolta

qui in Italia, nella maggior parte dei casi, non ha nulla a che vedere con il titolo di studio di cui si è

in possesso. Circa il 38% dei peruviani residenti nel nostro paese, infatti, è in possesso di titoli di

studi secondari e il 31% ha conseguito studi tecnici e professionali; solo il 2% dei peruviani che

arrivano in Italia hanno un titolo di studio primario (licenza elementare) e gli analfabeti sarebbero

meno dello 0,05%. Confrontando tali dati con le informazioni relative alle professioni svolte è

evidente il gap esistente tra carriera professionale e titolo di studio. La grande maggioranza è

occupata in servizi domestici e di pulizia (anche in piccole imprese), una buona quota in servizi di

assistenza agli anziani, così come operai e magazzinieri. Si distaccano una quota minoritaria di

autisti, infermiere e infermieri, commercianti in proprio e addetti alla gastronomia.

32 Intervista al Presidente in carica del Consejo de Consulta de Peruanos nella circoscrizione consolare del Piemonte-Valle d’Aosta, Pilar Yenque, personalmente raccolta il 15 novembre 2008.33 Fonte: Ambasciata del Perú in Italia.34 Fonte: Ambasciata del Perú in Italia.

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La questione degli infermieri è interessante e merita una piccola chiarificazione. Nel corso delle

nostre ricerche in Perú è emerso più volte, anche nel corso di interviste con esponenti politici o del

mondo accademico che si occupano di studi migratori, il tema delle professioni svolte dalle donne

migranti verso l’Europa. È diffusa la convinzione che tutte le donne che partono alla volta dell’Italia

e della Spagna siano poi impiegate come infermiere, forse anche a causa della scarsa accettazione

sociale dei lavori domestici35.

Infine, è in aumento il numero di peruviani che si iscrivono ai sindacati italiani sebbene non

esistano ancora al momento dati ufficiali sugli iscritti immigrati disaggregati per nazionalità36. La

tendenza a iscriversi a un sindacato è recente e interessa soprattutto gli operai che sono già piuttosto

integrati nel nostro paese, e che sono arrivati qui negli anni novanta.

I. 3.4 Le Associazioni peruviane a Roma e Torino.L’associazionismo è certamente una chiave di lettura interessante per conoscere il grado di

mobilitazione e attivazione politica di un gruppo migrante, sia nel territorio di residenza sia verso lo

Stato d’origine. Sotto il secondo profilo si tratta di capire se e quante associazioni promuovono, più

o meno esplicitamente, attività politiche rivolte alla madrepatria, mentre sotto il primo profilo è

importante studiare che tipo di interazioni esistono tra le realtà associative e le amministrazioni

locali e in che misura le prime mobilitano e informano sulle vicende politiche italiane. L’analisi dei

questionari, che svolgeremo nell’ultimo capitolo, ci aiuterà a trovare una risposta adeguata. In

questo paragrafo delineeremo solo alcune caratteristiche generali dell’associazionismo peruviano

così come lo abbiamo osservato nelle città di Roma e Torino.

L’associazionismo peruviano è un fenomeno non nuovo nel nostro paese ma certamente in

grande espansione. Generalmente le associazioni sono nate e si sono aggregate intorno a una

provenienza regionale o locale e con lo scopo di celebrare una festività o una ricorrenza religiosa.

L’elemento religioso, infatti, è la caratteristica più importante del fenomeno associativo peruviano

che spesso connota anche associazioni dichiaratamente sportive o culturali. Altre associazioni sono

nate con lo scopo di promuovere la cultura peruviana e latinoamericana nel nostro paese,

diffondendo la musica o le danze tipiche di una zona del paese d’origine. Lo scopo di tali gruppi è

duplice: da un lato c’è l’intento di far conoscere e di promuovere la propria cultura in un paese

35 Riportiamo uno stralcio significativo di intervista con un esponente sindacale raccolta a Lima nel mese di agosto del 2008: “ la maggior parte di quelli che se ne vanno in Italia o i Spagna sono donne..ma lo sa perché? Perché lì c’è una grande richiesta di infermiere..pare che in Italia nessuno voglia fare l’infermiera, forse perché vengono pagate poco E ovviamente sono le donne a fare maggiormente questo lavoro..gli uomini peruviani preferiscono lavorare all’estero come operai, ma le donne fanno le infermiere […]..sono in minoranza quelle che fanno le badanti agli anziani perché le donne peruviane sono più specializzate. Quei lavori in genere li lasciano ad altre immigrante..dell’est Europa presumo.”36 Secondo i dati raccolti da CGIL, CISL e UIL sarebbero circa 800.000 gli stranieri residenti in Italia iscritti ad un sindacato. In particolare nel 2007 vi è stato un aumento di 107.308 iscritti e la CISL mantiene, in valore assoluto, il primato di immigrati iscritti con 293.114 unità, contro i 271.238 della CGIL e i 170.239 della UIL. Fonte: CGIL, CISL e UIL.

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straniero, dall’altro quello di preservare e mantenere vivi, tra i propri connazionali all’estero, i

ricordi, gli usi e le abitudini del proprio paese.

La comunità peruviana in Italia, però, vista anche una certa anzianità migratoria, ha organizzato

le proprie associazioni anche con un terzo scopo, emerso più di recente. Molte realtà associative,

infatti, hanno il fine di diffondere e preservare la cultura del paese d’origine soprattutto tra le

seconde generazioni, spesso nate in Italia e che talvolta non sono mai state in Perú. Questi giovani

peruviani, non ancora giuridicamente italiani, hanno la possibilità di imparare lo spagnolo,

conoscere il paese dei loro genitori e venire a conoscenza con ciò che accade a migliaia di

chilometri di distanza anche se, a dire il vero, tale interesse è scarso e non duraturo.

Le associazioni nascono spontaneamente e la loro vita spesso è breve sia per problemi legati

agli spazi dove organizzare le loro attività, sia per una forte rivalità che oppone appartenenze

geografiche diverse. Aldilà della breve esistenza di molte associazioni, risulta difficile eseguire una

catalogazione precisa nelle due città italiane di nostro interesse, a causa di una problematicità nelle

fonti consultabili. I comuni, infatti, non sempre hanno degli archivi aggiornati e i consolati cercano

di monitorare la situazione con enormi difficoltà visto che spesso i rapporti con le comunità sono

conflittuali e non vi è alcun obbligo, da parte dei peruviani in Italia, di comunicare le loro attività

associative ai consolati.

Questa premessa serve a poter affermare che le cifre diffuse dai consolati sono certamente una

stima per difetto della realtà associativa reale. Il Consolato peruviano di Roma censisce 18

associazioni, quello di Torino 11, e 30 quello di Milano. In realtà le associazioni peruviane, così

come quelle di molti altri immigrati, tendono ad avere più rapporti con l’Amministrazione locale sia

per la registrazione e la costituzione, sia per la richiesta di eventuali spazi dove organizzare le loro

attività. Anche perché è il quadro legislativo italiano che lo richiede. Il Comune di Torino, ad

esempio, che dal 2006 si è dotato di uno speciale Assessorato per il Coordinamento delle Politiche

per l’Integrazione, si occupa di tenere le relazioni con le associazioni di immigrati e, laddove è

possibile, di fornire spazi e finanziamenti per le diverse attività proposte. Nel corso di questa

operazione l’amministrazione piemontese sta compilando un registro delle associazioni immigrate

e, al momento, risulterebbero presenti in città ben 32 associazioni peruviane37. Una delle più grandi,

che riunisce oltre ai peruviani anche altri immigrati latinoamericani, si chiama America Latina ed è

presieduta dall’attuale Presidente del Consejo de Consulta de los Peruanos en el extranjero della

circoscrizione consolare Piemonte-Valle d’Aosta, Pilar Yenque.

L’esperienza torinese appare di assoluta rilevanza nel nostro studio, soprattutto sotto il profilo

della partecipazione politica dei peruviani nel contesto di residenza; i rapporti tra rappresentanti

37 Fonte: Comune di Torino, Assessorato al Coordinamento delle Politiche per l’Integrazione.

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delle associazioni peruviane e i responsabili del Settore Integrazione della Città di Torino, infatti,

tendono da alcuni mesi a questa parte a diventare stabili e istituzionalizzati. In altre parole la

political opportunity structure della realtà torinese appare piuttosto aperta e sembrerebbe favorire

l’associazionismo e la partecipazione, nonostante il grosso limite dell’esclusione degli immigrati

dalla partecipazione politico-elettorale a livello locale e nazionale.

La concessione di spazi privati dove organizzare le proprie attività o l’attrezzatura di spazi

pubblici, dove incontrarsi per celebrare festività o ricorrenze, rappresenta una molla interessante per

la mobilitazione di quella parte di peruviani che sono attivi all’interno di una delle 32 associazioni

presenti in città38 e un incentivo per quelli non ancora attivi.

La conflittualità tra le varie realtà associative giustifica in parte l’elevato numero di queste; il

numero degli associati non è mai altissimo e spesso raggruppano poco più di 20 o 30 persone.

Rispetto ad altri gruppi migranti, infatti, i peruviani non presentano una particolare propensione ad

associarsi anche se, dall’analisi dei questionari, sarà possibile riscontrare qualche interessante

differenza nelle due città considerate.

Nessuna associazione peruviana a Roma o a Torino si richiama, però, alla diffusione di

informazioni politiche o all’attività politica in senso stretto ma sono quasi sempre finalizzate alla

celebrazione di festività religiose o nazionali e all’organizzazione di feste o spettacoli rivolti ai

propri connazionali.

Sembra possibile affermare, da una prima analisi, che le associazioni peruviane presenti a Roma

e Torino non siano particolarmente rilevanti nell’influenzare la partecipazione politica verso la

madrepatria.

I.3.5 La partecipazione politica dei peruviani in Italia: il voto all’estero del 2006Concludiamo questo capitolo sui peruviani in Italia considerando brevemente alcune

caratteristiche legate alla loro partecipazione come elettori all’estero. Come si ricorderà i cittadini

peruviani emigrati possono esercitare il loro voto per le elezioni presidenziali presso seggi istituiti

nei consolati all’estero o presso altri spazi concordati con le amministrazioni locali.

Le ultime elezioni in cui hanno votato anche i peruviani in Italia si sono svolte il 9 aprile 2006 ed

hanno eletto il Governo del paese che resterà in carica fino al 2011. Oltre al Presidente della

Repubblica sono stati eletti 2 Vice-Presidenti, 120 membri del Congresso e 5 rappresentanti del

Parlamento Andino.

38 È da segnalare, ad esempio, che il dialogo tra associazionismo peruviano e Comune di Torino ha portato, nel corso del 2007, a regolamentare la presenza dei peruviani nel parco urbano della Pellerina, risolvendo alcuni importanti problemi di infrastrutture, igiene e sicurezza. Frutto della stessa collaborazione, e di questo dialogo istituzionalizzato tra immigrati e amministrazione locale, è stata la concessione della centrale Piazza Castello per le celebrazioni della festa nazionale peruviana (Fiestas Patrias) lo scorso 28 luglio 2008, che ha visto un’ampia partecipazione cittadina e una forte sponsorizzazione dell’amministrazione cittadina.

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Dei 16.500.000 peruviani chiamati alle urne, quasi 458.000 hanno votato all’estero. In Italia sono

stati allestiti 254 seggi elettorali di cui 113 a Milano, 68 a Roma, 32 a Torino, 13 a Genova; ogni

seggio è stato istituito sulla base di circa 200 elettori.

Grafico n.4 – Elettori in Perú ed elettori all’estero, elezioni generali 2006.

Fonte: JNE, Jurado Nacional de Elecciones

Ogni consolato si è impegnato a diffondere le informazioni necessarie a far conoscere ai propri

connazionali le modalità e i luoghi delle votazioni mentre i negozi peruviani, i ristoranti e la stampa

gratuita distribuita in lingua spagnola, sono stati i veicoli principali della campagna elettorale.

L’impossibilità di eleggere rappresentanti ad hoc per i peruviani all’estero, d’altra parte, non ha

prodotto un’eccessiva mobilitazione per la campagna elettorale tra i connazionali emigrati anche se

questi, come già ricordato, sono stati percepiti come decisivi soprattutto per il secondo turno di

ballottaggio.

Il fatto che i voti dall’estero confluiscano nella circoscrizione elettorale di Lima, oltre a ridurre

sensibilmente il peso elettorale dei peruviani nel mondo, non permette di analizzare i risultati

relativamente al solo voto estero, così come accade ad esempio in Italia. Le uniche riflessioni che

possiamo svolgere, ugualmente importanti, sono relative alla partecipazione elettorale.

Confrontiamo dunque alcuni dati relativi alla partecipazione nelle città di Milano, Roma e Torino

con quelli di altre comunità peruviane nel mondo, per apprezzare la particolarità offerta dal contesto

italiano sul tema della partecipazione politico-elettorale dei peruviani.

La tabella n.4 evidenzia il numero di elettori e votanti nelle maggiori comunità peruviane nel

mondo.

Tab. n.4 – Elettori e Votanti delle maggiori comunità elettorali di peruviani all’estero (> 5.000 elettori)

Città Paese Elettori Votanti % di votanti

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Buenos Aires ARGENTINA 52.705 40.398 76,6%

Madrid SPAGNA 42.841 29.657 69,22%

Santiago Del Chile CILE 30.096 25.593 85,03%

New York USA 27.071 13.241 48,9%

Miami USA 24.597 12.600 51,22 %

Milano ITALIA 21.825 16.802 76,98%

Barcellona SPAGNA 20.657 14.828 71,78%

New Jersey USA 19.610 10.412 53,1%

Los Angeles USA 14.858 6.826 45,9%

Roma + Lazio ITALIA 11.277 8.407 74,54%

Caracas VENEZUELA 9.278 5.334 57,5%

Virginia USA 8.840 5.052 57,14%

San Francisco USA 7.064 3.589 50,8%

Torino ITALIA 6.134 5.198 84,7%

Maryland USA 5.614 3.610 64,3%

La Plata ARGENTINA 5.547 4.485 80,8%

Fonte: Elaborazione su dati JNE (Jurado Nacional de Elecciones)

Come si vede le comunità peruviane in Italia hanno registrato tra i più alti tassi di

partecipazione elettorale dei peruviani nel mondo. La tabella seguente ordina le città nel mondo

dove la partecipazione elettorale ha superato il 70%:

Tab. n.5 – Partecipazione elettorale dei peruviani all’estero, elezioni 2006: le comunità nel mondo (> 5.000 elettori) con partecipazione superiore al 70%.

Città Paese Percentuale votanti

Santiago del CHILE 85,03%

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ChileTorino ITALIA 84,7%

La Plata ARGENTINA 80,7 %

Milano ITALIA 76,9%

Buenos Aires ARGENTINA 76,6%

Roma + Lazio ITALIA 74,5%

Barcellona SPAGNA 71,7%Fonte: Elaborazione su dati JNE

Il confronto tra città italiane e il resto del mondo, così come emerge dalle tabelle precedenti, è di

notevole importanza e ci permette di osservare che le città di Milano, Roma e Torino rientrano nelle

sette comunità con i più alti tassi di partecipazione al mondo. In particolare Torino è, tra le

comunità rilevanti nel mondo, la città con il più alto tasso di partecipazione elettorale all’estero

dopo quella di Santiago del Cile.

Da osservare che la partecipazione elettorale di Madrid non rientra in questa classifica e

Barcellona è solo all’ultimo posto. Questo denota, dunque, una propensione più alta del peruviano

in Italia a partecipare alle elezioni politiche del proprio paese, nonostante la comunità in Spagna sia

più numerosa e più strutturata. Data l’importanza di questi due paesi europei, nell’accoglienza

dell’immigrazione peruviana, può essere utile confrontare meglio la partecipazione politico-

elettorale nei due contesti.

Il confronto tra la partecipazione elettorale dei peruviani in Italia e in Spagna emerge più

chiaramente dalla tabella n.6. Considerando infatti le città italiane di Milano, Roma e Torino e

quelle spagnole di Madrid, Barcellona e Valencia emerge che le tre città italiane hanno tutte

registrato tassi di partecipazione più alti. La partecipazione elettorale media dei peruviani in Italia è

stata del 75,16%, in Spagna del 67,69%. A differenza del nostro paese, i peruviani residenti nelle

città iberiche godono anche del diritto di voto amministrativo locale. Questa importante possibilità,

negata fino a questo momento in Italia, potrebbe rappresentare un elemento che giustifichi una

maggiore integrazione, e quindi maggiore partecipazione, nel contesto di residenza, penalizzando la

partecipazione rivolta alla madrepatria. È vero anche, però, che Spagna e Italia si differenziano da

molti anni per diversi tassi di partecipazione elettorale; il nostro paese è considerato tra quelli dove

si vota di più in Europa mentre in Spagna, da alcuni anni, l’astensionismo è in forte crescita.

Potrebbe quindi essere ipotizzabile un’influenza diretta della cultura politica e degli atteggiamenti

partecipativi del paese di residenza sulle comunità immigrate più integrate e stabili nel territorio.

Tab. n.5 - Partecipazione elettorale dei peruviani in Italia e Spagna, elezioni 2006.

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ITALIA

Città Elettori Votanti Voti bianchi Voti nulli Voti

validi Astenuti % votanti

Milano 21.825 16.802 2.847 795 13.133 5.023 76,98%

Torino 6.134 5.198 775 278 4.145 936 84,7%

Roma 4.250 3.058 422 170 2.466 1.192 71,9%

ITALIA 47.391 35.620 75,16%

SPAGNA

Città Elettori Votanti Voti bianchi Voti nulli Voti

validi Astenuti % votanti

Madrid 42.841 29.657 4.431 2.896 22.330 13.184 69,22%

Barcellona 20.657 14.828 2.417 1.270 11.141 5.829 71.78%

Valencia 1.239 767 113 20 634 472 61,9%

SPAGNA 70.818 47.942 67,69%

Fonte: elaborazione su dati JNE

In conclusione, quindi, è possibile affermare che la comunità peruviana in Italia è stata tra le più

partecipative in occasione delle elezioni del 2006 e quella di Torino, in particolare, è risultata la

seconda città con la maggiore percentuale di partecipanti in tutto il mondo.

I.4 L’indagine empirica nelle città di Roma e Torino

I.4.1 Peruviani a Roma e Torino: i dati emersi dall’indagine empirica

L’indagine empirica condotta nelle città di Roma e Torino ha contemplato due livelli di analisi

paralleli: da un lato è stato somministrato un questionario a un campione di 40 individui per ognuno

dei casi di studio e dall’altro sono state condotte delle interviste aperte ai community leader delle

due città. Il metodo utilizzato nella costruzione del campione è stato in parte casuale e in parte

snow-balling, con l’attenzione a differenziare il più possibile il campione di riferimento. Date le

caratteristiche numeriche del campione non è possibile lanciarsi in alcuna analisi quantitativa dei

dati emersi che contempli uno studio percentuale dei risultati; ci limiteremo, dunque, a una

descrizione prevalentemente qualitativa delle due realtà osservate, di volta in volta integrata con le

informazioni raccolte negli incontri con i diversi community leader.

In questo paragrafo illustriamo alcune caratteristiche emerse dall’indagine sul campo,

confrontando quelle di Roma con quelle di Torino ed evidenziando eventuali discrepanze rispetto ai

dati ufficiali illustrati nel capitolo precedente. In altre parole l’indagine empirica ci permette di

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verificare, con tutti i limiti di un campione ridotto, la veridicità di quelle caratteristiche generali che

emergono dalle analisi dei dati Istat e delle Amministrazioni locali.

Per quanto riguarda la provenienza dei peruviani intervistati a Roma e Torino c’è, in entrambi i

casi, una prevalenza di coloro che vengono da Lima e dalla sua provincia: 29 dei 40 intervistati a

Roma viveva nella provincia di Lima prima di venire in Italia così come 22 dei 40 intervistati a

Torino. Questo è dovuto senz’altro alla grande concentrazione di abitanti nella capitale peruviana e

nella sua area metropolitana, dovuta ai consistenti flussi migratori interni cui abbiamo già

accennato. È possibile che Roma attiri un numero maggiore di peruviani provenienti dalla zona

della capitale. In effetti la maggioranza dei peruviani intervistati a Roma ha dichiarato di esser

cresciuto in una grande città con più di 500.000 abitanti mentre tra i peruviani intervistati a Torino

poco meno della metà proviene da una grande metropoli.

Le caratteristiche anagrafiche e di genere dei due campioni non si discostano molto tra loro e

confermano la prevalenza di un’immigrazione femminile e sostanzialmente giovane, con una

maggiore rappresentazione della fascia d’età compresa tra i 26 e i 35 anni. Tra i peruviani residenti

a Roma la quota femminile è proporzionalmente maggiore rispetto a quella di Torino.

Nelle due città prese in esame vi è una maggioranza di individui in possesso di diploma

secondario e superiore, seguito da una buona quota di immigrati in possesso di laurea e da una

quota minoritaria di immigrati in possesso del solo titolo di studio elementare. La presenza di

laureati è maggiore nella città di Torino. Anche su questo punto, dunque, i due campioni considerati

confermano la tendenza di un’emigrazione dal Perú caratterizzata da livelli di istruzione medio-alti.

I lavoratori dipendenti rappresentano la quota maggioritaria in entrambi le città ma a Roma vi è

una quota maggiore di lavoratori indipendenti rispetto a quella riscontrabile nella città di Torino. I

settori più rappresentati sono, per quanto riguarda Roma, il commercio alimentare e di servizi

telefonici (phone center), la ristorazione, il lavoro domestico, le imprese di pulizia, l’insegnamento

e i servizi alle imprese. Per quanto riguarda Torino i peruviani intervistati sono occupati,

nell’ordine, nel commercio alimentare, nell’abbigliamento, nella vendita di servizi telefonici (phone

center), nel lavoro domestico, nel lavoro infermieristico, nell’insegnamento, nei servizi alle imprese

e nel settore della ristorazione. Probabilmente la vocazione più turistica della città di Roma ha

favorito la crescita di attività legate a questo tipo di mercato, in particolar modo ristoranti etnici,

gastronomie, internet point e agenzie di viaggi.

La prevalenza di settori di lavoro privati, insieme a una quota maggioritaria di lavoratori

dipendenti, fa ipotizzare che molti dei peruviani intervistati abbiano trovato lavoro dipendente

presso imprese private di connazionali, magari con l’auspicio di poter riuscire un giorno a mettersi

in proprio.

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Interessante la differenza riscontrabile nel campione tra Roma e Torino circa l’anno di arrivo in

Italia: nella città piemontese si rileva una quota significativa, seppur non maggioritaria, di “nuovi

arrivati” a partire dal 2005 mentre nella capitale è decisamente maggioritaria la quota di peruviani

che hanno lasciato il loro paese negli anni novanta, specie tra il 1992 e il 1993. Questo dato appare

leggermente in controtendenza rispetto a quanto ricavabile dai dati Istat secondo cui a Roma si

sarebbe concentrata buona parte dell’immigrazione peruviana più recente.

La comunità torinese, così come osservato dalla nostra indagine empirica, apparirebbe

caratterizzata dunque da una minore anzianità migratoria, da un maggiore equilibrio di genere e da

un livello più alto, rispetto a Roma, di istruzione.

Sia tra i peruviani di Roma che tra quelli di Torino la motivazione principale del trasferimento

all’estero è stata quella lavorativa, seguita da motivi di ricongiungimento familiare. In particolare

questa seconda motivazione appare più presente tra i peruviani di Torino, molti dei quali arrivati in

Italia negli ultimi anni. A dispetto di questo però, il livello di italiano, secondo l’autopercezione dei

singoli intervistati, è alto in entrambi le città. Anche coloro i quali sono arrivati negli ultimi anni

affermano, e dimostrano, un livello di conoscenza della lingua italiana piuttosto alto, anche perché,

a differenza dei primi arrivati, oggi molti iniziano a studiare la lingua già in Perú prima di partire

per l’Europa.

Sulla motivazione del trasferimento all’estero è evidente l’enorme discrepanza tra quelli che

possiamo considerare dati ufficiali peruviani e quelli emersi dalla nostra indagine. Secondo la già

citata indagine OIM, infatti, oltre il 75% dei peruviani che ha lasciato il paese tra il 1992 e il 2007

lo avrebbe fatto per motivi turistici. È evidente che questo dato riflette soltanto la necessità del

possesso di un visto turistico per poter emigrare. La scelta di arrivare a Roma o a Torino, in

generale, dipende in larga parte da pregressi contatti con amici o familiari piuttosto che da una

scelta consapevole dipendente da motivi lavorativi o personali.

In entrambi i casi considerati la quota di peruviani che ammette di tornare a casa almeno una

volta, o più di una volta, all’anno è molto bassa; la maggioranza, infatti, riesce a tornare in Perú

ogni due o tre anni anche se vi è una quota significativa degli intervistati, specie quelli che sono

arrivati dopo il 2001, che ha dichiarato di non esser mai rientrato in Perú.

Ragionando sulla frequenza di contatti con le autorità consolari peruviane, la stragrande

maggioranza degli intervistati, sia a Roma che a Torino, ha riconosciuto di aver contattato il

consolato al massimo una volta nell’arco di un anno; tra i peruviani di Torino i contatti sembrano

più sporadici ed è proporzionalmente maggiore la quota di coloro che hanno dichiarato di non aver

mai avuto contatti con il consolato durante il loro soggiorno in Italia. Questo dato spiega come mai

il numero di peruviani che ha partecipato alle elezioni dei Consejos de Consulta, organi consultivi

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dei Consolati, sia estremamente basso. I peruviani percepiscono distante l’autorità consolare,

sospettandone spesso la corruzione e il mal costume. C’è poi un’altra motivazione che tende a tener

lontani i peruviani dalle proprie rappresentanze consolari. La necessità di dover pagare una multa,

qualora non si fosse esercitato il diritto-obbligo di voto all’estero, ha spesso provocato un circolo

vizioso di diffidenza e distanza dal consolato con un conseguente calo sensibile della partecipazione

elettorale all’estero nelle ultime tornate.

I.4.2 Comportamento politico transnazionale nelle città di Roma e Torino

L’obiettivo principale dei questionari utilizzati è stato quello di capire se esistono, indagandone

eventualmente alcuni aspetti, caratteri transnazionali della partecipazione politica dei peruviani

residenti a Roma e Torino. In primo luogo si è indagato sul livello di conoscenza e di informazione

politica e, in secondo luogo, si è verificata la presenza di attività politiche transnazionali, cercando

di comprenderne la direzione, l’intensità e la frequenza. In questo paragrafo analizzeremo dunque i

risultati emersi dall’analisi dei due campioni considerati, confrontando le risposte con alcuni degli

indicatori socio-demografici illustrati nel paragrafo precedente.

Il campione osservato nella città di Roma, così come quello nella città di Torino, dichiara in

maggioranza di conoscere abbastanza i temi della politica peruviana e la quota di coloro che

dichiarano di non averne alcuna conoscenza è estremamente bassa in entrambi i casi osservati. In

entrambi le città è minoritaria la quota di persone che, in Perú, era iscritta a un partito e ancora

meno a un sindacato. Nel campione osservato a Roma, però, vi è una quota maggioritaria che

dichiara di essere iscritta a un sindacato italiano a differenza di Torino dove appare trascurabile la

quota di peruviani sindacalizzati. Nessun peruviano intervistato a Roma o a Torino è iscritto ad

alcun partito italiano.

Più che a Roma, è nella città piemontese che si osserva il maggior numero di peruviani che

frequentano abitualmente un’associazione. Tra coloro che a Roma dichiarano di essere iscritti a

un’associazione vi è una netta maggioranza di giovanissimi tra i 18 e i 25 anni: questo dato però va

considerato alla luce delle abitudini di molti giovani peruviani residenti nella Capitale. A Roma,

infatti, molte serate peruviane in discoteche e locali sono organizzate da associazioni che richiedono

all’ingresso, come requisito obbligatorio, l’iscrizione al proprio gruppo. Il numero più alto di serate

organizzate a Roma, rispetto a Torino, potrebbe spiegare tale prevalenza giovanile di iscritti nelle

associazioni.

Sul livello di conoscenza dei temi politici, sia nel campione osservato a Roma che in quello

osservato a Torino, appare una tendenza chiara: la grande maggioranza degli intervistati risulta più

informata sulle questioni politiche italiane che su quelle peruviane. Facciamo qualche esempio.

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Pochi peruviani di Torino e di Roma conoscono il nome del sindaco della propria città d’origine

o del governatore locale della regione di appartenenza, viceversa la grande maggioranza di loro

conosce il nome del sindaco della città dove vive e, in misura leggermente minore, del Presidente

della Regione. Analogamente è una netta minoranza quella che conosce il colore della coalizione

che governa la propria città d’origine o la propria regione in Perú, mentre praticamente il totale

degli intervistati ha conoscenza di chi governa il Perú oggi e del partito che rappresenta. A Torino,

infine, maggiormente che a Roma, i peruviani sanno indicare perfettamente anche l’orientamento

politico della maggioranza in consiglio comunale e in consiglio regionale.

Per quanto riguarda la conoscenza degli attori della politica italiana, è stato somministrato ai due

campioni un piccolo test nel quale gli intervistati dovevano collegare otto nomi di partiti presenti

alle ultime elezioni italiane con una serie di leader politici e famosi esponenti di partito. In entrambi

i campioni osservati si è riscontrata una conoscenza abbastanza superficiale e limitata

sostanzialmente a tre attori principali: Silvio Berlusconi come leader del Partito delle Libertà,

Walter Veltroni come leader del Partito Democratico e, a sorpresa, Umberto Bossi come leader

della Lega. La conoscenza degli altri leader politici appare invece sostanzialmente scarsa. Questo

dato è interessante se si considera che oltre ai due principali contendenti delle ultime consultazioni

politiche del 2008, è Umberto Bossi, noto per le sue posizioni anti-immigrazione, a esser conosciuto

tra i peruviani residenti in Italia, che certamente seguono e si informano sulle questioni più vicine a

loro. La conoscenza di Bossi è analoga sia nel campione di Roma che in quello di Torino.

Incrociando i dati sulla conoscenza politica con il genere e con l’età degli intervistati emerge che

a Torino le donne tra i 25 e i 35 anni risultano le più informate sui temi della politica italiana, a

differenza di Roma dove è la fascia più giovane, tra i 18 e i 25 anni, a dichiararsi maggiormente

interessata e informata sulla politica del nostro paese. Questa osservazione acquista una maggiore

rilevanza se considerata con la tendenza del genere maschile. I peruviani maschi, tra i 25 e i 35

anni, sia a Roma che a Torino, risultano leggermente più informati sui temi della politica peruviana

rispetto alle donne della stessa fascia d’età. La spiegazione di questa differenza basata sul genere

può essere trovata considerando l’anno di arrivo in Italia: molte donne infatti hanno preceduto i loro

mariti e fratelli nell’emigrazione verso il nostro paese e sono presenti sul territorio italiano da più

tempo, avendo dunque sviluppato una maggiore attenzione e un interesse più forte per le vicende

politiche italiane.

Volgendo lo sguardo ai contenuti e ai temi politici di maggiore interesse, non si riscontrano

differenze tra il campione osservato a Roma e quello a Torino. Riguardo i temi della politica

peruviana, quelli di maggiore interesse sono legati ai rapporti tra Perú e Italia e alle campagne

elettorali. Scarsi invece l’interesse per le questioni economiche, per le politiche del lavoro, e per

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l’amministrazione della realtà locale di provenienza. A sorpresa non risultano particolarmente

rilevanti, per gli intervistati, i temi dell’emigrazione trattati nel dibattito politico peruviano, nel

quale si critica, quasi all’unanimità, l’assenza di una seria riflessione sui peruviani nel mondo.

Nel dibattito politico italiano la situazione appare quasi rovesciata: i temi di maggiore interesse

per gli intervistati sono quelli legati al mercato del lavoro e alle sue politiche, alle questioni

economiche e soprattutto ai temi dell’immigrazione e della cittadinanza. A sorpresa, anche qui, si

rileva un forte interesse per le campagne elettorali italiane, nonostante l’assenza di qualsiasi diritto

di voto nel nostro paese.

Il dato relativo ai temi di maggiore interesse acquista un rilievo particolare se incrociato con

quello relativo all’anno di arrivo in Italia. Contrariamente a quanto era possibile ipotizzare, sono i

peruviani da più tempo in Italia a mostrare livelli di interesse maggiore per le questioni politiche del

paese d’origine. In altre parole è possibile credere che solo chi ha risolto i problemi di inserimento e

ha raggiunto un livello soddisfacente di integrazione abbia l’interesse e la voglia di volgere

l’attenzione al dibattito politico peruviano, a differenza di chi è appena arrivato che volge maggiore

attenzione alle questioni italiane sull’immigrazione (permessi di soggiorno e normativa relativa) e

sulla cittadinanza. Quest’ultima riflessione è in linea con quanto ipotizzato dalla nostra ricerca sulla

scorta di Joppke e Morawska (2003) e cioè che la presenza di attività politiche transnazionali tra i

migranti non necessariamente implica un minore grado di integrazione nella società di

insediamento.

La quasi totalità del campione osservato ha affermato di essere consapevole di avere il diritto di

voto per le elezioni peruviane e oltre la metà degli intervistati ha votato alle ultime elezioni del

2006. Tra i peruviani di Torino, peraltro, si riscontra un numero più elevato di assidui elettori che

hanno dichiarato di aver votato in tutte le consultazioni degli ultimi anni; questa tendenza

confermerebbe il primato della città piemontese quanto a partecipazione elettorale dei peruviani nel

mondo.

Sempre in tema elettorale, una fortissima maggioranza dei due campioni osservati ha dichiarato

di ritenere estremamente importante l’opportunità di poter votare nelle elezioni italiane,

confermando quindi un interesse attivo per le vicende politiche del nostro paese.

Venendo alle attività politiche vere e proprie, gli intervistati avevano a disposizione un elenco di

forme di partecipazione politica convenzionali e non convenzionali (Millbrath, 1965) tra le quali

selezionare quelle messe in pratica da quando si è trasferita la residenza in Italia. Tale domanda è

stata ovviamente ripetuta due volte, per indagare quelle rivolte all’Italia e quelle rivolte al Perú.

I due campioni osservati a Roma e Torino non dimostrano sostanziali differenze, a esclusione di

una prevalenza nella città piemontese di individui che hanno avuto contatti con un dirigente politico

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o sindacale peruviano. In entrambi i contesti presi in esame le attività più diffuse, rivolte sia

all’Italia sia al Perú, sono quelle caratterizzate da un livello di coinvolgimento relativamente basso,

come l’aver preso parte a discussioni politiche e l’aver avuto contatti con dirigenti o esponenti

politici. Solo una netta minoranza ha dichiarato di essersi candidato a qualche carica elettiva (in

Perú), di aver aderito a uno sciopero, di aver firmato petizioni o di aver preso parte a manifestazione

e cortei.

A Torino un numero maggiore di intervistati rispetto al campione di Roma ha dichiarato di aver

versato offerte in denaro per sostenere un candidato alle elezioni politiche peruviane, confermando

ancora una volta un interesse maggiore della comunità peruviana di Torino verso le consultazioni

elettorali del paese di origine. Un’osservazione su questo punto può risultare utile a leggere i

risultati del nostro lavoro; agli intervistati era stato chiesto di scegliere al massimo tre forme di

partecipazione politica tra le dieci indicate nel questionario ma circa la metà dei due campioni si è

limitata a indicarne soltanto una o due. Questa riflessione ci fa ipotizzare una generale tendenza alla

scarsa mobilitazione e attivazione politica del cittadino peruviano immigrato in Italia.

Incrociando infine il dato sulle forme di partecipazione politica con quelli socio-demografici

risulta che gli intervistati più istruiti e appartenenti alla fascia d’età 25-35 anni, sono quelli più attivi

politicamente. Tra i giovanissimi (18-25 anni) si riscontra, in entrambi i campioni di Roma e

Torino, una tendenza piuttosto netta alla scarsa mobilitazione politica. Non si riscontrano invece

altre correlazioni interessanti tra genere, occupazione, luogo di origine e forme di partecipazione

politica messe in atto.

Infine vediamo alcuni risultati osservabili circa le fonti e la frequenza dell’informazione politica

in Italia e in Perú. In generale i due campioni intervistati hanno dichiarato di interessarsi spesso

(almeno 1-2 volte al mese) alle questioni politiche peruviane ma con alcune lievi differenze tra le

due città. Nel campione di Torino, infatti, risulta maggiore il numero di individui che si informano

con una frequenza alta dei temi politici peruviani: sommando coloro i quali dichiarano di

interessarsi tutti i giorni con quelli che dichiarano di farlo spesso, si supera di gran lunga la metà del

campione. A Roma, invece, essendo più forte la componente che dichiara di interessarsi solo in

occasione delle elezioni, è solo la metà del campione che presente una frequenza alta di

informazione politica.

Riguardo la frequenza alle informazioni politiche italiane, invece, appare maggioritaria in

entrambi i campioni la presenza di individui che si informano spesso o tutti i giorni. Da notare che

nessuno degli intervistati, sia a Roma che a Torino, ha dichiarato di non informarsi mai sulle

vicende politiche italiane. La fonte di gran lunga più utilizzata, per seguire sia i temi italiani sia

quelli peruviani, è Internet con una prevalenza dei siti in lingua spagnola. Le informazioni politiche

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sull’Italia, infatti, sono reperite anche dalla stampa (anche qui si preferisce quella in lingua spagnola

rivolta alla comunità latinoamericana in generale), ma soprattutto dalla televisione italiana.

Tra le fonti di informazione degli avvenimenti politici in Perú, risaltano, in entrambi i campioni,

i connazionali e i familiari ancora residenti oltreoceano. Solo un’esigua minoranza, invece, ha

dichiarato di reperire informazioni politiche sull’Italia e sul Perú dalle Associazioni di migranti

eventualmente frequentate, segno di una scarsa politicizzazione di queste. Analizzando il rapporto

tra partecipazione politica in Italia e partecipazione politica in Perú praticamente nessuno degli

intervistati percepisce le due direzioni come conflittuali o in competizione e la grande maggioranza

di loro, sia a Roma che a Torino, conviene sul fatto che la partecipazione verso il Perú non abbia

nulla a che fare con quella rivolta all’Italia, scartando qualsiasi ipotesi di influenza reciproca.

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II IL CASO ROMENO. LE COMUNITÀ ROMENE DI ROMA E TORINOGiordano Altarozzi

INDICE

II.1 Fenomeni migratori dalla Romania: introduzione storica

II.1.1 La prima fase: 1990-1994II.1.2 La seconda fase: 1995-2000II.1.3 La terza fase: dal 2000 all’adesione

II.2 Legislazione e politiche migratorie nella Romania post-comunista

II.2.1 Regime normativo in materia di passaporti e documenti per la circolazione oltre frontieraII.2.2 Strumenti per il controllo dei flussi: le condizioni per l’uscita dal paeseII.2.3 Gli accordi di riammissioneII.2.4 Regolamentazione specifica in merito all’emigrazione per lavoroII.2.5 Accordi bilaterali in materia di circolazione di forza-lavoroII.2.6 Diritto di cittadinanza e partecipazione al voto

II.3 - Caratteristiche dell’immigrazione romena in Italia

II.3.1 Caratteristiche della presenza in Italia fino all’adesione della Romania all’UEII.3.2 I romeni e il mercato del lavoro italianoII.3.3 L’associazionismo romeno in Italia

II.4 L’indagine empirica sulle comunità di Roma e Torino

II.4.1 Romeni a Roma e Torino: i dati emersi dall’analisi empiricaII.4.2 Comportamento politico transnazionale della comunità romena di RomaII.4.3 Comportamento politico transnazionale della comunità di Torino

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II.1 Fenomeni migratori dalla Romania: introduzione storica.

Il 1989 ha significato, per la Romania più che per qualsiasi altro paese del cosiddetto “impero

esterno” sovietico, una vera e propria rivoluzione39. Con i fatti del 21-25 dicembre 1989, i romeni si

liberano di un regime che in quarant’anni ha distrutto ogni equilibrio sociale preesistente, senza

contribuire a costruirne alternativi, e che è riuscito – con la folle idea di Ceauşescu di restituire

integralmente il debito estero – a portare la popolazione a un livello di vita tra i più bassi, non

distante da quello dei Paesi del terzo mondo. Tra le tante limitazioni che la popolazione romena ha

dovuto sopportare durante i lunghi anni del regime di socialismo reale, impostole con la forza alla

fine della seconda guerra mondiale, una delle più difficili era senz’altro costituita dall’impossibilità

di stabilire qualsivoglia forma di contatto con il mondo esterno40. A partire dal 1990, la ritrovata

libertà di movimento all’estero ha comportato un progressivo aumento del fenomeno migratorio.

Un’indagine condotta da Dumitru Sandu ha quantificato in circa 2.500.000 le famiglie romene in

cui almeno un componente abbia avuto, tra il 1989 e il 2006, contatti con l’estero41. La stessa

ricerca ha determinato anche le caratteristiche generali delle fasce di popolazione che hanno

sperimentato esperienze lavorative all’estero nel periodo considerato, ponendo particolare

attenzione alla fascia d’età, alla provenienza (rurale o urbana) e all’appartenenza di genere. Da tale

analisi emerge dunque che, tra il 1990 e il 2006, la via dell’emigrazione per motivi di lavoro

rappresenta un’opzione appetibile più per i giovani che per gli anziani, tendenzialmente più per gli

39 In realtà sull’uso del termine “rivoluzione” per identificare i fatti del dicembre 1989 in Romania si è aperto fin dagli anni Novanta un vasto dibattito storiografico e politologico; molti sostengono infatti che non si sia trattato di una rivoluzione, quanto piuttosto di un colpo di Stato operato da seconde file del partito, altri ritengono invece che i moti che da Timişoara si estesero al resto della Romania siano scoppiati in maniera indipendente ma che successivamente siano stati “cavalcati” da alcuni settori del Partito Comunista Romeno; in merito ci si limita a segnalare Mazilu, D., Revoluţia furată (La rivoluzione rubata), Ed. Cozia, Bucureşti 1991; Frunză, V., Revoluţia împuşcată sau PCR după 22 decembrie 1989 (La rivoluzione fucilata ovvero il PCR dopo il 22 dicembre 1989), Ed. Victor Frunză, Bucureşti 1994; Săndulescu, Ş., Decembrie ’89. Lovitura de stat a confiscat revoluţie română (Dicembre ’89. Il colpo di stato ha confiscato la rivoluzione romena), Omega, Bucureşti 1996; Radoş, A., Complotul securităţii. Revoluţia trădată din România (Il complotto della Securitate. La rivoluzione tradita di Romania), Saeculum, Bucureşti 1999; Stoenescu, A. M., Istoria loviturilor de stat în România, vol. IV, Revoluţia din decembrie 1989 – o tragedie românească (Storia dei colpi di stato in Romania, vol. IV, La rivoluzione del dicembre 1989 – una tragedia romena), 2 tomi, RAO, Bucureşti 2004-2005; Tismăneanu, V., Stalinismul pentru eternitate. O istorie politică a comunismului românesc (Stalinismo per l’eternità. Una storia politica del comunismo romeno), Polirom, Iaşi 2005. Per uno sguardo d’insieme sul caso romeno cfr. Biagini, A., Storia della Romania contemporanea, Bompiani, Milano 2004; sul concetto di rivoluzione in generale, cfr. Tilly, C., Le rivoluzioni europee 1492-1992, Laterza, Roma/Bari 1999. Al di là del merito e della legittimità delle diverse tesi, se si esce dall’aspetto propriamente politico del 1989 romeno e della cosiddetta “transizione” degli anni Novanta – altro concetto peraltro assai dibattuto – per volgere l’attenzione a un piano più generale, si può constatare effettivamente che, seppure con molte imperfezioni, i cambiamenti che hanno avuto luogo sono stati effettivamente rivoluzionari.40 Ciò è confermato in via indiretta dall’assenza di un qualsiasi articolo della Costituzione socialista inerente il diritto alla libera circolazione dei cittadini. Il testo della Costituzione socialista romena del 1965 è disponibile all’indirizzo internet: http://www.constitutia.ro/const1965.htm (ultimo accesso 04/10/2008).41 Sandu, D. (a cura di), Locuirea temporară în străinătate. Migraţia economică a românilor: 1990-2006 (Vivere temporaneamente all’estero. La migrazione economica dei romeni: 1990-2006), Fundaţia pentru o Societate Deschisă, Bucureşti 2006, p. 17. Per contatti con l’estero il curatore del volume intende qualsiasi forma di scambio con paesi terzi, dalla residenza oltre frontiera più o meno lunga per motivi, al semplice viaggio per motivi turistici, allo scambio transfrontaliero.

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uomini che per le donne e in misura maggiore dalle zone rurali, dove la sussistenza è più difficile da

guadagnare, che da quelle urbane.

Nonostante il fenomeno migratorio dalla Romania abbia costituito una costante fin dai primi

mesi post-rivoluzionari, va tuttavia notato come esso abbia conosciuto fasi diverse, sia dal punto di

vista quantitativo – un’emigrazione massiccia si può riscontrare soltanto a partire dal 2000 – che da

quello delle aree di provenienza e di destinazione. In tale senso è possibile suddividere il fenomeno

migratorio nell’intero periodo 1990-2006 in tre fasi: 1990-1994, 1995-2000, 2001-200642.

II.1.1 La prima fase: 1990-1994Dal 1990 i romeni tornano dunque a godere della possibilità di uscire liberamente dal loro Paese,

senza essere costretti a “evadere” da esso, precludendosi così ogni possibilità di ritorno43. I flussi in

uscita non risultano però particolarmente elevati da un punto di vista numerico, e neanche regolari;

l’elaborazione di un progetto migratorio richiede spesso l’esistenza di reti e catene migratorie che

popolazioni “digiune” di contatti con l’estero non potevano avere. Il primo periodo, caratterizzato

da migrazioni transfrontaliere, ossia da attraversamenti frequenti di frontiere tra due Stati per

periodi ridotti e spesso di durata quotidiana, presenta pertanto un carattere decisamente transitorio e

temporaneo. Tali movimenti, più o meno legali, sono determinati da iniziative individuali con uno

spiccato carattere commerciale. Attraverso la motivazione turistica, il cosiddetto “commercio di

valigia” diventa pratica comune. Le destinazioni più gettonate sono costituite dai Paesi vicini,

facilmente raggiungibili e che richiedono un investimento minimo; in particolare le mete preferite

sono Ungheria – soprattutto dalla Transilvania, anche a causa di una forte presenza magiara nella

regione –, Polonia e Turchia44.

Accanto a questo traffico transfrontaliero di breve durata, appare però anche un altro fenomeno,

stavolta di lungo periodo, che riguarda in primo luogo alcune minoranze etniche di Romania, le

quali finiscono per indirizzarsi verso gli stati nazionali di riferimento, tra cui in particolare

Germania, Israele e Ungheria45. Tale processo, che riguarda i sassoni di Transilvania (in

maggioranza protestanti) e gli svevi del Banato (generalmente cattolici), oltre che i pochi ebrei

42 Sul fenomeno in genere cfr. Diminescu, D., Visibles mais peu nombreux. Les circulations migratoires roumaines après 1989, Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, Paris 2003.43 Spesso infatti i paesi del socialismo reale sono stati equiparati a carceri su scala geografica; ciò spiega anche la diffusione, nella mentalità collettiva romena, del concetto di “lager socialista”, divenuto quasi sinonimo di regime comunista. Uno dei casi più famosi, ma senz’altro non l’unico, di “evasione” dalla Romania ceauşista è quello della ginnasta Nadia Comaneci, riparata negli Stati Uniti durante una competizione internazionale.44 Per esempio nel solo anno 1992 Istanbul è “visitata” da un milione di “turisti” romeni che mettono in piedi un sistema di micro-commercio internazionale. Gli effetti – come abbiamo modo di constatare – sono ancora visibili in Turchia, dove non è infrequente imbattersi in commercianti che hanno conoscenze di base della lingua romena. In merito cfr. Selinvanova, I., Turkey and Cooperation with the Black Sea Countries: The Beginning of the Path, in “Foreign Trade”, 9, 1994.45 Cfr. Andreescu, V. – Alexandru, V., Transnational Labor Mobility of Romanians: Empirical Findings on Recent Migratory Trends, in “Journal of Identity and Migration Studies”, vol. 1, n. 2, 2007, pp. 3-20.

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dispersi sull’intero territorio nazionale e i magiari delle diverse zone di confine con l’Ungheria,

porta al completamento di un fenomeno di più lunga durata, iniziato nel corso gli anni Cinquanta, in

concomitanza con l’affermazione del cosiddetto “comunismo nazionale”, allorché il regime decide

di risolvere il problema delle minoranze etniche “vendendole” ai paesi occidentali di riferimento –

Repubblica Federale di Germania e Israele – in cambio di somme di denaro in valuta pregiata 46. Un

altro gruppo etnico molto attivo dal punto di vista migratorio è quello rom, in cui però lo

spostamento, la migrazione, costituiscono un elemento strutturale. Costretti a rimanere all’interno

della Romania per oltre cinquant’anni e oggetto di una duplice politica di rigetto e di assimilazione

da parte delle autorità comuniste47, a partire dal 1989 i rom romeni sfruttano appieno la caduta della

Cortina di ferro e si diffondono rapidamente in tutti i paesi dell’Europa centro-orientale e in

Turchia.

In conclusione, si può affermare che in questa prima fase i romeni danno vita a un fenomeno di

circolazione caratterizzata da alti tassi di rientri; con l’esclusione dei gruppi etnici tedesco ed

ebraico, che come detto in tale fase completano un processo migratorio iniziato molto tempo prima,

la mobilità da e per la Romania ha tendenzialmente una durata limitata, anche di una sola giornata,

e finalizzata a motivazioni economiche legate al piccolo commercio. Verso la metà degli anni

Novanta però tale caratteristica comincia a scadere, per essere progressivamente sostituita da

progetti migratori di più lunga durata.

II.1.2 La seconda fase: 1995-2000.

Questo periodo è caratterizzato, sul piano interno, da una crisi economica senza precedenti. La

classe dirigente post-rivoluzionaria, in gran parte composta da seconde file del Partito Comunista

Romeno (PCR) che sono riuscite a cavalcare la rivoluzione, non hanno avviato negli anni

immediatamente successivi gran parte delle riforme necessarie per consentire al Paese di avviarsi

sulla via di una piena transizione all’economia di mercato e a un progressivo miglioramento del

tenore di vita della popolazione. La situazione economica è tra le più disastrose dell’area dell’ex

socialismo reale, i salari medi rimangono estremamente bassi – fino almeno al 2002-2003 il salario 46 Cfr. Biagini, A., op. cit., pp. 115-117; benché iniziato già dal 1950, tale flusso venne istituzionalizzato nel 1967 in seguito a due accordi di collaborazione che il regime di Bucarest siglò con i governi tedesco e israeliano. Le somme previste per gli emigranti – spesso costretti – di etnia tedesca erano comprese tra i 2.000 e i 50.000 dollari, in funzione del grado di preparazione tecnica e di istruzione del singolo, mentre nel caso di ebrei le “compensazioni” pagate dal governo di Tel Aviv giunsero fino alla cifra di 250.000 dollari; in merito cfr. Popa, C., “Regimul comunist din România (1948-1989)” (“Il regime comunista di Romania, 1948-1989”), in Pop, I.-A. – Bolovan, I. (a cura di), Istoria României (Storia della Romania), Institutul Cultural Român, Cluj-Napoca 2004, p. 656.47 Le autorità comuniste romene adottano, nel corso del quarantennio in cui reggono le sorti del Paese, una politica di assimilazione delle minoranze nazionali mediante una serie di politiche che tendono a rendere più difficile il mantenimento delle tradizioni culturali del gruppo di appartenenza. Nel caso specifico dei rom, accanto a tale politica se ne affianca però un’altra, paradossalmente contraria, di assoluto rigetto; i rom vengono dunque concentrati in maniera coatta presso determinate aree appositamente identificate, dove è consentito loro di mantenere le proprie tradizioni e il proprio stile di vita a condizione di non mescolarsi con gli altri gruppi. In merito cfr. Achim, V., Ţiganii în istorie României (Gli zingari nella storia della Romania), Bucureşti 1998; Pistecchia, A., „Il cibo e il corpo nella cultura rom”, in Motta, G. (a cura di), Cultura alimentare, storia e società, Periferia, Roma 2008, pp. 211-223.

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minimo previsto per legge non supera i 75 euro mensili – a causa anche dell’endemica debolezza

della moneta nazionale, il leu. La disoccupazione tocca punte critiche a causa del fallimento di

molte delle ex imprese statali, spesso privatizzate in maniera selvaggia, e a un contestuale

immobilismo dell’iniziativa privata; l’inflazione raggiunge vette da capogiro arrivando a sfiorare

quote del 40% annuo. Se dunque i negozi di Romania sono tornati a riempirsi pian piano di

prodotti, le tasche dei romeni rimangono vuote. Contemporaneamente, l’Occidente, che nel

frattempo i romeni hanno imparato a conoscere grazie alla diffusione delle emissioni televisive,

diventa una destinazione sempre più appetibile. Quello che sembra essere un fallimento determinato

dal “tradimento della rivoluzione”48 del 1989 genera anche un rigetto da parte di molti cittadini, che

onestamente avevano creduto di poter dare il loro contributo alla transizione verso la democrazia e

che, delusi, decidono di lasciare il Paese alla ricerca di una migliore condizione di vita in Occidente.

Nel 1994 i romeni hanno ormai un bagaglio minimo di esperienza in materia di migrazioni

transfrontaliere che consente loro di poter progettare piani migratori a più lunga durata e verso

destinazioni più lontane; in tal senso è evidente come l’esistenza di reti già strutturate in determinati

Paesi, come Germania e Israele, favorisca l’emigrazione verso di essi anche di cittadini romeni non

appartenenti alle minoranze nazionali di riferimento49. Altra meta appetibile è la Francia, che già in

passato aveva esercitato una forte egemonia culturale ed economica50. Tali destinazioni lasciano

però progressivamente il posto ai Paesi dell’area mediterranea, Italia in primo luogo, ma anche

Spagna, Portogallo, Grecia, Turchia, nonché ad altre mete più lontane come la Gran Bretagna,

l’Irlanda, gli Stati Uniti e il Canada.

Anche in tale fase però, almeno all’inizio, il fenomeno migratorio assume un carattere

individuale, piuttosto improvvisato, generalmente irregolare, ma progressivamente, man mano che

le conoscenze in merito ai tragitti e alle potenzialità del mercato del lavoro occidentale si

diffondono, aumentano anche gli spostamenti di gruppi sempre più organizzati. Lo sviluppo della

48 In tal senso va notato che la classe politica post-rivoluzionaria, composta in gran parte da membri di second’ordine del PCR o comunque appartenenti alle organizzazioni collaterali di questo – Unione delle donne, sindacati, Unione dei giovani comunisti ecc. – non fa nulla per tentare di diffondere un sentimento di effettivo cambiamento. Al contrario, già dal gennaio 1990 e fino al settembre 1991 Ion Iliescu, leader indiscusso del Fronte di Salvezza Nazionale e già membro di rilievo del PCR, ricorre a più riprese ai minatori della Valle del Jiu – che avevano costituito una sorta di force de frappe del passato regime contro eventuali opposizioni organizzate – per soffocare le proteste che intanto cominciano a diffondersi nelle strade della capitale; tale fenomeno è noto con il nome di “mineriadi”; in merito cfr. Biagini, A., op. cit., pp. 138-143.49 Nel caso dell’emigrazione verso Israele, essa è determinata in quegli anni anche da un’elevata domanda di manodopera proveniente da quel Paese a seguito delle restrizioni imposte all’ingresso di lavoratori palestinesi per motivi di sicurezza nazionale. Tali restrizioni rendono vacanti molti posti di lavoro, che vengono occupati in gran parte da lavoratori provenienti dalla Romania e dalla Thailandia; cfr. Andreescu, V. – Alexandru, V., op. cit., p. 7.50 Durante l’Ottocento e fino a tutto il periodo tra le due guerre, l’élite culturale e politica romena si forma a Parigi e presso le altre università francesi. Successivamente, molti intellettuali romeni, come Eugène Ionesco (in realtà Eugen Ionescu) e Mircea Eliade, soltanto per fare alcuni esempi, trovano riparo proprio in Francia. Anche il regime comunista di Ceauşescu avvia una collaborazione economica con la Francia, che si sviluppa a seguito della visita del generale de Gaulle a Bucarest nel maggio 1968 e che è particolarmente attiva nel settore della produzione automobilistica, con Renault e Citroen in prima fila.

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tecnologia informatica e di sistemi di raccolta e catalogazione dei dati relativi ai soggetti che

attraversano le frontiere ha contribuito a rendere più difficile il fenomeno migratorio, ma anche a

sviluppare tutta una serie di pratiche all’interno delle comunità di migranti tese ad aggirare gli

ostacoli.

Altra caratteristica dell’emigrazione di tale fase, che in parte si propagherà anche al periodo

successivo, è quella secondo cui esiste una differenziazione tra le diverse regioni storiche che

compongono la Romania per quanto attiene ai Paesi di destinazione dei migranti51. In tal senso, gli

emigranti dalla Transilvania e dal Banato sembrano orientarsi principalmente verso l’Ungheria, la

Germania e la Francia, i migranti dalla Moldavia romena (da non confondere con la Repubblica di

Moldavia, storicamente denominata Bessarabia) si indirizzano prevalentemente verso l’Italia, quelli

dalla Muntenia verso la Spagna e quelli dalla Dobrugia verso la Turchia, anche in tal caso scelta

determinata dalla presenza di una relativamente consistente minoranza turco-tatara di religione

musulmana. All’interno di questa regionalizzazione dell’emigrazione, si trova un’ulteriore

differenziazione in merito alla durata del progetto migratorio. Mentre infatti i migranti da

Transilvania, Banato e Moldavia tendono a trasferirsi per periodi lunghi, i munteni, diretti

prevalentemente verso la Spagna, danno vita a spostamenti periodici con impieghi soprattutto

nell’agricoltura per mezzo di contratti stagionali, in funzione soprattutto di una maggiore vicinanza

del sistema produttivo con quello dell’area di provenienza.

II.1.3 La terza fase: dal 2000 all’adesione.Il 2000 segna un vero e proprio spartiacque dal punto di vista migratorio. Benché

quantitativamente crescenti durante tutto il corso degli anni Novanta, le emigrazioni dalla Romania

assumono un carattere di massa soltanto a partire da quest’anno, con un crescendo sempre più

consistente a partire dal 2002, quando la Romania viene inclusa nello spazio Schengen52.

Contestualmente i migranti romeni tendono a orientarsi sempre più verso Italia e Spagna,

tralasciando progressivamente le altre destinazioni; per sette delle otto regioni storiche che

compongono la Romania – con percentuali diverse da regione a regione, con un numero più elevato

per quelle orientali – l’Italia diviene la meta preferita, mentre i munteni tendono a preferire la

Spagna e dunque a dare vita a un fenomeno migratorio tendenzialmente circolare che prevede

periodi di residenza all’estero più ridotti, sia a causa della realtà socio-economica dell’area di

partenza che come conseguenza della legislazione del paese di immigrazione, caratterizzata sia per

51 Per regioni storiche si intendono quelle aree che, storicamente, vengono considerate come facenti parte delle cosiddette Terre romene. In una visione minimale, esse sono: Transilvania, Banato, Oltenia, Muntenia, Moldavia, Dobrugia, Bucovina, Bessarabia. Attualmente, da un punto strettamente formale, lo Stato romeno non risulta diviso in regioni, bensì in 41 distretti (judeţe), simili alle province italiane, cui si aggiunge come distretto a parte la capitale Bucarest.52 Cfr. Sandu, D. et altri, A Country Report on Romania Migration Abroad: Stock and Flows after 1989, Multiculturale Centre, Prague 2004.

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l’agricoltura, sia anche per l’industria, da un elevato grado di flessibilità che sembra bene adattarsi

alle caratteristiche e alle necessità dei romeni provenienti da questa particolare area geografica.

Anche la Transilvania costituisce un’eccezione a tale regola; la regione vede infatti un flusso

costante di migrazioni verso l’Ungheria che riguardano in grandissima parte la minoranza magiara,

mentre i cittadini di etnia romena tendono ad allinearsi ai loro connazionali nel preferire, quali mete

del loro progetto migratorio, alcuni paesi dell’Europa occidentale, ma anche Canada e Stati Uniti53.

Tale aumento dei flussi migratori spaventa sia i Paesi occidentali mete del fenomeno, che

cominciano a temere una vera e propria “invasione da est”, sia le autorità di Bucarest che vedono

svuotarsi il Paese di importanti risorse di forza-lavoro (tanto che allo stato attuale la Romania è

costretta a importare mano d’opera dalle più povere regioni limitrofe, tra cui in particolare la

Repubblica Moldova, ma anche dalla Cina). Ciò si traduce, come si vedrà in maniera più dettagliata

nel successivo paragrafo dedicato alla legislazione in materia di emigrazione, in un giro di vite, per

quanto attiene alle norme sulla possibilità di muoversi all’estero, da parte delle autorità romene, che

ha come conseguenza principale una notevole contrazione delle emigrazioni legali, e non già una

diminuzione tout court del fenomeno.

Tale situazione viene confermata in via indiretta dal sostanzioso aumento delle presenze romene

in Italia nel corso del 2007 – anno di ingresso della Romania nell’UE – frutto non tanto di nuovi

arrivi quanto piuttosto di legalizzazioni di situazioni di illegalità preesistenti54.

Quanto espresso finora può essere rappresentato visivamente nelle tabelle che seguono,

sviluppate sulla base di dati ufficiali resi pubblici nel 2007 dall’Istituto Nazionale di Statistica di

Bucarest. La semplice lettura delle tabelle potrebbe far emergere alcune discrepanze con quanto

sostenuto nel testo; onde evitare tali malintesi, appare opportuno fornire alcune indicazioni, tra cui

la più rilevante è quella per cui i dati riportati si riferiscono ai cittadini romeni che hanno stabilito la

loro residenza all’estero, e non dunque agli emigranti effettivi, la maggioranza dei quali sono

soltanto domiciliati nei paesi di destinazione o vi risiedono illegalmente, non rientrando dunque

nelle stime dell’Istituto. Inoltre, dai dati non emerge un elemento, quello rom, che pure ha un

notevole impatto sul fenomeno migratorio intra-europeo. Nonostante tali imprecisioni nei dati

ufficiali, che rendono impossibile una fotografia fedele della realtà migratoria dalla Romania, essi

forniscono comunque alcuni importanti spunti di analisi, come per esempio la conferma del fatto

che, almeno all’inizio, il processo migratorio permanente – o comunque di lunga durata – abbia 53 Cfr. Romanian Statistical Yearbook 2006, Institutul Naţional de Statistică, Bucureşti 2007, tabella 2.30, p. 81, disponibile all’indirizzo internet http://www.insse.ro/cms/files/pdf/ro/cap2.pdf (ultimo accesso 9 gennaio 2009).54 Cfr. Ricci, A., “Immigrati romeni in Italia: l’immagine dei romeni dopo l’ingresso nella Ue tra percezione e realtà”, in Altarozzi, G. – Mândrescu, G. – Pommier Vincelli, D., L’immagine riflessa. Romeni in Italia e italiani in Romania (Atti del convegno italo-romeno di Foligno, 22-25 febbraio 2007), Edizioni Nuova Cultura, Roma 2008, pp. 181-199; Istituto Nazionale di Statistica, La popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2007, pp. 5-7, disponibile all’indirizzo internet http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20071002_00/testointegrale20071002.pdf (ultimo accesso 8 ottobre 2008).

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riguardato più gli elementi etnici minoritari (tedeschi e magiari in primo luogo, ma anche ebrei) che

non l’elemento etnico romeno, il quale a sua volta diviene maggioritario a partire dalla metà degli

anni Novanta55. Altro elemento di notevole importanza che emerge dall’analisi dei dati è costituito

dall’incidenza che hanno le politiche governative sia romene che dei paesi di destinazione sul

numero di cittadini romeni neo-residenti al di fuori dei confini patri; a fronte di un tendenziale

aumento – a volte anche esponenziale, come nel periodo compreso tra il 2000 e il 2005 – delle

emigrazioni, infatti, si può registrare una costante sostanziale diminuzione del numero di cittadini

romeni che stabiliscono la loro residenza all’estero. Ciò – come anticipato – dipende dall’impatto

che hanno sulla struttura del fenomeno migratorio alcune politiche governative restrittive, le quali

anziché limitare la quantità dei flussi migratori dalla Romania, finiscono per incentivare

l’emigrazione irregolare che si perpetua nel tempo consentendo soltanto un numero assai ridotto di

legalizzazioni successive.

Tabella 1. Cittadini romeni che hanno stabilito il loro domicilio all’estero per appartenenza etnica (1991-2005).

Anno TotaleAppartenenza etnica

Romeni Tedeschi Ungheresi Ebrei Altri

1991 44160 19307 15567 7494 516 1276

1992 31152 18104 8852 3523 224 449

1993 18446 8814 5945 3206 221 260

1994 17146 10146 4065 2509 177 249

1995 25675 18706 2906 3608 131 324

1996 21526 16767 2315 2105 191 148

1997 19945 16883 1273 1459 136 194

1998 17536 15202 775 1217 198 144

1999 12594 11283 390 696 111 114

2000 14753 13438 374 788 66 87

2001 9921 9023 143 647 72 36

2002 8154 7465 67 489 28 105

2003 10673 9886 20 661 24 82

2004 13082 11890 36 1062 36 5855 In merito all’appartenenza etnica va ricordato come le autorità romene presuppongano la nazionalità romena per tutti i cittadini, fatto salvo il diritto dei singoli di proclamare espressamente la loro appartenenza a un gruppo nazionale minoritario. L’appartenenza a una minoranza etnica dà una serie di diritti sociali e politici, come per esempio quello di inviare propri rappresentanti in Parlamento, dove ai deputati eletti si aggiungono i rappresentanti delle minoranze nazionali (tra cui anche un italiano, rappresentante della minoranza storica) o, uno dei diritti tra i più visibili ma al tempo stesso importante per il mantenimento e la proclamazione dell’identità nazionale di un determinato luogo, il diritto della multipla denominazione per quelle zone dove le minoranze superano il 20% della popolazione (per esempio Târgu Mureş diviene in ungherese Marosvásárhely, oppure Reghin, città dove esistono tre gruppi quasi equivalenti per consistenza numerica, romeno, ungherese e sassone, diventa Szászrégen in ungherese e Sächsisch Regen in tedesco.)

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2005 10938 10301 93 460 48 36

TOTALE 275701 197215 42821 29924 2179 3562

(Fonte: Romanian Statistical Yearbook 2006, Institutul Naţional de Statistică)

Tabella 2. Cittadini romeni che hanno stabilito il loro domicilio all’estero per paese di destinazione (1991-2005)

Anno TotalePRINCIPALI PAESI DI DESTINAZIONE

Austria Canada Francia Germania Israele Italia USA Ungheria

1991 441604630 1661 1512 354 1396 20001 5770 4427

1992 311523282 1591 1235 143 528 13813 2100 4726

1993 184461296 1926 937 80 645 6874 1245 3674

1994 171461256 1523 787 87 1580 6880 1078 1779

1995 256752276 2286 1438 193 2195 9010 2292 2509

1996 21526915 2123 2181 274 1640 6467 3181 1485

1997 199451551 2331 1143 232 1706 5807 2861 1244

1998 17536941 1945 846 316 1877 3899 2868 1306

1999 12594468 1626 696 214 1415 2370 2386 774

2000 14753270 2518 809 2216 433 2142 2723 881

2001 9921167 2483 463 854 279 1486 1876 680

2002 8154293 1437 233 1305 106 1317 1356 903

2003 10673326 1444 338 1938 164 1993 2012 984

2004 13082491 1445 436 2707 85 2603 2049 1553

2005 10938421 1220 343 2196 64 2731 1679 1013

TOTALE 27570118583 27559 13397 13109 14113 87393 35476 27938

(Fonte: Romanian Statistical Yearbook 2006, Institutul Naţional de Statistică)

II.2 Legislazione e politiche migratorie nella Romania post-comunistaLa prima fondamentale innovazione in tema di libera circolazione dei cittadini è costituita

dall’art. 25 nella nuova carta costituzionale post-comunista, approvata dall’Assemblea costituente

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Transnational Politics – a cura di G. Tintori

nella seduta del 21 novembre 1991. L’articolo afferma infatti: «1. È garantito il diritto alla libera

circolazione, nel paese e all’estero. La legge stabilisce le condizioni per l’esercizio di tale diritto. 2.

A ogni cittadino è assicurato il diritto di stabilire il proprio domicilio o la propria residenza in ogni

località del paese, di emigrare come anche di tornare in patria»56. Già nella lettera della nuova

Costituzione si possono scorgere le notevoli differenze rispetto al passato regime, quando l’uscita

dal paese e il semplice contatto con il mondo esterno erano interdetti. La libertà di movimento così

prevista non va però intesa in senso assoluto; al contrario, essa sottostà – secondo una deliberazione

della Corte Costituzionale romena – ad alcune limitazioni determinate dalla sicurezza nazionale,

dalla tutela dell’ordine pubblico, dalla prevenzione di reati penali, dalla difesa della salute e della

morale pubbliche57. Tali regolamentazioni e limitazioni assumono un’importanza fondamentale nel

caso delle emigrazioni per motivi lavorativi, caratterizzate da più o meno frequenti partenze e

ritorni per lo stesso individuo; in tal caso risulta evidente come misure legate all’ingresso e

all’uscita in/dal Paese o quelle legate al rilascio e al rinnovo dei documenti necessari assumano

un’importanza rilevante58. Per una migliore comprensione si è deciso di schematizzare i differenti

atti legislativi e le politiche governative riguardanti la mobilità dei cittadini in paragrafi ordinati per

materia.

II.2.1 Regime normativo in materia di passaporti e documenti per la circolazione oltre frontiera

Il primo atto legislativo di grande importanza in tale ambito è costituito senza dubbio dal decreto

legge n. 10 del 8 gennaio 1990, che istituisce la libertà per ogni cittadino di ricevere un passaporto e

dunque il diritto di viaggiare liberamente all’estero59. Il DL stabilisce, tra le altre cose, i requisiti che

il sollecitante deve possedere per ottenere il passaporto. Una parte importante e di estremo interesse

per capire il clima generale degli anni del regime è costituito dal fatto che il decreto prevede la

possibilità, per i cittadini romeni che si trovano all’estero e che «per motivi diversi non possiedono

più i documenti attestanti il passaggio della frontiera»60, di ottenere tramite le rappresentanze

diplomatiche romene nei Paesi di residenza un titolo di viaggio temporaneo che consente un solo

56 Cfr. Constituţia României republicată (M. Of. nr. 767 din 31 octombrie 2003) (Costituzione della Romania ripubblicata), Ed. All Beck, Bucureşti 2004.57 Monitorul Oficial (MO), nr. 1127 del 14 dicembre 2005, Decizia Curţii Constituţionale nr. 631 din 24 noiembrie 2005.58 Sull’idea di circolarità delle migrazioni per motivi di lavoro cfr. Sandu, D., Migraţia transnaţională a românilor din perspectiva unui recensământ comunitar (La migrazione transnazionale dei romeni nella prospettiva di un censimento comunitario), in “Sociologia Românească”, 3/4, 2000. Per una visione d’insieme sulla legislazione e le politiche governative in merito alle migrazioni dalla Romania per motivi di lavoro cfr. Şerban, M. – Stoica, M., Politici şi instituţii în migraţia internaţională: migraţie pentru muncă din România. 1990-2006 (Politiche e istituzioni nella migrazione internazionale: le migrazioni per lavoro dalla Romania. 1990-2006), Fundaţia pentru o Societate Deschisă, Bucureşti 2007.59 MO, nr. 6 del 10 gennaio 1990, Decret-Lege nr. 10 din 8 ianuarie 1990 privind regimul paşapoartelor şi al călătoriilor în străinătate.60 Ibidem.

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Transnational Politics – a cura di G. Tintori

rientro in Romania; una volta rientrato, il soggetto in questione può richiedere, come qualsiasi altro

cittadino, un passaporto valido a tutti gli effetti. Il decreto stabilisce anche le norme relative al

rilascio del passaporto: tale documento può dunque essere richiesto da ogni cittadino con un’età di

almeno 14 anni e viene rilasciato dalle autorità preposte di norma entro 20 giorni dalla richiesta, e in

ogni caso non oltre i tre mesi, limite previsto per gli individui che vogliono stabilire il proprio

domicilio all’estero. Tale limite temporale può essere ridotto fino a un minimo di tre giorni per casi

giustificati di urgenza (malattia di un parente prossimo, necessità di cure mediche urgenti, citazioni

in processi presso autorità giudiziarie di Paesi terzi ecc.). Tale misura normativa, finalizzata a

colmare un importante vacuum legislativo, prevede in maniera puntuale anche le restrizioni in

materia di rilascio dei passaporti e dunque di limitazione alla libertà di movimento oltre frontiera. In

particolare si stabilisce che le autorità possano rifiutare la concessione del passaporto: a) a quei

cittadini nei cui confronti sia stato avviato un procedimento penale o abbiano riportato condanne

che prevedano una pena privativa della libertà personale; b) a quanti risultino debitori nei confronti

dello Stato, di persone giuridiche o fisiche e non siano in grado di garantire il pagamento del debito;

c) a coloro che siano noti per attività lesive dell’ordine e della stabilità pubblici o il buon costume61.

La prima modifica al regime normativo imposto dal DL del 1990 ha luogo nel 1994 attraverso

una Ordinanza governativa che mira a risolvere il problema dei molti cittadini romeni che, emigrati

già dal 1990 o rifugiatisi all’estero durante il precedente regime, siano nel frattempo rimasti privi di

un documento valido di circolazione internazionale62. In tal caso, i cittadini possono rivolgersi alle

autorità consolari nei Paesi di domicilio per sollecitare il rilascio di un passaporto consolare valido

per sei mesi – ma prorogabile fino a un anno – che sarà poi ritirato al momento della richiesta di un

nuovo documento. A differenza del titolo di viaggio, questo passaporto può essere utilizzato per

entrare nel e uscire dal paese nell’arco dei sei mesi di validità, scaduti i quali deve essere richiesto

un nuovo documento, senza che il passaporto consolare possa essere rinnovato. Una seconda

modifica, che dà in parte il polso della realtà romena – già segnata dal fenomeno delle migrazioni,

benché non in quantità massicce come dopo il 2000 –, riguarda i cittadini legalmente residenti

all’estero, i quali possono richiedere un passaporto valido a tutti gli effetti, direttamente alle autorità

diplomatiche romene presso il paese di residenza, e nel documento è riportato anche il Paese di

residenza.

Una seria trasformazione delle norme relative al regime dei passaporti ha però luogo soltanto

mediante l’Ordinanza governativa n. 65 del 28 agosto 1997, che abroga la precedente Ordinanza del

61 Ibidem.62 Ibidem, n. 245 del agosto 1994, Ordonanţa Guvernului nr. 37/1994 privind unele măsuri în legătură cu eliberarea şi păstrarea paşapoartelor; l’ordinanza è successivamente ratificata con legge nr. 144/1994, pubblicata in Ibidem, Parte I, n. 374 del 31 dicembre 1994.

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1994 e la relativa legge di approvazione e modifica il DL del 199063. La nuova ordinanza prevede

come unico documento valido per la circolazione internazionale, per i cittadini romeni che si

trovino all’estero in assenza di titoli validi, il passaporto consolare. In tal modo scompare dalla

scena legislativa un titolo fino a quel momento spesso utilizzato, ovvero il titolo di viaggio. Il

passaporto deve essere richiesto personalmente dall’interessato, ma per “cause particolari” – senza

peraltro che queste siano meglio specificate – è previsto che la richiesta possa avvenire per

interposta persona previa legalizzazione della delega di fronte a un notaio o alle autorità

diplomatiche. L’ordinanza prevede – importante innovazione – la possibilità di rinnovare il

passaporto anche all’estero, presso le rappresentanze consolari del Paese di residenza. Novità

importanti riguardano il rilascio di passaporti a minori; mentre il DL del 1990 prevedeva infatti il

rilascio del documento a ogni cittadino di età superiore ai 14 anni e, per quelli al di sotto di tale

fascia, l’iscrizione nel passaporto dei genitori o il rilascio di un passaporto nel caso il minore

circolasse da solo, l’ordinanza del 1997 restringe le fattispecie e prevede che il passaporto

individuale possa essere rilasciato al minore di 14 anni soltanto in casi “motivati”, mentre

l’iscrizione nel passaporto di uno dei genitori può avvenire esclusivamente con il consenso scritto

dell’altro. Per quanto riguarda infine la negazione dell’emissione di passaporti o la sospensione di

questi ultimi, l’ordinanza ribadisce sostanzialmente le fattispecie previste dal DL del 1990,

specificando però che tali restrizioni devono essere motivate sulla base di documenti giuridici in

grado di giustificarle. Nel 1998 il regime dei passaporti è nuovamente modificato mediante la legge

di approvazione dell’ordinanza 65/1997, la quale apporta delle modifiche che mettono in evidenza

come il legislatore cominci a prestare maggiore attenzione alle modalità con cui i passaporti

vengono utilizzati. In particolare, il passaporto consolare – come visto istituito nel 1994 – rimane

valido esclusivamente fino al momento del rientro nel Paese, quando perde validità64. Fino a tale

riforma, infatti, esso rimaneva valido fino alla scadenza – in genere sei mesi dopo l’emissione – o

finché non veniva richiesto un nuovo documento e consentiva non soltanto il passaggio delle

frontiere estere ma anche l’ingresso e l’uscita dalla Romania. La riforma del 1998 modifica tale

statuto, stabilendo che tale documento, ferma restando la sua validità semestrale, perda ogni validità

nel momento in cui il possessore varchi la frontiera romena e venga ritirato dagli ufficiali del posto

di frontiera.

L’aumento esponenziale delle emigrazioni verso i Paesi dell’Unione Europea che ha inizio a

partire dal 2000 induce le autorità romene ad adottare delle politiche più rigide nei confronti

63 Ibidem, n. 226 del 30 agosto 1997, Ordonanţa Guvernului nr. 65 din 28 august 1997 privind regimul paşapoartelor în România; successivamente approvata mediante legge n. 216 del 17 novembre 1998 pubblicata in Ibidem, n. 446 del 23 novembre 1998.64 Ibidem, n. 446 del 23 novembre 1998, Lege nr. 216 din 17 noiembrie 1998 pentru aprobarea Ordonanţei Guvernului nr. 65/1997 privind regimul paşapoartelor în România.

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dell’emigrazione clandestina, soprattutto per combattere i fenomeni del traffico di persone e

dell’emigrazione illegale che finiscono per favorire la nascita di reti criminali. In tal senso le misure

restrittive della libertà personale nel caso di violazione della legislazione sull’emigrazione – per

esempio nel caso di cittadini che oltrepassino le frontiere dello Stato in assenza dei debiti titoli, o

che permangano sul territorio straniero oltre il periodo previsto dalla legislazione di quel Paese –

vengono aumentate e passano da 3-12 mesi a 6-36 mesi65. Tali misure vengono poi inasprite

mediante una serie di nuove disposizioni d’urgenza che estendono la possibilità, per le autorità

romene, di limitare la libera circolazione internazionale dei cittadini anche nel caso di accattonaggio

e di aumentare il periodo di detenzione nel caso di reati connessi con il transito transfrontaliero fino

a un massimo di cinque anni66. Sulla stessa lunghezza d’onda, poi, il legislatore romeno prevede, un

anno dopo, anche la crescita delle ammende previste per le contravvenzioni alla legislazione in

materia di regime dei passaporti in Romania67.

La crescita del numero di emigranti comincia a divenire un problema serio che i governanti

romeni hanno forse oltremodo sottovalutato nel corso degli anni. L’alto numero di emigranti

provoca poi l’emersione di problemi già esistenti, ma limitati quantitativamente, tra cui quello dei

minori, spesso vittime di reti criminali. In tal senso l’Ordinanza governativa 84/2003 introduce

importanti modifiche in due aspetti fondamentali. Il primo aspetto è quello delle condizioni per il

rilascio di passaporti a minori sotto i 14 anni, a cui il documento viene concesso soltanto previa

richiesta esplicita di entrambi i genitori e per situazioni debitamente motivate; il secondo aspetto

oggetto di modifiche è inerente alle restrizioni del diritto alla libera circolazione. In particolare,

l’ordinanza del 2003 prevede che le pene e le restrizioni previste dai precedenti atti legislativi

possano essere applicate anche a cittadini romeni espulsi da Paesi con cui la Romania non ha

concluso accordi per la riammissione e a quelli che: “hanno superato i termini di soggiorno negli

Stati in cui si sono recati, stabiliti mediante accordi o convenzioni con questi conclusi”68. Le autorità

romene sembrano però rendersi conto del fatto che gli emigranti, siano essi portatori di un progetto

migratorio di lungo o breve periodo, costituiscono una possibilità importante di accrescimento del

reddito nazionale, mediante le rimesse che inviano a casa. Se, dunque, da una parte si cerca di dare

65 MO, nr. 338 del 26 giugno 2001, Ordonanţă de Urgenţă nr. 86 din 14 iunie 2001 pentru modificarea art. 14 alin. (1) lit. e) din Ordonanţa Guvernului nr. 65/1997 privind regimul paşapoartelor în România.66 Ibidem, nr. 549 del 3 settembre 2001, Ordonanţă de Urgenţă nr. 112 din 30 august 2001 privind sancţionarea unor fapte săvârşite în afara teritoriului ţării de cetăţeni români sau de persoane fără cetăţenie domiciliate în România . L’atto d’urgenza è poi stato approvato con alcune modifiche mediante la Legge 252 del 29 aprile 2002.67 Ibidem, nr. 727 del 4 ottobre 2002, Ordonanţă de Urgenţă nr. 119 din 25 septembrie 2002 pentru modificarea art. 14 alin. (1) lit. e) din Ordonanţa Guvernului nr. 65/1997 privind regimul paşapoartelor în România; ibidem, nr. 267 del 17 aprile 2003, Lege nr. 134 din 11 aprilie 2003 pentru modificarea art. 19 din Ordonanţa Guvernului nr. 65/1997 privind regimul paşapoartelor în România şi a art. 39 din Legea nr. 105/1996 privind evidenţa populaţiei şi cartea de identitate.68 Ibidem, nr. 622 del 30 agosto 2003, Ordonanţă nr. 84 din 28 august 2003 pentru modificarea şi completarea Ordonanţei Guvernului nr. 65/1997 privind regimul paşapoartelor în România. La citazione, in traduzione nostra, ă tratta dall’art. 1, comma 6.

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soddisfazione alle richieste dei Paesi di destinazione, la cui opinione è fondamentale in vista delle

negoziazioni in corso per l’accesso della Romania nell’UE69, dall’altra vengono adottate delle

misure legislative che rendono più snelle le pratiche burocratiche per l’ottenimento del passaporto e

sono accresciuti i documenti che consentono l’uscita e il rientro dal/nel paese70.

Il 2005 sembra segnare una svolta per quanto riguarda l’attenzione prestata dalle autorità romene

ai temi della libertà di circolazione e dunque, implicitamente, a quello socialmente più rilevante

dell’emigrazione. La legge 248/200571 costituisce il primo atto legislativo che tende a regolamentare

in maniera dettagliata la libertà dei cittadini romeni di circolare all’estero, ponendo l’accento sul

fenomeno dell’emigrazione. L’art. 2, comma 1 della legge prevede infatti espressamente che a tutti i

cittadini romeni è garantito il diritto di «emigrare e di tornare in qualsiasi momento nel paese»,

senza che alcuna autorità possa vietare loro, per alcun motivo, il rientro in patria 72. Per i minori,

indipendentemente dall’età, tale diritto è previsto soltanto se accompagnati o con il consenso

espresso dei genitori o dei rappresentanti legali. L’atto legislativo chiarisce anche i termini delle

limitazioni al diritto alla libera circolazione prevedendo due fattispecie specifiche, ovvero la

sospensione di tale libertà intesa come “interdizione temporanea a lasciare il territorio della

Romania” e la restrizione all’esercizio del diritto alla libera circolazione intesa come “interdizione

temporanea a viaggiare in alcuni stati”. La circolazione al di fuori delle frontiere dello Stato è

possibile mediante quattro documenti: passaporto diplomatico, passaporto di servizio, passaporto

semplice, titolo di viaggio; la reintroduzione di quest’ultimo documento, la cui validità è prevista in

un anno e che perde efficacia al momento dell’ingresso in Romania, è importante perché esso

consente ai cittadini romeni che si trovano oltre frontiera, di continuare il loro viaggio o soggiorno e

di poter rientrare legalmente in patria73. Infine è di rilevante interesse notare che, per la prima volta,

il legislatore romeno ha inteso specificare, in maniera dettagliata, i doveri e gli obblighi del

69 Sui negoziati che porteranno la Romania nell’UE cfr. Puşcaş, V., Negociind cu Uniunea Europeană (Negoziando con l’Unione Europea), 5 voll., Ed. Economică, Bucureşti 2003-2005.70 MO, nr. 647 del 21 luglio 2005, Ordonanţă nr. 28 din 14 iulie 2005 pentru modificarea şi completarea unor acte normative; ibidem, nr. 699 del 3 agosto 2005, Ordonanţă nr. 43 din 28 iulie 2005 pentru modificarea art. 22 lit. a) din Ordonanţa de urgenţă a Guvernului nr. 144/2001 privind îndeplinirea de către cetăţenii români, la ieşirea din ţară, a condiţiilor de intrare în statele membre ale Uniunii Europene şi în alte state şi a art. 12 alin. (1) din Ordonanţa Guvernului nr. 65/1997 privind regimul paşapoartelor în România.71 Ibidem, nr. 682 del 29 luglio 2005, Legea nr. 248 din 20 iulie 2005 privind regimul liberei circulaţiei a cetăţenilor români în străinătate.72 Vale forse la pena notare come, benché la Romania sia ormai un paese pienamente democratico, l’influenza del passato regime si faccia ancora sentire anche a livello di poteri dello Stato; nel caso specifico, ciò risulta evidente dalla previsione legislativa secondo cui le autorità non possano vietare per alcun motivo il rientro di un cittadino in patria, pratica invece comune nei paesi dittatoriali nei confronti di espatriati identificati con l’opposizione al regime.73 Il titolo di viaggio può essere richiesto soltanto da cittadini romeni che si trovino all’estero privi di un passaporto valido e che siano impossibilitati a richiedere un passaporto semplice. Quest’ultimo, infatti, può essere richiesto soltanto in Romania, presso le sezioni predisposte nel distretto di residenza, o nelle rappresentanze diplomatiche per i romeni che abbiano stabilito la loro residenza all’estero. Il problema si pone, in prevalenza, per quei migranti che si sono stabiliti all’estero in maniera irregolare senza richiedere un passaporto prima della partenza o che siano in possesso di un documento scaduto, i quali si trovano all’estero ma non possono richiedere regolare passaporto presso ambasciate o consolati romeni perché non residenti all’estero.

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cittadino romeno all’estero (art. 5), il quale deve “a. rispettare la legislazione della Romania e non

svolgere attività tali da compromettere l’immagine della Romania o che contravvengano alle

obbligazioni assunte dalla Romania mediante documenti internazionali; b. rispettare la legislazione

del paese in cui si trova, come anche lo scopo in vista del quale gli è stato concesso il diritto di

entrare e, secondo il caso, di rimanere sul territorio del rispettivo stato, secondo le condizioni

stabilite dalle leggi di quello stato o dagli accordi internazionali conclusi con la Romania”74. Anche

tale legge subisce però, a stretto giro, delle leggere modifiche che intervengono nel corso del 2006;

in particolare l’Ordinanza n. 5/2006 cambia parzialmente il regime dei passaporti – viene prevista la

concessione di passaporti dalla validità ridotta a un anno, accanto a quelli tradizionali che hanno

una validità diversa a seconda dell’età del titolare: tre anni per persone che non hanno compiuto i 14

anni, cinque anni per i soggetti di età compresa tra i 14 e i 25 anni e dieci anni per persone di età

superiore ai 25 anni – e quello dei titoli di viaggio, la cui validità è ridotta a 30 giorni e possono

essere utilizzati esclusivamente per il rientro in Romania, al fine di eliminarli progressivamente

dalla circolazione75. Nello stesso anno la richiesta e l’ottenimento dei passaporti vengono

ulteriormente facilitati proprio per venire incontro alle esigenze di quanti vogliono partire dalla

Romania per motivi di lavoro; in tal senso la Decisione governativa che istituisce le norme di

applicazione della Legge 248/2005 prevedono una riduzione dei tempi per la concessione dei

documenti da parte delle autorità pubbliche, la possibilità per i cittadini di ottenere documenti validi

per l’espatrio in maniera più rapida dietro il versamento di una “tassa d’urgenza”, la possibilità di

richiedere un passaporto a istituzioni differenti76. Questi sono gli ultimi cambiamenti significativi in

materia di passaporti. A partire dal 1 gennaio 2007 infatti la Romania è entrata a far parte dell’UE,

quindi per il momento tale documento sembra aver perso parte del valore, soprattutto se tiene in

considerazione il fatto che le mete principali dell’emigrazione appartengono appunto alla zona

comunitaria.

II.2.2 Strumenti per il controllo dei flussi: le condizioni per l’uscita dal paeseMentre l’uscita dalla Romania è relativamente facile per tutto il corso degli anni Novanta, anche

in assenza dei necessari documenti, da cui deriva la necessità di introdurre dei documenti

temporanei per consentire il rientro in patria degli espatriati clandestini e degli ex rifugiati politici

all’estero, a partire dal 2001, in concomitanza dunque con la terza fase dell’emigrazione romena,

quella più numerosa da un punto di vista quantitativo, i cittadini romeni che avevano intenzione di

74 MO, nr. 682 del 29 luglio 2005, Legea nr. 248 din 20 iulie 2005 privind regimul liberei circulaţiei a cetăţenilor români în străinătate.75 Ibidem, nr. 71 del 26 gennaio 2006, Ordonanţă nr. 5 din 19 ianuarie 2006 pentru modificarea şi completarea Legii nr. 248/2005 privind regimul liberei circulaţiei a cetăţenilor români în străinătate.76 Ibidem, nr. 76 del 27 gennaio 2006, Hotărâre nr. 94 din 26 ianuarie 2006 pentru aprobarea Normelor metodologice de aplicare a Legii nr. 248/2005 privind regimul liberei circulaţii a cetăţenilor români în străinătate.

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uscire dal paese per motivi privati sono sottoposti a una serie di restrizioni. Un’Ordinanza

d’urgenza governativa (OUG 144/2001) impone un insieme di condizioni obbligatorie per l’uscita

dal paese77. In tal senso ogni cittadino che vuole recarsi all’estero deve presentare al posto di

frontiera:

Un’assicurazione medica;

Un biglietto di viaggio (aereo, treno, autobus) di andata e ritorno

Una somma di denaro minima in quantità “adeguata alle somme di riferimento determinate

dalle autorità degli Stati di destinazione o di transito, proporzionale alla durata del

soggiorno, ma in ogni caso non inferiore ai 5 giorni”78.

L’art. 2 dell’ordinanza finisce per influenzare in maniera determinante l’emigrazione per motivi

di lavoro dalla Romania; secondo tale articolo, infatti, nel caso un soggetto non soddisfi tutti i criteri

richiesti, il comandante del punto di frontiera può disporre l’interruzione del viaggio. L’Ordine del

ministro degli Interni n. 177/200179 stabilisce per la prima volta la quantità di denaro necessaria per

poter uscire dal paese, prevedendo all’art. 1, comma 2, che “La quantità minima di denaro in valuta

liberamente convertibile, per persona, per ogni giorno di soggiorno dichiarato, ma in ogni caso per

non meno di 5 giorni, è stabilità nel seguente modo:

a. 50 euro o somma equivalente per Turchia e Stati ex-socialisti, per i quali non è necessario

un visto di ingresso;

b. 100 euro o somma equivalente per gli Stati dell’Unione Europea e per gli altri Stati, per i

quali non è necessario un visto di ingresso.

L’atto normativo stabilisce anche le modalità attraverso cui deve essere dimostrato il possesso di

tali somme:

- somma in valuta liberamente convertibile, in contanti;

- travel cheque o carte di credito in valuta;

- altre garanzie finanziarie, che dimostrino la necessaria copertura, come: voucher, nel

caso di turismo organizzato o di servizi turistici pagati anticipatamente; lettera di

garanzia o impegno di responsabilità, firmate dalla persona che ospita il cittadino

romeno sul territorio dello Stato di destinazione e autentificate conformemente alle

77 Ibidem, nr. 725 del 14 novembre 2001, Ordonanţă de Urgenţă nr. 144 din 25 octombrie 2001 privind îndeplinirea de către cetăţeni români, la ieşirea din ţară, a condiţiilor de intrare în statele membre ale Uniunii Europene şi în alte state.78 Ibidem, art. 1, lett. c.79 Cfr. Ordinul ministrului de Interne nr. 177 din 22 noiembrie 2001 pentru stabilirea cuantumului sumei minime in valuta liber convertibila pe care cetatenii romani trebuie sa o detina la iesirea din tara, cand calatoresc in scopuri particolare in statele membre ale Uniunii Europene sau in alte state; il testo integrale è disponibile all’indirizzo http://www.mae.ro/poze_editare/Ordinul%20nr_177-20_11_2001.html (ultimo accesso 14 ottobre 2008).

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leggi dello Stato; garanzia legale da parte di una banca o ordine di pagamento valido,

a seconda del caso80.

Sono poi stabilite in maniera puntuale tutte le fattispecie che derogano alle norme generali; in tal

senso, sono esclusi dagli obblighi suddetti le seguenti categorie di persone:

- cittadini romeni che si recano all’estero per sottoporsi a cure mediche, per

partecipare a incontri, conferenze, convegni, manifestazioni cultural-sportive o nel

caso di malattia o decesso di un familiare stabilitosi all’estero o in altri casi

debitamente motivati. In tal caso si presenteranno documenti da cui risulti lo scopo

del viaggio e la relativa assicurazione finanziaria;

- minore sotto i 14 anni, iscritto nel passaporto dei genitori;

- minore sotto i 18 anni che si reca dal genitore o dai genitori che lavorano o hanno

stabilito la loro residenza nello Stato di destinazione, o che si reca da altri familiari;

- cittadini romeni che si recano all’estero in seguito a un contratto di lavoro, sulla base

di un permesso di lavoro valido per il paese di destinazione, indifferentemente dalla

durata del viaggio;

- cittadini romeni che viaggiano negli Stati vicini sulla base di permessi per il piccolo

traffico o di passaggio semplificato, rilasciati dalle autorità di frontiera81.

Per cercare di porre un freno all’emorragia di individui che sembra aver colpito la Romania tra la

fine degli anni Novanta e i primi anni del decennio successivo, le autorità di Bucarest tentano

dunque di controllare il fenomeno migratorio attraverso una misura “non specifica”, ossia non

rivolta in maniera esplicita a quanti vogliano cercare fortuna oltre confine. In tal senso, a chi intende

tentare un’esperienza migratoria, viene chiesto di soddisfare dei requisiti minimi che chi viaggia per

turismo o per lavoro può facilmente dimostrare di possedere: i turisti hanno biglietti di andata e

ritorno, spesso un voucher di prenotazione e un’assicurazione medica; i lavoratori legali hanno

contratti di lavoro e anche un permesso di soggiorno rilasciato dalle autorità dei paesi di

destinazione; chi si reca a incontri scientifici o a manifestazioni sportive e culturali, qualora non sia

ospite degli organizzatori, non ha difficoltà a farsi spedire una lettera di invito. Per gli emigranti,

tutto si fa invece più complicato; c’è bisogno di ingenti somme di denaro (minimo 500 euro per i

paesi dell’UE), di cui evidentemente non sempre si dispone, di una storia che risulti credibile e,

soprattutto, di documenti che confermino tale racconto.

Una prima correzione a tale testo viene apportata dalla legge 177/2002, che approva

modificandola l’Ordinanza d’urgenza dell’anno precedente82. In tale atto il legislatore romeno

80 Ibidem, art. 1, comma 3.81 Ibidem, art. 2.82 Cfr. MO, nr. 258 del 17 aprile 2002, Lege 177 din 11 aprilie 2002 pentru aprobarea Ordonanţei de urgenţă a Guvernului nr. 144/2001 privind îndeplinirea de către cetăţenii români, la ieşirea din ţară, a condiţiilor de intrare în

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prevede la non obbligatorietà dell’assicurazione medica per quanti si rechino in paesi con cui la

Romania ha siglato “accordi, intese, convenzioni o protocolli per il riconoscimento dell’assistenza

medica su una base di reciprocità”83. Un Ordine congiunto del Ministero degli Interni e del

Ministero della Salute e della Famiglia, datato 26 aprile 2002, specifica i paesi per cui non è

richiesta l’obbligatorietà dell’assicurazione medica; essi sono Albania, Regno Unito, Armenia,

Bulgaria, Cipro, Cina, Croazia, Cuba, Egitto, Grecia, Jugoslavia e Libano. Nessuno di questi paesi –

con le parziali esclusioni di Regno Unito, Grecia e Cipro – rappresenta però una delle mete preferite

dall’emigrazione romena per motivi di lavoro, e dunque tale misura rimane sostanzialmente priva di

effetti per la maggior parte di quanti attraversano le frontiere.

Tale legislazione rimane in vigore quasi senza modifiche per circa tre anni; nel luglio 2005

un’Ordinanza del governo introduce invece un’ulteriore stretta nei requisiti richiesti84. Pochi giorni

dopo, il Parlamento vara una nuova legge in materia di emigrazione, destinata a entrare in vigore sei

mesi dopo la sua pubblicazione nel Monitorul Oficial (l’equivalente romeno della nostra Gazzetta

Ufficiale) e che preannuncia l’abrogazione delle norme che prevedono l’imposizione di restrizioni

all’uscita dal paese per i cittadini romeni a partire dalla data di adesione della Romania all’Unione

Europea85. L’impressione è che le autorità di Bucarest sembrino adottare misure maggiormente

restrittive rispetto a quelle fino ad allora in vigore, ma per un periodo di tempo limitato (fino

all’adesione della Romania all’Unione Europea appunto). Pochi giorni dopo la pubblicazione di tale

legge, il governo torna sulla materia con una nuova Ordinanza (43/2005) che modifica nuovamente

uno dei punti riguardanti i soggetti per i quali era possibile la deroga dalla normativa vigente in

materia di circolazione dei cittadini romeni all’estero; in particolare, la visita sulla base di un invito

non costituisce più oggetto di deroga dalle obbligazioni previste dagli atti normativi86. Questa

enorme quantità di materiale legislativo viene riordinata nel marzo 2006 mediante una nuova legge,

la 50/2006, che approva con alcune modifiche l’Ordinanza del governo nr. 28/2005 e rigetta le

previsioni dell’Ordinanza 43/2005; in particolare, tale legge prevede (art. 4) che “i cittadini romeni

che viaggiano all’estero per sottoporsi a un trattamento sanitario, per partecipare a convegni,

conferenze, studi, manifestazioni cultural-sportive, per effettuare una visita sulla base di un invito o

nel caso di malattia o decesso di un familiare residente all’estero” sono esentati dal rispetto delle

statele membre ale Uniunii Europene şi în alte state.83 Ibidem, punto 2.84 Ibidem, nr. 647 del 21 luglio 2005, Ordonanţă nr. 28 din 14 iulie 2005 pentru modificarea şi completarea unor acte normative.85 Ibidem, nr. 682 del 29 luglio 2005, Lege nr. 248 din 20 iulie 2005 privind regimul liberei circulaţii a cetăţeniilor români în străinătate, in particolare art. 54; il testo della legge è consultabile anche all’indirizzo internet http://www.cdep.ro/proiecte/2004/500/70/6/leg_pl576_04.pdf (ultimo accesso 14 ottobre 2008).86 MO, nr. 699 del 3 agosto 2005, Ordonanţă nr. 43 din 28 iulie 2005 pentru modificarea art. 22 lit. a) din Ordonanţa de urgenţă a Guvernului nr. 144/2001 privind îndeplinirea de către cetăţenii români, la ieşirea din ţară, a condiţiilor de intrare în statele membre ale Uniunii Europene şi în alte state şi a art. 12 alin. (1) din Ordonanţa Guvernului nr. 65/1997 privind regimul paşapoartelor în România.

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condizioni necessarie per l’uscita dal paese. In tali situazioni, secondo quanto stabilito

dall’Ordinanza, “si presenteranno documenti da cui risulti lo scopo del viaggio e la relativa

assicurazione finanziaria”87.

La fine di tale regime sarebbe dovuta sopravvenire con l’ingresso della Romania nell’Unione

Europea. Pochi mesi prima dell’effettivo ingresso del paese nelle strutture comunitarie, il governo

romeno emana però una nuova Ordinanza d’Urgenza, la 29/2006, mirante a modificare l’art. 1 della

precedente Ordinanza d’Urgenza n. 144/200188. Il preambolo costituisce la parte realmente

interessante del provvedimento poiché, per la prima volta, le autorità romene riconoscono le

necessità imposte dalle diverse ondate migratorie che hanno interessato il Paese dall’inizio della

transizione post-comunista; tale preambolo recita dunque:

Tenendo in considerazione il fatto che l’ultimo periodo si è caratterizzato per la

consistente riduzione del fenomeno dell’emigrazione illegale e dei problemi a questa

associati, nonché per il fatto che il numero di cittadini romeni espulsi dall’estero è

diminuito in maniera significativa, rappresentando in questo momento una percentuale

pari soltanto allo 0,3% del totale dei circa 8.000.000 di cittadini che viaggiano

annualmente all’estero,

tenendo in considerazione il fatto che attualmente l’emigrazione illegale dei cittadini

romeni non costituisce più, come avveniva invece negli anni precedenti, uno dei

principali rimproveri rivolti alla Romania dagli Stati membri dell’Unione Europea,

in un contesto in cui la scomparsa delle considerazioni che hanno determinato

l’istituzione dell’obbligo di presentare documenti che giustifichino lo scopo e la durata

del soggiorno progettato in Stati membri dell’Unione Europea o in altri Stati, per i quali

non è necessario il visto di ingresso, impone l’eliminazione con regime d’urgenza di tali

obbligazioni, poiché la restrizione dell’esercizio del diritto alla libera circolazione non è

più giustificato mediante le previsioni dell’art. 53 della Costituzione della Romania,

ripubblicata,

tenendo in conto l’importanza di adottare tali regolamentazioni, che assicurino un

quadro legale adeguato all’esercizio della libera circolazione dei cittadini romeni

all’estero, evitando il mantenimento di alcune restrizioni che sono divenute

sproporzionate rispetto alla situazione che le ha determinate,

… il Governo della Romania adotta la presente ordinanza d’urgenza89.87 Ibidem, nr. 230 del 14 marzo 2006, Lege nr. 50 din 8 martie 2006 privind aprobarea Ordonanţei Guvernului nr. 28/2005 pentru modificarea şi completarea unor acte normative.88 Ibidem, nr, 337 del 14 aprile 2006, Ordonanţă de urgenţă nr. 29 din 12 aprilie 2006 pentru modificarea art. 1din Ordonanţa de urgenţă a Guvernului nr. 144/2001 privind îndeplinirea de către cetăţenii români, la ieşirea din ţară, a condiţiilor de intrare în statele membre ale Uniunii Europene şi în alte state.89 Ibidem, preambolo.

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Al contrario del preambolo, la modifica che l’ordinanza d’urgenza del 2006 apporta a quella

precedente del 2001 non riesce infatti a produrre effetti significativi a causa del periodo di

applicabilità limitato. Tale atto rimane infatti in vigore dall’aprile 2006 fino a quando, il 1 gennaio

2007, la Romania entra a far parte dell’Unione Europea.

II.2.3 Gli accordi di riammissione

Rispetto alle altre misure fin qui discusse, gli accordi di riammissione dei cittadini romeni nel

paese di provenienza si caratterizzano per essere atti bilaterali stipulati tra le autorità di Bucarest e

quelle di altri paesi. L’esistenza di tali accordi – finalizzati idealmente al rimpatrio degli immigrati

illegali – non si traduce però in una loro automatica applicazione letterale, soprattutto visti gli

enormi costi che comporterebbe il rimpatrio.

Tabella 3. Accordi di riammissione firmati dal governo romeno (1993-2003)

ANNO PAESI1993 Polonia; Slovacchia1994 Francia; Grecia; Repubblica Ceca1995 Benelux (Belgio, Lussemburgo e Olanda)1996 Svizzera1997 Spagna; Italia1998 Germania2000 Danimarca

2001 India; Finlandia; Bulgaria; Irlanda; Slovenia; Svezia; Croazia

2002 Austria; Repubblica Moldova; Ungheria; Lettonia; Albania

2003 Norvegia; Portogallo; Libano; Regno Unito

La tabella rende facile constatare come molte delle mete più importanti dell’emigrazione

romena, passata e attuale, sono interessate da accordi di riammissione (con le importanti eccezioni

dei paesi nord-americani, USA e Canada, e di Israele). Oltre a ciò, essa suggerisce come,

similmente al caso delle misure imposte per l’uscita dal paese, si produca un significativo

incremento di tali atti a partire ancora dal biennio 2000-2001, in concomitanza con l’aumento

massiccio del numero di emigrazioni dalla Romania. Accanto a ciò va però notato come lo Stato

romeno, con un trend economico che vede il paese avere un forte tasso di crescita, cominci a

preoccuparsi anche del fenomeno inverso, ossia di divenire a sua volta paese di attrazione di

immigrati da zone più arretrate economicamente o che vivono condizioni di crisi; in tal senso

vanno letti, per esempio, gli accordi con l’India, con il Libano e soprattutto con la Repubblica

Moldova. Questo accordo non viene firmato, però, per consentire il rimpatrio di romeni da quel

paese – come potrebbe essere per esempio quello con Italia e Spagna del 1997 –, bensì al contrario

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per consentire, se non nell’immediato almeno in futuro, il rimpatrio dalla Romania di immigrati

moldavi irregolari.

II.2.4 Regolamentazione specifica in merito all’emigrazione per lavoro

Mentre le norme e le politiche governative analizzate finora hanno fatto riferimento in maniera

generale al diritto alla libera circolazione e vanno intese come applicabili a tutti i cittadini romeni

che decidono di spostarsi, indifferentemente dalle motivazioni e dal periodo di soggiorno, al di

fuori dei confini nazionali, le pagine che seguono si riferiscono a un segmento particolare, ossia a

quello della emigrazione per lavoro legale, sulla base di contratti di lavoro. Si tratta cioè dei circuiti

di migrazione legale, mediata (da parte dello Stato o di enti privati) e non mediata. In questo

particolare settore, la presenza dello Stato è praticamente assente fino al 2000. Gli accordi bilaterali

in materia di circolazione di forza lavoro sono assai scarsi, mentre il controllo nel settore della

mediazione privata è circoscritta al solo caso delle agenzie che si occupano della collocazione di

manodopera romena sul mercato del lavoro israeliano90.

La prima misura in tal senso viene presa nell’agosto del 1996; si tratta di un decreto del ministro

del Lavoro e della Previdenza Sociale (311/1996) in cui si stabilisce l’obbligatorietà, per i cittadini

romeni che ottengono un contratto di lavoro in Israele, di un’assicurazione che copra le spese in

caso di “incidente, malattia, ricovero ospedaliero, assistenza medica, decesso, rimpatrio” e che deve

essere sottoscritta prima dell’ottenimento dei documenti necessari all’uscita dal paese91. L’impegno

dello Stato nel tentativo di porre rimedio ai problemi che il flusso di emigrazione comincia a

generare si manifesta, lo stesso anno, mediante la creazione – sempre tramite decreto del ministro

del Lavoro e della Previdenza Sociale (439/1996) – di un’apposita Commissione speciale chiamata

a garantire la corretta applicazione del decreto 311/199692. La decisione da parte di Bucarest di dare

vita a un simile organismo di controllo, e il funzionamento dello stesso, dimostrano la volontà delle

autorità di affrontare in maniera seria i problemi – essi pure seri – posti dall’aumento del volume di

lavoratori romeni in partenza per Israele. Tale misura rimane però isolata nel corso degli anni

Novanta ed è volta a regolamentare l’emigrazione verso una sola delle mete preferite

dall’emigrazione romena, tralasciando invece tutte le altre.

Il 2000 segna in tale ambito, come in molti altri nel caso del fenomeno migratorio, un vero e

proprio spartiacque. In quell’anno il Parlamento approva infatti la prima legge – la 156/2000 –

riguardante la protezione dei cittadini romeni che lavorano all’estero93. Si tratta del primo di una

90 Cfr. Diminescu, D., Visibles mais peu nombreux… les circulations migratoires roumaines après 1989, Fondation Maison des Sciences de l’Homme, Paris 2003.91 Cfr. MO, nr. 210 del 5 settembre 1996, Ordin nr. 311 din 7 august 1996.92 Ibidem, nr. 243 del 4 ottobre 1996, Ordin nr. 439 din 30 octombrie 1996 privind înfiinţarea Comisiei Speciale pentru punerea în aplicare a Ordinului ministrului de stat, ministrul muncii şi protecţiei sociale, nr. 311/1996.93 MO, nr. 364 del 4 agosto 2000, Lege 156 din 26 iulie 2000 privind protecţia cetăţenilor români care lucrează în străinătate.

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serie di atti normativi che tenta di regolamentare l’emigrazione romena in un momento in cui il

fenomeno subisce una prima, decisa impennata. Con tali provvedimenti si afferma in modo sempre

maggiore il ruolo dello Stato non solo come agente a difesa degli interessi e dei diritti dei suoi

cittadini che prestano attività lavorative al di fuori dei confini nazionali, ma anche quale vera e

propria agenzia di collocamento della forza-lavoro sul mercato internazionale. Lo Stato romeno

procede alla tutela dei diritti dei suoi cittadini all’estero in primo luogo mediante la firma di

accordi, intese, trattati e convenzioni con gli Stati esteri; ciò porta in primo piano il ruolo del

Ministero degli Affari Esteri, che diviene così l’istituzione a cui è attribuita in via primaria la tutela

dei cittadini romeni all’estero per motivi di lavoro. Fino a quel momento la Romania aveva

concluso accordi internazionali in merito al collocamento di lavoratori romeni presso Stati esteri

soltanto con due Paesi, Germania e Libano, di cui soltanto la prima costituiva una meta reale

dell’emigrazione legale per motivi di lavoro. A partire dal 2000, invece, le autorità di Bucarest

siglano accordi simili con tutti i maggiori Paesi di destinazione – nell’ordine Svizzera (2000),

Ungheria e Lussemburgo (2001), Spagna e Portogallo (2002), Francia (2004), Italia (2006), mentre

nel 2005 viene rinnovato quello con la Germania.

Benché lo scopo dichiarato della legge sia quello di proteggere i “cittadini romeni che lavorano

all’estero”, il suo nucleo centrale contiene delle previsioni che mirano piuttosto a regolamentare

l’attività delle aziende che mediano l’ingaggio di lavoratori romeni all’estero, denominate nella

legge “agenzie per l’occupazione della forza lavoro”94. L’art. 14, in particolare, riconosce al

Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, il ruolo di “coordinamento e controllo dell’attività

tesa all’occupazione della forza lavoro all’estero”. Le innovazioni rispetto alla situazione

precedente sono dunque sostanziali. In primo luogo, sulla base dell’art. 5 della legge, l’attività di

mediazione viene riconosciuta esclusivamente a quei soggetti che abbiano specificato, tra gli

oggetti della loro attività, quella di “reclutamento e ingaggio della forza lavoro romena all’estero”,

e tale attività può essere svolta soltanto dopo esplicita autorizzazione da parte del Ministero del

Lavoro e della Previdenza Sociale (art. 8). Ulteriori obblighi vengono imposti inoltre alle aziende

autorizzate a esercitare attività di mediazione tra aziende straniere e lavoratori romeni; in

particolare, esse sono obbligate a mantenere il segreto sui dati personali dei lavoratori con cui

entrano in contatto (art. 7), non possono negoziare con lavoratori romeni se non sulla base di

proposte di lavoro puntuali (art. 10) e sono obbligate a stipulare contratti di lavoro anche in lingua

romena (art. 11). La legge 156/2000 prevede anche l’integrazione dell’Ispettorato del Lavoro – che

assume funzioni di controllo e sanzione nei confronti delle società di intermediazione – tra le

istituzioni chiamate a occuparsi di emigrazione legale di forza lavoro (art. 16).

94 Ibidem, cap. 2, artt. 5-15.

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Tale atto normativo sembra giustificare l’affermazione secondo cui lo Stato romeno prende

coscienza e riconosce il suo carattere di Paese esportatore di manodopera, fissando al tempo stesso

una serie di misure tese a prevenire situazioni di sfruttamento, traffico, raggiri ai danni dei suoi

lavoratori. La 156/2000 viene poi completata dalla Decisione 384/2001, che traccia i regolamenti

attuativi della legge e specifica i cambiamenti introdotti dall’atto legislativo, soprattutto per quanto

riguarda le partenze per motivi di lavoro mediante l’intermediazione di agenzie private95. L’attività

dello Stato nel settore dell’emigrazione legale per motivi di lavoro continua nel 2001 con la

progettazione di un’istituzione specifica, cui sono riconosciute attribuzioni dirette nel settore della

mediazione tra aziende straniere e lavoratori romeni. La Decisione governativa 1320/2001 istituisce

infatti l’Ufficio Nazionale per il Reclutamento e l’Ingaggio di Forza Lavoro all’Estero,

successivamente denominato Ufficio per la Migrazione della Forza Lavoro96. Tale Ufficio è

chiamato ad applicare gli accordi bilaterali siglati dalla Romania e ha, contestualmente, la

possibilità di mediare in maniera diretta tra le aziende straniere e i lavoratori romeni nei Paesi con

cui la Romania non ha ancora concluso specifici accordi. In tal senso l’Ufficio, che dipende dal

Ministero del Lavoro, può dunque svolgere le stesse funzioni delle agenzie di mediazione private.

Lo Stato smette dunque di esercitare una semplice funzione di coordinamento e controllo

dell’emigrazione della forza lavoro per cominciare, invece, a gestirla in prima persona.

Tale implicazione diretta dello Stato nell’attività di mediazione scatena però forti reazioni da

parte delle agenzie private – sintomo dell’enorme business che si è sviluppato nel frattempo intorno

al mercato del lavoro all’estero – le quali si associano nel Patronato delle Agenzie Economiche

Accreditate per l’Occupazione e l’Ingaggio di Forza Lavoro “Acord”, allo scopo di applicare una

strategia comune e tentare di contrastare l’attività dello Stato nel settore97. Tali proteste, e le critiche

al funzionamento dei nuovi enti che le hanno accompagnate, hanno portato a una modifica delle

misure legislative in questione. L’Ordinanza 43 del 25 luglio 2002 per la modifica della Legge

156/200098 rimuove sostanzialmente le autorizzazioni concesse dal Ministero del Lavoro alle

agenzie di collocamento dei lavoratori romeni all’estero, alle quali è richiesta, per poter operare,

una semplice registrazione presso l’ispettorato del lavoro competente per territorio, mentre i

controlli successivi vengono affidati in via esclusiva all’Ispettorato del Lavoro. Parallelamente

viene tolta anche la possibilità, fino ad allora prevista, di sottoscrivere contratti per il lavoro

95 Ibidem, nr. 208 del 28 aprile 2008, Hotărâre nr. 384 din 11 aprilie 2001 pentru aprobarea Normelor metodologice de aplicare a prevederilor Legii nr. 156/2000 privind protecţia cetăţenilor români care lucrează în străinătate.96 Ibidem, nr. 19 del 15 gennaio 2002, Hotărâre Guvernului nr. 1320/2001 privind înfiinţarea şi organizarea Oficiului Naţional pentru Recrutare şi Plasare a Forţei de Muncă în străinătate.97 Cfr. Andreescu, D. N. – Teodorescu, A., op. cit., pp. 37-58; Lăzăroiu, S., “More ‘Out’ than ‘In’ at the Crossroads between Europe and the Balkans”, in Migration Trends in Selected Applicant Countries, vol. IV – Romania, IOM, Vienna 2004.98 Cfr. MO, nr. 578 del 5 agosto 2002, Ordonanţă nr. 43 din 25 iulie 2002 pentru modificarea Legii 156/2000 privind protecţia cetăţenilor români care lucrează în străinătate.

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all’estero direttamente con i mediatori; in sostanza, la firma del contratto può essere mediata, ma le

parti contraenti devono necessariamente essere il lavoratore e l’azienda straniera che intende

assumerlo, eliminando la possibilità di contratti siglati direttamente da terzi. La Decisione

governativa 823 del 2002 modifica e completa poi la precedente Decisione 1320/2001 prevedendo

un cambiamento di denominazione dell’Ufficio Nazionale per il Reclutamento e l’Ingaggio della

Forza Lavoro all’Estero, che diviene come già detto Ufficio per la Migrazione della Forza Lavoro99.

Il cambio di denominazione, che lascia intendere delle attribuzioni più ampie rispetto a quelle

precedenti, comporta l’aggiunta di nuove funzioni accanto a quella – che rimane comunque

principale – di mediazione. L’Ufficio non si occupa dunque più soltanto degli accordi bilaterali,

bensì anche dell’applicazione dei “trattati internazionali firmati in nome della Romania, come

anche degli accordi, delle convenzioni e delle intese firmate dal Governo della Romania e dai

governi di altri stati” (art. 1). Tenendo in considerazione anche l’elevato afflusso nel Paese di

lavoratori stranieri, provenienti in particolare da zone vicine come l’Ucraina e la Repubblica

Moldova – soprattutto per quanto riguarda i gruppi di etnia romena – ma anche da altre realtà come

quelle cinese e mediorientale, tale istituzione è chiamata anche a occuparsi della questione

dell’immigrazione di manodopera in Romania. Lo stesso atto normativo stabilisce inoltre la

costituzione di un Centro di Informazione e Documentazione per i Lavoratori Migranti, cui

spettano evidentemente funzioni di informazione.

Nel 2004 lo Stato torna a occuparsi dei suoi lavoratori all’estero ampliando le attribuzioni del

Ministero del Lavoro, della Solidarietà Sociale e della Famiglia, cui spettano, tra gli altri, i compiti

di:

1. promuovere misure tese ad assicurare e proteggere i diritti e le libertà dei cittadini romeni

che lavorano all’estero e di prevenire gli abusi cui questi potrebbero essere sottoposti;

2. facilitare il mantenimento di legami permanenti con il Paese di provenienza;

3. assicurare supporto nel caso di vertenze di lavoro;

4. accordare aiuto per la risoluzione di ogni problema con cui potrebbero confrontarsi i

lavoratori romeni;

5. monitorare, insieme al Ministero degli Affari Esteri, l’applicazione degli accordi, delle

convenzioni e delle intese con altri Stati;

6. promuovere azioni di informazione sui rischi del lavoro illegale100.

99 Ibidem, nr. 606 del 15 agosto 2002, Hotărâre nr. 823 din 31 iulie 2002 pentru modificarea şi completarea Hotărârii Guvernului nr. 1.320/2001 privind înfiinţarea şi organizarea Oficiului Naţional pentru Recrutare şi Plasare a Forţei de Muncă în Străinătate.100 Ibidem, nr. 792 del 27 agosto 2004, Hotărâre nr. 1326 din 19 august 2004 pentru modificarea şi completarea Hotătârii Guvernului nr. 737/2003 privind organizarea şi funcţionarea Ministerului Muncii, Solidărităţii şi Familiei.

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Oltre a organizzare e gestire tutte le attività connesse con il lavoro all’estero, dunque, lo Stato

comincia a porre una maggiore attenzione al fenomeno del lavoro illegale e alle problematiche che

questo solleva, riconoscendo in tal modo l’esistenza di fatto del fenomeno dell’emigrazione

clandestina. Tale atto normativo istituisce anche due nuove strutture, operanti nel quadro del

Ministero, ossia il Dipartimento per il Lavoro all’Estero e il Corpo degli Addetti ai Problemi del

Lavoro e Sociali, il primo dei quali coordinato da una nuova figura appositamente creata

nell’organigramma ministeriale, quella del segretario di Stato, alle cui dipendenze entra anche

l’Ufficio per la Migrazione della Forza Lavoro, che vede arricchita a sua volta la propria struttura

da due direzioni, la Direzione per la protezione dei diritti dei cittadini romeni che lavorano

all’estero e la Direzione per l’evidenza e il monitoraggio. Anche il Corpo degli Addetti ai Problemi

del Lavoro e Sociali, chiamato ad “assicurare la rappresentanza ministeriale nel quadro delle

missioni diplomatiche, degli uffici consolari e delle altre rappresentanze della Romania all’estero”,

entra alle dipendenze del nuovo funzionario previsto dalla 1326/2004. Tale atto legislativo

costituisce una vera e propria fase di “crescita” delle autorità romene per quanto riguarda le

politiche dedicate all’emigrazione per motivi di lavoro. La presa di coscienza dei problemi

riguardanti tale fenomeno, soprattutto in merito all’emigrazione illegale e ai rischi a essa connessi,

e lo sforzo di edificazione istituzionale che ne deriva suggeriscono infatti la presa di coscienza da

parte di Bucarest di un fenomeno non solo esistente, ma dalle profonde implicazioni per la società

romena.

Nel 2005, dopo un iter abbastanza lungo, viene emessa una nuova Decisione governativa, la

412/2005101, che modifica le attribuzioni del Ministero del Lavoro, della Solidarietà Sociale e della

Famiglia e, soprattutto, quelle del Corpo degli Addetti ai Problemi del Lavoro e Sociali. Le

modifiche più significative riguardano proprio quest’ultimo ente, al quale vengono attribuite non

soltanto le funzioni di supporto ai cittadini romeni che lavorano all’estero per la difesa dei loro

diritti, ma anche e soprattutto quelle di combattere il lavoro illegale all’estero, che sta alla base del

fenomeno delle migrazioni clandestine. Secondo la norma della Decisione governativa del 2005, al

personale del Corpo degli Addetti ai Problemi del Lavoro e Sociali spettano le seguenti

attribuzioni:

a) sostegno e protezione degli interessi dei lavoratori romeni all’estero;

b) promozione e rispetto dei diritti dei lavoratori romeni all’estero, in conformità con le leggi e

le normative internazionali, con i valori dei diritti umani, della libertà e della democrazia;

c) lotta contro il lavoro illegale dei cittadini romeni all’estero;

101 Ibidem, nr. 427 del 20 maggio 2005, Hotărâre nr. 412 din 5 mai 2005 privind organizarea şi funcţionarea Ministerului Muncii, Solidarităţii Sociale şi Familiei.

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d) attivazione del mercato del lavoro romeno dove funziona nei confronti dei sollecitanti

romeni;

e) assicurazione di un legame permanente tra i lavoratori stranieri all’estero e le istituzioni e le

strutture del Ministero del Lavoro, della Solidarietà Sociale e della Famiglia di Romania;

f) messa in evidenza dell’attività di rappresentanza degli interessi del Ministero del Lavoro,

della Solidarietà Sociale e della Famiglia e dei lavoratori romeni posta in essere dai

funzionari delle diverse rappresentanze diplomatiche.

II.2.5 Accordi bilaterali in materia di circolazione di forza-lavoroBenché l’idea di proteggere i cittadini romeni che lavorano all’estero attraverso tale strumento

appaia in maniera esplicita, a livello legislativo, fin dalla fine degli anni Novanta e lo Stato romeno

abbia dato vita a un apparato istituzionale tale da facilitare e gestire la migrazione legale per motivi

di lavoro, il numero di accordi bilaterali può essere considerato ridotto. La prima convenzione

firmata dal governo di Bucarest è quella del 1991 con la Germania, Paese che ha costituito – come

visto – uno dei partner della Romania in ambito di emigrazione fin dal periodo comunista.

L’oggetto di tale Convenzione è costituito dall’invio di cittadini romeni, dipendenti di aziende con

sede in Romania, a lavorare in Germania. Il numero di lavoratori romeni che annualmente possono

emigrare in Germania utilizzando il quadro normativo offerto dalla Convenzione è stabilito in 2.000

unità, con un’aggiunta di altri 1.000 lavoratori per i primi tre anni di validità della Convenzione

stessa. Il numero di cittadini romeni cui sarà permesso l’ingresso nel Paese di destinazione verrà

successivamente armonizzato con l’evoluzione del mercato del lavoro tedesco; in tal senso, una

formula specifica adatta il volume dei permessi rilasciati all’evoluzione del tasso di disoccupazione.

Nel 1992 la Romania firma un’altra convenzione con la Germania. Il nuovo atto prevede che un

contingente di 500 persone possa spostarsi ogni anno da uno dei due Paesi verso l’altro, istituendo

così un regime di reciprocità. L’intesa è rivolta però a una categoria particolare, quella di lavoratori

di età compresa tra i 18 e i 35 anni, con una preparazione professionale già soddisfacente e che

svolgeranno, nel Paese di destinazione, un’attività temporanea finalizzata al perfezionamento

professionale e linguistico. Il periodo di permanenza per tale fattispecie è limitato a un anno, con

una possibilità di proroga di sei mesi. Nel 1999 viene siglato un nuovo accordo romeno-tedesco

destinato ai lavoratori stagionali con un periodo di lavoro all’estero di tre mesi nel corso dell’anno

solare. L’intesa è estremamente dettagliata e contiene delle norme specifiche relative alle condizioni

di lavoro, alla previdenza sociale, all’alloggio e a tutti quegli aspetti fondamentali nel caso di

attività lavorative a carattere stagionale.

Accanto a questi tre accordi con la Germania, gli anni Novanta vedono la stipula di intese

similari soltanto con il Libano, che però non costituisce una delle mete privilegiate dell’emigrazione

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romena. Tale accordo è infatti piuttosto un accordo di principi che non uno dall’effettivo valore;

esso non precisa alcun tipo di attività lavorativa, limitazioni di numero e qualsiasi altra norma che

possa valere a renderlo più dettagliato.

Gli sforzi diplomatici per la conclusione di accordi bilaterali in materia di circolazione di forza-

lavoro si intensificano nel periodo 2000-2002, in concomitanza con l’aumento esponenziale delle

partenze dalla Romania. In tal modo cinque nuovi Paesi – Lussemburgo, Portogallo, Spagna,

Svizzera e Ungheria – diventano partner di Bucarest. La connessione tra i Paesi con cui vengono

siglati tali accordi e il fenomeno migratorio per motivi di lavoro comincia così a divenire più

evidente; se da una parte, infatti, Lussemburgo e Svizzera non costituiscono oggetto di emigrazione

massiccia, nel caso di Portogallo, Ungheria e soprattutto Spagna ci si trova di fronte a destinazioni

per così dire “attive”. Un aspetto importante di tali accordi riguarda lo scambio di stagisti.

L’accordo con la Svizzera (contingentato a 150 individui all’anno), quello con il Granducato di

Lussemburgo (massimo 35 stagisti all’anno) e uno dei due accordi con l’Ungheria (700 stagisti

all’anno) sono infatti rivolti a persone con età compresa tra i 18 e i 35 anni, che abbiano un minimo

di due anni di formazione professionale e che decidano di recarsi nel Paese di destinazione allo

scopo di migliorare e perfezionare le proprie capacità professionali, le conoscenze culturali e quelle

linguistiche.

Accanto agli accordi riguardanti lo scambio di stagisti, nel 2001 viene siglato anche un accordo,

sempre con l’Ungheria, riguardante i lavoratori stagionali. Il numero dei lavoratori che, sulla base di

tale accordo, possono recarsi a lavorare oltre frontiera per un periodo massimo di sei mesi nel corso

dell’anno calendaristico, è relativamente alto – 8.000 unità – soprattutto se comparato con quello

previsto dall’analogo accordo romeno-tedesco. L’accordo con il Portogallo permette invece

l’assunzione di lavoratori romeni a tempo determinato – massimo un anno, con possibilità di

prolungamento – senza però stabilire alcun vincolo quantitativo. Rispetto agli altri accordi

precedenti, quello siglato con le autorità portoghesi prevede l’obbligo, per la parte romena, di

rispondere alle richieste di assunzione di lavoratori da parte di aziende lusitane mediante offerte che

devono superare una previa selezione. Tale compito di selezione spetta, secondo la norma

dell’accordo, alla Direzione Generale per la Forza-Lavoro del Ministero del Lavoro e della

Solidarietà Sociale di Bucarest, cui spetta il compito di raccogliere le richieste provenienti dalle

aziende portoghesi e quindi di trasmetterle, per la vera e propria selezione, all’Agenzia Nazionale

per l’Occupazione della Forza-Lavoro, che a sua volta deve ritrasmettere le liste con le richieste

selezionate alla Direzione ministeriale, che a sua volta le invia all’ambasciata di Portogallo a

Bucarest. Si tratta dunque di una procedura assai complicata, ma che pure risulta importante

nell’analisi storica dell’evoluzione delle politiche governative relative all’emigrazione per motivi di

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lavoro poiché suggerisce, per la prima volta, la necessità di una struttura amministrativa romena

specificamente dedicata a tale soggetto.

L’accordo più rilevante siglato in questo periodo è senz’altro quello che regola il flusso di

lavoratori romeni verso la Spagna, che rappresenta già una delle mete più importanti

dell’emigrazione romena per motivi di lavoro, benché tale flusso sia fondato prevalentemente su reti

private. L’atto, siglato nel 2002, è relativamente complesso e riguarda diverse categorie di

lavoratori: lavoratori stabili (con un’anzianità di permanenza di almeno un anno), stagionali

(massimo nove mesi all’anno), stagisti (soggetti con età compresa tra i 18 e i 35 anni e un periodo di

residenza all’estero di massimo dodici mesi), società che spostano forza-lavoro sulla base di

contratti di prestazione di servizi tra i due stati. Gli spostamenti non sono generalmente

contingentati, con la pure importante eccezione degli stagisti, il cui numero massimo è fissato a 50

individui all’anno; al contrario, si prevede una formula generale che rimanda alle necessità del

mercato del lavoro dei rispettivi paesi. L’accordo con la Spagna è molto più dettagliato per quanto

attiene alle procedure e ha un campo di azione più vasto; per la prima volta si fa riferimento a una

cooperazione interstatale volta a controllare la circolazione delle persone, con particolare attenzione

alla “lotta contro l’immigrazione illegale, la falsificazione dei documenti e, soprattutto, contro il

traffico di esseri umani”. Tale accordo introduce importanti innovazioni anche in merito alle norme

che regolano il ritorno in patria dei lavoratori stagionali e delle sanzioni previste nel caso di

superamento dei limiti legali di permanenza sul territorio dello Stato di destinazione. L’accordo con

la Spagna sembra dunque aprire una nuova prospettiva sul fenomeno migratorio: processo

complesso, di difficile controllo, di ampie dimensioni e con fenomeni criminali associati, esso

richiede azioni vieppiù concertate tra diverse istituzioni del paese di origine e di quelli di

destinazione.

L’accordo con la Spagna è l’ultimo di tale fase. L’accordo successivo con la Francia, siglato nel

2004, arriva in un momento in cui tale paese non rappresenta più una destinazione preferenziale

dell’emigrazione romena. Tale atto, limitato allo scambio di stagisti tra i due paesi – 300 unità

all’anno per un periodo di tempo compreso tra i tre e i dodici mesi, prolungabile fino ai 18 mesi

complessivi –, introduce però una novità importante designando l’Ufficio per la Migrazione della

Forza-Lavoro quale istituzione cui spetta il compito di supervisionare l’applicazione dell’accordo. Il

2005 vede la stipula di un nuovo accordo – il quarto nel giro di quattordici anni – con la Germania

che allarga gli ambiti per il reclutamento della forza-lavoro romena per il mercato tedesco.

In tale ambito l’Italia, nel frattempo divenuta di gran lunga il più importante paese di

destinazione dell’emigrazione dalla Romania102, non risulta presente fino al 2006, quando viene

102 Sull’emigrazione romena verso l’Italia esiste una vasta letteratura; ci si limita qui a ricordare Sandu, D., Locuirea temporară în străinătate…, op. cit.; Cingolani, P. – Piperno, F., “Il prossimo anno a casa”: radicamento, rientro e

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siglato il primo accordo bilaterale tra i due governi, il quale però ha più un carattere di dichiarazione

di principio che non di vera e propria regolamentazione del fenomeno migratorio. Esso afferma

infatti la necessità di monitorare lo scambio di forza-lavoro tra i due paesi affinché questo si

mantenga entro i limiti dettati dalla legge dei rispettivi paesi, sottolineando la necessità di una

sempre più stretta collaborazione bilaterale, senza però entrare nel dettaglio delle misure concrete

finalizzate a tale attività di controllo, lasciata alla discrezionalità delle istituzioni dei due paesi. Tale

accordo, inoltre, ha anche una durata di applicabilità assai limitato; firmato nell’ottobre 2005 e

ratificato dal Parlamento di Bucarest nell’aprile 2006103, esso rimane valido sostanzialmente per un

anno. Le direttive europee in merito alla libera circolazione dei cittadini romeni e bulgari prevedono

infatti un regime di moratoria di tre anni da applicare a discrezione dei singoli Stati membri; mentre

alcuni paesi, come per esempio la Francia, decidono fin dal 1 gennaio 2007, data dell’ingresso di

Romania e Bulgaria nell’UE, di applicare tale regime transitorio, l’Italia rimane inizialmente alla

finestra, salvo intervenire in un secondo momento, a quasi un anno di distanza dall’allargamento

dell’Europa alla Romania, sull’onda dell’emotività generata dai fatti di cronaca, a loro volta

cavalcati dai mass-media e da diverse forze politiche impegnate in campagna elettorale104.

II.2.6 Diritto di cittadinanza e partecipazione al voto

L’alto numero di romeni all’estero ha costituito, fin dal 1990, un nuovo problema nell’agenda

delle istituzioni e delle forze politiche di Bucarest. Il regime post-comunista ha affrontato fin

dall’inizio la questione della cittadinanza dei milioni di elementi etnicamente romeni già cittadini di

Stati vicini. Su tale problematica hanno focalizzato la loro attenzione diversi attori politici a livello

transazionale, dai partiti e movimenti romeni – interessati ad accrescere il loro consenso mediante il

ricorso a orientamenti più o meno nazionalistici – alle organizzazioni rappresentative degli

emigranti, interessate ad aumentare il loro peso specifico nel paese d’origine105. Nonostante ciò, non

sempre i messaggi retorici si traducono in politiche reali, né essi sono raccolti dalle istituzioni

politiche. L’effettiva partecipazione di residenti all’estero alle vicende politiche interne incontra

dunque, in Romania come altrove, un ostacolo materiale nell’incapacità e nella mancanza di volontà

percorsi traslocali. Il caso delle reti migratorie Marginea-Torino e Focşani-Roma, CeSPI – Fieri, Roma 2005; Pittau; F. – Ricci, A. – Silj, A. (a cura di), Romania. Immigrazione e lavoro in Italia. Statistiche, problemi e prospettive , Idos, Roma 2008; Schmidt, D., La presenza romena a Padova: quotidianità, lavoro, reti amicali e centri di aggregazione , in “Societatea Reală”, special issue “Traiectorii migratorie între România şi Italia” (“Traiettorie migratorie tra la Romania e l’Italia”), n. 4, 2006, pp. 79-99; Perrotta, D., “Il lavoro dei rumeni in edilizia. Appunti da un’indagine in territorio bolognese”, in Megale, A. – Bernardotti, M. A. – Mottura, G. (a cura di), Immigrazione e sindacato. Stesse opportunità, stessi diritti. IV rapporto Ires, Ediesse, Roma 2006, pp. 245-272.103 Cfr. MO, nr. 375 del 2 maggio 2006, Lege nr. 98 din 25 aprilie 2006 pentru ratificarea Acordului dintre Guvernul României şi Guvernul Republicii Italiene privind reglementarea şi gestionarea fluxurilor migratorii în scop lucrativ, semnat la Roma la 12 octombrie 2005. Il testo bilingue dell’accordo è disponibile all’indirizzo internet http://www.cdep.ro/caseta/2006/02/03/pl06006_gv.pdf (ultimo accesso 4 novembre 2008).104 Una trattazione di sintesi degli accordi bilaterali siglati dalle autorità di Bucarest in Şerban, M. – Stoica, M., op. cit., pp. 35-39.105 Cfr. Carteny, A., I partiti politici in Romania (1989-2004), Periferia, Cosenza 2007; Id., Da Budapest a Bucarest. Saggi di storia e cultura, Periferia, Cosenza 2007.

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da parte delle autorità di assicurare un reale e attivo diritto di cittadinanza a quanti abbiano stabilito

la loro residenza all’estero. Come riconosce Eva Østergaard-Nielsen, esiste infatti una differenza

netta tra la “percezione” dei cittadini all’estero e la mancanza di efficacia delle politiche loro

rivolte106.

In via preliminare occorre però fare una precisazione. Parlare di romeni all’estero significa

dover fare una differenziazione tra minoranze nazionali all’interno di paesi vicini (Repubblica

Moldova, Ucraina, Serbia, ecc.), soggetti che durante gli anni della Guerra Fredda hanno trovato

rifugio all’estero perdendo automaticamente la cittadinanza d’origine ed emigranti che, a partire dal

1990, hanno deciso di lasciare il paese per motivi diversi – in gran parte economici ma non solo – e

che hanno stabilito la loro residenza all’estero mantenendo al tempo stesso la cittadinanza e dunque

la pienezza dei loro diritti civili e politici. Al fine di risolvere il problema dei molti romeni

fuoriusciti durante gli anni del regime di socialismo reale e di concedere un riconoscimento alle

minoranze di etnia romena al di fuori dei confini patri, il governo post-rivoluzionario approva già

nel 1991 una nuova legge sulla cittadinanza107. Tale atto legislativo riconosce dunque formalmente

lo status di cittadini a quanti, fino a quel momento, non lo avevano avuto o lo avevano perso, ma

ciò non produce sostanziali cambiamenti, eccezion fatta per l’iniziale impegno politico di alcuni

esuli ritornati in patria dopo la fine del regime108. Soprattutto, manca da parte delle autorità di

Bucarest una strategia coerente finalizzata a sviluppare i legami con gli espatriati, generalmente in

contrasto con la leadership dell’epoca, imperniata sulla figura di Ion Iliescu, considerato – e a

ragione – un retaggio del passato regime, di cui era stato un esponente di primo piano.

Benché il tema della presenza di una nutrita schiera di romeni al di fuori dei confini nazionali

rimanga presente nei dibattiti politici per tutta la prima metà degli anni Novanta, fino al 1995 non

viene creata alcuna istituzione specificamente dedicata a mantenere contatti stabili con essa.

Soltanto in quell’anno, che corrisponde con la fine del primo mandato presidenziale di Iliescu, viene

costituito il Consiglio per i Problemi dei Romeni all’Estero, organismo dalle funzioni puramente

consultive subordinato al Primo Ministro e composto dai segretari di Stato dei ministeri

dell’Educazione, degli Affari Esteri e della Cultura, cui spetta il compito di predisporre le strategie

106 In generale cfr. Østergaard-Nielsen, E., “Turkey and the «Euro Turks». Overseas Nationals as an ambiguous asset”, in Ead. (ed. by), International Migration and Sending Countries. Perceptions, Policies and International Relations, New York, Palgrave MacMillan, 2003, p. 96.107 Cfr. MO, nr. 44 del 6 marzo 1991, Legea nr. 21 din 1 martie 1991 cetăţeniei române. Una trattazione generale sul tema della cittadinanza e dell’identità nazionale in Romania in Iordachi, C., Citizenship and National Identity in Romania: a Historical Overview, in “REGIO – Minorities, Politics, Society”, nr. 1/2002, pp. 3-34; sulla realtà degli oppositori al regime comunista all’estero, cfr. Tismăneanu, V. – Dobrincu, D. – Vasile, C., Raport final. Comisia prezidenţială pentru analiza dictaturii comuniste din România (Rapporto finale. La commissione presidenziale per l’analisi della dittatura comunista in Romania), Humanitas, Bucureşti 2007, cap. 3.108 Cfr. Carteny, A., I partiti politici…, op. cit., pp. 45-54 e 91-101.

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volte a preservare l’identità nazionale dei diversi gruppi di romeni all’estero109. Durante la

campagna elettorale del 1996, in occasione delle elezioni presidenziali, il futuro presidente Emil

Constantinescu si riferisce per la prima volta ai concittadini della diaspora come a un gruppo che

dovrebbe giocare un ruolo attivo nella determinazione della politica nazionale. Le dichiarazioni di

Constantinescu si concretizzano nel 1998 nella costituzione del Dipartimento per le Relazioni con i

Romeni all’Estero, istituito nel quadro del Ministero degli Affari Esteri110. La legge 150/1998, che

istituisce il Dipartimento e una serie di altri istituti tra cui un Consiglio Interministeriale per il

Supporto alle Comunità Romene all’Estero, ha però ancora un raggio d’azione limitato. Essa infatti

tende ad assicurare un sostegno alle comunità di romeni all’estero per quanto riguarda l’educazione

nella lingua materna e il supporto a iniziative culturali nei paesi di destinazione, senza prevedere

alcuna misura concreta volta a garantire una qualsiasi partecipazione politica attiva da parte degli

emigranti, tanto nel paese di origine quanto in quello di destinazione.

Tale tendenza comincia a cambiare dal 2000, anche e soprattutto in conseguenza del forte

aumento di migranti dalla Romania che giungono nei paesi occidentali. Tale aumento quantitativo

comporta anche un cambiamento nella struttura del fenomeno migratorio, che da circolare diviene

sempre più permanente111, assumendo al contempo la forma delle reti migratorie, con un gruppo di

“pionieri” che raggiungono i paesi di destinazione tra il 1994 e il 1998 e che creano le prime

strutture che facilitano, in un secondo momento, l’inserimento di membri provenienti dalle stesse

zone. In tal modo è, per esempio, possibile spiegare la forte appartenenza regionale delle comunità

romene presenti in Italia (in maggioranza provenienti dalla Moldavia) e in Spagna (prevalentemente

originari della Muntenia). Quanto detto porta le autorità di Bucarest a siglare quegli accordi

bilaterali di cui si è parlato nel paragrafo precedente, ad accrescere le attività destinate alla

protezione dei diritti dei lavoratori romeni e a predisporre una serie di istituzioni destinate a

mantenere i legami con le comunità all’estero. Tale attività, che pure funziona in maniera tutt’altro

che perfetta, è però destinata a raggiungere soltanto un numero ridotto di soggetti, in quanto la

maggioranza di essi vive in una condizione di illegalità nei paesi di destinazione112.

Gli anni immediatamente successivi vedono in Romania un consistente aumento dell’interesse

pubblico verso i problemi – non solo economici ma anche culturali e identitari – delle comunità di

migranti, che però non si traducono in atti concreti. Le decisioni governative che modificano a più

riprese le attribuzioni del Dipartimento per le Relazioni con i Romeni all’Estero e le varie leggi per 109 Cfr. MO, nr. 184 del 15 agosto 1995, Hotărâre nr. 581 din 4 august 1995 privind organizarea şi funcţionarea Consiliului pentru Problemele Românilor de Pretutindeni.110 Cfr. MO, nr. 265 del 16 luglio 1998, Lege nr. 150 din 15 iulie 1998 privind acordarea de sprijin comunităţilor româneşti de pretutindeni.111 Cfr. Bleahu, A., Romanian migration to Spain. Motivation, networks and strategies, p. 33, disponibile on-line all’indirizzo internet http://www.cenpo.ro/files/02%20Migration.pdf (ultimo accesso 11 novembre 2008).112 Cfr. Trandafoiu, R., The Geopolitics of Work Migrants: The Romanian Diaspora, Legal Rights and Symbolic Geographies, in “REGIO – Minorities, Politics, Society”, n. 1/2006, pp. 130-149.

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il sostegno ai romeni all’estero non apportano infatti cambiamenti sostanziali al regime stabilito

dalla legge 150/1998. Soltanto la legge 299/2007 introduce un elemento di novità, costituito dal

collegamento tra lo status di “romeno all’estero” e il riconoscimento in quanto tale di alcuni

diritti113:

Art. 1. La presente legge regolamenta:

a) i diritti delle persone di etnia romena, come di quelli che appartengono al filone culturale

romeno, al di fuori dei confini della Romania… avendo come scopo il mantenimento, la

promozione e l’affermazione della loro identità culturale, etnica, linguistica e religiosa

Tali diritti sono poi precisati nello specifico nel successivo art. 4 della stessa legge: ingresso

gratuito, in Romania, in tutte le istituzioni pubbliche di cultura, nei monumenti storici e nei siti di

interesse archeologico, artistico e architettonico dello Stato; studiare in Romania; richiedere e

ottenere, mediante concorso, borse di studio in Romania per approfondire le conoscenze

linguistiche; partecipare a stage di perfezionamento in Romania; richiedere allo Stato romeno una

sovvenzione per l’acquisto di volumi e manuali in lingua romena; di richiedere un sostegno

finanziario per la costruzione o la ristrutturazione di luoghi di culto nel paese di

cittadinanza/residenza; sollecitare un aiuto finanziario o materiale per la costruzione o la

ristrutturazione di istituzioni educative in lingua romena nel paese di cittadinanza/residenza;

richiedere alla Romania sostegno finanziario o materiale per l’organizzazione di eventi culturali,

artistici o religiosi, per l’organizzazione di corsi miranti alla diffusione della lingua romena e per

garantire il funzionamento delle istituzioni culturali dei romeni all’estero; ottenere visti gratuiti per

la partecipazione ad attività miranti alla difesa e all’affermazione dell’identità culturale, etnica,

linguistica e religiosa romene organizzate in Romania; ottenere un sostegno per pubblicazioni e

prodotti audio-visuali in lingua romena, nonché per la costituzione di organi di informazione nella

stessa lingua; ricevere le onorificenze dello Stato romeno per la promozione dei valori culturali,

spirituali e scientifici romeni. L’atto legislativo prevede anche una serie di misure volte alla

diffusione della cultura romena tra le diverse comunità all’estero, in particolare per quanto riguarda

le generazioni più giovani, tra cui anche le seconde generazioni che cominciano a essere sempre più

numerose. Vengono inoltre assunte alcune misure simboliche, come il Congresso dei romeni

all’estero, l’istituzione del Giorno dei Romeni all’Estero previsto per il 30 novembre (art. 9) e di un

Museo dei Romeni all’Estero, con sede a Bucarest (art. 10).

La legge, inizialmente proposta dal Partito Social-Democratico all’epoca all’opposizione, genera

uno scontro politico tra i diversi partiti e il governo, di orientamento liberale. Le critiche maggiori

113 Cfr. MO, nr. 792 del 21 novembre 2007, Lege nr. 299 din 13 noiembrie 2007 privind sprijinul acordat românilor de pretutindeni. Il testo integrale è disponibile all’indirizzo http://www.cdep.ro/proiecte/2006/900/20/1/leg_pl921_06.pdf (ultimo accesso 12 novembre 2008).

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alla legge vengono dall’ultranazionalista Partito della Grande Romania, il quale la definisce troppo

debole, soprattutto se comparata con l’analoga legge varata dal governo ungherese a difesa della

cultura magiara oltre confine, diretta in particolare alla numerosa comunità transilvana; a tali

critiche si sommano poi quelle dei rappresentanti parlamentari delle varie minoranze nazionali di

Romania, escluse dall’accesso ai fondi stanziati per la diffusione della loro cultura oltre confine114.

Tale legge raccoglie un debole consenso neanche tra i cittadini romeni stabilitisi all’estero, poiché

essa sembra rivolgere la propria attenzione – secondo una linea ormai divenuta tradizionale – più

alle problematiche che interessano le minoranze nazionali romene nei paesi vicini che a quelle dei

milioni di emigranti dalla Romania.

Si può dunque assistere a una lunga e sinuosa evoluzione legislativa, in cui le dichiarazioni dei

soggetti politici romeni sono state spesso contraddittorie. Alcuni di essi hanno assunto, spesso in

ottica demagogica, ma talvolta anche in maniera convinta, una posizione secondo cui i romeni

all’estero dovrebbero essere messi nelle migliori condizioni per poter esercitare il loro diritto al voto

e contribuire alla determinazione della politica nazionale. Altri importanti soggetti politici, pur

riconoscendo la validità della posizione precedentemente espressa, hanno posto l’accento sullo

scarso interesse che le comunità di romeni all’estero mostrano allorché si tratta di rendere effettiva

tale partecipazione. Va inoltre aggiunto che la classe dirigente romena non ha ancora ben chiaro

quale via seguire, se quella di cominciare a considerare i suoi emigranti come cittadini romeni

ormai stabilitisi in via definitiva all’estero, oppure tentare di ricondurli nel paese d’origine.

Proprio il 2008 sembra ben esemplificare tale schizofrenia delle autorità di Bucarest. Nel corso

della primavera, infatti, il Ministero degli Affari Esteri e quello del Lavoro e della Solidarietà

Sociale hanno lanciato due “fiere del lavoro”, a Roma e Torino, per favorire il contatto tra imprese

romene in cerca di manodopera e lavoratori emigranti interessati a tornare in patria. Benché si sia

risolta in un fiasco totale – cui è seguito un aspro confronto politico interno tra governo e partiti

dell’opposizione –, l’iniziativa partiva dalla premessa di voler tentare di favorire un possibile

“ritorno a casa” di lavoratori più o meno qualificati al fine di trovare una soluzione al problema

della mancanza di manodopera sul mercato del lavoro interno, fenomeno che ha portato, per

esempio, all’aumento dell’occupazione di forza-lavoro straniera. A pochi mesi di distanza il centro

del problema sembra invece essersi spostato. La crisi economica che, partita dagli Stati Uniti,

sembra aver colpito come un uragano l’Europa, ha lasciato – soprattutto in Spagna, ma anche negli

altri paesi del Vecchio Continente – molti senza lavoro, e tra questi anche molti emigranti romeni,

che cominciano a tornare in patria finendo però per incidere su un sistema che, seppure segni ancora

un trend economico positivo, rischia di subire i contraccolpi della crisi; l’attenzione delle autorità e

114 Dibattiti disponibili all’indirizzo internet http://www.cdep.ro/pls/proiecte/upl_pck.proiect?cam=2&idp=7137 (ultimo accesso 13 novembre 2008).

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dei mass-media si è dunque concentrata sui problemi che un possibile ritorno massiccio di emigranti

potrebbe generare al sistema-paese, sia a livello sociale che economico. Un tale “contro-esodo”,

infatti, non significherebbe soltanto un aumento di costi in termini sociali, legati in gran parte alla

difficoltà di reinserimento, ma anche la perdita di una fetta significativa del prodotto nazionale

lordo, costituita dalle rimesse dall’estero, che negli anni passati hanno aiutato in maniera

significativa il decollo dell’economia romena e che, venendo meno, potrebbero accrescere gli effetti

della crisi economica.

Intanto, da Bucarest si continua a rafforzare il diritto al mantenimento e all’espressione della

propria identità nazionale da parte delle comunità di romeni all’estero. La legge 299/2007 in

materia di sostegno ai romeni all’estero riconosce tale diritto a tutti i migranti, compresi quanti

hanno stabilito la loro residenza all’estero e dunque hanno in qualche modo optato per un progetto

migratorio di lunga durata, se non definitivo. Tale appartenenza culturale e nazionale non sembra

però tradursi in una piena cittadinanza. Da molte parti viene denunciato il fatto che le autorità

romene mettano a disposizione, per l’espletamento del diritto di voto da parte dei cittadini stabilitisi

all’estero, strutture insufficienti, mentre a livello ufficiale si lamenta il fatto che pochi sono i romeni

che, il giorno delle elezioni, si recano a votare presso le strutture predisposte. Il 2007 vede la

presentazione, da parte del ministro degli Affari Esteri, di un progetto di legge riguardante

l’introduzione del voto per corrispondenza per i cittadini residenti all’estero. Tale progetto, che si

perde nel corso dell’iter parlamentare, scatena però un vespaio; molti ritengono una norma di civiltà

l’introduzione di uno strumento che assicurerebbe una più facile partecipazione al voto di una fetta

consistente di cittadini – tra il 10 e il 15% circa della popolazione – che altrimenti sarebbero posti in

una situazione di difficoltà nell’espressione effettiva dei loro diritti politici, altri criticano tale

proposta avanzando come giustificazione il rischio di brogli che potrebbero essere facilmente

commessi proprio mediante tale strumento.

Tale regime viene modificato in maniera radicale dalla nuova legge elettorale, promulgata dal

Parlamento nel marzo 2008, che introduce per la prima volta nella storia della Romania un sistema

uninominale con correzioni proporzionali a livello nazionale115. Tale sistema è stato fortemente

voluto da una parte consistente della società civile per tentare di moralizzare le istituzioni

rappresentative del paese I sistemi uninominali infatti, favorendo un contatto diretto tra elettore e

candidato, mettono l’accento più su quest’ultimo che non sul partito cui appartiene. In tal modo si

dovrebbe giungere a un ridimensionamento, se non alla scomparsa, del sistema dei partiti, che

115 Cfr. MO, nr. 196 del 13 marzo 2008, Lege nr. 35 din 13 martie 2008 pentru alegerea Camerei Deputăţilor şi a Senatului şi pentru modificarea şi completarea Legii nr. 67/2004 pentru alegerea autorităţilor administraţiei publice locale, a Legii administraţiei publice locale nr. 215/2001 şi a Legii nr. 393/2004 privind Statutul aleşilor locali . Il testo integrale della legge è disponibile all’indirizzo http://www.cdep.ro/pls/legis/legis_pck.htp_act?ida=78207 (ultimo accesso 23 gennaio 2009).

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finiscono per imporre sempre gli stessi personaggi, nonostante il basso grado di popolarità di cui

questi godono in Romania116.

Accanto all’introduzione del sistema uninominale, la nuova legge elettorale introduce

un’ulteriore, fondamentale innovazione. Essa prevede infatti un’apposita circoscrizione elettorale

per i cittadini romeni residenti all’estero (art. 10), i quali eleggono un totale di quattro deputati e

due senatori (art. 11, comma 2, punto f), di cui la metà nel collegio uninominale riservato ai romeni

residenti in paesi europei e l’altra metà in un collegio per i residenti in tutti gli altri continenti. La

costituzione di circoscrizioni estere sarebbe stata implicita, secondo i promotori della legge, nello

stesso sistema elettorale uninominale; esso stabilisce infatti un legame diretto tra elettore ed eletto,

per cui sarebbe stato contrario allo spirito della riforma continuare a conteggiare i voti espressi dai

romeni all’estero nella circoscrizione di Bucarest, come avvenuto fino a quel momento. Il problema

maggiore è dato dalla predisposizione delle infrastrutture dedicate al voto. La legge prevede in

maniera espressa che i cittadini residenti o domiciliati all’estero possano esprimere il loro diritto al

voto presso le sedi diplomatiche nel paese in cui si trovano; accanto a tali sezioni, nei paesi di

residenza possono esserne aperte delle altre, previo accordo tra le autorità romene e quelle del

rispettivo paese (art. 18, comma 8). Va però notato che le sedi consolari e le ambasciate, pure

situate nella capitale e nelle città più rappresentative per le comunità di migranti, sono spesso

distanti dai luoghi di residenza di molti, disincentivando in tal modo la partecipazione al voto; se

ciò risulta poi un problema nei paesi europei, lo è ancor più in paesi di grandissime dimensioni,

come il Canada, gli USA o l’Australia, dove spesso le sezioni elettorali si trovano a migliaia di

chilometri di distanza dalla zona di residenza.

Un altro tema che ha sollevato molte proteste tra i romeni all’estero è costituito dall’esiguo

numero di rappresentanti che risulteranno eletti nella circoscrizione “Estero” (circoscrizione n. 43)

rispetto al numero totale di elettori. Circa il 12% della popolazione romena esprimerà intorno

all’1,2% dei membri che comporranno il futuro Parlamento, con un’evidente sottorappresentazione

che ha fatto parlare molti, all’estero e in patria, di una “sospensione di fatto” del voto degli

emigranti. Il quotidiano indipendente progressista Adevărul (“La Verità”), tra i più letti di Romania,

fornisce in tal senso, in un articolo del 18 luglio 2008, alcune cifre; gli abitanti di Bucarest –

complessivamente 2.070.235 – eleggeranno 40 parlamentari (28 deputati e 12 senatori); lo stesso

discorso vale per il più piccolo distretto di Romania, quello di Covasna, in cui i 200.000 cittadini lì

residenti saranno rappresentati in Parlamento da un numero di deputati e senatori pari a quello

espresso dagli oltre due milioni di romeni residenti oltre frontiera. Mentre dunque in Romania

70.000 cittadini eleggono un deputato, il rapporto cresce a 1/400.000 nel caso di cittadini residenti

116 Sugli effetti dei sistemi elettorali cfr. Sartori, G., Ingegneria costituzionale comparata, il Mulino, Bologna 2005; Id., Parties and Party Systems: A Framework for Analysis, ECPR Press, Colchester 2005.

Page 99:  · Web viewLa classe dirigente post-rivoluzionaria, in gran parte composta da seconde file del Partito Comunista Romeno (PCR) che sono riuscite a cavalcare la rivoluzione, non hanno

all’estero. L’articolo continua poi con un’intervista a un importante leader della comunità romena di

Spagna, William Brânză, candidato a un posto in Parlamento, il quale riconosce che sei

parlamentari sono troppo pochi: «Solo in Spagna vivono 780.000 romeni. Spagna e Italia avrebbero

dovuto avere ciascuna minimo quattro deputati e un senatore»; lo stesso Brânză passa poi a criticare

la delimitazione dei collegi: «Dovremmo avere – dice – un deputato per la Spagna, uno per l’Italia,

un deputato per il resto d’Europa, comprese Germania e Francia, e un deputato per l’America, il

Giappone e il Canada. Un senatore dovrebbe occuparsi di Spagna, Italia e del resto d’Europa,

mentre il secondo di America, Canada e resto del mondo. Come potrà occuparsi un solo uomo di

600.000 persone, numero ufficiale di romeni residenti in Italia?»117. A tali critiche ha tentato di

rispondere il presidente della Commissione per l’elaborazione del Codice elettorale, il quale ha

precisato che, nella determinazione del numero di parlamentari che saranno eletti nella

circoscrizione “Estero” si è tenuto conto dei dati relativi all’effettiva partecipazione al voto dei

romeni all’estero nel corso degli anni: «Nel più piccolo distretto di Romania, Covasna, si recano al

voto in media 80.000 – 100.000 cittadini, e questi avranno quattro deputati e due senatori. Nella

diaspora, non hanno mai votato più di 55.000 romeni»118. A sua volta Cristian Pârvulescu, uno dei

promotori della legge, riconosce che, date le condizioni attuali, il numero di parlamentari che

rappresenteranno i romeni all’estero è assolutamente equo: «Per i romeni all’estero la

partecipazione al voto rappresenta un lusso. Essa presuppone costi molto elevati, poiché non

possono esprimere il loro voto se non presso le ambasciate e i consolati. Quando verranno

assicurate anche altre condizioni, come il voto elettronico o per corrispondenza, allora potremo

tornare a discutere l’intera questione della rappresentanza»119.

Al di là del dibattito che si è aperto sull’opportunità di concedere il diritto di eleggere dei propri

rappresentanti anche ai romeni all’estero e sui limiti della legge, è certo che essa va a colmare un

vacuum importante e apre la strada per una maggiore partecipazione politica transnazionale da parte

dei romeni emigrati. Un’altra domanda potrebbe porsi circa le motivazioni che hanno spinto le

autorità romene a tale passo. Sicuramente un ruolo importante è stato giocato dall’elevato numero,

cresciuto in maniera esponenziale con le regolarizzazioni successive all’ingresso della Romania

nell’UE e all’assunzione da parte dei cittadini romeni dello status di comunitari, di residenti

all’estero, spesso non interessati a recarsi al voto per eleggere parlamentari con i quali non avevano

alcuna forma di contatto e assolutamente non rappresentativi dei loro interessi e delle loro necessità.

Lo status di migrante comporta infatti dei bisogni del tutto particolari, che possono essere

rappresentati soltanto da chi conosca tale situazione e abbia un legame diretto con la comunità. Un

117 http://www.adevarul.ro/articole/votul-diasporei-a-fost-suspendat.html (ultimo accesso 13 novembre 2008).118 Ibidem.119 Ibidem.

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ruolo importante può però essere stato giocato dalla considerazione che, se non si fosse proceduti

lungo questa via, i romeni all’estero avrebbero potuto esercitare un’influenza di non poco conto sul

sistema politico e partitico della Romania, su cui avrebbero potuto scaricare anche la loro maggiore

carica di criticità120; prevedendo una circoscrizione estera che esprima un numero assai ridotto di

parlamentari si è in sostanza voluta creare una sorta di “riserva indiana”, dando la possibilità ai

romeni residenti all’estero di esprimere il loro voto e di eleggere propri rappresentanti senza che

questi possano influire in maniera determinante sull’attività del Parlamento e sulla determinazione

della politica nazionale.

L’analisi del comportamento elettorale, caratterizzato da scarsa affluenza alle urne, consente di

comprendere parzialmente il comportamento politico delle comunità di romeni all’estero. In primo

luogo sembra confermata la tendenza al disinteresse nei confronti della politica in generale. Le

elezioni parlamentari tenutesi il 30 novembre 2008 hanno fatto registrare, infatti, un bassissimo

livello di partecipazione – inferiore al 40% secondo gli ultimi dati ufficiali – in Romania e uno

ancora più basso nella circoscrizione estero, dove in totale hanno votato, secondo i dati forniti dal

Ministero degli Affari Esteri – incaricato di organizzare e gestire il voto dei romeni all’estero –

circa 24.000 persone suddivise nelle 221 sezioni organizzate. Benché non sia possibile stabilire il

numero esatto dei romeni con diritto di voto all’estero121, è certo che il numero dei votanti sia

assolutamente irrilevante rispetto al numero complessivo di quanti potenzialmente avrebbero diritto

al voto. Quello che dunque risulta importante ai fini della presente analisi è l’elevatissimo livello di

disinteresse che i romeni d’Italia in generale hanno nei confronti della politica del loro paese,

avvertita come lontana, distratta e corrotta.

II.3 Caratteristiche dell’immigrazione romena in Italia

Tra il 1° gennaio 2007 e il 1° gennaio 2008 si registra una crescita esponenziale – almeno a

livello di dati ufficiali – della presenza romena in Italia, che fa segnare un incremento di 283.078

unità, pari a un aumento dell’82,7%122. Anche se gran parte di tale cifra non è determinata da nuovi

ingressi, quanto piuttosto da regolarizzazioni di precedenti situazioni di irregolarità, il dato che ne

emerge colloca la comunità romena al primo posto per presenze in Italia, seguita nell’ordine da

Albania, Marocco, Cina e Ucraina. Secondo le stime Istat pubblicate nell’ottobre 2008, quasi la

metà degli stranieri residenti in Italia (1.616.000 unità, pari al 47,1% del totale) proviene dai paesi

120 Su tale aspetto cfr. Sandu, D. Locuirea temporară în străinătate…, op. cit., p. 150 sgg. Tale orientamento è emerso anche dai nostri dialoghi con il professor Gheorghe Mândrescu, direttore dell’Istituto Italo-Romeno di Studi Storici ed ex direttore ad interim dell’Accademia di Romania in Roma.121 Secondo la nuova legge elettorale, infatti, hanno diritto di voto i cittadini romeni che abbiano stabilito la loro residenza all’estero o che siano domiciliati oltre frontiera e siano in possesso di un atto legale, rilasciato dalle autorità del paese ospite, che testimoni l’effettivo domicilio all’estero. In tal modo diviene evidentemente assai difficile stabilire con precisione il numero degli aventi diritto.122 Istituto nazionale di statistica, La popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2008, Istat, Roma 2009, p. 1 e 4.

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dell’Est europeo; di questi, 839.000 (24,4% del totale) appartiene a paesi non comunitari (in

prevalenza Albania, Ucraina, Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, Repubblica Moldova),

mentre 777.000 a uno dei paesi di nuovo accesso, ossia a quei paesi che sono entrati a far parte

dell’UE a seguito degli allargamenti del 2004 e del 2007. Tra questi ultimi, l’80,44%, pari a

625.278 unità, è cittadino romeno.

Tabella 4. Popolazione straniera residente per paese di cittadinanza al 1° gennaio 2007 e 2008. Primi 16 paesi

1° gennaio 2007 1° gennaio 2008CITTADINANZA TOTALE CITTADINANZA TOTALE

Albania 375.947 Romania 625.278

Marocco 343.228 Albania 401.949

Romania 342.200 Marocco 365.908

Cina Rep. Pop. 144.885 Cina Rep. Pop. 156.519

Ucraina 120.070 Ucraina 132.718

Filippine 101.337 Filippine 105.675

Tunisia 88.932 Tunisia 93.601

Macedonia 74.162 Polonia 90.218

Polonia 72.457 Macedonia 78.090

India 69.504 India 77.432

Ecuador 68.880 Ecuador 73.235

Perù 66.506 Perù 70.755

Egitto 65.667 Egitto 69.572

Serbia e Montenegro 64.411 Rep. Moldova 68,591

Senegal 59.857 Serbia e Montenegro 68.542

Sri Lanka 56.745 Senegal 62.620

Fonte: Istat

II.3.1 Caratteristiche della presenza in Italia fino all’adesione della Romania all’UE

Tra Romania e Italia esiste dunque un forte potere di attrazione e compenetrazione che fa della

prima un enorme serbatoio di manodopera e una meta per la delocalizzazione delle imprese

italiane123, e della seconda il più importante paese di accoglienza di lavoratori romeni. Questi erano,

nel 1990, assai scarsi, raggiungendo le circa 8.000 unità, per diventare nel corso degli anni Novanta

123 Sulla delocalizzazione di imprese italiane in Romania cfr. Lenzi, F. R., La presenza italiana in Romania. Delocalizzazione, internazionalizzazione e problemi etico-normativi alle soglie dell’ingresso nell’UE, in “Annuario dell’Istituto Italo-Romeno di Studi Storici”, III (2006), pp. 271-286; Tempestini, P. – Mucci, F., “Flussi finanziari e internazionalizzazione delle imprese italiane in Romania”, in Pittau, F. – Ricci, A. – Silj, A. (a cura di), op. cit., pp. 71-80.

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circa 50.000 e superare, già nel 2002, le 100.000 unità. Il provvedimento del 2002 vede un notevole

aumento delle domande di regolarizzazione presentate dai datori di lavoro italiani, che ammontano

a circa 700.000. Per la prima volta si assiste a una forte concentrazione geografica dell’origine dei

migranti, provenienti per il 60% da paesi dell’Est europeo e per il 21% del totale dalla sola

Romania124.

Alla fine del 2003 la Romania risulta essere per la prima volta il paese maggiormente

rappresentato tra gli stranieri titolari di permesso di soggiorno, superando in tal modo comunità di

più antica presenza – come quelle albanese e marocchina – grazie a un tasso di incremento annuo

del 150%125. Altre 130.000 domande di assunzione vengono presentate in occasione del decreto

flussi del 2006.

La motivazione più importante della presenza romena in Italia è costituita senza dubbio da quella

lavorativa; secondo i dati forniti dall’Inail per il 2007, i romeni assicurati sono stati oltre 600.000126,

a cui vanno poi aggiunti i lavoratori autonomi, i soggetti ancora in cerca di occupazione e quanti

hanno trovato un impiego nel settore informale, in occupazioni casuali basate su rapporti di

parentela o personali e sulle relazioni sociali piuttosto che su accordi contrattuali.

Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, alla fine del 2006 – immediatamente prima

dell’ingresso della Romania nell’UE e l’acquisizione dello status di comunitari da parte dei suoi

cittadini – i romeni erano prevalentemente presenti nelle regioni settentrionali (59,5%), con un

decremento progressivo man mano che si procede verso Sud (36,9% al Centro, 3,6% al Meridione).

La regione maggiormente abitata da residenti romeni risultava essere il Lazio, che accoglieva il

22,2% dei 342.200 residenti romeni in Italia127. La maggioranza dei romeni emigrati in Italia

proviene dalla regione della Moldavia; collocata nella parte nord-orientale del paese, questa regione

è una delle più povere di Romania. Secondo alcuni autori, esisterebbe un rapporto direttamente

proporzionale tra flussi finanziari dall’Italia e flussi migratori dalla Romania128. In tale ottica trova

giustificazione il fatto che proprio la Moldavia, regione in cui il passato regime comunista aveva

favorito lo sviluppo di industrie tessili e calzaturiere, sia divenuta dopo il 1989 una delle zone di

maggiore investimento da parte di piccole e medie imprese italiane, che hanno rilevato gli impianti

124 Cfr. Carfagna, M. – Pittau, F., Italia: venti anni di regolarizzazioni, in Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2003, Nuova Anterem, Roma 2003, pp. 129-138.125 Cfr. Gabrielli, D. (a cura di), La presenza straniera in Italia: caratteristiche socio-demografiche. I cittadini stranieri dopo la regolarizzazione, Istat, Roma 2007, p. 47; il volume è disponibile anche all’indirizzo internet http://www.istat.it/dati/catalogo/20070828_01/126 Inail, Dati Inail, n. 10, ottobre 2008, p. 37, disponibile anche on-line all’indirizzo internet http://www.inail.it/repository/ContentManagement/node/N670420288/Bozza3%20DATI%20INAIL%20N10_2008.pdf (ultimo accesso 14/10/2008).127 Cfr. Istituto nazionale di statistica, La popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2007, cit., pp. 10-13.128 Si tratta di un’applicazione pratica della teoria del “sistema mondo” proposta alla fine degli anni Novanta da Douglas Massey; secondo cui in sostanza le nazioni da cui è maggiore l’emigrazione verso un dato paese sono quelle in cui si riscontra una più significativa presenza di capitali di quel paese; in merito cfr. Massey, D., Worlds in motion, Oxford University Press, Oxford 1998.

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chiusi godendo anche di un serbatoio di manodopera a basso costo. La presenza di imprenditori

italiani ha dunque contribuito a creare uno scambio di contatti e informazioni tale da rendere l’Italia

una meta appetibile129.

L’ingresso nell’UE ha rappresentato per i migranti romeni un vero e proprio spartiacque, poiché

ha significato la loro sostanziale emancipazione dal sistema della programmazione delle quote

d’ingresso previste per i lavoratori subordinati. L’opportunità rappresentata dalla libera circolazione

avrebbe dovuto portare, almeno in teoria, all’emersione quasi totale delle situazioni di irregolarità e

dunque non solo alla legalizzazione della presenza sul territorio italiano, ma anche alla fine del

regime di sfruttamento lavorativo che per molti anni aveva coinvolto tanti lavoratori romeni. I dati

forniti dall’Inail in merito agli infortuni sul posto di lavoro sembrano confermare tale aspetto,

facendo riscontrare un aumento dagli 11.256 del 1° gennaio 2007 ai 17.832 rilevati alla stessa data

dell’anno successivo130. Gli archivi Inail danno anche una serie di dati relativi al regime

occupazionale della comunità; essi hanno fatto registrare, tra il 2006 e il 2007, il più alto aumento di

occupati assicurati, anche se i redattori della ricerca avvisano come si tratti solo parzialmente di

nuovi arrivati, mentre in gran parte sono persone già presenti in Italia ed emerse grazie

all’acquisizione dello status di comunitari. Nonostante l’alto livello di istruzione indicato dalla

Caritas, secondo cui il 78% sarebbe in possesso di un diploma o di una laurea, i romeni sembrano

trovare un’occupazione soprattutto nell’edilizia per i maschi e nell’assistenza familiare per le

femmine. Per quanto attiene alle fasce d’età, la comunità italiana sembra essere relativamente

giovane (circa il 60% avrebbe un’età compresa tra i 18 e i 34 anni).

Per quanto attiene alla distribuzione territoriale, i romeni tendono a seguire le linee fondamentali

dell’emigrazione nel suo complesso, con una concentrazione maggiore nelle regioni settentrionali e

una progressiva diminuzione delle presenze man mano che ci si avvicina alle regioni del Sud. A

livello regionale, i romeni risultano essere la prima comunità di stranieri residenti in 12 regioni su

20, la seconda in 6 e la terza nella sola Emilia-Romagna, mentre solamente in Liguria i romeni non

entrano nel novero delle tre comunità più consistenti.

Tabella 5. Prime tre comunità residenti al 1° gennaio 2008, per regione

REGIONE TOTALE STRANIERI

PRIME 3 CITTADINANZEIncidenza percentuale

Piemonte 310.543 Romania 33,0 Marocco 17,2 Albania 12,4Valle d’Aosta 6.604 Marocco 28,1 Romania 18,7 Albania 11,2

129 Ricci, A., “Flussi di lavoratori e di investimenti tra Romania e Italia. Le nuove opportunità dell’allargamento ad Est”, in Randazzo, F. (a cura di), La Romania verso l’Unione Europea. Storia politica, economia e opinione pubblica, Periferia, Cosenza 2003, pp. 261-283; Gambino, F. – Sacchetto D. (a cura di), Un arcipelago produttivo. Migranti e imprenditori tra Italia e Romania, Carocci, Roma 2007..130 Istituto nazionale di statistica, La popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2008, cit., p. 5; Inail, cit., p. 38.

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Lombardia 815.335 Romania 11,7 Marocco 10,9 Albania 10,1Trentino Alto

Adige 70.834 Albania 14,3 Romania 10,2 Marocco 9,8

Bolzano 32.945 Albania 13,3 Germania 13,0 Marocco 8,1

Trento 37.889 Romania 15,8 Albania 15,1 Marocco 11,2Veneto 403.985 Romania 19,0 Marocco 12,3 Albania 9,4

Friuli Venezia Giulia 83.306 Romania 16,3 Albania 14,1

Serbia e Montenegro

10,6Liguria 90.881 Ecuador 19,0 Albania 17,5 Marocco 10,7Emilia-

Romagna 365.687 Marocco 15,6 Albania 13,1 Romania 11,4

Toscana 275.149 Albania 20,2 Romania 18,8 Cina, Rep. Pop. 9,4

Umbria 75.631 Romania 20,6 Albania 18,6 Marocco 11,1Marche 115.299 Albania 17,1 Romania 13,4 Marocco 10,9Lazio 390.993 Romania 30,7 Filippine 6,8 Polonia 5,4

Abruzzo 59.749 Romania 22,6 Albania 19,3 Macedonia 7,9

Molise 6.271 Romania 27,4 Marocco 13,7 Albania 12,8Campania 114.792 Ucraina 24,1 Romania 10,9 Marocco 8,7

Puglia 63.868 Albania 30,6 Romania 15,7 Marocco 8,6Basilicata 9.595 Romania 28,8 Albania 15,6 Marocco 11,5Calabria 50.871 Romania 26,2 Marocco 17,9 Ucraina 9,4Sicilia 98.152 Romania 17,8 Tunisia 15,1 Marocco 9,5

Sardegna 25.106 Romania 17,9 Marocco 14,0 Cina, Rep. Pop. 8,4

ITALIA 3.432.651 Romania 18,2 Albania 11,7 Marocco 10,7Fonte: Istat

II.3.2 I romeni e il mercato del lavoro italiano

Come più volte sottolineato, la motivazione fondamentale delle migrazioni dalla Romania è

costituita da motivazioni economico-lavorative. Risulta dunque importante, nell’ambito della

presente ricerca, analizzare più nel dettaglio la relazione che intercorre tra la comunità romena e il

mercato del lavoro italiano. In primo luogo va posto in evidenza come il passaggio dallo status di

extracomunitari a quello di comunitari successivo all’ingresso della Romania nell’UE si sia tradotto

nel fatto che ai cittadini romeni presenti nel Paese non si applicano più le disposizioni del Testo

Unico sull’emigrazione, sostituito dal Testo Unico in materia di circolazione e soggiorno dei

cittadini di Stati comunitari131. Analogamente a quanto avvenuto in occasione del precedente

allargamento del 2004, il Governo italiano si è avvalso della facoltà, prevista dalla normativa

europea, di adottare delle misure temporanee, che pure limitano – seppure in maniera blanda – la

131 Cfr. rispettivamente Decreto Legislativo n. 286 del 25 luglio 1998 e D.P.R. n. 54 del 18 gennaio 2002 e successivi aggiornamenti.

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libera circolazione dei lavoratori subordinati provenienti dai Paesi di nuova adesione132.

Riassumendo, il regime transitorio applicato ai lavoratori subordinati bulgari e romeni, esteso a

tutto il 2008, consiste nell’adozione di misure semplificate, volte a monitorare l’ingresso nel

mercato del lavoro in comparti diversi da quelli edile, metalmeccanico, agricolo e turistico-

alberghiero, del lavoro domestico e di cura alla persona e del lavoro dirigenziale altamente

qualificato, mentre rimane libero l’ingresso di lavoratori stagionali e, ovviamente, degli autonomi.

Nel caso di tutti gli altri settori, rimane necessaria la richiesta di un nulla osta al lavoro presso gli

Sportelli Unici per l’immigrazione, misura questa che non comporta però particolari condizioni o il

possesso di specifici requisiti, né risulta obbligatoria; la persona che non presenti tale richiesta non è

infatti soggetta a specifiche sanzioni, e l’unico inconveniente in cui può incorrere è costituito dal

rifiuto da parte delle istituzioni locali dell’iscrizione anagrafica nel comune di residenza.

Alla fine del 2006 i lavoratori di origine romena ammontavano, secondo i dati Inail, a 263.210

unità, di cui il 48,3% costituito da donne. Tale cifra corrisponde a circa il 12% del totale di tutti i

lavoratori stranieri per i quali, nel corso dell’anno, era stato registrato almeno un rapporto di lavoro.

L’incidenza della comunità romena sul mercato del lavoro italiano può essere meglio compresa se

paragonata con quella della seconda collettività per numero di occupati, quella albanese (8,7%). I

dati relativi al 2006 attestano una distribuzione dei lavoratori di origine romena per macrosettore

economico-produttivo sostanzialmente in linea con quella relativa all’insieme degli occupati nati

all’estero e che vede la netta prevalenza degli occupati nel terziario (51,5%), seguiti da quelli del

settore industriale (36,7%) e agricolo (6,6%). Analizzando i singoli comparti, è possibile rilevare

una forte tendenza alla canalizzazione dei lavoratori romeni in specifici settori occupazionali quali:

collaborazione domestica e familiare, attività alberghiere e di ristorazione, informatica e dei servizi

alle imprese per quanto riguarda il settore terziario; edilizia e metallurgia per l’ambito industriale.

Come già rilevato nel caso dei dati relativi ai residenti di origine romena in Italia, anche i dati

inerenti agli occupati netti di origine fanno registrare per il 2007 un aumento eccezionale; nell’arco

di un anno si passa infatti da 263.210 a 569.767 lavoratori ingaggiati almeno per un giorno , con un

aumento di oltre 300.000 unità (+ 116%). Risulta dunque che la presenza regolare romena sul

mercato del lavoro italiano è più che raddoppiata nel corso del primo anno da comunitari. Benché i

flussi dalla Romania siano continuati, gran parte dei nuovi rapporti di lavoro registrati dall’Inail

sono riconducibili all’emersione e alla legalizzazione post-adesione di relazioni lavorative

preesistenti ma sommerse. Questi due elementi, cioè l’emersione di situazioni precedentemente

caratterizzate da irregolarità e l’arrivo di nuovi lavoratori, favorito anche dalla maggiore libertà di

132 Cfr. Circolare congiunta del Ministero dell’Interno e Ministero della Solidarietà Sociale n. 2 del 28 dicembre 2006; per l’estensione di tale regime a tutto il 2008, cfr. Circolare congiunta del Ministero dell’Interno e Ministero della Solidarietà Sociale n. 1 del 4 gennaio 2008.

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circolazione di cui hanno goduto i cittadini romeni a partire dal 1° gennaio 2007, si compongono

nel generare una situazione profondamente diversa rispetto a quella che poteva emergere dagli

stessi dati relativi al periodo precedente l’ingresso della Romania nell’UE. Da tali dati emerge come

l’aumento più sensibile abbia riguardato l’occupazione maschile, cresciuta del 127%, maggiormente

in settori dove più diffusa è la pratica del lavoro sommerso, mentre quella femminile ha fatto

registrare un aumento pure rilevante (+106%). Ciò ha modificato anche il rapporto tra occupati

maschi e femmine, aumentandolo in favore dei primi. Tale dato non significa però automaticamente

che la presenza romena in Italia sia più maschile che femminile, poiché – come visto – le donne

risultano maggiormente impiegate nel settore della collaborazione familiare, assai esposto al

fenomeno del lavoro sommerso. Tale eccezionale aumento degli occupati di origine romena risulta

anche diverso a seconda delle macroaree in cui è divisa la penisola; maggiore nelle regioni insulari,

dove registra una crescita del 514%, e meridionali (+385%), esso diminuisce man mano che si

procede verso nord (+107% al Centro, 80 Nord-Est, 88% Nord Ovest). Anche così la presenza

romena rimane maggioritaria nelle regioni settentrionali, e infatti in valori assoluti essa è aumentata

molto più al Nord e al Centro e meno invece al Sud. Se dunque le variazioni intervenute in parallelo

con l’ingresso della Romania nell’UE hanno comportato una certa redistribuzione della presenza

romena tra le macro-aree che compongono la Penisola, va posto in evidenza anche come tale

fenomeno abbia probabilmente caratteristiche contingenti e comunque di breve periodo, legate alle

facilitazioni all’emersione del lavoro sommerso derivanti dall’acquisizione dello status di

comunitario, che potrebbe favorire – secondo una linea di tendenza già constatata negli anni

precedenti – lo spostamento interno degli immigrati di origine romena da Sud verso le regioni

centro-settentrionali, dove possono trovare occupazioni migliori e meglio retribuite.

In tale ambito, un capitolo a parte è rappresentato dall’emigrazione ad alta qualificazione, che

risponde a logiche proprie; in tal caso infatti – come mette bene in evidenza Vedran Horvat – le

cause che spingono alla migrazione di molti dai paesi dell’Europa sud-orientale sono strettamente

legate all’ambiente sociale e politico del paese di provenienza, dove spesso si sono affermati gruppi

oligarchici che tendono ad assorbire o a “espellere” i cittadini più qualificati, considerati una élite

indesiderabile e potenzialmente pericolosa133. Nel caso specifico dell’emigrazione dalla Romania, il

settore più colpito dal fenomeno è quello medico e paramedico. Ciò è divenuto ancor più vero con

l’ingresso della Romania nell’UE e il riconoscimento – non ancora universale per la verità – del

valore legale del titolo di studio in tutti gli Stati dell’Unione; secondo quanto espresso dall’ordine

dei medici e dai rappresentanti del maggiore sindacato di categoria, a partire dal 1° gennaio 2007

una percentuale compresa tra il 65 e il 54% dei medici romeni ha espresso la volontà di trasferirsi

133 Cfr. Horvat, V., Brain Drain. Threat to Successful Transition in South-East Europe?, in “Southeast European Politics”, Vol. V, n. 1, 2004, pp. 76-93.

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all’estero in breve tempo. Le cause di tale decisione sono molto spesso le pessime condizioni

retributive in patria, la scarsezza di attrezzature e strutture adeguate, le deboli possibilità di

carriera134, mentre – come ha ricordato il neo-eletto Rettore della Sapienza Università di Roma

Luigi Frati in occasione dell’apertura delle Giornate Italo-Romene organizzate tra il 20 e il 22

novembre 2008 – la scuola medica romena ha, nonostante tutte le difficoltà, tradizionalmente un

livello assai elevato, che ne rende gli allievi appetibili sul mercato del lavoro occidentale e dunque

anche italiano. Anche nel caso di altri settori lavorativi emerge come, molto spesso, i principali

fattori di attrazione esercitati dai paesi di accoglienza siano rappresentati dalle migliori prospettive

di carriera e dall’aspettativa di un livello di vita di molto superiore, mentre i motivi che spingono a

lasciare la Romania sono in gran parte costituiti da una visione sconfortante della situazione in

patria, generata dalla corruzione diffusa che vi regna, e dalle scarse prospettive di impiego e di

carriera135.

II.3.3 L’associazionismo romeno in ItaliaL’associazionismo è un fenomeno relativamente nuovo tra i romeni d’Italia e dall’andamento

contraddittorio. Il 2008 ha registrato un notevole incremento del numero delle associazioni presenti

sul territorio, ma il numero di romeni che vi si rivolge rimane ancora assai basso. Le cause di tale

disinteresse sono diverse; molte associazioni sono, come anticipato, relativamente giovani e dunque

ancora poco note; per altro verso, anche le associazioni di più vecchia data hanno avuto

tendenzialmente una base territoriale assai ridotta, il che ne ha diminuito il numero di potenziali

iscritti. Un altro elemento che può aver giocato un ruolo in tal senso è costituito, probabilmente,

dalla mancanza di collaborazione tra associazioni diverse, molto spesso in conflitto tra loro per

ottenere il sostegno delle autorità di Bucarest e delle rappresentanze diplomatiche romene in Italia

alle proprie iniziative; ciò può aver influito sulla percezione che gli immigrati hanno delle

associazioni come meri centri di interesse personale, la quale a sua volta può aver generato

disinteresse e diffidenza nei loro confronti. Un’ulteriore motivazione dello scarso interesse mostrato

dagli immigrati romeni al tema dell’associazionismo è costituita dal fatto che, molto spesso, essi

non hanno o ritengono di non avere, soprattutto nelle grandi città, tempo libero sufficiente da

dedicare all’associazionismo.

Uno dei servizi principali forniti da tali associazioni è legato alla mediazione linguistica e

culturale, a cui si affianca il supporto nella risoluzione dei problemi abitativi e nei rapporti con le

pubbliche amministrazioni. Altri importanti servizi sono rappresentati dall’assistenza legale, dal

supporto nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Le associazioni di romeni in Italia sembrano

134 Intervista con un medico romeno operante in Italia da noi condotta nel mese di luglio 2008.135 Cfr. Brandi, M. C., “Le immigrazioni romene ad alta qualificazione in Italia”, in Pittau, F. – Ricci, A. – Silj, A. (a cura di), op. cit., pp. 202-208

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dunque fornire in primo luogo ai loro concittadini un’assistenza pratica nei problemi fondamentali

legati in primo luogo all’inserimento nella nuova realtà e, in un secondo momento, in quelli della

vita quotidiana.

Le associazioni svolgono però anche un altro ruolo. Secondo i loro rappresentanti incontrati nel

corso della ricerca, molti romeni si rivolgono alle associazioni perché convinti che queste possano

garantire che loro e i loro figli – soprattutto per quelli nati in Italia – mantengano un legame forte

con la cultura d’origine e le sue tradizioni. Esse svolgono poi un ruolo sociale importante; molti

decidono infatti di divenire membri di un’associazione perché la ritengono uno strumento di

socializzazione, e vedono nella sua sede fisica il luogo privilegiato in cui è possibile conoscere altri

romeni. L’associazione rappresenta poi anche una sorta di “finestra sul mondo”; essa costituisce

infatti per molti associati un utile strumento per la promozione della propria cultura all’estero e, in

altri casi, essa fa crescere la consapevolezza di rappresentare una minoranza forte nel paese di

destinazione. Nonostante ciò, però, poche delle persone incontrate riconoscono che le associazioni

possano rappresentare un soggetto politico efficace.

Il 2008 sembra cambiare in parte l’andamento, accentuando un trend che, per la verità, sembra

essere nato con qualche anno di anticipo. Già negli anni precedenti infatti le associazioni dei romeni

(e per i romeni) avevano fatto registrare una tenue, graduale crescita sia a livello quantitativo che

qualitativo. Questa crescita si è tuttavia accompagnata a un naturale fenomeno di frammentazione

territoriale e mancanza di coordinamento dovuto alle caratteristiche stesse dell’immigrazione

romena, soprattutto quella recente, più numerosa, caotica e problematica rispetto a quella registrata

fino alla fine degli anni Novanta. Il consistente spostamento dalla Romania verso l’Italia e la

Spagna ha generato, in questi due ultimi paesi ma anche nella madrepatria, una maggiore

consapevolezza e sensibilità nei confronti dei problemi con cui i migranti devono confrontarsi

quotidianamente. Tale sviluppo è stato favorito anche dallo scoppio del cosiddetto “caso Mailat” o

“caso Reggiani”; le reazioni che tale episodio ha generato nell’opinione pubblica italiana ha spinto

molti romeni che fino a quel momento avevano vissuto tranquillamente in Italia a reagire all’onda

mass-mediatica montata durante la campagna elettorale che si stava svolgendo in parallelo; a tal

fine hanno visto la luce molti nuovi gruppi e associazioni di tutela dei diritti e dell’immagine dei

romeni che si sono impegnati per contribuire a promuovere la cultura e i valori romeni in Italia.

La proliferazione di tali gruppi e associazioni, molti dei quali nati dalla volontà di “fare

qualcosa” ma privi di una concreta progettualità e delle necessarie competenze e risorse, ha reso

anche le autorità romene più consapevoli dell’utilità di un maggiore coordinamento

dell’associazionismo a favore della comunità romena d’Italia, come testimoniano le tante iniziative

sponsorizzate in diverse città italiane dall’Ambasciata di Romania in Roma e dal Ministero degli

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Affari Esteri di Bucarest. Un simbolo tangibile di tale cambiamento è costituito dalla fondazione,

nel settembre 2008, di una Federazione delle Associazioni dei Romeni in Italia (FARI) destinata a

coordinare l’attività delle associazioni afferenti in modo da massimizzarne l’impatto e di costituire

un partner credibile nei rapporti con le istituzioni italiane e romene e con il sistema mass-mediatico.

Tale federazione costituisce un superamento, in termini quantitativi e qualitativi, rispetto al

precedente esperimento rappresentato dalla Lega dei Romeni d’Italia, sia per l’elevato numero di

associazioni che vi hanno aderito – circa 38 nei primi due mesi di vita – sia per il fatto di essere un

vero e proprio soggetto federale, capace di sostenere, e non di soffocare od oscurare, le associazioni

che lo costituiscono.

II.4 L’indagine empirica sulle comunità di Roma e Torino

Nell’ampio panorama dell’emigrazione romena in Italia, per la comprensione della quale si è

tentato di dare alcune linee-guida nelle pagine precedenti, emergono tra tutte due comunità, quelle

di Roma e Torino, particolarmente importanti per il loro livello quantitativo. Al 1° gennaio 2008,

secondo gli ultimi dati Istat, i romeni residenti a Roma erano 92.258, pari al 28,7% del totale della

popolazione straniera residente nella Capitale, mentre a Torino il loro valore assoluto era

leggermente inferiore (73.557 unità), ma aveva un impatto percentuale sulla totalità della

popolazione immigrata di gran lunga più superiore (il 44,7% del totale dei residenti stranieri nella

provincia). Ciò ha ovviamente un’influenza notevole anche sulla struttura dell’emigrazione a livello

regionale. I romeni residenti nel Lazio sono, sempre secondo la stessa fonte, 120.030 e

costituiscono il 19,2% del totale degli stranieri residenti; in Piemonte si hanno invece 102.569

residenti romeni, che corrispondono al 16,4% del totale della presenza straniera residente136.

Il 2007 ha fatto registrare anche in queste due comunità – come in tutta Italia – una crescita

molto elevata (Tab. 6), ancorché inferiore alla media del paese.

Tabella 6. Cittadini romeni residenti nel Lazio e in Piemonte al 1° gennaio degli anni 2007 e

2008

REGIONI1° GENNAIO 2007 1° GENNAIO 2008

VARIAZIONE % 2007-

2008

M F MF M F MF M F MF

Piemonte 28.452 30.988 59.440 48.545 54.024 102.569 70,6 74,3 72,6

Lazio 37.875 38.180 76.055 58.568 61.462 120.030 54,6 61,0 57,8

ITALIA 162.154 180.046 342.200 294.212 331.066 625.278 81,4 83,9 82,7

(Fonte: Istat)

136 Istituto nazionale di statistica, La popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2008, op. cit., pp. 15-16.

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II.4.1 Romeni a Roma e Torino: i dati emersi dall’analisi empirica

Un’indagine condotta mediante la somministrazione di ottanta questionari a rappresentanti delle

due comunità a campione casuale, miranti a meglio comprenderne il comportamento politico a

livello transnazionale ha fornito alcuni dati di sicuro interesse utili per confermare o, se del caso,

tracciare delle linee di differenziazione rispetto alle caratteristiche generali dell’emigrazione romena

in Italia. In tal modo è emerso come la grande maggioranza dei romeni presenti in Italia provenga

dalla regione della Moldavia, con una punta massima dell’80% a Torino e di circa il 68% a Roma.

Quest’ultima risulta maggiormente appetibile per gli emigranti romeni provenienti da altre zone, in

particolare dalla capitale Bucarest da dove proviene circa il 12% dei soggetti. Per quanto attiene alle

città di provenienza si registra una prima differenza; Roma risulta infatti essere scelta in prevalenza

da chi ha esperienze abitative in centri medio-grandi, ossia con una popolazione compresa tra i

100.000 e gli oltre mezzo milione di abitanti (62%), mentre la maggioranza degli intervistati nella

zona di Torino ha dichiarato di provenire da piccoli centri, la cui popolazione è compresa tra un

minimo inferiore alle 1.000 unità e un massimo di 100.000 abitanti (88%).

Sulla base dei dati raccolti, le caratteristiche di base delle due comunità sembrano essere in linea

con quelle emerse dall’analisi dei dati ufficiali forniti sia dalle fonti romene che da quelle italiane.

Si tratta dunque, in entrambi i casi di una popolazione relativamente giovane; la fascia d’età

compresa tra i 18 e i 35 anni comprende infatti il 37% degli intervistati a Roma e il 20% a Torino,

mentre gli intervistati con un’età compresa tra i 36 e i 50 anni rappresentano il 46% nella capitale e

52% nel capoluogo piemontese. La grande maggioranza del campione oggetto d’analisi risulta poi

coniugata (77% a Roma, 88% a Torino) e con almeno un figlio; solo l’8% degli intervistati a Torino

dichiara infatti di non avere figli, mentre tale percentuale cresce nel caso romano al 14%. Per

quanto attiene alla nazionalità del coniuge, essa è in prevalenza romena (69% a Roma, 52% a

Torino), mentre relazioni coniugali con cittadini italiani riguardano in grandissima parte donne

romene (31% a Roma, 20% a Torino). Va inoltre notato come, nel caso di Torino, alcuni elementi

appartenenti all’etnia rom abbiano espressamente dichiarato di essere coniugati con altri rom, senza

indicarne la cittadinanza, fenomeno che non si è invece riscontrato a Roma; i dati sono sicuramente

troppo scarni per consentire una generalizzazione, ma è possibile che nel caso torinese esistano

delle frizioni più forti che in quello romano tra elementi etnici romeni e rom, tali da spingere a una

distinzione netta tra le due comunità.

Il livello di istruzione risulta particolarmente elevato, confermando pure in questo caso i dati

generali relativi più complessiva comunità romena in Italia; a Torino infatti i possessori di titolo di

studio superiore costituiscono circa il 64% del totale della comunità, mentre a Roma la percentuale

si attesta a circa il 70%. Di questi, la maggior parte (35% a Roma, 44% a Torino) sono possessori di

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diplomi, spesso tecnici, favoriti anche dalla politica del passato regime, che aveva puntato molto

sull’alfabetizzazione delle masse e sulla diffusione dei titoli di studio imponendo la frequentazione

di scuole secondarie superiori anche per l’avviamento lavorativo. Più basso, ma comunque

generalmente elevato, risulta anche la percentuale di possessori di titoli di studio universitari e post-

universitari (master e dottorati di ricerca), che a Roma si attesta intorno al 34% e a Torino scende

invece al 20%. In questo particolare segmento va inoltre registrato come il livello più basso di

istruzione – analfabetismo o titolo di scuola primaria – sia riferibile in grandissima parte a elementi

rom, di difficile scolarizzazione in Italia ma anche nella stessa Romania, dove neppure il regime

comunista è riuscito né ha voluto procedere alla loro scolarizzazione e integrazione, e a persone

molto in là con gli anni, spesso provenienti da ambienti rurali dove in passato più forti sono state le

resistenze all’istruzione.

Sul piano lavorativo, gran parte degli immigrati romeni nelle due città risulta impiegato in lavori

dipendenti (79% a Roma, 68% a Torino). In tale ambito va notato come esista una differenziazione

per generi, per cui gli uomini risultano maggiormente occupati nel settore edilizio, mentre le donne

in quello del terziario, con particolare riferimento al settore delle pulizie e della collaborazione

familiare. Tale polarizzazione risulta molto forte nel caso della comunità torinese, mentre nella

provincia di Roma le percentuali si fanno molto più sfumate tra i diversi settori, soprattutto per

quanto attiene all’occupazione femminile, mentre gli uomini risultano ugualmente distribuiti tra il

settore edilizio, quello dei trasporti e della movimentazione di merci e quello agricolo.

Particolarmente interessante è la progressiva diffusione di aziende fondate e condotte da romeni,

che a Torino risultano titolari di impresa per l’8% – con particolare riferimento al settore edilizio e

della ristorazione – mentre a Roma tale dato sale al 12%. Degno di nota poi il fatto che a Roma sia

possibile registrare una maggiore diversificazione dei settori imprenditoriali, per cui accanto alle

tradizionali attività edilizie e di ristorazione, si trovino anche consulenti informatici, docenti di

lingua romena (presso strutture private), di danza popolare e di cucina tradizionale, che mostrano

per un verso una certa predisposizione della capitale a un’apertura multiculturale, sicuramente

favorita dal fatto di essere la Città Eterna da lungo tempo meta di destinazione degli emigranti, ma

che d’altra parte sottolineano anche una certa capacità imprenditoriale dei romeni e un qualche

interesse relativo alla diffusione della propria cultura presso il paese ospite.

Per quanto attiene alla data di arrivo in Italia, i dati ottenuti confermano quanto già detto;

relativamente debole negli anni Novanta, l’emigrazione dalla Romania avente l’Italia come

destinazione si è rafforzata notevolmente a partire dal 2000. Risultano infatti giunti a Roma e

Torino nel periodo 1990-1999 rispettivamente il 9% e il 20% dei membri della comunità, con una

forte concentrazione dunque dopo la svolta del Millennio e in particolare dopo il 2002, quando

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l’ingresso della Romania nello spazio Schengen ha fatto venir meno il regime dei visti necessari per

l’ingresso in quelli che sarebbero divenuti i maggiori centri di destinazione dell’emigrazione. Anche

le motivazioni che hanno spinto a mettere in piedi un progetto migratorio di più o meno lungo

periodo sono, nel caso delle comunità romana e torinese, in linea con i dati registrati a livello

nazionale. La motivazione più forte è infatti di natura economico-lavorativa, e a essa fanno

riferimento l’80% degli intervistati a Torino e il 62% di quelli a Roma; relativamente forte risulta

poi, nel caso romano, anche l’emigrazione per ricongiungimento familiare, addotto come causa da

circa il 32% degli intervistati, in maggioranza donne, mentre tale motivo risulta particolarmente

debole a Torino, dove si attesta intorno al 12%.

Entrambe le comunità percepiscono se stesse come sufficientemente integrate nelle città di

destinazione; il segno più evidente di ciò è costituito dalla considerazione di avere una conoscenza

abbastanza buona della lingua italiana. Il 33% degli intervistati a Roma e il 52% a Torino ritiene

infatti di avere una buona conoscenza della lingua italiana, mentre rispettivamente il 19% e l’8%

considera di averne un’ottima conoscenza. Tali dati risultano confermati da quanto potuto registrare

nel corso della somministrazione delle interviste, da cui risulta che il 61% degli intervistati romani e

il 39% di quelli torinesi hanno una conoscenza dell’italiano compresa tra l’elevato e il buono. Una

maggiore resistenza all’apprendimento della lingua del paese ospite si registra invece, ancora una

volta, tra i rom romeni, che ne hanno spesso una conoscenza a dir poco approssimativa che pure

essi riconoscono.

L’ingresso nell’UE e l’emersione di molti da situazioni di irregolarità ha moltiplicato anche i

contatti con il paese d’origine, favoriti pure dalla rapida diffusione di voli aerei a basso costo che si

aggiungono alle tradizionali compagnie di bandiera. La maggioranza degli intervistati di “lungo

periodo” (giunti in Italia tra il 2000 e il 2004) ha infatti dichiarato di essere inizialmente tornato in

patria in maniera molto sporadica, se non di essere mancato da casa per anni interi, mentre tale

situazione è cambiata a partire dal 2007, con l’acquisto della cittadinanza europea e il diritto alla

libera circolazione delle persone all’interno degli Stati membri, che hanno portato a più frequenti

contatti con il paese d’origine. Rimane in ogni modo relativamente elevato il numero di quanti, per

motivi economici o anche per libera scelta, non sono tornati affatto in Romania da quando hanno

deciso di lasciare il paese (28% degli intervistati a Roma, 12% a Torino).

Per quanto attiene ai rapporti con le rappresentanze diplomatiche del paese d’origine, va notato

come esistano delle differenze significative tra le due comunità. I romeni stabilitisi a Torino

risultano tendenzialmente meno informati circa l’ubicazione di consolati e ambasciata, ma quanti

dichiarano di conoscerne la sede affermano di frequentarli maggiormente rispetto a quanto potuto

registrare a Roma. Nel caso di Torino, infatti, il 24% degli intervistati dichiara di non conoscere la

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collocazione del consolato, ma il 72% di quanti la conoscono, dichiara di avere una frequentazione

media di almeno una volta all’anno. La comunità romana risulta invece maggiormente informata

sulla collocazione delle rappresentanze diplomatiche di riferimento – solo il 14% dichiara di non

sapere dove esse si trovino – ma risulta avere una frequentazione più sporadica, con circa il 60%

degli intervistati che risulta avere almeno un contatto all’anno con tali istituzioni.

II.4.2 Comportamento politico transnazionale della comunità romena di Roma

Dalle interviste somministrate a Roma emerge come i romeni qui stanziatisi ritengano di avere in

media una discreta informazione rispetto ai temi politici legati al paese di provenienza. Circa il 60%

di essi dichiara infatti di essere abbastanza o molto informato, mentre il restante 40% ritiene di

esserlo poco o per niente. Pochi di essi affermano poi di essere stati iscritti a un partito politico o a

un’associazione al momento della loro partenza per l’Italia (rispettivamente 23% e 40%), mentre

maggiore risulta il numero di iscritti a sindacati (49%). Di questi, ancor meno sono quelli che hanno

mantenuto legami diretti con tali organismi, anche se con delle differenze pure notevoli. Mentre

infatti il 70% degli iscritti a partiti politici e l’88% dei facenti parte di associazioni dichiarano di

mantenere rapporti stabili con le istituzioni di riferimento, gli iscritti a sindacati che hanno

mantenuto tale rapporto scende – data anche la natura del sindacato stesso – a circa il 33%.

Tale comunità risulta comunque abbastanza informata circa le questioni fondamentali inerenti la

vita politica del paese d’origine, sia a livello locale che nazionale. La stragrande maggioranza di

essi – con percentuali tendenzialmente comprese tra il 60 e il 70% – è infatti in grado di indicare

correttamente il nome e l’orientamento politico di amministratori locali della zona d’origine nonché

quelli del primo ministro e del capo dello Stato. Per quanto attiene ai temi politici di maggiore

interesse, il 40% degli intervistati si dichiara molto interessato a quelli legati ai rapporti tra Romania

e Italia, all’emigrazione e ai diritti dei lavoratori in patria; scarso risulta invece l’interesse per i

legami tra il paese d’origine e l’UE (il 51% si dichiara poco o per niente interessato), per i temi

economici, mentre un tiepido interesse è risvegliato dai dibattiti tra partiti politici, in particolare

durante le campagne elettorali, e dalle problematiche legate alle amministrazioni locali.

Per quanto attiene al diritto di voto all’estero, il 67% del campione dichiara di esserne titolare,

ma di questo circa il 33% - una percentuale a nostro avviso elevata – afferma di non averlo mai

esercitato o di averlo fatto in maniera sporadica, soprattutto a causa delle scarse informazioni

ricevute in merito alle modalità di espressione del voto e della lontananza delle sezioni. In ogni

modo circa il 72% degli intervistati dichiara di ritenere abbastanza o molto importante la possibilità

di esercitare il diritto di voto all’estero, mentre soltanto il 2% la ritiene di alcuna importanza e il

16% poco importante. Relativamente debole risulta invece lo svolgimento di altre attività politiche

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rivolte al paese d’origine. Il 48% degli intervistati dichiara infatti di non aver preso parte ad alcuna

di esse, il 30% di aver firmato una petizione e il 25% di aver preso parte a un corteo o a una

manifestazione. È poi interessante notare come il 12% circa dichiari di aver costituito

un’associazione politica o una sezione di partito/sindacato e, con la stessa percentuale, di aver

contribuito economicamente a progetti di sviluppo nell’area di provenienza. La partecipazione

complessiva ad attività politiche rivolte al paese d’origine risulta però relativamente scarsa. Soltanto

il 28% degli intervistati dichiara infatti di parteciparvi con una frequenza quotidiana o almeno

settimanale, mentre la grande maggioranza di essi tende a mobilitarsi solamente in occasione di

tornate elettorali o a evitare ogni forma di partecipazione attiva (42%).

Il primo canale di informazione relativamente ai temi politici romeni risulta essere la televisione

satellitare, indicata dal 58% degli intervistati, mentre il secondo canale è sorprendentemente

rappresentato dalla stampa nazionale, indicata dal 35%, che sopravanza anche internet (33%),

mentre i connazionali in patria rappresentano soltanto il quarto canale informativo (25%). Il 10%

dichiara di non essere assolutamente informato sui temi politici relativi al paese d’origine, mentre

per quanto attiene alla frequenza, circa il 53% dichiara di informarsi tutti i giorni o quanto meno

molto spesso.

Per quanto attiene alla partecipazione politica in Italia, essa risulta ancor più debole che non nel

paese d’origine. Appena il 23% degli intervistati dichiara infatti di essere iscritto a un partito

politico o a un sindacato, mentre importante risulta il fenomeno associativo, di cui dichiarano di

essere membri il 49% degli iscritti. In tale ambito va però specificato che molto spesso si tratta di

associazioni dal carattere e dall’attività assai limitati, che generalmente si occupano più di servizi di

supporto ai migranti che di vere e proprie attività a carattere politico per l’affermazione dei diritti

della comunità nel paese di destinazione o per la tutela di quelli nel paese d’origine. Per altro tali

caratteristiche hanno generato una serie di polemiche tra diverse associazioni, incentrate su presunte

irregolarità e su legami poco chiari tra associazioni e varie istituzioni romene che hanno trovato

spazio anche sulla stampa italiana e romena137.

In generale, i romeni di Roma dimostrano di avere una discreta conoscenza dei temi politici

italiani, a cui risultano essere relativamente interessati. Tra l’84% e il 91% degli intervistati è infatti

in grado di indicare correttamente i nomi del sindaco, del presidente della regione e del presidente

del Consiglio, ma soltanto il 46% sa indicarne anche l’orientamento politico. Tutti i principali temi

della vita politica italiana sembrano interessare – almeno stando ai dati raccolti – abbastanza la

comunità romena di Roma, che presta particolare attenzione, come è naturale, ai rapporti Italia-

137 Tali polemiche e link alle pagine on-line dei quotidiani che se ne sono occupati sono disponibili all’indirizzo internet http://www.romania-italia.info/portal/index.php?option=com_content&task=view&id=100&Itemid=2 (ultimo accesso 19 novembre 2008).

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Romania, ai temi legati all’immigrazione e a quelli relativi ai diritti dei lavoratori, che interessano

tutti circa il 60% del campione, e soprattutto ai temi legati alla cittadinanza, che interessa molto o

abbastanza circa il 70%. Di tale campione, soltanto il 30% dichiara di possedere il diritto di voto per

le elezioni amministrative in Italia, mentre relativamente scarsa risulta l’effettiva partecipazione; il

42% degli aventi diritto dichiara infatti di avervi partecipato almeno la metà delle volte, mentre il

restante 58% afferma di aver espresso il proprio voto a meno della metà delle tornate elettorali.

Peraltro la maggioranza degli aventi (62%) diritto ritiene di poter partecipare alle elezioni generali,

mentre soltanto il 23% dichiara di avere diritto a partecipare a tutte le tornate elettorali, siano esse

locali, generali o europee. In ogni modo il 47% ritiene che la possibilità di esprimere il proprio voto

sia molto importante e il 14% la ritiene abbastanza importante, mentre soltanto il 4% la considera

assolutamente irrilevante. Debole risulta il ricorso ad altre forme di partecipazione politica; il 48%

dichiara infatti di non aver mai preso parte ad alcuna attività, mentre il 37% ha partecipato a cortei o

manifestazioni e il 25% ha avuto contatti con partiti politici o sindacati. Il 78% dichiara poi di non

partecipare assolutamente a qualsiasi forma di attività politica, di farlo saltuariamente (1-2 volte

l’anno) o di limitarsi alle sole tornate elettorali, mentre solo il 20% afferma di farlo settimanalmente

o quotidianamente.

L’informazione sui temi politici italiani avviene in primo luogo mediante il ricorso allo

strumento televisivo (70%) e, secondariamente, mediante la stampa italiana a cui ricorre il 60%,

dunque una percentuale assai elevata. Minore risulta, ancora una volta, il ricorso allo strumento

informatico (44% tra siti italiani e nella lingua del paese d’origine). Relativamente importante

appare inoltre lo scambio di opinioni tra membri della stessa comunità, cui fa ricorso circa un

quarto degli intervistati. Importante è invece la frequenza con cui i romeni si informano sui temi

politici italiani; se il 23% degli intervistati dichiara infatti di non informarsi mai di essi, il 46% di

loro afferma di farlo con cadenza settimanale o quotidiana.

Un dato interessante è legato invece alla percezione che essi hanno della partecipazione politica.

Una percentuale elevata (37%) ritiene infatti che tale partecipazione possa essere foriera di

problemi personali, retaggio probabilmente di una mentalità affermatasi durante il passato regime e

difficile da modificare, nonostante siano ormai trascorsi 19 anni dalla rivoluzione del dicembre

1989. Il 23% ritiene inoltre che le autorità romene possano considerare in qualche modo

sconveniente una qualche partecipazione alla vita politica italiana, anche se maggioritario è il

numero di quanti ritengono invece il contrario (33%). Soltanto il 14% considera invece che le

autorità italiane possano considerare scorretta una partecipazione attiva alla vita politica del paese

d’origine, ma soltanto il 7% afferma che prendere parte ad attività politiche in Romania o per la

Romania sia in netto contrasto con l’integrazione nella società italiana. Il 30% ritiene invece che

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tale partecipazione sia perfettamente compatibile con l’integrazione del singolo e il 16% che tra le

due questioni – partecipazione politica nel/per il paese d’origine e integrazione nella società del

paese ospite – non esista alcuna relazione diretta. Il 26% degli intervistati ritiene inoltre che

prendere parte a forme di attività politica in uno dei due paesi non abbia nessuna influenza sulla

partecipazione politica nell’altro; di parere diverso è il 16% di essi, per il quale prendere parte ad

attività politiche in Italia disincentiva dal fare lo stesso anche in Romania, e soltanto il 7% ritiene

che la partecipazione in Italia stimoli una più frequente partecipazione nel paese d’origine.

In conclusione, dai dati raccolti emerge una comunità abbastanza attenta ai temi politici, che

sembra fare ricorso in maniera diffusa al fenomeno associazionistico più che a sindacati e partiti

politici, anche se tale strumento è utilizzato spesso più con finalità pragmatiche, legate alle necessità

derivanti dallo status di immigrato, che non propriamente politiche. Indubbiamente la maggioranza

degli intervistati mostra di avere una conoscenza quanto meno minima delle problematiche politiche

del paese di destinazione nonché di quello di origine, con cui si mantiene, grazie soprattutto ai

contatti diretti, un legame forte. Molto più ridotta appare invece l’effettiva partecipazione, sia nei

confronti del paese d’origine che di quello di destinazione. Per fare alcuni esempi concreti, la legge

elettorale che concede il diritto di voto ai romeni residenti all’estero per l’espressione di candidati

propri, di cui si è già parlato in precedenza, risulta essere il frutto di una iniziativa promossa dalle

autorità di Bucarest piuttosto che da pressioni esercitate dalle comunità romene all’estero, di cui

quella di Roma è probabilmente la più importante dal punto di vista quantitativo. Allo stesso modo

la campagna di immagine iniziata lo scorso 28 settembre e intitolata “Romania: un mondo da

scoprire”, è venuta da un’iniziativa del Ministero degli Affari Esteri, senza alcuna collaborazione –

almeno ufficiale – da parte di associazioni romene in Italia138. In breve sembra possibile sostenere

che i romeni della comunità di Roma mostrino una tendenza a rifiutare ogni forma di implicazione

politica, sia in relazione al paese di origine che a quello di destinazione. Anche le iniziative per la

tutela dei diritti in Italia sono generalmente lasciate alle autorità istituzionali – Ministero,

ambasciata, consolati –, senza che esista una forma concreta di partecipazione. Ciò è stato rilevato

prontamente anche dall’eurodeputato romeno Renate Weber (Partito Nazional-Liberale)

all’indomani della sua prima visita in Italia nel giugno 2008, la quale ha dichiarato:

I romeni d’Italia – un mondo complesso… un mondo numeroso e troppo poco cosciente della forza

che potrebbe rappresentare, sia per il suo numero, sia per la capacità che potrebbe avere di

influenzare gli avvenimenti. È assodato che in Italia esiste questo problema della politica, per

mezzo della quale è possibile, di fatto, influenzare il processo decisionale, e da questo punto di vista

138 Cfr. http://www.mae.ro/index.php?unde=doc&id=37013&idlnk=2&cat=4 (ultimo accesso 19 novembre 2008).

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i romeni sono inesistenti, benché vi sia un milione di persone con i documenti in regola, che

lavorano e pagano le tasse139.

L’onorevole Weber continua poi sottolineando le colpe del sistema politico italiano, che a suo

dire ha evitato di informare in maniera adeguata i romeni al momento delle ultime elezioni locali, di

modo che:

in Italia abbiamo un solo consigliere locale, cosa che ha dell’incredibile, perché sarebbero dovuti

essere almeno qualche decina, i quali sarebbero stati in grado di influenzare il cambiamento di

alcune politiche a livello amministrativo locale. Gli uomini politici italiani, d’altra parte, sono

estremamente cinici. Dal loro punto di vista, chi non porta voti non conta; e poiché i romeni non

sono, da questo punto di vista, organizzati, il milione di romeni che vive lì “non riveste interesse”…

Per altro verso, in merito all’ambiente dell’associazionismo, da diverse parti ho sentito i

rappresentanti delle associazioni di Roma ripetere che si sentono come se si trovassero nella

Romania dell’inizio degli anni Novanta, ossia hanno appena aperto gli occhi su un mondo nuovo,

alcuni hanno buone intenzioni, vorrebbero fare qualcosa, ma gli manca l’esperienza ed… è difficile

fare tutto su base volontaria140.

Come sottolinea giustamente l’europarlamentare romena, dunque, esiste una seria

organizzazione dei romeni in grado di esercitare un ruolo politico significativo a livello

transnazionale. I romeni hanno conosciuto il fenomeno migratorio soltanto da poco tempo, e

dunque è normale che manchino loro tutta una serie di esperienze organizzative in grado di

garantirgli la possibilità di esercitare in maniera efficace una qualsiasi pressione politica. Va però

notato come sia possibile individuare pure una certa disaffezione rispetto ai temi politici tout court,

registrabile non solo nella comunità romena di Roma, ma più in generale in tutto il popolo romeno,

che deriva con ogni probabilità da una “inflazione” di politica durante il passato regime comunista,

quando lo Stato totalitario tendeva a irreggimentare la popolazione in ogni sorta di istituzioni

politiche finalizzate all’irregimentazione della società civile e all’esaltazione del regime stesso e dei

suoi leaders, ma anche dal modo con cui si è realizzata la transizione – potremmo dire imperfetta –

alla democrazia e all’economia di mercato, che ha instillato nella coscienza civile dei romeni l’idea

che qualsiasi forma di partecipazione sia assolutamente inutile, poiché il risultato finale è la

mancanza di cambiamento.

II.4.3 Comportamento politico transnazionale della comunità di Torino

I romeni che compongono la comunità di Torino ritengono di essere informati in maniera

minima relativamente ai temi politici del paese di provenienza. Soltanto il 4% del campione

intervistato si dice molto informato, mentre il 44% si considera poco e il 52% abbastanza informato

139 Cfr. http://www.renateweber.eu/ro/detalii_media/65 (ultimo accesso 19 novembre 2008).140 Ibidem.

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di quanto avviene nella vita politica romena. Rispetto a quanto potuto registrare nel caso romano,

presso la comunità torinese è possibile registrare anche una scarsa partecipazione politica attiva già

dal momento della partenza. Estremamente basso è infatti il numero di quanti erano iscritti a partiti

politici (16%), sindacati (24%) e associazioni a carattere politico-sociale (12%) al momento della

partenza dalla Romania. I rapporti con tali istituzioni successivi all’inizio dell’esperienza migratoria

si sono mantenuti inalterati nel caso delle associazioni, mentre sono diminuiti sensibilmente per

quanto riguarda i partiti politici – soltanto un quarto di quanti erano iscritti dichiara di esserlo

ancora – e i sindacati – in cui la proporzione è di un terzo –. Che l’informazione politica inerente il

paese d’origine sia molto bassa e spesso solamente superficiale è indicato dal fatto che il 92% degli

intervistati conosceva il nome del sindaco della città di provenienza al momento della partenza,

mentre soltanto il 58% dichiara di conoscere l’attuale sindaco. La totalità degli intervistati afferma

poi di conoscere il nome del presidente del distretto di provenienza e di quello del primo ministro e

del presidente della Repubblica, ma di questi soltanto il 40% sa indicarne correttamente

l’orientamento politico. Il canale informativo più importante è indubbiamente costituito dalla

televisione satellitare del paese d’origine, indicata dal 64% degli intervistati, seguita dai siti internet

in lingua romena, dalla radio e dalla televisione italiana e dai connazionali in Italia (tutti al 24%),

mentre minore risulta il flusso informativo che passa attraverso i connazionali in patria (16%) e la

stampa romena (12%). Infine, soltanto l’8% degli intervistati indica il partito politico cui era iscritto

o con il quale manteneva rapporti in Romania come uno degli strumenti mediante i quali si informa

di solito sulla vita politica nel suo paese. Anche la frequenza con cui si cercano tali informazioni

risulta assai bassa. Solamente il 16% dichiara infatti di informarsi quotidianamente o almeno

settimanalmente, il 20% lo fa saltuariamente e il 44% soltanto in occasione di elezioni, mentre il

12% dichiara di non informarsi mai.

Per altro verso sono gli stessi romeni di Torino ad affermare di essere poco interessati a quanto

avviene in Romania; soltanto i temi legati ai diritti dei lavoratori e alle politiche occupazionali

sembrano risvegliare un certo interesse nel 52% degli intervistati, mentre quasi nullo sembra quello

per i rapporti tra Romania e UE, rispetto al quale il 92% del campione si dichiara poco o per niente

interessato. Neanche i rapporti tra il paese di destinazione e quello di origine sembrano avere

miglior fortuna, interessando molto soltanto il 4% del campione e abbastanza il 36%, con un

restante 60% che si dice poco o per niente interessato. Sembra dunque esistere una netta frattura tra

la comunità romena di Torino e la Romania – quantomeno per quanto attiene alle vicende politiche

di quest’ultima –, come sembra testimoniare anche il fatto che l’80% degli intervistati si dica poco o

per niente interessato ai problemi legati all’amministrazione locale della zona di provenienza e

l’88% ai dibattiti tra i partiti politici e alle campagne elettorali.

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Per quanto riguarda la partecipazione elettorale, l’84% degli intervistati dichiara di avere diritto

di voto all’estero, ma di questo soltanto il 43% afferma di averlo esercitato sempre da quando è in

Italia; una percentuale identica dichiara invece di averlo esercitato meno della metà delle volte in

cui avrebbe potuto e il restante 14% di non aver mai espresso il proprio diritto al voto da quando è

giunto in Italia. Soltanto il 12% ritiene però che tale possibilità sia molto importante; la

maggioranza degli intervistati (56%) la ritiene di una qualche importanza, ma non certo

fondamentale, mentre il 28% la considera poco importante. Degno di nota il fatto che nessuno degli

intervistati consideri la possibilità di votare per il proprio paese direttamente dallo Stato estero in

cui si è scelto di stabilirsi assolutamente inutile.

Che la partecipazione politica nei confronti del paese di provenienza sia scarsa è peraltro indicata

dagli stessi membri della comunità, che per il 60% dichiarano di non aver svolto alcuna attività

politica rivolta alla Romania dal momento del loro arrivo in Italia. Il 28% degli intervistati ha

partecipato a cortei o manifestazioni, mentre l’8% ha contribuito economicamente a progetti di

sviluppo nell’area da cui proviene. Una percentuale identica ha inoltre versato offerte in denaro per

un candidato o per un partito e ha avuto contatti con un dirigente politico o sindacale. Ci si trova

dunque di fronte a una partecipazione tutto sommato debole, come testimoniano anche gli indici

relativi alla frequenza con cui si partecipa a forme di attività politiche rivolte al paese d’origine; in

tal senso, soltanto il 12% degli intervistati vi partecipa quotidianamente o almeno settimanalmente,

il 48% lo fa soltanto in occasione delle tornate elettorali, mentre il 24% non lo fa mai.

Per quanto attiene alla conoscenza delle vicende politiche del paese di destinazione e alla

partecipazione politica, i dati raccolti sembrano suggerire una disaffezione ancora maggiore rispetto

a quanto potuto registrare nel caso della Romania. Soltanto il 4% conosce infatti molto i temi

politici italiani, mentre il 76% dichiara di non conoscerli affatto o molto poco. Anche la

partecipazione politica diretta risulta assai bassa. Partiti politici italiani e associazioni risultano

pochissimo frequentati (rispettivamente l’8% e il 4% degli intervistati vi sono iscritti), mentre un

successo maggiore registrano i sindacati, cui è iscritti o frequenta il 32% del campione, grazie

probabilmente alla forza sul territorio di tal istituzioni e alla struttura economica della città e del suo

hinterland, che favoriscono il sindacalismo rispetto ad altre forme di associazionismo; un ruolo

importante può inoltre essere giocato dalla finalità prevalentemente economica del progetto

migratorio, che porta dunque a partecipare alle attività di quelle istituzioni che più direttamente

sono legate alla difesa degli interessi dei lavoratori. La conoscenza delle vicende politiche italiane –

come già quella delle romene – risulta assai superficiale; la grande maggioranza degli intervistati

(84%) sa infatti indicare in maniera corretta il nome del sindaco di Torino, del presidente della

regione e del primo ministro italiano, ma soltanto il 24% ne conosce l’orientamento politico. Il

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canale informativo privilegiato per quanto riguarda i temi politici italiani risulta essere, ancora una

volta, la televisione satellitare del paese di origine (56%), seguita da quella italiana (32%). Il terzo

canale per importanza è rappresentato dai connazionali in patria, indicati dal 28% degli intervistati,

e da quelli in Italia (16%). Più basso è il ricorso a internet (12% siti italiani, 8% siti in romeno).

Altri canali sono poi rappresentati dai sindacati, dai partiti politici (entrambi al 4%) nonché dai

colleghi di lavoro (12%), che costituiscono dunque un canale relativamente forte di informazione.

Pochi sono i temi politici che suscitano interesse presso la comunità romena di Torino. Tra

questi, i temi legati alle politiche del lavoro e ai diritti dei lavoratori interessano molto o abbastanza

il 48% degli intervistati, mentre i rapporti Italia-Romania il 32%. Per il resto si registra in linea di

tendenza un notevole disinteresse, registrato anche in merito a temi come quello dell’immigrazione

– che non interessa più dopo l’ingresso nell’UE – e quello della cittadinanza. Il disinteresse risulta

evidente anche quando si tratta di partecipazione al voto; quasi la metà degli intervistati (48%) non

sa infatti se ha diritto o meno al voto per le elezioni italiane, il 16% afferma di non averlo e soltanto

il 36% dice di averlo; di quest’ultimo, l’89% ritiene di poter votare soltanto per le elezioni politiche

generali, mentre il restante 11% dichiara di poter votare per tutte le elezioni che si tengono in Italia.

D’altra parte anche la partecipazione al voto per le elezioni amministrative risulta assai bassa;

soltanto il 22% vi ha infatti sempre preso parte da quando ha ottenuto tale diritto, mentre il 78% si è

recato alle urne meno della metà delle volte in cui avrebbe potuto. Né sembra che tale diritto venga

considerato importante; soltanto l’8% degli intervistati ritiene infatti molto importante il possesso

del diritto di voto nel paese di destinazione, il 20% lo considera abbastanza importante mentre il

64% poco o per niente rilevante.

Anche altre forme di attività politica non sembrano risvegliare l’interesse dei romeni di Torino. Il

72% dichiara infatti di non aver mai preso parte ad alcuna attività politica riguardante la sua vita in

Italia; il 24% ha invece preso parte a cortei e manifestazioni mentre il 12% ha firmato delle

petizioni, mentre degno di nota il fatto che il 4% degli intervistati dichiari di aver costituito

un’associazione o di aver aperto delle sedi di partiti politici o di sindacati. Anche la frequenza con

cui si prende parte a forme di attività politica legate alla presenza in Italia risulta bassa. Solo il 12%

del campione lo fa quotidianamente o almeno settimanalmente, mentre il 28% dichiara di non farlo

mai e il 36% soltanto in occasione delle elezioni.

Per quanto attiene alla percezione della partecipazione politica, il 16% ritiene che essa possa

portare dei problemi personali. Il 12% considera poi che le autorità del paese di provenienza

possano considerare in qualche modo sconveniente una partecipazione alla vita politica italiana,

mentre il 40% ritiene il contrario. Soltanto l’8% considera poi che le autorità italiane possano

considerare scorretta una partecipazione attiva alla vita politica del paese d’origine. Nessuno degli

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intervistati ritiene d’altra parte che prendere parte ad attività politiche in Romania o per la Romania

sia in aperto e netto contrasto con la sua integrazione in Italia; il 12% ritiene al contrario che i due

fenomeni siano perfettamente compatibili, mentre il 60% considera che tra essi non esista alcuna

relazione. Il 4% degli intervistati ritiene poi che prendere parte ad attività politiche in Italia lo

stimoli a fare altrettanto anche in Romania, il 36% ritiene che tra la partecipazione politica in Italia

e quella in Romania non esista nessun collegamento e il 12% ritiene invece che partecipare ad

attività politiche in Italia disincentivi dal partecipare contestualmente anche in Romania.

Concludendo, la comunità romena di Torino sembra avere una scarsa predisposizione alla

partecipazione politica; abbastanza forte è il ruolo dei sindacati, mentre debole risulta quello delle

associazioni (una decina tra Torino e provincia sulle oltre settanta registrate presso l’anagrafe delle

associazioni dei romeni in Italia tenuta dall’ambasciata di Romania in Roma), che spesso hanno

carattere locale e svolgono, come nel caso romano, attività diverse non sempre direttamente

riconducibili agli obiettivi costituitivi. È probabile che tale mancanza di partecipazione sia da

imputare, oltre a quanto messo in evidenza nel caso della comunità di Roma, anche a una incertezza

in merito al progetto migratorio, ancora non definito con chiarezza, come sembra dimostrare anche

la loro parziale integrazione nella vita sociale della città in cui vivono. I romeni di Torino sembrano

non aver infatti deciso se stabilirsi in maniera definitiva in Italia o se invece tornare a casa in tempi

più o meno brevi. Il futuro, con la crisi finanziaria ed economica mondiale che si sta affacciando,

potrebbe chiarire sul da farsi, come sembra stia avvenendo in Spagna, da dove molti lavoratori

romeni rimasti disoccupati stanno tornando in patria.

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III IL CASO POLACCO. LE COMUNITÀ POLACCHE A ROMA E TORINOEwa Grzedzinska

INDICE

III.1 Dinamiche ed evoluzioni dell’immigrazione polacca in Italia

III.2 Politiche migratorie della Polonia

III.2.1 Politiche migratorie della Polonia dal dopoguerra fino alla trasformazione al 1989 del 1989III.2.2 Le istituzioni polacche come attori della politica migratoria dopo la trasformazione del 1989III.2.3 Rapporti del Senato con i Polacchi all’estero dal 1989 fino ad oggi III.2.4 Le attività del Ministero degli EsteriIII.2.5 Un nuovo progetto del governo - Ritorno

III.3 La comunità polacca in Italia: i casi di Roma e Torino.

III.3.1 La comunità polacca in Italia oggiIII.3.2 La comunità polacca a TorinoIII.3.3 La comunità polacca a RomaIII.3.4. Associazioni polacche a Roma e TorinoIII.3.5 La partecipazione politica dei polacchi in Italia: il voto all’estero del 2005 e 2007

III.4 L’indagine empirica nelle città di Roma e Torino

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Transnational Politics – a cura di G. Tintori

III.1 Dinamiche ed evoluzioni dell’immigrazione polacca in Italia

La presenza dei polacchi in Italia non è un fenomeno nuovo, ma ha le sue radici nei diversi

momenti della storia contemporanea come il Risorgimento, la seconda guerra mondiale, la guerra

fredda. Tuttora l’Italia è tra le nazioni più amate dai cittadini polacchi, seconda solo a Irlanda e

Inghilterra, come evidenziato da un recente sondaggio effettuato in Polonia141. Tuttavia, è bene

sottolineare che, diversamente dai casi di Irlanda e Inghilterra, pur restando l’Italia una destinazione

privilegiata, solo una piccola parte dei flussi migratori si dirige stabilmente verso questo paese.

La presenza di cittadini polacchi in Italia, con una forte concentrazione nella città di Roma,

segue un lungo percorso di vicende storiche e religiose, a partire dal Medioevo; ne fu conferma, nel

1578, la donazione alla nazione polacca in Italia della chiesa in via delle Botteghe Oscure a Roma,

tuttora fiorente centro della comunità pastorale polacca in Italia. Gli arrivi dei polacchi

proseguirono anche successivamente e in particolare nel corso dell’Ottocento, quando diversi

militari provenienti dalla Polonia contribuirono ai moti risorgimentali italiani.

Durante il primo conflitto mondiale nacque una delle prime pubblicazioni in polacco in Italia, il

settimanale “Żołnierz Polski we Włoszech” (“Il soldato polacco in Italia”) che si rivolgeva a circa

ventidue mila soldati prigionieri austro-ungarici di nazionalità polacca, che dal dicembre 1918 al

giugno 1919 sono transitati presso il campo di Mandria di Chivasso in Piemonte, per essere reclutati

e inviati al fronte francese142.

L’immigrazione tra le due guerre, negli anni Venti e Trenta del Novecento, fu rilevante e

coinvolse famiglie benestanti, artisti, studiosi e religiosi. In questo periodo nacquero a Roma il

Centro Studi e la Biblioteca dell’Accademia polacca delle scienze e delle lettere.

Nel periodo a noi più vicino la presenza stabile dei polacchi in Italia si realizzò a partire dalla

fine della II guerra mondiale, quando un certo numero di soldati del II° Corpo d’armata del generale

Anders preferì restare in Italia con la fine delle ostilità. I soldati polacchi venuti a combattere nella

penisola furono più di 100.000 e, con la pesante perdita di 4.000 morti e 9.000 feriti, contribuirono

allo sfondamento della “Linea gotica” e alla liberazione di Bologna. Ancora oggi vivono in Italia

alcuni di questi primi immigrati143.

Le migrazioni del dopoguerra possono essere ripartite in quatto periodi:

1. 1950-1960: si tratta di un’emigrazione di carattere prevalentemente politico. Già a partire

dal 1947 parte dei militari polacchi smobilitati preferisce trovare rifugio in Italia, trovando impiego

o iscrivendosi nelle università italiane (più di mille polacchi si immatricolarono tra il 1945 e il 141 Sympatia i niechęć do innych narodów. Centrum Badania Opinii Społecznej CBOS, Warszawa 2007.142 M. Rasiej, Ognisko Polskie w Turynie,. Piecdziesciat lat historii. La Comunità polacca di Torino, Cinquant’anni di storia, Graf. Art,. Torino 1995, p. 26143 F. Pittau, A. Ricci, Dinamiche ed evoluzoni dell’immigrazione polacca in Italia. in: K Golemo, K.Kowalska – Angelelli, F. Pittau, A. Ricci (a cura di) Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da migranti a comunitari. Centro Studi e Ricerche Idos, Roma, 2006, p. 184 – 201.

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Transnational Politics – a cura di G. Tintori

1947), pur di evitare il rientro in una patria sotto il controllo sovietico. In questo periodo in Italia

arrivano i polacchi che cercano di fuggire dall’oppressione del costituendosi regime comunista in

Polonia, arrivando spesso senza la reale intenzione di stabilirvisi, ma come tappa intermedia di un

progetto di emigrazione oltreoceano.

2. 1970-1980: l’elezione, nel 1978, di un Papa polacco, Karol Wojtyla, col nome di Giovanni

Paolo II, e la proclamazione della legge marziale in Polonia nel 1981, decisa dal regime del

generale Jaruzelski, da un lato, favoriscono l’aumento di scambi culturali e religiosi, avviando un

processo di avvicinamento e amicizia tra le due nazioni, dall’altro, producono flussi migratori in

uscita per motivi economici, determinati specialmente dalle catastrofiche conseguenze sul sistema

produttivo polacco dei provvedimenti militari. L’Italia e altri paesi d’Europa mostrarono particolare

sensibilità nei confronti dei lavoratori polacchi e del movimento sindacale di Solidarnosc e si

prestarono ad accogliere parti di popolazione dissidente e bisognosa di sostegno. Gli espatri di

quegli anni comportarono però per la Polonia la perdita di circa il 15% di docenti universitari,

medici e ingegneri.

Tab. 1.1 Emigrazione polacca a lungo termine negli anni 1981–1989 (in %)

Paese d’arrivo Emigranti definitivi Emigranti temporanei*

Germania 59,5 50,2

Stati Uniti 9,7 14,4

Italia 3,7 5,7

Austria 4,4 4,6

Francia 3,5 4,4

Grecia 0,9 3,7

Canada 3,9 2,7

Svezia 2,1 2,1

Gran Bretagna 1,4 1,8

Australia 1,6 0,7

Altri Paesi 9,3 9,7

Totale % 100,0 100,0

Totale v.a. (in migliaia) 248,5 533,0

Fonte: B. Sakson, Wplyw “niewidzialnych”migracji zagranicznych lat osiemdziesiatych na struktury demograficzne Polski, in „Monografie i opracowania481”, Szkola Glowa Handlowa, Warszawa, 2002.* Le persone che lasciarono la Polonia dopo il 01.04.1981 ma non oltre il 06.12.1988 e non ritornarono in Polonia prima che fossero passati 12 mesi dal momento della partenza

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Transnational Politics – a cura di G. Tintori

Secondo i dati ufficiali dell’ufficio statistico polacco (Glowny Urzad Statystyczny), nel corso

degli anni 1981–1989 sono emigrati definitivamente 248.500 e temporaneamente altri 533.000

Polacchi. Il 3,7% del totale degli emigranti polacchi definitivi e il 5,7% di quelli temporanei

scelsero l’Italia come paese d’arrivo. Ciò colloca l’Italia al terzo posto tra i paesi di destinazione

dell’emigrazione polacca di quel periodo. È stato questo, quindi, un periodo storico di forte

contrapposizione all’area di influenza sovietica, che ha sortito come effetto anche quello di

provocare i flussi migratori più intensi. Come detto, esuli politici e popolazione civile vennero

accolti in modo favorevole dalla popolazione europea occidentale. In particolare, in Italia si mise in

moto una rete di solidarietà e di accoglienza di matrice cattolica.

Negli anni Ottanta l’immigrazione polacca in Italia ha avuto come causa prevalente motivi

politici e non è stata particolarmente significativa. Inoltre, la maggior parte dei soggiorni degli

immigrati polacchi in Italia era di breve durata, poiché era loro intenzione utilizzare la tappa italiana

come territorio di transito verso altre destinazioni finali. La situazione cambia definitivamente dopo

il 1989, quando fa la sua comparsa il fenomeno dell’emigrazione per motivi di lavoro. Con il

cambiamento del carattere dell’emigrazione cambia anche il profilo dell’immigrato stesso - si nota,

soprattutto, l’abbassamento del livello di istruzione di chi emigra, tornato a salire solo in tempi

recenti, in seguito all’adesione della Polonia all’ Unione Europea.

3. 1990: sono gli anni della caduta del sistema socialista. Nel 1989 la Polonia è già investita

da una lunga e difficile fase di transizione, che la porterà dall’economia socialista a quella di

mercato. In questo periodo, si assiste a un incremento deciso della consistenza dei flussi migratori

in uscita, che coinvolgono anche emigranti con un livello d’istruzione più basso. Nella maggior

parte dei casi si tratta di progetti migratori, nelle intenzioni iniziali, di breve o medio termine. Con

la caduta del muro di Berlino, dunque, inizia una fase qualitativamente e quantitativamente diversa

dei flussi verso l’Italia, che si caratterizzano per essere prodotti da motivazioni prevalentemente

economiche e non più politiche. Nel momento in cui gli ex paesi comunisti si aprono all’economia

di mercato, infatti, si registra contemporaneamente un aumento del costo della vita e della

disoccupazione. Ancora oggi in Europa dell’Est, i livelli salariali sono notoriamente più bassi: il

costo medio di un’ora di lavoro nei Paesi dell’ex blocco sovietico è, infatti, di 3,47 euro, contro una

media di 22,19 nella UE. Alla luce di queste considerazioni, risulta ovvio che i flussi migratori

abbiano assunto i connotati di un vero e proprio esodo. L’Italia, poi, mostrò una predisposizione

particolare verso gli ingressi di Polacchi, quando, nel 1991, li incluse nelle categorie di nazionalità

esonerate dall’obbligo di visto per motivi turistici.

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Transnational Politics – a cura di G. Tintori

Tab. 1.2 Popolazione polacca soggiornante in Italia, anni 1991-2006 (al 31 dicembre)

AnnoPermessi di soggiorno

M F MF1991 5.382 6.757 12.139

1992 4.234 6.256 10.490

1993 4.495 7.224 11.719

1994 4.490 7.910 12.400

1995 4.896 9.059 13.955

1996 8.276 14.887 23.163

1997 7.452 15.486 22.938

1998 7.177 16.081 23.258

1999 8.694 20.784 29.478

2000 8.844 21.575 30.419

2001 9.190 23.699 32.889

2002 9.698 25.282 34.980

2003 16.075 48.837 64.912

2004 17.743 48.038 65.511

2005 20.153 52.938 73.191

2006 22.451 56.479 78.930 Fonte: Elaborazioni proprie sui dati ottenibili sul sito: www.istat.it

La dinamica della presenza dei polacchi soggiornanti in Italia segue il trend evidenziato in Tab.

1.2. Si osserva una diminuzione nel 1992, quando probabilmente molte persone che avevano

approfittato della regolarizzazione avvenuta nel 1990, avendo dopo perso il lavoro, non sono

riuscite a trovarne uno nuovo o comunque non un’attività in regola, senza quindi le condizioni per

poter rinnovare il permesso di soggiorno. La popolazione polacca raddoppia il suo numero nel

1996, a seguito della regolarizzazione dell’anno precedente. Un anno dopo, nel 1997, il numero dei

polacchi soggiornanti in Italia di nuovo cala, probabilmente ancora, come nel 1992, a causa

dell’impossibilità di rinnovare il permesso.

4. 2000: l’inizio del nuovo secolo rappresenta un grande cambiamento nelle prerogative delle

migrazioni dalla Polonia. Il processo di adesione formale all’Unione Europea vede

progressivamente trasformare i lavoratori polacchi da extracomunitari in neocomunitari. In questo

periodo, alle migrazioni per motivi economici, si affiancano gli spostamenti per esigenze di studio,

di scambi culturali, di perfezionamento della formazione. Dopo l’entrata della Polonia nell’Unione

Europea (maggio 2004), si è innestato un meccanismo migratorio di tipo inedito, costituito

sostanzialmente da giovani, interessati a spostarsi in Italia non soltanto per motivi economici, ma

anche per studiare, realizzare esperienze lavorative, imparare la lingua, conoscerne la cultura e le

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Transnational Politics – a cura di G. Tintori

tradizioni. Tuttavia, le difficoltà dell’economia polacca permangono. La Polonia, con circa 39

milioni di abitanti, continua a confrontarsi con seri problemi occupazionali: nel 2005 si è registrato

un tasso di disoccupazione del 17,7% e il paese è stato classificato nello stesso anno al 24° posto fra

tutti i membri dell’UE-25 per Pil pro-capite. L’emigrazione intraeuropea per motivi di lavoro si

mantiene comunque a livelli considerevoli144.

Per quanto riguarda le statistiche, alla fine del 2002, a seguito della nuova regolarizzazione, la

precedente presenza dei cittadini polacchi soggiornati in Italia è raddoppiata, così che al 31

dicembre 2003 i polacchi registrati come soggiornanti sono 65.847. Secondo una stima del “Dossier

Caritas/Migrantes” alla stessa data la presenza effettiva è stata, però, di 80.000 persone. A distanza

di altri due anni (31 dicembre 2005), i soggiornanti registrati dal Ministero dell’Interno si portano a

72.229: aggiungendo a tale numero almeno 10.000 minori e circa 25.000 stagionali, presenti per un

periodo massimo di nove mesi, si arriva alle 100.000 unità. La Polonia è così, fino all’ingresso della

Romania nell’Unione Europea (2007), il primo Stato membro per numero di presenze in Italia,

paese che dunque accoglie la più alta presenza polacca dopo la Germania. Nel 2005 sono entrati in

Italia 24.149 lavoratori polacchi, di cui la maggior parte per lavori stagionali. Se si tiene conto

anche dei familiari, si può ipotizzare in Italia un flusso annuale di 10.000 polacchi per inserimento

stabile.

Tab. 1.3 Popolazione polacca residente in Italia negli anni 2002-2006 (al 31 dicembre)

AnnoIscrizioni in anagrafe

M F MF

2002 8091 21881 29972

2003 10557 29757 40314

2004 13307 37487 50794

2005 16512 44311 60823

2006 20516 51941 72457Fonte: Elaborazioni proprie sui dati ottenibili sul sito: www.istat.it

Il notevole scarto tra soggiornanti e residenti - quasi un terzo in meno, con 50.794 iscritti in

anagrafe al 31 dicembre 2004 contro 65.511 soggiornanti - potrebbe indicare la tendenza di una

parte non trascurabile di polacchi a interpretare la loro permanenza in Italia come temporanea, per

cui non si ritiene utile o necessario registrare la propria residenza. A maggior ragione dopo

l’ingresso nella UE, quando i rimpatri diventano relativamente agevoli.

Al momento dell’adesione della Polonia nell’Unione Europea, molti stati membri hanno adottato

un regime di moratoria degli ingressi per ragioni di lavoro dei cittadini neocomunitari. Anche

144 K. Kowalska-Angelelli, Polscy imigranci we Włoszech. Trendy migracyjne, rynek pracy i system zabezpieczenia społecznego przed i po 1 maja 2004. Working Paper No 17/75, Centre of Migration Research, University of Warsaw, 2007 e F. Pittau, A. Ricci, op. cit.

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l’Italia aveva adottato misure simili, limitando così il numero di cittadini polacchi. Tuttavia, da

quando nel settembre 2006 è giunto a scadenza il termine della moratoria, l’Italia si è candidata

come meta significativa dell’emigrazione polacca, sia per impieghi stagionali o temporanei, sia per

inserimenti di tipo permanente.

Allo stato attuale, dunque, la comunità polacca incide per il 3% sull’intera popolazione

immigrata, è notevolmente inferiore numericamente a quelle provenienti dalla Romania,

dall’Albania e dal Marocco, di poco inferiore a quelle dell’Ucraina e delle Filippine, superiore a

quelle di Tunisia, Stati Uniti e Senegal, paesi compresi nella graduatoria dei primi dieci.

All’incirca un quinto del totale della presenza polacca si concentra nella regione Lazio e

nell’area metropolitana di Roma. Le altre regioni con il maggior numero di immigrati polacchi sono

l’Emilia Romagna, la Campania, le Marche e la Lombardia. Oltre alle province di Roma, Napoli e

Bologna, altre province con un consistente numero di polacchi sono Perugia, Firenze, Modena,

Ravenna, Caserta e Salerno. Si tratta, comunque, di una comunità presente in tutta Italia, anche

nella poco popolosa Sardegna, dove i polacchi sono meno di mille, ma vantano una presenza di

vecchia data, che risale all’inserimento di tecnici minerari a Silius.

Tab. 1. 4 - Dati riassuntivi presenza dei polacchi al 2005

Fonte: K. Golemo, K. Kowalska –Angelli, F. Pittau, A. Ricci (a cura di) Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da migranti a comunitari. Centro Studi e Ricerche Idos, Roma 2006.

III.2 Politiche migratorie della Polonia

III.2.1 Politiche migratorie della Polonia dal dopoguerra fino alla trasformazione al 1989 del

1989

Già all’inizio del XIX secolo la Polonia è caratterizzata da ingenti flussi in uscita, tanto che il

Paese diventa uno dei più importanti bacini di emigrazione europei. Secondo le stime, nel periodo

1860 -1940 dalla Polonia emigrarono 5 milioni di persone, di cui solo il 20–30 percento fece ritorno

in patria145.

145 Kaczmarczyk P., Migracje zarobkowe Polakow w dobie przemian, wydawnictwo Uniwersytetu Warszawskiego, Warszawa 2005, p.111.

Residenti 50 794Soggiornati 72 229Stima Dossier Caritas 100 000Incidenza su pop. Straniera 3 %Flussi lavorativi annuali 25 000Flussi di inserimento stabile 10 000% polacchi in provincia Roma 24 %

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La fine della guerra e il trattato di Jalta, che ha definito il nuovo ordine per la Polonia, hanno

avuto conseguenze di vitale importanza per i processi migratori dei 50 anni successivi. Il primo

fattore che ha determinato soprattutto le migrazioni del periodo immediatamente successivo alla

guerra, ma che ha avuto ripercussioni anni dopo, è stato il cambiamento dei confini. In seguito a ciò

e in virtù degli accordi di Potsdam, più di 3 milioni di tedeschi hanno dovuto lasciare la Polonia.

Nello stesso tempo 1,5 milioni di persone sono rimpatriate dai territori dell’Unione Sovietica146.

La società polacca dopo la seconda guerra mondiale viene definita in letteratura “società

dispersa”. La dispersione è l’effetto delle migrazioni avvenute durante la guerra (volontarie e

forzate) e anche delle migrazioni del dopoguerra causate dallo spostamento dei confini. Si stima,

che al termine della seconda guerra mondiale il 20 percento della popolazione polacca, cioè circa 5

milioni di persone, soggiornasse oltre i confini della Polonia. Secondo le stime147 sul finire della

seconda guerra mondiale, erano circa 2 milioni e mezzo i Polacchi che dimoravano nei territori

della Germania e degli altri paesi dell’Europa occidentale. La maggior parte di essi fece ritorno in

Polonia prima del 1950; mentre si stima che all’ovest rimasero 100.000 soldati e 400.000 civili

polacchi.

“Il polacco dell’anno 1945 è un polacco viaggiante” (Kersten, 1986, p. 132 ). Le mobilità del

secondo dopoguerra possono essere divise in:

Mobilità causate dai cambiamenti delle frontiere

Rimpatri e migrazioni di ritorno

Migrazioni interne – connesse con popolamento/insediamento delle Terre Riconquistate

(Ziemie Odzyskane).

Un tratto comune a tutte e tre i tipi di mobilità è che attraverso di esse, lo stato polacco

perseguiva un obiettivo politico, strategico e ideologico: concentrare sulle terre della Polonia

individui di nazionalità polacca ed espellere altre nazionalità, in particolare cittadini tedeschi,

bielorussi e ucraini.

Nel lustro 1945–1950 rientrarono ancora in Polonia 1.240.000 polacchi circa – secondo le stime

tale stock coinciderebbe con il 50 percento della popolazione polacca allora residente nei territori

delle confinanti repubbliche sovietiche. Nello stesso periodo dalla Polonia furono espulse 480.000

mila persone di nazionalità ucraina e 36.000 di nazionalità bielorussa148.

Per quanto riguarda la popolazione tedesca residente nei territori divenuti polacchi in seguito ai

trattati di pace, 4-5 milioni di essi si erano già rifugiati in territorio tedesco ancora prima della fine

146 Stola.D., Migracje przymusowe w historii Europy Srodkowej (XIX-XXw.), seria”Migracje i Spoleczenstwo 1”, Instytut Historii PAN, Warszawa, 1995. 147Kaczmarczyk P., Migracje zarobkowe Polakow w dobie przemian, wydawnictwo Uniwersytetu Warszawskiego, Warszawa 2005, p.114.148 Ibidem, p.113.

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Transnational Politics – a cura di G. Tintori

della guerra. Altri 3.100.000 circa furono soggetti a procedure di espulsione, che si estesero fino al

1947.

Dopo le mobilità di massa del dopoguerra le politiche migratorie della “Polonia popolare”

(Polska Ludowa) subirono un cambiamento drastico. Tra il 1949 e il 1953, gli espatri furono

progressivamente ridotti al minimo, specialmente quelli diretti verso gli stati appartenenti al blocco

occidentale, fino ad arrivare a un vero e proprio blocco.

Oltre il cambiamento dei confini, un altro fattore che ha determinato per lunghi anni la

dimensione dell’emigrazione polacca è stato il fatto che la Polonia è rimasta sotto l’influenza della

Russia e ha dovuto subire le conseguenze delle trasformazioni del regime. Le autorità polacche di

quel periodo hanno cercato di conquistare il controllo assoluto su tutti gli elementi della vita sociale.

Uno di quegli elementi particolarmente importanti dal punto di vista della dottrina ideologica è stato

lo spostamento dei cittadini oltre i confini dello Stato. Quasi fino alla fine degli anni Ottanta non

solo il volume del flusso migratorio, ma qualsiasi tipo di viaggio all’estero, è stato regolato dalle

autorità centrali oppure dai loro equivalenti locali attraverso una determinata politica relativa al

rilascio dei passaporti.

Dagli anni Cinquanta fino al 1988 tutte le questioni connesse alle partenze dei cittadini polacchi

verso l’estero furono di competenza degli “Uffici Passaporti”. Secondo la legge sui passaporti del

1959, ogni cittadino aveva teoricamente diritto a ottenere il documento necessario all’espatrio.

Tuttavia, la stessa legge stabiliva i diversi motivi per cui l’Ufficio Passaporti poteva negare il

rilascio di tale documento. Tra questi motivi si faceva genericamente riferimento a non meglio

precisate “ragioni sociali”149. Fu questo la motivazione più utilizzata dagli uffici per rifiutare i

passaporti senza l’obbligo di fornire una vera giustificazione.

La prima parte degli anni Cinquanta è stato definita nella letteratura come un periodo di “Grande

Chiusura”150. Le autorità statali hanno cercato di limitare qualsiasi genere di contatto internazionale

da parte dei propri cittadini, impedendo in particolare i viaggi individuali all’estero.

Tab.2.1 Emigrazione dalla Polonia negli anni 1951-1989 (in migliaia)

Anno Numero

emigrati

Anno Numero

emigrati

Anno Numero

emigrati

Anno Numero

emigrati

1951 1,6 1961 20,2 1972 19,1 1982 32,1

1953 2,8 1963 20,0 1973 13,0 1983 26,2

1954 3,8 1964 24,2 1974 11,8 1984 17,4

1955 1,9 1965 28,6 1975 9,6 1985 20,5

149 Dziennik ustaw nr 36, 1959, s. 459. (Gazzeta ufficiale)150 Stola D., Miedzynarodowa mobilnosc zarobkowa w PRL, in Jazwinska E. Okolski M.(red.), Ludzie na hustawce. Migracje miedzy peryferiami Polski i zachodu., Scholar, Warszawa, 2001.

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1956 21,8 1966 28,8 1976 26,7 1986 29,0

1957 133,4 1967 19,9 1977 28,9 1987 36,4

1958 139,3 1968 19,4 1978 29,5 1988 36,3

1959 37,0 1969 22,1 1979 34,2 1989 26,6

1960 28,0 1970 14,1 1980 22,7

Fonte: Jazwinska E., Emigrazione dalla Polonia nel XIX e XX secolo: continuità e cambiamenti, in K Golemo, K.Kowalska – Angelelli, F. Pittau, A. Ricci (a cura di) Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da migranti a comunitari. Centro Studi e Ricerche Idos, Roma, 2006, pp.36-50.

Dopo la morte di Stalin, nel 1953, le barriere agli espatri cominciarono a essere rimosse e le

politiche migratorie si fecero via via meno restrittive. In Polonia si è verificata una crescità

dell’emigrazione. Negli anni 1957 e 1958 si è registrato un aumento dell’emigrazione senza

precedenti. Si tratta soprattutto dell’emigrazione verso la Germania; una seconda ondata

dell’emigrazione del dopoguerra interrotta durante il periodo stalinista. Questo flusso migratorio è

stato possibile grazie alla delibera del Comitato centrale del Partito Operaio Unificato Polacco del

1957, che ha consentito l’espatrio allo scopo di ricongiungimento familiare. Negli anni 1956-1959

oltre 250.000 persone sono emigrate in entrambe le repubbliche tedesche151.

Anche le migrazioni oltreoceano vengono riprese dopo la guerra. Il numero degli emigrati in

Stati Uniti, Canada e Australia cresce sistematicamente.

Nella seconda parte degli anni Cinquanta si intensifica l’emigrazione anche verso Israele dove

dal 1955 al 1960 si spostano oltre 50.000 persone. L’intensità di questa migrazione si spiega con la

significativa presenza di ebrei tra le persone rimpatriate dall’Unione Sovietica. Per molti di loro

l’arrivo in Polonia è stato solo il primo passo dell’emigrazione verso altri paesi 152.

Come si vede nella tabella 1.1. il disgelo del 1956 ha prodotto un aumento generale dei viaggi

all’estero. Gli anni Sessanta, definiti nella storia della “Repubblica Polacca Popolare” come un

periodo di piccola stabilizzazione, anche per quanto riguarda i processi migratori sono caratterizzati

per una relativa stabilità, soprattutto per quanto riguarda l’emigrazione definitiva. Durante quel

decennio circa 20.000 persone all’anno sono emigrate dalla Polonia (vedi tabella 2.1).

Il ricambio delle autorità politiche alla fine degli anni Settanta ha aperto un nuovo periodo della

storia della Repubblica Popolare Polacca, chiamata “l’epoca di Gierek”. Due fattori di natura

politica hanno condizionato le principali tendenze delle migrazioni negli anni Settanta. Il primo è

stato quello della normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Federale Tedesca, che ha aperto la

151 Jazwinska E., Emigrazione dalla Polonia nel XIX e XX secolo: continuità e cambiamenti, in K Golemo, K.Kowalska – Angelelli, F. Pittau, A. Ricci (a cura di) Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da migranti a comunitari. Centro Studi e Ricerche Idos, Roma, 2006, pp.36-50.152 Iglicka – Okolska K. Analiza zachowan migracyjnych na podstawie wynikow badania etnosondazowego migracji zagranicznych w wybranych regionach Polski w latach 1975-1997, „Monografie i opracowania 438, SGH, Warszawa, 1998.

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possibilità dell’espatrio definitivo in Germania a tanti cittadini polacchi. Il secondo fattore, invece, è

stata la relativa liberalizzazione nel rilascio dei passaporti e l’apertura della Polonia all’Ovest.

L’accordo tra la Polonia e la RFT firmato nel dicembre 1970 ha reso possibile l’emigrazione in

Germania ai cittadini polacchi che dimostravano “un’appartenenza indiscutibile alla nazione

tedesca”, ai membri di famiglie separate, alle famiglie miste in cui predominava il “senso

dell’identità nazionale tedesca”153. I criteri definiti in modo così impreciso hanno fornito alla

popolazione indigena polacca l’opportunità di emigrare, il che ha avuto un ruolo cruciale nel

deflusso migratorio nella RFT negli anni Settanta.

L’altro fattore che ha favorito le migrazioni degli anni Settanta è stato l’apertura della Polonia

all’Occidente. Si è trattato sia dell’intensificazione dei contatti commerciali ufficiali sia della

liberalizzazione di regole relative ai viaggi dei polacchi all’estero. Questa liberalizzazione ha creato

oltretutto la possibilità di spostamenti all’interno del blocco socialista permettendo di oltrepassare le

frontiere senza il passaporto.

A partire dagli anni Ottanta i flussi in uscita dei polacchi ricominciarono ad acquisire carattere di

massa. I processi migratori hanno raggiunto una scala inosservata dai tempi del primo periodo del

dopoguerra Tra il 1980 e il 1989 emigrano dalla Polonia 1.100.000-1.200.000 persone e quasi

altrettante lasciano il paese temporaneamente per almeno più di due mesi e meno di un anno154.

I fattori che hanno provocato le migrazioni in questa scala sono stati due:

1. crisi del sistema politico rappresentato dagli avvenimenti seguiti alla nascita del movimento

sindacale Solidarnosc e dall’introduzione della legge marziale;

2. crisi dell’economia – gli anni Ottanta sono stati il periodo della sempre più percepibile crisi le cui

origini risalgono alla fine del decennio precedente.

I due gruppi di fattori hanno predisposto le basi per i due tipi di emigrazione:

1. emigrazione politica, che è stata una risposta alle repressioni eseguite dalle autorità dello Stato, in

particolare dopo l’introduzione della legge marziale;

2. emigrazione economica, una fuga provocata dalla mancanza di prospettive e di possibilità di

acquisire di un minimo di stabilità.

Va osservato che la differenziazione di quei due flussi migratori dalla Polonia ha comportato

grandi difficoltà. Non vi è dubbio che la gran parte degli emigrati, che ha chiesto asilo politico nei

153 Jazwinska E., Emigrazione dalla Polonia nel XIX e XX secolo: continuità e cambiamenti, in K Golemo, K.Kowalska – Angelelli, F. Pittau, A. Ricci (a cura di) Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da migranti a comunitari. Centro Studi e Ricerche Idos, Roma, 2006, pp.36-50.154 Okólski M., Statystyka imigracji w Polsce. Warunki poprawności, ocena stanu obecnego, propozycje nowych rozwiązań , Prace Migracyjne nr 2, ISS UW, Warszawa 1997

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Transnational Politics – a cura di G. Tintori

Paesi occidentali, ha approfittato dell’atmosfera favorevole ai rifugiati polacchi e ha voluto

legalizzare il proprio soggiorno nel Paese d’arrivo per ragioni anche economiche155.

III.2.2 Le istituzioni polacche come attori della politica migratoria dopo la trasformazione del

1989

Secondo le stime dell’anno 2007 effettuate dalle associazioni degli emigrati polacchi presenti in

tutto il mondo156, il numero dei Polacchi e delle persone provenienti dalla Polonia all’estero si

colloca tra 14 e 17 milioni (alcune fonti parlano anche di 21 milioni) e quindi ammontano al 35-

40% della popolazione presente in Polonia. Secondo queste stime, le più grandi comunità di

Polacchi all’estero si trovano negli Stati Uniti, in Germania, Brasile, Francia, Canada, Bielorussia,

Ucraina, Lituania e Gran Bretagna.

Tab. 2.2 La comunità polacca all’estero divisa per i paesi di residenza

Paese Nr di persone Paese Nr di

persone Paese Nr di persone

Afganistan 100 Indonesia 100 Panama 200

Albania 50 Iraq 100 Papua Nuova Guinea 20

Algeria 250 Iran 100 Paraguay 10 000Andora 10 Irlanda 80 000 Pakistan 50Angola 50 Islanda 7 000 Perù 5 000Arabia Saudita 100 Israel 4 000 Portogallo 3 000

Argentina 450 000 Giappone 600 Repubblica del Sud Africa 35 000

Armenia 1 200 Yemen 50 Russia 300 000Australia 200 000 Giordania 250 Romania 10 000Austria 55 000 Camerun 100 Ruanda 100Azerbaigian 1 000 Canada 900 000 Senegal 100

Bahrain 130 Kazakhstan 100 000 Serbia i Montenegro 1 200

Bangladesh 20 Kenia 100 Singapore 200Belgio 70 000 Kirgistan 1 400 Slovacca 10 000Bielorussia 900 000 Columbia 3 000 Slovenia 200

Bolivia 500 Congo 100 Stati Uniti 10 600 000

Bosnia e Erzegovina 350 Corea Sud 100 Sudan 100

Brasile 1 800 000 Corea Nord 11 Syria 600

Bulgaria 2 600 Costarica 200 Svizzera 20 000Chile 10 000 Cuba 150 Svezia 100 000Cina 300 Kuwait 250 Tagikistan 2 000

155 Jazwinska E., Emigrazione dalla Polonia nel XIX e XX secolo: continuità e cambiamenti, in K Golemo, K.Kowalska – Angelelli, F. Pittau, A. Ricci (a cura di) Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da migranti a comunitari. Centro Studi e Ricerche Idos, Roma, 2006, pp.36-50.156 Stime citate anche nelle pubblicazioni ufficiali del governo, per es. sito www.poland.gov.pl e sul sito ufficiale del Senato.

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Croazia 2 400 Libano 700 Thailandia 100Cipro 500 Libia 350 Taiwan 100Repubblica Ceca 100 000 Liechtenstein 10 Tanzania 100Danimarca 20 000 Lituania 300 000 Tunisi 500Santo Domingo 100 Lussemburgo 3 000 Turchia 1 000Egitto 600 Lettonia 75 000 Turkmenistan 5 000Ecuador 100 Macedonia 600 Uganda 100Estonia 5 000 Madagascar 80 Ucraina 900 000Etiopia 100 Malesia 100 Uruguay 10 000Finlandia 5 000 Malta 30 Uzbekistan 5 000Filippine 100 Marocco 500 Vaticano 50

Francia 1 050 000 Mauritania 100 Venezuela 4 000

Ghana 100 Messico 10 000 Ungheria 20 000Grecia 50 000 Moldavia 10 000 Gran Bretagna 500 000Georgia 6 000 Monaco 100 Vietnam 100Guyana 100 Mozambico 10 Italia 100 000

Guatemala 100 Germania 2 000 000 Costa d’Avorio 100

Spagna 45 000 Nicaragua 100 Zambia 100Olanda 60 000 Nigeria 100 Zimbabwe 800Honduras 100 Norvegia 18 000 Emirati Arabi Uniti 3 000

Indie 100 Nuova Zelanda 6 000

Fonte: www.poland.gov.pl

Possiamo presumere, che tutte queste persone, che o hanno la cittadinanza polacca oppure, anche

non avendola, sono interessate a mantenere i contatti con la Polonia, il paese dei loro antenati,

rappresentano il potenziale interesse delle politiche emigratorie polacche.

A questo punto bisogna porsi la domanda: ma tali politiche esistono? La risposta, ripetuta spesso

nelle ricerche scientifiche riguardanti le politiche migratorie e anche nei resoconti giornalistici è

negativa. Anche se gli attori della vita politica sono sempre più interessati a questo argomento, tali

politiche in Polonia non esistono ancora.

Il fatto della mancata esistenza di tale politiche stupisce ancora di più quando si va ad analizzare

i dati ufficiali riguardanti le migrazioni. Il grafico 2.1 mostra il saldo migratorio nel paese per il

periodo 19902006. Come si può vedere, il numero della popolazione emigrata è molto più alto

rispetto a quella immigrata verso la Polonia.

Graf. 2.1 Emigrazione dalla e immigrazione per la Polonia negli anni 1990 - 2006

134

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Emigrazione dalla e immigrazione per la Polonia negli anni 1990-2006 (in migliaia)

18,421

18,121,3

25,9 26,321,3 20,2 22,2 21,5

26,923,3 24,5

20,8 18,922,2

46,9

2,65 6,5 5,9 6,9 8,1 8,2 8,4 8,9 7,5 6,6 6,6 7

9,5 9,4 10,87,3

05

101520253035404550

1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006

Emigrazione dalla Polonia Immigrazione per Polonia

Fonte: Elaborazione propria alla base dei dati pubblicati in The 2007 SOPEMI Report for Poland.157

Tuttavia, a livello di discorso e politiche pubblice, si assite a un paradosso. In Polonia la politica

migratoria, per tutto il passato, sopratutto nel periodo tra prima e seconda guerra mondiale e anche

negli anni Settanta e Ottanta, è sempre stata associata con l’emigrazione dal paese. Il motivo di tale

situazione risiede nelle dimensioni del fenomeno nei periodi citati. Per esempio, secondo Andrzej

Sakson, negli anni 1918-1938, sono emigrate 2.100.000 persone circa158. Gli anni Novanta, però,

hanno introdotto un cambiamento epocale. Da allora, infatti, la politica migratoria viene associata

unicamente con la politica verso gli immigrati. Nella maggior parte delle pubblicazioni e dei

dibattiti pubblici di questo periodo, come si ricava anche dall’analisi delle sedute della Camera

dedicate alla deliberazione sulla legge sugli stranieri svoltesi negli anni 1997, 2001 i 2003159, il

termine politica migratoria diviene sinonimo di politica immigratoria. La politica migratoria viene

definita come l’insieme di regole e leggi applicate verso gli stranieri presenti nel territorio polacco.

In particolare, si fa riferimento alle politiche di controllo di ingressi nel paese, di regolamentazione

del mercato del lavoro e di integrazione degli stranieri nella società.

Di conseguenza, i principali interventi legislativi hanno riguardato gli immigrati: leggi sugli

stranieri (Gazzetta Ufficiale del 26 settembre 1997 r. Nr 114 art. 739), legge sulla tutela degli

stranieri residenti nel territorio della Repubblica della Polonia (Gazzetta Ufficiale del 13 giugno

2003 r. Nr 128 art. 1175), la legge sul rimpatrio (Gazzetta Ufficiale del 2004 r. Nr 53, art. 532).

157 Bisogna annotare che le statistiche polacche riguardanti le migrazioni sono molto imprecise. La mancanza degli strumenti adeguati per misurare le migrazioni porta alla distorsione dei dati rispetto alla realtà. (vedi Okólski M. Statystyka imigracji w Polsce. Warunki poprawności, ocena stanu obecnego, propozycje nowych rozwiązań [Immigration statistics in Poland. Conditions for credibility, the review of the subject, the proposals for the new solutions]. Warsaw: Center of Migration Research, Warsaw University).158 Sakson A. Migracje w XX wieku, in M.Salomon, J.Strzelczyk (a cura di.), Wędrówka i etniogeneza w starożytności i w średniowieczu, Wydawnictwo Uniwersytetu Jagiellońskiego, Kraków, 2004 s: 441-456159 Raport w sprawie polityki migracyjnej państwa, IPiSS UW, 2002, www.ipiss.com.pl/teksty/raport.doc.

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Transnational Politics – a cura di G. Tintori

Ma si può rischiare l’affermazione che dopo gli anni della chiusura fino al 1989 la Polonia ha

silenziosamente adottato politiche di promozione dell’emigrazione? L’emigrazione non è stata mai

dichiarata dal governo polacco come lo strumento per combattere la disoccupazione. Comunque in

materia di emigrazioni per lavoro, il governo polacco ha promosso diverse attività mirate a

consentire o facilitare ai cittadini polacchi di intraprendere un lavoro all’estero. Secondo i dati del

Ministero del Lavoro e politiche sociali del 2002, la Polonia ha storicamente firmato almeno 14

accordi bilaterali in questo ambito160. Uno di questi accordi risale al 1980 (con la Libia), tutti gli

altri invece appartengono al periodo dopo il 1989. Alcuni di loro hanno un background piuttosto

ideologico, poiché appartengono alle politiche di creazione di un buon clima di vicinato, pur non

portando a grandi possibilità occupazionali per i cittadini polacchi: quello con la Russia del 15

marzo 1994, con l’Ucraina del 16 febbraio 1994, oppure con la Bielorussia del 27 settembre 1995.

Altri accordi invece, che comunque riguardano soprattutto i lavoratori stagionali oppure i

trainees, hanno consentito di intraprendere un lavoro ben remunerato a tanti cittadini polacchi. I più

importanti sono quelli stipulati con la Germania del 1990 e 1994 (per i lavoratori polacchi

stagionali, che non prevedevano un tetto massimo nel numero dei permessi), con la Francia del

1990, il Belgio del 1990, la Svizzera del 1994, il Lussemburgo del 1996 e con la Spagna del 2002.

Solo l’accordo con la Germania, e poi quello con la Spagna, non prevedevano dei limiti nel numero

dei lavoratori polacchi, gli altri accordi sopraelencati riguardavano rispettivamente da 30 (il caso di

Lussemburgo) fino a 1000 persone (accordo con la Francia) all’anno.

Anche la posizione della Polonia durante le negoziazioni nell’ambito dei flussi del capitale

umano prima dell’entrata in UE può far pensare all’esistenza di specifiche politiche a favore

dell’emigrazione. La possibilità d’intraprendere l’occupazione all’estero è stata presentata, nel

discorso mediatico in Polonia durante il periodo di negoziazioni, come uno dei più importanti

vantaggi dell’adesione all’UE e i periodi di transizione imposti da alcuni Paesi sono stati spiegati

come un inevitabile accordo con l’opinione pubblica di questi Paesi impaurita dall’apertura

immediata del mercato del lavoro.

A partire dal 2002 sono emersi anche segnali che esperti e politici hanno cominciato a concepire

la politica migratoria in modo più ampio, includendo nelle loro analisi o proposte sia i processi

d’immigrazione che di emigrazione dal paese. Da allora ha avuto inizio un dibattito più

approfondito intorno alle politiche migratorie, che si è concluso con la richiesta di formulare

politiche più coordinate.

Il problema principale della politica migratoria polacca è, infatti, l’estrema dispersione delle

responsabilità e nelle competenze. Ogni istituzione procede alla creazione della propria mini-

160 A. Kicinger, Between Polish interests and the EU influence - Polish migration policy development 1989-2004,CEFMR Working Paper, 9/2005, Varsavia:

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Transnational Politics – a cura di G. Tintori

politica nell’ambito delle migrazioni intraprendendo le attività che ritiene giuste. Molteplici organi

dell’amministrazione statale si occupano delle migrazioni, ma manca un centro di coordinamento.

Durante una seduta del Senato, nel 2006, Michal Dworczyk, rappresentante del Gabinetto Politico

del Premier, ha denunciato episodi di doppio finanziamento per le attività delle associazioni dei

polacchi all’estero, le quali, sfruttando la mancanza di coordinamento centrale, si rivolgono a

diversi enti competenti in materia, per ottenere fondi da più istituzioni161.

Le politiche migratorie ricadono nelle competenze soprattutto di due istituzioni: il Senato e il

Ministero degli Esteri. Tuttavia, vi sono anche altre istituzioni che, in misura minore, influiscono

sulla definizione di tali politiche. La prima di queste istituzioni è la Camera, attraverso la

Commissione per i Contatti con i Polacchi all’Estero (Komisja do Spraw Lacznosci z Polakami za

Granica). Va sottolineato che, in verità, i rapporti tra la Commissione e le comunità polacche

all’estero sono molto scarsi, ciò di cui si lamentano i rappresentanti degli emigrati – mentre, assai

spesso, gli stessi rappresentanti non mancano di rimarcare la propria soddisfazione per le relazioni

con il Senato. Un’altra istituzione che interviene nel quadro è il Ministero dell’Interno, che a partire

dal 2006 ha istituito il proprio Dipartimento per le Politiche Migratorie. Questo dipartimento, in

prevalenza, si occupa di immigrazione. Tuttavia, non esaurisce i propri interventi in tale ambito ed

elabora proposte di più ampio respiro, a includere anche l’emigrazione e gli emigrati.

III.2.3. Rapporti del Senato con i Polacchi all’estero dal 1989 fino ad oggi

L’organo dello stato che tradizionalmente si dedica ai contatti con i Polacchi all’estero è il

Senato. Già nel 1929 per iniziativa del Senato fu organizzato il “I Congresso dei Polacchi

all’Estero”. Durante quel Congresso fu fondata l’associazione “Swiatopol” che ha unito la maggior

parte delle comunità polacche all’estero fino agli anni Novanta. Lo scopo delle attività

dell’associazione è sempre stato il rafforzamento del legame con la Polonia e la cooperazione con le

organizzazioni culturali ed educative.

Come ricordato nel capitolo introduttivo, il periodo successivo al secondo dopoguerra, con

l’instaurazione di un regime comunista, ha visto una riduzione, se non una sospensione, delle

politiche dedicate ai polacchi all’estero. Fu solo dopo la trasformazione del 1989 che il Senato,

tornando alla tradizione, riprese il patronato sui Polacchi residenti fuori dai confini nazionali.

Durante la prima seduta del Senato, tenutasi il 4 luglio 1989, fu subito avanzata la proposta di

istituire la commissione che si sarebbe occupata dei Polacchi all’estero. In quello stesso mese, la

commissione fu costituita, con il nome di Commissione per l’Emigrazione e i Polacchi all’Estero. Il

presidente della Commissione fu scelto nella persona di Edmund Osmanczyk, figura assai nota

161 Il verbale della 33. seduta della Commissione per l’Emigrazione del 12 dicembre 2006, il sito ufficiale del senato: http://www.senat.gov.pl/k6/kom/ksep/2006/033sep.htm

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nell’ambiente dell’emigrazione polacca. Della Commissione entrarono a fare parte 26 senatori, tra i

quali esponenti della cultura come Andrzej Wajda e Gustaw Holubek.

Durante il primo mandato del Senato 1989 -1991, la Commissione si è riunita in dodici sedute e i

suoi membri hanno compiuto numerose missioni all’estero per conoscere le comunità polacche nel

mondo e approfondire le principali problematiche. Particolarmente significative sono state le

missioni verso gli stati dell’ex Unione Sovietica, dove fino a quel momento ai Polacchi colà

residenti non era consentito avere contatti con i parlamentari della madrepatria. Il 7 febbraio 1990

ha visto la costituzione dell’associazione “Comunità Polacca”, che ancora oggi è la più importante

organizzazione di rappresentanza dei polacchi all’estero. Uno dei membri fondatori

dell’associazione è stato il Presidente del Senato d’allora, Andrzej Stelmachowski, che diede ai

Polacchi all’estero una speranza di miglioramento nelle politiche del paese nei loro confronti e, in

questo modo, credito di fiducia alle nuove – rinate, dopo anni di socialismo di stato – istituzioni

democratiche polacche.

Il più importante risultato raggiunto dalla commissione durante il primo mandato del Senato

dopo la trasformazione del 1989 è stata la raccolta di informazioni riguardanti l’emigrazione

polacca dispersa nel mondo. La commissione ha acquisito un quadro completo circa le principali

istanze delle comunità polacche, le loro condizioni e le loro attività.

Durante il secondo mandato, negli anni 1991-1993, la Commissione per l’Emigrazione e

Polacchi all’Estero è stata ridotta a 15 membri e si è riunita per 18 sedute. La maggior parte delle

sedute è stata dedicata principalmente ai problemi dei Polacchi residenti all’Est. I membri della

Commissione hanno compiuto diverse missioni in Lituania, Bielorussia e Ucraina. Hanno inoltre

partecipato al Raduno dei Polacchi emigrati svoltosi a Cracovia a cavallo tra aprile e maggio 2001 e

ai congressi dei Polacchi in Lituania, Lettonia, Russia, Finlandia, Repubblica Ceca, Danimarca e

Kazakistan.

Durante il terzo mandato del Senato, negli anni 1993 – 1997, la Commissione si è riunita 94

volte e ne hanno fatto parte 17 membri. I lavori della commissione, così come l’evoluzione delle

politiche verso gli emigrati, rispecchiano i cambiamenti avvenuti nella vita democratica del paese.

Durante i due mandati precedenti, il lavoro della Commissione si era focalizzato sull’attività

d’identificazione e avvicinamento alle comunità polacche fuori dai confini, durante il terzo mandato

si è proceduto verso un’intensificazione dei contatti.

Il Senato, oltre a essere l’istituzione che ha il ruolo di mantenere i contatti con gli emigrati

Polacchi, è anche l’ente che stanzia le somme più significative a sostegno delle attività degli

emigrati. Fino al 1993 tutte le risorse venivano destinate all’attività dell’associazione “Comunità

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Polacca” e solo dal 1994 tra i destinatari dei fondi sono iniziate a comparire anche altre

associazioni.

Durante il terzo mandato, come anche durante i due mandati precedenti, l’area molto interessata

dell’attività della Commissione è stato il territorio dell’ex Unione Sovietica. La Commissione nel

1994 ha creato un database contenente l’elenco delle istituzioni e organizzazioni coinvolte

nell’attività di sostegno, facilitando in questo modo un’armonizzazione delle singole azioni

intraprese da queste associazioni. Per l’iniziativa della Commissione il Senato ha organizzato

diversi incontri con i rappresentanti dei Polacchi all’estero. È importante menzionarne soprattutto

uno: nel gennaio 1996, si è tenuto al Senato il congresso del “gruppo etnico polacco in Germania”.

Uno dei primi importanti eventi che possiamo classificare come una manifestazione della nascente,

anche se in modo caotico, politica emigratoria polacca, è la seduta plenaria del Senato durante la III

legislatura, svoltasi nei giorni 4-5 marzo 1997, interamente dedicata ai problemi dei Polacchi

emigrati all’estero. Durante questa seduta, per la prima volta si è affrontata la tematica connessa

allo stato giuridico degli emigrati e l’adeguatezza dell’attività dell’amministrazione polacca rispetto

ai bisogni degli emigrati. In quella occasione, intervennero non solo i parlamentari e i rappresentanti

delle istituzioni che si occupavano dell’emigrazione, ma anche alcuni invitati: l’ultimo presidente

della Repubblica della Polonia in Esilio, il rappresentante dell’Episcopato polacco, i parlamentari di

origine polacca arrivati di diversi paesi e i rappresentanti delle organizzazioni ONLUS che

collaborano con il Senato per la realizzazione delle missioni di assistenza per i Polacchi all’estero.

La fine della legislatura ha fatto sì che non si riuscisse a preparare in tempo utile le leggi, in

esecuzione del decreto approvato durante la seduta del Senato. La due giorni di lavori, infatti, si era

conclusa con l’approvazione della risoluzione intitolata “Il legame del Polacchi all’estero con la

Polonia”162. Con tale risoluzione il Senato ribadiva che i Polacchi residenti all’estero dovessero

avere gli stessi diritti dei loro connazionali in patria, auspicava il cambiamento della legge sulla

cittadinanza invitando a restituire la cittadinanza polacca ai Polacchi residenti nei territori ex

Sovietici.

Durante la quarta legislatura del Senato (1997-2001) la Commissione, composta da 18 persone, si è

riunita 69 volte. Le attività della Commissione in questo periodo possono essere divise in 3

categorie:

Attività legislativa, che ha prodotto quattro proposte di legge: la legge sulla cittadinanza;

la legge sulla Carta del Polacco; la legge sul rimpatrio; e la legge sullo stabilimento del 2 maggio

come Giorno dei polacchi emigrati all’estero. Tutte queste leggi in seguito sono state approvate dal

162 Monitor Polski z 1997 r. Nr 16 poz. 147 – Gazzetta Ufficiale)

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Senato, ma la Camera ha ratificato solo la legge sul rimpatrio del 9 novembre 2000, entrata in

vigore dal 1 gennaio 2001.

Attività d’intervento nelle vicende riguardanti i polacchi all’estero. Il Senato ha intrapreso

diverse risoluzioni riguardanti i polacchi in Germania, in Gran Bretagna e in Georgia.

Valutazione delle richieste poste dalle organizzazioni coinvolte nell’attività della

collaborazione con e dell’assistenza verso le comunità polacche all’estero.

Tra il 28 aprile e il 2 maggio 2001 si è tenuta a Pultusk, in Polonia, il II Raduno dei Polacchi

emigrati all’estero, durante il quale i rappresentanti dell’emigrazione ebbero occasine di avanzare le

loro richieste in materia di riforma della legislazione esistente, tra cui la proposta di cambiare il

metodo di nomina degli ambasciatori e dei consoli – prima di procedere alla nomina, secondo i

rappresentanti degli emigrati, una commissione del Senato, creata appositamente, avrebbe dovuto

esaminare i candidati, valutando la loro preparazione e le loro competenze rispetto alle esigenze

delle comunità all’estero.

È stato in questa fase che si è proceduto anche al cambiamento della legge per l’elezione del

presidente della Repubblica. Fino ad allora i polacchi residenti stabilmente all’estero potevano

votare solo al primo turno, mentre all’eventuale ballottaggio non avevano diritto di partecipare. In

seguito alla riforma, gli emigrati possono votare anche al ballottaggio.

Un'altra legge importante sulla quale ha lavorato il Senato, già menzionata, è stata la legge sul

rimpatrio. Il Senato ha ritenuto questa questione molto importante, considerandola in qualche senso

una riparazione delle ingiustizie subite dai Polacchi all’Est, provocate dal fatto che dopo la seconda

guerra mondiale sono rimasti esclusi dalla Patria senza possibilità di ritorno. La legge sul rimpatrio,

elaborata sulla base di una bozza preparata dal Senato e una seconda bozza preparata dal governo, è

stata deliberata dalla Camera ed è entrata in vigore dal 1 gennaio 2001. La legge descrive i requisiti

che devono essere rispettati, perché l’interessato possa chiedere il rimpatrio in Polonia163.

Il Senato della quinta legislatura ha proseguito lungo il solco della collaborazione e cura dei

Polacchi all’estero segnato dalle legislature precedenti. Il 30 aprile 2002 si è tenuta la plenaria

parlamentare dedicata interamente ai problemi dei Polacchi residenti all’estero. Alla plenaria hanno

partecipato, oltre ai parlamentari e al presidente della Repubblica, anche i rappresentanti delle

comunità polacche all’estero. Alla base dell’organizzazione di tale plenaria è stata la necessità di

stabilire insieme le priorità per le future attività del Senato.

Uno dei risultati della plenaria è stata la creazione del Consiglio di Consultazione (Polonijna

Rada Konsultacyjna) soggetta al presidente del Senato. I membri del Consiglio sono scelti tra i

163 La legge sul rimpatrio è stata una sconfitta delle amministrazioni polacche – dal 2001 fino ad oggi la legge è stata usufruita solo da circa 400 persone – i comuni, che, secondo la legge, dovrebbero essere i promotori del rimpatrio, non sono interessate all’invito dei Polacchi dall’Est perché la legge non li incentiva abbastanza

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rappresentanti delle più grandi organizzazioni dei Polacchi all’estero. Nel corso della stessa

legislatura, il Senato ha anche finalizzato i lavori sulla proposta di legge che stabilisce nel 2 maggio

il giorno di celebrazione dei polacchi residenti all’estero – legge approvata il 20 marzo 2002 dalla

Camera.

Il 10 maggio 2003 per iniziativa del Presidente del Senato e del Presidente della Camere si è

svolta la Conferenza dell’emigrazione polacca residente nei Paesi dell’Unione Europea, con lo

scopo di intraprendere delle attività in prospettiva dell’ingresso della nazione nell’Unione Europea.

Presero parte ai lavori tutti i rappresentanti delle 46 organizzazioni polacche presenti nei paesi

membri. Durante la conferenza, i rappresentanti dell’emigrazione polacca hanno espresso, mediante

una dichiarazione ufficiale, la loro soddisfazione per la firma del trattato di adesione all’UE,

avvenuta il 16 aprile 2003 ad Atene. Nella stessa occasione, i rappresentanti delle comunità

emigrate hanno diffuso un appello ai connazionali in patria, perché partecipassero al referendum

sull’adesione, favorendone l’esito positivo.

Un passo importante, intrapreso nel corso della legislatura successiva, la sesta, è il tentativo di

regolamentare in modo più ufficiale e controllato la collaborazione e l’assistenza prestata dal Senato

alle comunità polacche all’estero. Il 5 gennaio 2007 il Senato ha inviato alla Camera una proposta

di legge intitolata “Sull’assistenza del Senato ai polacchi all’estero”. Tale legge propone di

istituzionalizzare i rapporti tra Senato ed emigrazione, nonché introdurre regole definite in materia

di aiuto finanziario stanziato da tale organo dello stato in favore dei polacchi all’estero. L’obiettivo

è quello di facilitare il coordinamento delle attività con gli altri enti statali ed evitare

sovrapposizioni di competenze. Qualche settimana prima, il 12 dicembre 2006, era stato discusso in

Senato il rapporto “Politica dello stato polacco verso i polacchi all’estero”, preparato dal Gruppo

Interministeriale per i Polacchi all’Estero. Tale Rapporto aveva suscitato accese critiche e si era

levata l’obiezione che avesse come obiettivo quello di spostare il baricentro delle relazioni con

l’emigrazione – insieme al controllo sui finanziamenti – dal Senato al Governo.

Sempre durante il sesto mandato, il Senato ha continuato a occuparsi prevalentemente dei

Polacchi dell’Est, ma si sono svolte anche alcune sedute dedicate alla cosiddetta “nuova

emigrazione”, l’emigrazione per motivi di lavoro verso i paesi dell’Europa occidentale. Il 20 ottobre

2006, infatti, è stata organizzata la conferenza “Migrazioni per motivi di lavoro verso l’Unione

Europea – le sfide per lo stato”. Alla conferenza hanno partecipato molti esperti della materia, che

hanno illustrato ai senatori i dati delle più recenti ricerche sull’emigrazione, suscitando una vivace

discussione.

Alla luce dei risultati ottenuti dalla conferenza e tenendo conto dell’importanza della “nuova”

emigrazione, il 22 giugno 2007, il Senato ha nominato il Consiglio dei consulenti per l’emigrazione

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dei cittadini polacchi verso i paesi membri dell’Unione Europea per motivi di lavoro (Zespół

Doradców ds. Migracji Ekonomicznej Obywateli Polskich do Państw Członkowskich Unii

Europejskiej). A far parte del Consiglio sono i più illustri esperti di studi migratori presenti nella

Repubblica polacca, insieme ai i rappresentanti delle organizzazioni dei polacchi residenti nei paesi

dell’UE. Parallelamente a cio, il 24 luglio 2007, il Senato ha anche selezionato, sempre nell’ambito

della Commissione per l’emigrazione, un gruppo interno chiamato a occuparsi delle migrazioni per

lavoro verso i paesi dell’Unione Europea.

L’attuale mandato del Senato ha avuto inizio nell’autunno del 2007. Contestualmente, si è tenuto

l’incontro inaugurale del Consiglio dei consulenti per l’emigrazione dei cittadini polacchi verso i

paesi membri dell’Unione Europea per motivi di lavoro. Durante tale incontro il Presidente della

Commissione per l’emigrazione ha sottolineato che l’emigrazione dei polacchi dopo il 2004 crea

per il Paese allo stesso tempo difficoltà e opportunità.

Secondo le indicazioni degli esperti che siedono nel Consiglio dei consulenti, le priorità che la

classe politica dovrebbe affrontare sono le seguenti:

- creazione di un sistema informativo per i migranti, ciò che permetterebbe loro di intraprendere

decisioni collegate al loro status in modo cosciente, tenendo conto anche della realtà del paese della

destinazione;

- riduzione del volume dell’emigrazione;

- introduzione di incentivi al ritorno ed eliminazione degli ostacoli al rimpatrio.

Gli stessi esperti hanno inoltre sottolineato anche che soprattutto gli emigrati più recenti e più

giovani si muovono da “cittadini europei” ed è dunque essenziale che siano incoraggiati, nel paese

di destinazione, a vivere in modo attivo la loro nuova condizione politica e sociale. Quest’ultima

fase, quindi, sembra segnare una crescente consapevolezza da parte dello stato polacco, per ciò rche

concerne l’importanza di politiche di sostegno verso i connazionali all’estero. Le autorità sembrano

avere preso coscienza della situazione in cui si trova il paese, di attore in grado di intervenire

attivamente nel quadro di opportunità disegnato dalla presenza di cospicue comunità all’estero. Lo

stato parrebbe finalmente essere orientato ad assumere un ruolo da molto tempo atteso e auspicato

dagli emigrati, i quali hanno manifestato da tempo l’esigenza di un sostegno della madrepatria nella

loro lotta per i diritti e contro le discriminazioni nel mercato del lavoro.

Come già menzionato prima, il Senato è l’ente che dispone della maggior parte dei fondi

destinati alla collaborazione ed all’aiuto dei polacchi all’estero. Il controllo viene esercitato su circa

il 40 percento della somma totale, stanziata dallo stato a tale fine.

Graf. 2.2. Aiuto finanziario stanziato dal Senato per i Polacchi all’estero negli anni 1990-2007.

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Aiuto finanziario stanziato dal Senato per i Polacchi all’estero negli anni 1990-2007.

0

10.000

20.000

30.000

40.000

50.000

60.000

70.000

80.000

valore aiuto 1.188 4.170 4.364 4.995 6.870 12.474 17.785 18.440 31.374 40.279 46.641 48.967 44.983 46.074 44.892 48.105 50.869 74.576

1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Fonte: Pagina ufficiale del Senato polacco : http://www.senat.gov.pl/k7/polonia/2008/2007pol.pdf

Analizzando il grafico vediamo che le somme stanziate stanno crescendo anno dopo anno.

Inizialmente tutti i fondi venivano assegnati alle comunità residenti nell’Europa dell’Est. Molti di

questi interventi erano mirati a una rinascita dello “spirito” polacco nei territori dell’ex-Unione

Sovietica: si è sostenuto l’insegnamento della lingua polacca, si sono riavviati i contatti diretti tra

gli emigrati dei paesi dell’ex Unione Sovietica e la Polonia, hanno visto la luce numerosi giornali in

lingua polacca, seguiti da canali televisivi e radiofonici. Il Senato ha finanziato anche la costruzione

di opere come scuole polacche, centri della cultura polacca e sedi di associazioni polacche. Oltre al

sostegno alla diffusione della cultura e della lingua polacca, ci sono contributi anche per

sovvenzionare la piccola impresa, la formazione e la disseminazione di informazioni sulle leggi

internazionali a tutela dei diritti delle minoranze etniche.

Le politiche rivolte alle comunità polacche stabilitesi in Europa occidentale presentano caratteri

totalmente diversi da quelle implementate verso l’Est europeo. I polacchi residenti all’Ovest,

trovandosi in democrazie di lungo corso hanno potuto da tempo organizzarsi liberalmente e, di

conseguenza, acquisire esperienze autonome nell’attività politica, sociale e culturale locale. Sono

gli stessi emigrati all’Ovest che, in certa misura, hanno aspettative differenti e determinano una

serie di comportamenti diversi da parte delle autorità polacche. Ciò che chiedono è soprattutto un

appoggio alle iniziative che essi indirizzano verso le autorità dei paesi di destinazione.

III.2.4 Le attività del ministero degli Esteri

La tutela dei Polacchi all’estero è anche uno dei compiti del ministero degli Esteri. Il ministero, è

ovvio, gestisce e monitora l’attività delle rappresentanze dello stato polacco all’estero (le

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ambasciate, i consolati, i vari “istituti” polacchi)164. Le attività del ministero nell’ambito della tutela

dei polacchi all’estero non sono così ampie come le attività del Senato, perché il ministero non

dispone delle risorse finanziarie adeguate. Il ministero dispone di circa 5% della somma totale

destinata dallo stato ai fini di cooperazione e aiuto ai polacchi all’estero165. Nell’anno 2007 il

Ministero ha distribuito 6.901.000 Euro*** per le attività nell’ambito dell’educazione e

divulgazione della cultura polacca tra le comunità dei polacchi all’estero.

Negli ultimi anni anche il ministero ha modificato il proprio indirizzo di intervento nella

direzione di attività più decise e più mirate a soddisfare i bisogni degli emigrati. La manifestazione

di questo cambiamento si traduce nei diversi programmi elaborati ed avviati da questo ente.

Nell’anno 2002 il ministero ha presentato la prima versione del “Programma del governo per la

cooperazione con i polacchi all’estero” (Rzadowy Program Wspolpracy z Polonia i Polakami za

Granica) Ad ottobre 2007 il ministero degli Esteri ha pubblicato la versione aggiornata di questo

programma. Si tratta del primo programma completo che stabilisce una gerarchia in tutte le attività

delle amministrazioni verso gli emigrati, attribuendo anche precise responsabilità alle diverse

istituzioni166.

Le principali linee e gli orientamenti del programma sono i seguenti:

a) Protezione delle persone di provenienza polacca e tutela della “nuova emigrazione”

b) Educazione, istruzione pubblica e sport

c) Cultura, patrimonio nazionale e politica storica

d) Media dei polacchi all’estero

e) Organizzazioni dei polacchi all’estero

f) Aiuto ai polacchi all’Est, rimpatrio, migrazioni

g) Cooperazione nell’ambito economico e supporto all’imprenditoria dei polacchi residenti

all’estero

Il Programma descrive i compiti delle singole istituzioni, tra le quali:

a) Ufficio amministrazione/cancelleria del Governo

b) Ministero degli Esteri

c) Ministero dell’Istruzione Pubblica

d) Ministero dell’Economia

e) Ministero del Cultura e del Patrimonio Nazionale

164 Comunicato del ministro degli Esteri del giorno 17 ottobre 2002 contenente l’elenco delle rappresentanze polacche dipendenti dal/soggette al Ministero degli Esteri.165 Verbale della risposta del segretario di stato nel Ministero degli Esteri all’interpellanza nro 4498 in merito dello stato dell’arte e delle prospettive della collaborazione con i Polacchi all’estero. 166 “Il Programma del governo per la cooperazione con i Polacchi all’estero.” (Rządowy Program Współpracy Z Polonią i Polakami za Granicą), Ministero degli Esteri, Ministero degli Esteri.arasavia, ottobre 2007, scaricabile dal sito ufficiale del Ministero degli Esteri, http://www.msz.gov.pl/files/docs/polonia2007.pdf

144

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Transnational Politics – a cura di G. Tintori

f) Ministero della Scienze e dell’Istruzione Superiore (Universitaria)

g) Ministero dello Sport e del Turismo

h) Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali

i) Ufficio per i Combattenti

Il Programma elenca le attività progettate per queste istituzioni fino all’anno 2012.

A febbraio 2007 il ministero ha presentato un altro programma “Vicino al lavoro, vicino alla

Polonia” (Blizej pracy, blizej Polski). Il progetto contiene un piano di azioni che hanno come

obiettivo di migliorare la tutela dei cittadini polacchi all’estero e facilitare il loro accesso alle sedi di

appresentanze del paese. Secondo l’indagine condotta dal ministero, in seguito alla non indifferente

emigrazione dei cittadini Polacchi dopo l’adesione della Polonia all’Unione Europea, in alcuni paesi

di destinazione di questa emigrazione il numero delle pratiche nei consolati è cresciuto di quattro

volte, rimanendo immutata la composizione delle strutture. Il ministero ha dunque deviso di avviare

una riforma delle sedi di rappresentanza. La ristrutturazione riguarda sia il personale che le

strutture, e prevede anche un’azione si stampo informativo. Una delle nuove rappresentanze create

seguendo le linee guida del programma è il Consolato Generale della Repubblica di Polonia a

Catania, aperto l’11 novembre 2007.

Il progetto sottolinea anche l’importanza delle attività di informazione dirette agli emigrati.

Auspica la diffusione di informazioni riguardanti le condizioni di vita nei paesi di destinazione,

sulle leggi, sui diritti che gli emigrati hanno in quei paesi. Il progetto sostiene che un punto

rilevante, per facilitare l’integrazione, anche politica, dei connazionali all’estero, stia nella stretta

collaborazione delle istituzioni polacche con i loro equivalenti all’estero.

III.2.5 Un nuovo progetto del governo: Ritorno

Il 24 novembre 2008 è partito un nuovo progetto del governo indirizzato ai polacchi emigrati dal

paese alla ricerca di un lavoro. Il progetto ha intenzione d’aiutare quelle persone che decideranno di

tornare in patria. Per comunicare con gli emigrati il Governo ha utilizzato prevalentemente Internet.

È stato creato il sito www.powroty.gov.pl, dove gli emigrati possono trovare, oltre alle notizie di

attualità riguardanti la Polonia, anche diversi consigli in merito a una prospettiva di rientro. È stata

redatta la guida “Ritorno – la navigazione per chi rientra” destinata agli emigrati e che può essere

scaricata gratuitamente dal sito. Il portale organizza anche delle chat con gli esperti di diverse

materie, che rispondono alle domande degli utenti. Gli emigrati possono rivolgersi

all’amministrazione via mail con la certezza di ricevere la risposta.

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Transnational Politics – a cura di G. Tintori

La Polonia, appartenendo senza dubbi al gruppo labour exporting countries individuato tra le

sending countries secondo la categorizzazione di Eva Ostergaard-Nielsen167, negli ultimi anni ha

sperimentato un avanzamento nel disegno e nell’implementazione delle politiche migratorie. Il

primo successo è il cambiamento della percezione delle politiche migratorie come politiche

indirizzate solo verso gli immigrati. L’amministrazione polacca sembra inoltre avere compreso che

cosa si aspettano dalla patria gli emigrati. Sia Senato che ministero degli Esteri e Governo, oltre alle

tradizionali azioni di aiuto materiale verso i polacchi all’estero, sono sempre più attivi in azioni di

sostegno alla lotta dei connazionali all’estero per l’affermazione dei loro diritti nelle nuove realtà e

in azioni d’incoraggiamento a prendere parte alla vita politica e sociale del paese di destinazione.

Possiamo affermare che la Polonia, in cambio delle rimesse dei suoi cittadini, ha riconosciuto le

proprie responsabilità di governo anche dei cittadini emigrati.

III.3 La comunità polacca in Italia: i casi di Roma e Torino.

III.3.1. Comunità polacca in Italia oggi

Come abbiamo detto nel paragrafo III.1, l’Italia da lungo tempo è una delle mete privilegiate dei

polacchi. Tuttavia, va notato che negli ultimi tempi la scelta dell’Italia come paese di destinazione

subisce un trend negativo.

Tab. 3.1 I più importanti paesi dell’emigrazione nei 2ndi trimestri degli anni 2000-20072000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Totale 100% 100% 100% 100% 100% 100% 100% 100%Gran Bretagna 4% 7% 7% 9% 11% 20% 31% 32%

Germania 35% 37% 34% 31% 29% 25% 20% 16%Irlanda 0% 0% 0% 0% 3% 6% 7% 12%Italia 6% 8% 14% 13% 11% 12% 8% 8%Stati Uniti 19% 23% 19% 20% 19% 11% 11% 7%Olanda 2% 4% 5% 4% 3% 2% 3% 6%Fonte: The 2007 SOPEMI Report for Poland.

Come vediamo dalla tabella 3.1, Stati Uniti, Germania e Italia vengono scelti come paesi di

destinazione in misura sempre calante. Cresce invece il trend dell’emigrazione verso Inghilterra e

Olanda. Dal 2004 sono comparsi flussi consistenti verso l’Irlanda. Analizzando le scelte delle mete

dell’emigrazione notiamo che esse sono connesse con l’apertura dei mercati di lavoro legale: i

polacchi scelgono i paesi dove possono lavorare legalmente.

Per quanto riguarda la composizione dell’immigrazione polacca in Italia, rispetto a quella degli

altri paesi, dal punto di vista del livello d’istruzione, tra le persone che scelgono l’Italia come paese

di destinazione, sono relativamente poche quelle con un alto livello d’istruzione: solo il 7,7 % delle

167 E. Ostergaard – Nielsen, op. cit. s. 6

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persone che dal 1997 sono emigrate in Italia hanno il diploma di laurea, questa caratteristica

appartiene invece al 25 % dei Polacchi che hanno deciso di partire per la Gran Bretagna.

Graf. 2. Residenti polacchi dai 15 anni in su rimasti all’estero per più di 12 mesi, emigrati dopo il 1997, divisi per livello d’istruzione (in %) e paese di destinazione (dati dall’ultimo Censimento del 2002).

11,1 7,7

25,413,4 16 19,4

32,9 35

42,3

34,137,6

41,2

56 57,4

32,3

52,446,4

39,4

0%

20%

40%

60%

80%

100%

Germania Italia Gran Bretagna altri paesi UE-15

USA Canada

laureati esame di maturità altro

Fonte: M.Okolski, P.Kaczmarczyk „Migracje specjalistów wysokiej klasy w kontekście integracji Polski z Unią Europejską” – podstawowe wnioski z ekspertyzy przygotowanej na zlecenie Urzędu Komitetu Integracji Europejskiej, Seminarium UKIE, 10 lutego 2006.

Proseguendo nella definizione statistica dei polacchi soggiornanti in Italia, come si può vedere

dalla tab. 3.2, la grande maggioranza di esso (96 %) è in età lavorativa tra i 18 e i 60 anni, con

un’alta rappresentanza nelle fasce più giovani (25-39 anni).

Tab.3.2 Polacchi in Italia con permessi di soggiorno per classe di età al 1° gennaio 2007.

Classi di età numero dei Polacchi in percentuale

Fino a 17 1.338 2 18-24 7.161 925-29 15.254 1930-34 16.565 2135-39 11.000 1440-44 7.795 1045-49 7.986 1050-54 6.484 855-59 3.429 460 e più 1.918 2

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Totale 78.930 100Fonte: Elaborazioni proprie su dati Istat

Per quanto riguarda la scelta della Regione di destinazione, più di un quinto della popolazione

polacca residente in Italia abita nella Regione Lazio, dove i 20.000 polacchi registrati rappresentano

la terza comunità di stranieri. Altre regioni con una significantiva presenza di Polacchi sono

l’Emilia Romagna e la Campania, dove se ne contano quasi 10.000.

La comunità polacca in Italia è composta per il 70% da donne. La percentuale di

femminilizzazione cresce nelle regioni del Sud – in Sicilia e Sardegna le donne sono l’80 % della

popolazione polacca complessiva, in Campania, Calabria e Basilicata il 76 %.

Tab. 3.3 Polacchi residenti nelle Regioni italiane al 1 gennaio 2008

Regione Totale M e F Femmine Maschi % di FemmineLazio 21.077 13.494 7.583 64Emilia-Romagna 9.725 7.226 2.499 74Campania 9.340 7.135 2.205 76Toscana 7.659 5.663 1.996 74Lombardia 7.495 5.329 2.166 71Veneto 4.906 3.082 1.824 63Marche 4.503 3.051 1.452 68Sicilia 4.475 3.570 905 80Calabria 3.329 2.515 814 76Piemonte 2.800 1.911 889 68Abruzzo 2.698 1.878 820 70Umbria 2.672 1.798 874 67Puglia 2.586 1.893 693 73Trentino - Alto Adige 2.087 1.360 727 65Liguria 1.460 1.067 393 73Friuli - Venezia Giulia 1.359 846 513 62Sardegna 969 778 191 80Molise 482 329 153 68Basilicata 454 347 107 76Totale 90.076 63.272 26.804 70

Fonte: Elaborazioni proprie su dati Istat.

III.3.2. La comunità polacca a Torino

La comunità polacca a Torino non è una comunità molto grande e non incide nemmeno in

misura significativa sulla comunità totale degli stranieri residenti in questa città – solo circa lo 0,5%

degli stranieri a Torino è di nazionalità polacca. Il caso, dunque, appare meno quantitativamente

significativo degli altri due affrontati negli altri capitoli del rapporto.

Tab. 3.4 Residenti stranieri e residenti polacchi a Torino (2003-2007, al 31 dicembre)

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AnnoTotale residenti

stranieriTotale residenti

polacchi% polacchi su

residenti stranieri

2003 55.500 346 0,62

2004 69.312 396 0,57

2005 76.807 433 0,56

2006 83.977 485 0,58

2007 102.921 521 0,51

Variazione

2003-2007+ 85,4 stranieri + 50,6 polacchi

Fonte: Elaborazioni proprie su dati ISTAT

Per quanto riguarda la composizione della comunità polacca, la maggior parte è costituita da

donne, ma a Torino il tasso di femminilizzazione è nettamente più basso che in Italia in generale.

Tab. 3.5 Popolazione polacca residente – 31 dicembre 2007 nelle diverse ripartizioni geograficheMaschi Femmine Totale M e F % di Femmine

Piemonte 889 1.911 2.800 68,25Provincia di Torino 341 868 1.209 71,79Comune di Torino 142 379 521 72,74Fonte: Elaborazioni proprie su dati ISTAT

Secondo i dati del comune di Torino, all’ottobre 2008 c’erano solo 548 polacchi residenti in

questa città. La comunità polacca a Torino non è dunque grande, ma è una comunità importante

data la sua storia. La comunità polacca a Torino è una delle più antiche comunità polacche in Italia.

Tracce della presenza polacca a Torino possiamo trovarle già nel 1849, quando viene fondata dal

comune per iniziativa di alcuni cittadini polacchi ed alcuni italiani la Società per l’alleanza italo-

slava. Dopo, durante tutto il secolo, possiamo trovare altri segnali che confermano la presenza dei

polacchi a Torino in quel periodo. Dopo la prima guerra mondiale a Torino viene nominato console

polacco A. Begey. Nel 1930 a Torino sorge Istituto della Cultura polacca, fondato dalle figlie di

Begey. L’Istituto funziona come un’unità indipendente presso l’Università e il suo ruolo è la

divulgazione della cultura polacca.

Dopo la fine delle seconda guerra mondiale a Torino rimangono alcuni soldati polacchi che non

possono tornare in patria per motivi politici. A questi viene concessa la possibilità di completare gli

studi e così nel 1946 al Politecnico di Torino si iscrivono 340 polacchi. Con il passare del tempo la

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maggior parte di loro lascia Torino, solo una quindicina di loro rimanendo darà inizio alla

Associazione ‘Comunità polacca a Torino’168.

III.3.3. La comunità polacca a Roma

La comunità polacca a Roma è la terza comunità straniera in città per grandezza, dopo quelle

Rumena e Filippina.

Tab. 3.6 Residenti stranieri e residenti polacchi a Roma (2003-2007, al 31 dicembre).

AnnoTotale residenti

stranieriTotale residenti

polacchi% polacchi su

residenti stranieri

2003 122.758 6.523 5,31

2004 145.004 7.611 5,25

2005 156.833 8.609 5,49

2006 199.417 10.614 5,32

2007 218.426 11.361 5,20

Variazioni

2003-2007+ 103% stranieri + 77,9 polacchi

Fonte: Elaborazioni proprie su dati ISTAT

Alla fine del 2007 a Roma abitano regolarmente più di 11.000 polacchi, mentre nella Provincia

ce ne sono 18.000 e nella Regione Lazio più di 21.000, un quinto, quindi, dell’intera comunità

polacca in Italia.

Tab. 3.7 Popolazione polacca residente – 31 dicembre 2007 nelle diverse ripartizioni geograficheMaschi Femmine Totale M e F % di Femmine

Lazio 7.583 13.494 21.077 64,02Provincia di Roma 6.523 11.628 18.151 64,06Comune di Roma 3.765 7.596 11.361 66,86Fonte: Elaborazioni proprie su dati ISTAT

Come si vede nella tabella 3.7 anche a Roma la maggior parte della comunità polacca è

rappresentata da donne, ma qui il tasso di femminilizzazione è più basso di quello nazionale di circa

6 punti percentuali.

La comunità polacca a Roma, essendo una comunità abbastanza numerosa, è anche ben

organizzata. A Roma esistono negozi polacchi, librerie, biblioteche, agenzie di viaggio e anche una

168 Vedi il paragrafo 3.4 sulle associazioni.

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discoteca polacca. A Roma funziona un liceo polacco e da quest’anno due università polacche

hanno cominciato la loro attività durante il weekend. In questo modo i cittadini polacchi residenti e

lavoranti a Roma possono durante il weekend frequentare l’università in lingua polacca. A Roma

sono pubblicate anche tre riviste polacche.

Un elemento importante che caratterizza la comunità polacca a Roma è il suo legame con la

Chiesa cattolica. A Roma si trovano 6 chiese che celebrano la messa in lingua polacca e almeno due

comunità religiose polacche presso altre parrocchie. Le chiese offroni alle comunità un luogo di

inconrtro, aiuto legale e corsi di lingua italiana. La chiesa polacca più antica e più conosciuta è la

chiesa di San Stanislao. È stata costruita nel 1578 per iniziativa di un cardinale polacco con annesso

ospizio per studenti e pellegrini polacchi. Nel 1982 la chiesa di San Stanislao ha ottenuto lo status di

parrocchia nazionale dei polacchi a Roma e per adesso rimane l’unica chiesa nazionale polacca in

Italia. Le messe avvengono talvolta con celebrazioni bilingue poiché vi sono tanti matrimoni misti.

Questa è l’unica chiesa polacca in Italia che può rilasciare i certificati in lingua polacca che poi

hanno valore legale. La chiesa, si diceva, è anche punto d’incontro socio-culturale. È diventata il

punto di riferimento per tanti polacchi, soprattutto quelli delle ultime ondate migratorie. Ma non

solo per quelli, perché la chiesa è frequentata anche dalle persone che vivono in Italia da 10-15 anni

e da coppie miste. Nella sala-caffetteria all’interno della chiesa i polacchi possono ogni giovedì e

domenica incontrarsi con i connazionali, leggere i giornali polacchi e guardare la TV polacca.

Presso la chiesa si organizzano diversi incontri e feste in occasione di festività tradizionali e

popolari polacche.

III.3.4. Associazioni polacche a Roma e Torino

Il legame tra transnazionalismo degli immigrati e la loro propensione all’associazionismo sarà

esaminato nel prossimo capitolo, come uno degli aspetti investigati grazie alle interviste con i

cittadini polacchi residenti a Roma e Torino. Qui possiamo presumere che tale legame esista, anche

se la maggior parte delle associazioni dei polacchi in Italia si riconoscono come apolitiche. La loro

attività è piuttosto definita come attività culturale oppure religiosa e questo fatto è molto

sottolineato dalle associazioni stesse.

Non esiste un elenco ufficale delle organizzazioni ed associazioni polacche all’estero. Né le

istituzioni polacche sul territorio patrio, né le istituzioni polacche sul territorio italiano hanno il

registro di queste associazioni. Esiste invece l’Unione delle Associazioni Polacche in Italia, che è la

fonte più aggiornata per le informazioni riguardanti l’associazionismo dei cittadini polacchi in

Italia. L’iniziativa di creare un'organizzazione che unisca rappresentanti di varie associazioni

polacche sparse in tutta l'Italia nacque nel 1995. Possono diventare membri di tale Associazione,

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accanto alle organizzazioni polacche, anche quelle italo polacche composte da almeno venti soci

contribuenti. L'obiettivo principale dell'Associazione è quello di unire i polacchi in Italia, di creare

rapporti reciproci tra persone di origine polacca, di approfondire i legami con la cultura e la

tradizione polacca, di rinforzare il senso di identità nazionale e quello di contribuire a creare

un'immagine positiva della Polonia e dei polacchi in Italia. L'Associazione si pone anche come fine

di rafforzare, in tutti i campi, i rapporti plurisecolari tra entrambi i popoli; rappresenta la comunità

polacca di fronte alle autorità italiane, coltiva le tradizioni storiche relative alla presenza dei

polacchi sul territorio italiano, offre cura ad anziani membri della comunità polacca, riserva

un'adeguata accoglienza ai nuovi immigrati e contribuisce a preservare il senso dell'identità polacca

nelle generazioni nate e cresciute in Italia

Ciononostante, i polacchi in Italia non sembrano esibire molta propensione all’associazionismo.

Bisogna annotare che questa è una caratteristica riguardante anche i Polacchi rimasti in patria.

Secondo le ricerche condotte dal CBOS nell’anno 2008 sull’associazionismo e il capitale civile dei

polacchi, risulta che solo il 7% si dedica ad attività nell’ambito di associazioni. Il 4% ammette di

essere iscritto ma non come mebro attivo presso associazioni e la grandissima maggioranza (89%)

dichiara di non aver niente a che fare con alcuna associazione169.

La succitata Unione delle Associazioni Polacche, fondata nel 1995, contiene 23 associazioni

polacche in tutta Italia, tra le quali 5 funzionano a Roma170 e una a Torino171. Il comune di Roma

riconosce invece 7 associazioni polacche sul proprio territorio, tra le quali:

1. Unione delle Associazioni dei Polacchi in Italia

2. Associazione culturale AIPRO. I suoi soci sono italiani, polacchi di vecchia e recente

immigrazione e famiglie italo polacche. Organizza incontri conviviali per scambiare informazioni

sulla situazione in Polonia e le relazioni con l'Italia. Partecipa a concerti di solisti polacchi, opere

teatrali, convegni scientifici.

3. Associazione Nazionale Cattolica Culturale Italo-Polacca di Ostia. L’Associazione culturale e

cattolica si è costituita nel 2004. Gli scopi dell’associazione sono: l’aiuto e l’assistenza agli

immigrati polacchi in Italia, soprattutto attraverso l’informazione; la coltivazione delle tradizioni

nazionali polacche; la promozione dell’integrazione con la società italiana, la promozione della

cultura polacca. L’associazione organizza diverse iniziative culturali, incontri conviviali e feste in

occasione delle festività tradizionali e popolari polacche

169 CBOS, Stowarzyszeniowo- obywatelski kapital spoleczny, Komunikat z badan, Warszawa, wrzesien 2008.170 Informazioni sulle associazioni a Roma sono state raccolte dal sito www.romamultietnica.it promosso dall’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma171 Sito ufficiale dell’Unione delle Associazioni polacche in Italia http://www.polonia-wloska.org/zwiazek_organizacje.html

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4. N.A.P.E. - Nuova Associazione Polacchi all’Estero La N.A.P.E., con sede a Roma, vuole

rivolgersi ai polacchi che vivono e lavorano all'estero. La prima finalità della N.A.P.E. è quella di

accrescere l’unione fra i polacchi approfondendo i valori tradizionali della cultura polacca e

promulgandone la conoscenza tra gli italiani. La N.A.P.E. organizza concerti, mostre, visite

culturali sia per i polacchi in Italia che per coloro che si recano nel nostro paese (soprattutto nelle

città di Cracovia e di Częstochowa). Partecipa a programmi di scambio interculturali a livello

Europeo. Svolge una attività di promozione della cultura e della tradizione polacca.

5. Polandia – Polacchi per l’Integrazione Europea. Associazione culturale nata nel 2002. Tra le

finalità dell’associazione vi è quella di favorire, promuovere e organizzare iniziative di turismo

sociale e giovanile nel campo dei beni culturali, archeologici, naturalistici, storici e di memoria

collettiva nonché organizzare eventi culturali: mostre, presentazioni, incontri, conferenze stampa,

convegni, concorsi, festival, spettacoli, feste, proiezioni, concerti, campagne di sensibilizzazione.

6. Polka – Roma, Italia. Si tratta di un’organizzazione volontaria di donne polacche e di lingua

polacca che vivono nel territorio italiano, che ha come scopo principale la salvaguardia delle

tradizioni e della cultura polacca e l’aiuto reciproco. L’associazione è conosciuta a Roma

soprattutto per le feste che radunano la comunità polacca del Lazio. I principali appuntamenti sono:

la prima domenica di giugno (subito dopo il 1 giugno, quando in Polonia viene celebrata la Festa

del Bambino) e i picnic in primavera (maggio) e in autunno (inizio ottobre).

7. Quo vadis - Associazione Cristiana dei Polacchi in Italia. Esiste dall’anno 1996. L’opera

dell’associazione si basa sul lavoro degli immigrati-volontari e si sviluppa nell’ambiente degli

immigrati affluiti in cerca di un guadagno migliore. Dall’inizio collaborano con “Quo vadis” anche

cittadini italiani volontari. Gli scopi dell’associazione sono l’aiuto e l’assistenza agli immigrati

polacchi in Italia, soprattutto attraverso l’informazione; la coltivazione delle tradizioni nazionali

polacche; la promozione dell’integrazione con la società italiana; la promozione della cultura

polacca.

Il numero definitivo delle associazioni a Roma è difficile da stabilire, dato che nessun ente ha

l’obbligo di tenere un registro delle associazioni.

L’unica associazione torinese è molto interessante dato che è la più antica in Italia. È stata

fondata ufficialmente nel 1993, ma la sua attività ha avuto inizio diversi decenni prima, subito dopo

la seconda guerra mondiale. Oggi l’associazione torinese conta oltre 250 famiglie e circa 50 soci

individuali.

Un fenomeno interessante, non connesso strettamente alle associazioni, ma avente a che fare con

le relazioni tra i polacchi, si sta creando in Internet. Sul sito www.nasza-klasa.pl (il portale polacco

corrispondente a Facebook) si sono create reti di polacchi residenti nelle diverse parti del mondo. E

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così troviamo pure i polacchi in Italia con 8015 persone iscritte, i polacchi a Roma (2430 unità), i

polacchi a Torino (405). Ovviamente l’iscrizione non implica che la persona iscritta risieda per

forza dove si è iscritta, ma nella gran parte dei casi è così. La rete serve agli immigrati a scambiare

informazioni utili, opinioni, mantenere il contatto con la comunità polacca, organizzare gli incontri

ecc.

III.3.5 La partecipazione politica dei polacchi in Italia: il voto all’estero del 2005 e 2007

I polacchi all’estero possono partecipare alle elezioni a condizione d’essere iscritti nell’elenco

degli elettori. Come stabilisce la legge riguardante le condizioni di partecipazione alle elezioni, gli

elenchi vengono preparati dai consoli. I cittadini polacchi in possesso del passaporto possono fare

richiesta d’inclusione in tali elenchi fino a 5 giorni prima del voto. Le richieste possono essere orali,

scritte, trasmesse via telefono o via fax. Durante le ultime elezioni polacche, in Gran Bretagna è

stato promosso il sito www.wybory.co.uk, dove i cittadini polacchi potevano iscriversi tramite

internet. Il sito ha riscontrato molto interesse.

Tab. 3.8 Affluenza nelle elezioni per il parlamento secondo il distrettoAbilitati al

votoSchede

elettorali distribuite

Numero dei voti Numero delle schede distribuite/ numero degli abilitati al voto (%)Effettuati Validi

Città 19.079.570 11.209.334 11.195.701 11.015.153 58.75Campagna 11.344.855 5.136.130 5.132.689 4.979.913 45.27Navi 348 337 337 324 96.84Estero 190.698 149.244 149.007 146.812 78.26Fonte: pagina ufficiale delle autorità polacche responsabili per le elezioni www.pkw.gov.pl

Le elezioni dell’anno 2007 hanno registrato, rispetto alle elezioni precedenti, una maggiore

partecipazione dei polacchi. Secondo le statistiche ufficiali, alle urne elettorali si sono presentati in

16 milioni, quindi il 53,88%, degli aventi diritto di voto. È un risultato soddisfacente dato che nel

2005 avevano votato solo in 12 milioni (40,5 %). Ovviamente questa affluenza è data soprattutto

dai polacchi che hanno votato in patria, ma i media hanno prestato molta attenzione al voto

all’estero, dove alle urne ci si sono presentati 190 mila connazionali, quasi cinque volte in più

rispetto alle elezioni del 2005.

Tab. 3.9 Dati riguardanti il voto all’estero nelle elezioni del 2005 e 2007Elezioni del 2005 Elezioni del 2007

Abilitati al voto 49.840 190.698Schede elettorali distribuite 35.679 149.244Numero dei voti effettuati 35.611 149.007Numero dei voti validi 34.761 146.812Affluenza 71,59 % 78,26 %Fonte: pagina ufficiale delle autorità polacche responsabili per le elezioni www.pkw.gov.pl

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Page 155:  · Web viewLa classe dirigente post-rivoluzionaria, in gran parte composta da seconde file del Partito Comunista Romeno (PCR) che sono riuscite a cavalcare la rivoluzione, non hanno

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Nonostante questo dato, che può sembrare ottimistico, l’effettiva partecipazione dei polacchi

all’estero al voto è stata ridimensionata dalla Fondazione di Helsinki per i Diritti Umani (Helsinska

Fundacja Praw Czlowieka), secondo la quale alle elezioni hanno partecipato solo 1/30 dei Polacchi

emigrati in Germania, 1/16 di quelli emigrati in Gran Bretagna e 1/9 di quelli emigrati in Irlanda.

L’Italia non si distingue dal generale trend d’incremento nella partecipazione al voto nel 2007

rispetto al 2005, ma anche qui la partecipazione sarebbe scarsa – al voto hanno partecipato solo

3461 persone (nel 2005 solo 1494 persone).

Tab. 3.10 Elezioni parlamento 2005

Indirizzo del distretto Abilitati al voto

Le schede elettorali distribuite

Voti effettuati

Voti validi

Roma I, Ambasciata RP Via P. P. Rubens 20 1.000 648 648 623Roma II, Ufficio Consolare della Ambasciata RP Via

San Valentino 12 1.841 621 621 605

Milano, Consolato Generale RP Corso Vercelli, 56 283 225 225 221Elezioni parlamento 2007

Indirizzo del distretto Abilitati al voto

Le schede elettorali distribuite

Voti effettuati

Voti validi

Roma I, Ambasciata RP Via P. P. Rubens 20 5.153 2.402 2.402 2.392Milano, Consolato Generale RP Corso Vercelli, 56 1.095 958 958 957Catania, Consolato Generale RP, Via Monsignor

Ventimiglia 117, VI p 101 101 101 95

Fonte: pagina ufficiale delle autorità polacche responsabili per le elezioni - Commissione Elettorale Statale (Panstwowa Komisja Wyborcza) www.pkw.gov.pl

La legge elettorale prevede la creazione di speciali seggi elettorali per i cittadini polacchi

all’estero. Nelle elezioni del 2005 sono stati creati 161 seggi all’estero, in quelle del 2007 – 206

(per quanto riguarda l’Italia è ora presente un seggio anche a Catania)172. Argomento molto

importante ed ultimamente molto discusso è quello relativo al fatto che i polacchi all’estero votano

per i candidati del distretto di Varsavia. In pratica questo fa si che i voti dall’estero vengano

aggiunti a quelli dei residenti di Varsavia, e quindi il loro peso si perda nei voti della popolazione

della capitale polacca. In questo modo i Polacchi all’estero non hanno una effettiva rappresentanza

in parlamento.

Di fatto dopo le elezioni del 2007 la Fondazione di Helsinki ha presentato una proposta di

cambiamento in questa materia. Secondo la Fondazione i Polacchi emigrati all’estero dovrebbero

172 Sito ufficiale della Comissione Elettorale Statale (Panstwowa Komisja Wyborcza)

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avere la possibilità di scegliere i loro effettivi rappresentanti ed a questo scopo dovrebbe essere

creato un nuovo distretto di voto con una propria lista di candidati (per il momento ce ne sono 16 –

il numero di voievodati in Polonia). La Fondazione argomenta, che questo cambiamento potrebbe

indurre i polacchi a votare perché si sentirebbero veramente rappresentati da persone che ne

conoscono la condizione.

III.4 L’indagine empirica nelle città di Roma e Torino

Questo capitolo è il risultato di una ricerca sul campo condotta a Roma e Torino. Sono state condotte 80 interviste – 40 in ciascuna delle 2 città. In una fase preliminare, antecedente alla realizzazione delle interviste, si è reso necessario un primo approccio esplorativo con i potenziali intervistati, al fine di creare un rapporto di fiducia tra intervistatore ed intervistato. A tal fine si è rivelato importante il contatto con i “community leader”, che a loro volta ci hanno introdotti nell’ambiente di ricerca. A volte è stato fondamentale frequentare i luoghi di ritrovo delle persone di nazionalità polacca a Roma e Torino, per attenersi al metodo di selezione casuale del campione intervistato. Tale strategia ha permesso una iniziale conoscenza della comunità polacca presente sul territorio di Roma e di Torino, permettendo allo stesso tempo la creazione di un rapporto di confidenza che ha facilitato, in seguito, la realizzazione delle interviste.

Per la scelta del campione, però, è stata alla fine utilizzata nella maggior parte dei casi la tecnica snowball, put avendo mantenuto una buona percentuale di intervistati anche in modo casuale. Nella creazione del campione si è cercato di rispettare la composizione (per genere ed età) della comunità polacca in Italia, descritta nel capitolo precedente.

Per quanto riguarda i dati anagrafici delle persone intervistate, per la maggior parte si è trattato di donne in età tra 40 e 49 anni.Tab. 4.1 Età e genere delle persone intervistate

EtàRoma Torino

Femmine Maschi Femmine MaschiFino a 29 anni 3 2 6 430 – 39 5 1 3 140 – 49 13 4 12 350 – 59 10 1 9 260 – 69 1 0 0 0

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Per quanto riguarda la provenienza delle persone, non c’e’ una concentrazione significativa, le persone provengono da quasi tutti i voievodati polacchi. Tuttavia, possiamo notare che ci sono molti che sono partiti dalle regioni a Est e Sud della Polonia (voievodato podlaskie, lubelskie, podkarpackie, malopolskie e dolnoslaskie). Per quanto riguarda la grandezza della città di residenza in Polonia, anche qui non troviamo una risposta dominante. Una sola persona proviene da una città con meno di 1000 abitanti, 2 da città con 1000 – 5000 abitanti e 5 persone provengono da città con più di 500.000 mila abitanti. Altre risposte sono distribuite tra città di media grandezza da 15.000 fino a 50.000 abitanti.

In questo capitolo vengono analizzati i comportamenti dei cittadini polacchi verso associazionismo, politica e partecipazione alla vita sociale e civile al fine di poter affermare se i polacchi si caratterizzano per comportamenti transnazionali in tali ambiti oppure no. Viene indagato il loro livello di conoscenza della politica e di interesse per la politica sia del paese di provenienza che di destinazione.

Per quanto riguarda le visite in Polonia, le persone intervistate tornano in Polonia di solito una volta all’anno e la frequenza dei loro ritorni non ha subito dei cambiamenti da quando la Polonia è entrata nell’Unione Europea. Non vi è sostanziale differenza tra i 2 campioni – quello di Roma e quello di Torino. Per quanto riguarda invece i contatti con l’ambasciata oppure il consolato, tra gli intervistati di Torino solo 4 persone hanno avuto tale contatto durante l’ultimo anno e tra gli intervistati di Roma se ne riscontrano 11. Causa di questa differenza è sicuramente che il consolato più vicino a Torino si trova a Milano.

La conoscenza della situazione politica in Polonia sembra essere condizionata da due fattori preponderanti: il sesso e l’età. Gli uomini sono più interessati alla situazione politica rispetto alle donne. Per quanto riguarda l’età invece, le persone più giovani sono meno interessate, soprattutto se mancano dalla Polonia da più tempo. Le persone più anziane sono generalmente più interessate alla politica polacca e il fattore della lunghezza di soggiorno in Italia non incide sul livello di loro interesse per le politiche della patria.

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Solo una delle persone intervistate apparteneva in Polonia ad un partito (ma ora non più), 5 invece appartenevano al sindacato (ma non ne fanno più parte). Nessuno collaborava con le associazioni173.

Al momento della partenza dalla Polonia quasi tutti gli intervistati sapevano come si chiamava il loro sindaco, ma solo la metà conosceva il nome del presidente della regione della propria residenza. Per quanto riguarda l’attuale sindaco, solo circa un terzo delle persone intervistate ne conosce il nome, ancora meno sono quelli a conoscenza del presidente della regione. La conoscenza delle coalizioni che governano la regione di residenza è molto scarsa, sicuramente a causa del fatto che nelle elezioni locali gli elettori si basano per le loro preferenze sui candidati piuttosto che sulla loro appartenenza politica e quindi i partiti a livello locale non hanno lo stesso peso che a livello nazionale. Neanche qui notiamo una significativa differenza tra il campione di Roma e quello di Torino. Mentre si evidenzia invece che i giovani hanno generalmente minore conoscenza dell’autorità politica polacca.

Tutti gli intervistati dichiarano la conoscenza del nome del Presidente del paese e quasi tutti conoscono la composizione della coalizione al governo.

Per quanto concerne l’interesse dei Polacchi residenti in Italia verso le tematiche politiche riguardanti la Polonia, è difficile trovare un approccio comune, comunque l’interesse più scarso è stato dichiarato verso il governo locale, i diritti dei lavoratori e il sindacato. Più interessanti per i Polacchi sono i temi connessi alle relazioni Italia – Polonia e all’emigrazione.

Tutti gli intervistati hanno il diritto di voto alle elezioni e ne sono coscienti. Più della metà degli intervistati a Roma ha dichiarato di aver sempre partecipato alle elezioni e altre 5 persone hanno dichiarato la loro partecipazione saltuaria. A Torino solo 6 persone hanno dichiarato di aver sempre partecipato alle elezioni e 10 persone hanno ammesso la loro partecipazione occasionale. Comunque sia quasi tutti gli intervistati hanno dichiarato che la possibilità di partecipare alle elezioni è per loro importante. La differenza di comportamenti tra i 2 campioni può essere spiegata dal fatto che il voto alle elezioni polacche si può esercitare solo presso le rappresentanze delle autorità polacche a Roma, a Milano e, dalle ultime elezioni del 2007, a

173 Che sembra molto probabile dato che, come annotato nella parte precedente del rapporto, in Polonia il livello d’associazionismo è molto basso.

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Catania. Tale circostanza fa sì che per i polacchi residenti a Torino la partecipazione alle elezioni comporti un viaggio a Milano. Le persone di Torino che hanno dichiarato la loro partecipazione al voto sottolineano che la loro partecipazione è possibile grazie all’attività dell’associazione dei polacchi a Torino, che organizza un viaggio comune con pullman per un importo esiguo. Alla luce di questi fatti sembra importante la proposta dell’introduzione del voto tramite internet.

Per quanto riguarda l’attività politica polacca, la maggioranza dei rispondenti dichiara di non aver partecipato in nessuna forma a tale attività da quando risiede in Italia. Una persona dichiara di aver intrapreso rapporti con un politico oppure un sindacalista e una ammette di aver scritto ai giornali (entrambe del campione romano). Undici persone invece dichiarano di aver firmato qualche petizione. Per quanto riguarda la frequenza alle attività connesse alla Polonia, nessuno ha scelto la risposta “ogni giorno”. Le risposte più frequenti sono “saltuariamente” e “solo per le elezioni”.

Una sola persona tra i rispondenti dichiara di non celebrare le festività polacche e una dichiara di averle celebrate solo in Polonia, tutti gli altri intervistati hanno dichiarato di aver sempre celebrate e di celebrarle anche in Italia. I polacchi dichiarano di celebrare queste festività in casa con la famiglia o amici. Nel “campione romano” quasi metà delle persone intervistate dichiarano di celebrare queste festività anche nelle comunità di preghiera o in chiesa. Tre quarti del campione torinese sceglie invece la risposta “riunione nella sede delle associazioni”. Questi comportamenti confermano quanto scritto prima: la comunità dei polacchi a Torino è tradizionalmente molto legata, dall’inizio della sua esistenza, all’associazione polacca a Torino, invece quella di Roma è tradizionalmente molto legata alla chiesa.

I polacchi si informano sulle vicende politiche in Polonia tramite diversi canali: tramite connazionali in Polonia e anche quelli in Italia, leggendo i giornali e via internet (piuttosto dalle pagine in lingua polacca). In misura eguale il campione afferma di informarsi su queste tematiche saltuariamente oppure spesso, nessuno dice di non informarsi mai e pochi di informarsi ogni giorno.

Per quanto riguarda invece la politica italiana, i polacchi dichiarano di orientarsi in essa abbastanza oppure poco. Una sola persona dichiara di non

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interessarsi politica per niente. Per quanto riguarda l’attiva partecipazione alla vita politica, gli intervistati ammettono di non praticarla: non c’è nessuno iscritto ai partiti italiani, due persone appartengono ai sindacati (entrambe di Roma). La propensione all’associazionismo è molto più visibile nella comunità di Torino, dove più di due terzi degli intervistati ha dichiarato la propria appartenenza all’associazione dei polacchi a Torino. A Roma solo 4 intervistati hanno dichiarato la loro appartenenza alle associazioni. Questi risultati testimoniano di nuovo il peso dell’associazione torinese nella vita dei polacchi in quella città e confermano il fatto che l’associazione sul territorio torinese funziona molto bene e riesce ad essere una forma attraente di partecipazione alla vita sociale e civile per i polacchi indipendentemente dalla loro età.

La conoscenza del nome del sindaco italiano è significativamente più diffusa tra i polacchi residenti a Roma che a Torino; mentre l’orientamento politico della coalizione al governo nella regione in entrambe le città risulta ancora meno chiaro. Gli intervistati dichiarano più conoscenza verso i rappresentanti della politica italiana a livello nazionale, quasi tutti dichiarano di conoscere il nome dell’attuale presidente del Consiglio ma meno l’orientamento e la composizione della coalizione governativa.

Per quanto riguarda la conoscenza degli attori della scena politica nazionale italiana, dal test, in cui gli intervistati devono collegare i nomi dei partiti con i loro leader e membri importanti, emerge, che tale conoscenza è limitata a pochi nomi: Silvio Berlusconi viene riconosciuto come il leader del Popolo della libertà, Walter Veltroni come leader del Partito Democratico e Umberto Bossi come leader della Lega. Alcuni intervistati conoscono anche l’appartenenza politica di Romano Prodi e di Gianfranco Fini.

Né la comunità di Torino né quella di Roma dichiarano interesse verso l’amministrazione regionale. Nemmeno il dibattito tra i partiti e le campagne elettorali

godono dell’interesse dei rispondenti. I temi che invece suscitano interesse sono l’immigrazione

(quote, assistenza, rimesse, pensioni, etc) e i diritti dei lavoratori, sindacati, politiche del lavoro. I

polacchi non sono interessati agli argomenti connessi alle norme che regolano l’accesso alla

cittadinanza italiana. La spiegazione per questo mancato interesse è ovviamente che da quando la

Polonia è entrata nell’Unione Europea e, successivamente, l’Italia ha aperto il mercato del lavoro ai

polacchi, il possesso della cittadinanza non cambia molto la loro condizione in Italia.

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Interrogati riguardo al diritto di voto in Italia, molti degli intervistati hanno risposto che non

hanno diritto al voto in nessun tipo di competizione elettorale. Questo vuol dire che sono male

informati – avendo essi, in quanto cittadini comunitari, diritto di voto nelle elezioni europee e

amministrative. Comunque gli intervistati non ritengono importante il possesso del diritto di voto

nelle elezioni in Italia.

Per quanto riguarda le attività politiche in Italia, i polacchi intervistati generalmente non ne

prendono parte - la maggior parte dichiara di non farlo mai, alcuni dichiarano la loro partecipazione

saltuaria. La massima espressione della loro attività politica è la firma di petizioni.

Le persone intervistate dichiarano che la loro conoscenza della politica italiana avviene

solitamente tramite televisione. Alcuni alla televisione aggiungono altre fonti: internet oppure i

giornali italiani. Molti degli intervistati dichiarano di informarsi riguardo la politica italiana ogni

giorno o comunque spesso. Non c’e una sola persona che dichiari di non informarsi sulla politica

italiana; questa caratteristica può essere legata al tipo di lavoro effettuato dagli intervistati.

Possiamo notare che le persone che dichiarano di informarsi sulla politica italiana ogni giorno

tramite televisione, infatti, molto spesso svolgono lavori di cura presso le famiglie italiane.

Evidentemente assistendo i cittadini italiani e vivendo la maggior parte del tempo con loro ne

imitano le abitudini.

Generalmente i polacchi ritengono che la loro attività politica in Italia e in Polonia non comporti

nessuna complicazione per la loro vita o per i rapporti tra i due paesi. Non credono neanche che le

autorità polacche possano considerare scorretto o sconveniente lo svolgimento dell’attività politica

in Italia e nemmeno che le autorità italiane possano considerare scorretto o sconveniente lo

svolgimento di tale attività in Polonia.

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