Vulcano - numero 53

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numero 53, Aprile 2010 Il mensile dell’Università degli studi di Milano L’Opus Dei vista da chi ha deciso di andarsene Contrasto alla Mafia intervista al procuratore aggiunto Alberto Nobili Neri Marcorè tra satira, democrazia e anticipazioni cinematografiche

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Vulcano è un periodico di informazione nato nel 2003 per inizativa di alcuni studenti dell'Università Statale di Milano e da allora viene distribuito gratuitamente presso tutte le principali sedi dell'ateneo. Osservando con particolare interesse la realtà universitaria, propone ogni mese inchieste, approfondimenti culturali e di attualità, interviste e rubriche satiriche.

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numero 53, Aprile 2010Il mensile dell’Università degli studi di Milano

L’Opus Dei vista da chi ha deciso di andarsene

Contrasto alla Mafiaintervista al procuratore aggiunto Alberto Nobili

Neri Marcorètra satira, democrazia e anticipazioni cinematografiche

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corsivo Giuditta Grechiinchiesta L’Opera di Dio?a cura di Gemma GhigliaattualitàCuore nero. Viaggio nella destra radicalea cura di Filippo Bernasconi e Giuseppe ArgentieriFascisti in libreriaFilippo BernasconiIl silenzio rumoroso della mafia italianaMassimo Brugnone, Giuditta GrechiAvatar: cose dell’altro mondo?Elena SangalliBe Italian, it’s cool!Elisa CostacuriositàEppur ci credo. La sindone: falso o miracolo?Filippo BernasconiQuanto conosci Milano?Daniele ColombiculturaSottile come i Simpson, caustico come South Parkintervista a Neri Marcorè, di Laura Carli e Elisa CostaIl tempo di SchieleIrene NavaGli invisibili: 35 rhumsGiuseppe ArgentieriFinding my Religion.Conversando con Paolo Saporiti, di Alessandro MancarubricheDa rileggere per la prima volta, II: Delitto e castigoDanilo Apriglianocruciverba a cura di Filippo Bernasconi editoriale Beniamino Musto

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Sommario

La città sottosopra

Giuditta Grechi

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Negli anni Sessanta la grafica della metropolitana di Milano poteva vantare la firma del quattro volte “compasso d’oro” Bob Noorda. L’estrema semplicità e funzionalità della pianta del metrò milanese è stata poi esportata dallo stesso Noorda anche a New York e a San Paolo, in Brasile. Da qualche tempo però la mappa disegnata da Noorda è stata sostituita dalla sua rivisitazione postmoderna. Le linee sono le stesse — ci mancherebbe — ma sono completamente disorientate: basti dire che San Donato e Maciachini sono alla stessa altez-za, in orizzontale! La città sotterranea, percorsa ogni giorno da centinaia di migliaia di milanesi, pendolari e turisti è schiacciata, capovolta e distorta, senza più alcun legame con la città di fuori. Mentre la nostra sindaca non si risparmia in pomposi elogi per la Milano che verrà, quella dell’Esposi-zione universale, la Milano di oggi si protende talmente ver-so il dopo, verso la città che sarà fra cinque anni, che non si preoccupa di quello che è in questo momento, di quello che comunica quotidianamente ai suoi abitanti. Disinteresse e falso avanguardismo. Ostentato voler essere, voler parlare e dire di sé senza ascoltarsi. E chissà se qualcuno, nel 2015, penserà che, forse, la gara con Smirne era stata truccata!

in copertina: foto di Todd Gehman

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Dicono che se l’Opus Dei fosse una birra sarebbe una Guinness extra stout: forte, decisa e sicuramente non per tutti. Sfortunatamente, l’Opus Dei non è una birra bensì l’unica espressione di prelatura personale (figura giuridica prodotta dal codice di diritto canonico) esistente al mon-do. Il riconoscimento le è stato attribuito a partire dal 1982 dopo un lungo cammino cominciato nel 1928 in Spagna, quando il futuro santo Josemarìa escrivà de balaguer fondò l’organizzazione spirituale destinata a diventare la forza più ambigua e controversa della Chiesa cattolica. emanuela Provera nel libro dentro l’opus dei — come funziona la milizia di dio parla di battaglie giuridiche tese ad ottenere questa particolare configurazione, così da agire, autonoma dalle autorità ecclesiastiche e svincolata da quelle civili, indisturbata nelle propria azione pastora-le. L’esortazione al proselitismo è infatti uno dei nodi focali dell’organizzazione, così come diceva Escrivà in Cammino: “Vai fuori e convinci quelli che trovi a riempire la mia casa; costringili a entrare, spingili… bisogna uccidersi per il pro-selitismo”.Onestamente, Guinness Extra Stout?

invervista ad emanuela ProveraCome e quando è entrata a far parte dell’Opera?Ho conosciuto l’Opus Dei tramite un sacerdote che frequen-tava la mia famiglia, don Giuseppe Garufletti, il quale ci in-trodusse lentamente nell’istituzione. Ho poi partecipato ad una vacanza studio all’estero, che non sapevo fosse organiz-zata dall’Opus Dei, secondo un tipico schema di apostolato che propone centri studio e iniziative culturali, glissando sulla reale natura dell’organizzazione. Difficilmente, quin-di, se ne coglie l’intento proselitistico. Il contatto superfi-ciale che ebbi all’inizio con l’Opera si approfondì: nel 1986, a 19 anni, chiesi di diventare numeraria.

In che circostanze ha cominciato a sviluppare il “diaboli-co” e temutissimo spirito critico nei confronti dell’orga-nizzazione?Alla fine della mia permanenza, dopo dieci anni nell’Opera, e ci vollero comunque un paio di anni per maturare l’idea che, dopotutto, quella non fosse la mia strada.

l’operadi dio?a cura di Gemma Ghiglia

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Lo spirito critico, alla base dell’umani-tà di una persona, è condannato come peccato dall’istituzione e come tale deve essere confessato.

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È un peccato perchè permette di compiere una scelta vera, fatta con libertà, cosa che nell’Opus Dei non è concessa.

Come è riuscita ad uscirne?Sono uscita con grande difficoltà e senso di colpa, sentivo di infrangere un patto, e ce l’ho fatta solo perché, ad un certo punto, ho cominciato a pensare con la mia testa, grazie an-che alla lettura di libri che l’Opera proibisce severamente, come Delitto e castigo o La terra desolata di Eliot.

Quali erano allora e quali sono ora i suoi sentimenti verso l’Opera?Allora ci veniva insegnato che prima di tutto veniva l’Opera e poi la Chiesa: amavo il Papa perché l’Opera diceva di amar-lo, rispettavo il magistero perché l’Opera diceva di rispet-tarlo.Ora provo un grande sconcerto verso la sua azione, e sono inquietata dal fatto che sia fortemente legittimata sia dalla Chiesa sia dal Governo.

Leggendo il libro, ho percepito l’Opus Dei come una setta fa-scista ai limiti del mafioso: indottrinamento, selezione, au-toritarismo, segretezza, contatti importanti in diversi am-biti e in diversi luoghi. Crede sia esagerato definire l’Opera una “setta” ?Non me la sento di definirla una setta. Però ritengo che sia un’istituzione con carattere settario che quindi sviluppa e impone sui membri un forte controllo mentale.

Cosa spinge migliaia di persone ad entrare nell’Opus Dei?L’immagine iniziale molto forte e accattivante dell’Ope-ra come interprete di un cristianesimo moderno e secola-re e l’ambiente elitario. L’immagine superficiale, vissuta soprattutto dai soprannumerari, è quella di un ambiente molto gradevole, scevro dalle costrizioni vissute, invece, dai numerari. Va poi tenuto presente che l’opera di proseli-tismo è rivolta essenzialmente ai giovani, ragazzi di tredi-ci o quattordici anni che non hanno ancora sviluppato una precisa idea di sé: cercano un’identità e l’Opera gliela offre, bombardandoli affettivamente. Sono pochi gli adolescen-ti avvicinati che rifiutano di entrare nell’Opus Dei.

Alla presentazione del libro ha detto che molti membri sof-frono di disturbi psicosomatici, come è possibile che, nono-stante questi profondi malesseri fisici e psicologici, i fuoriu-sciti siano così pochi?In realtà il 60% [stima non ufficiale] di chi entra nell’Opera poi ne esce. Il vero problema è che è difficile comunicare tra fuoriusciti: non sai chi sono gli altri oppure non vuoi parlare o più semplicemente sei impegnato a rifarti una vita.

quando ero direttrice di un centro a Verona, due donne su tre prendevano psicofarmaci o sonniferi; quando il malesse-re e il disagio interiori sono così profondi, è inevitabile che si riflettano sul corpo.

L’Opus Dei definisce se stessa come “famiglia numerosa e povera” ma nella realtà i conti non tornano. Può spiegare brevemente come avviene la selezione dei membri e la si-tuazione economico-finanziaria dell’Opera?

in particolare quelle che comportano ruoli direttivi. Il ca-rattere elitario dell’istituto è inequivocabilmente confer-4 aprile 2010 — vulcano 53

Moltissimi dei membri che restano nell’organizzazione soffrono di nevrosi:

L’articolo 202 delle costituzioni del ’50 af-ferma chiaramente che il mezzo preferi-to di apostolato sono le cariche pubbliche,

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mato anche nell’art 186: “I membri dell’istituto, che devono provenire dalle persone più selezionate della propria classe sociale, esercitano il loro apostolato in modo particolare tra i loro pari, in primo luogo mediante l’amicizia e la fiducia re-ciproca”. Si vede da questo articolo la volontà di accedere alla classe aristocratica per conquistare poi tutta la socie-tà. Comunque sia, l’Opera è animata da un forte spirito di contraddizione: predica una cosa e ne fa un’altra. E questo vale anche per l’ambito finanziario: l’Opus Dei, di suo, non possiede che la Chiesa Prelatizia e l’ufficio centrale a Roma ma in realtà ha a disposizione l’usufrutto di innumerevoli edifici e fondazioni. Inoltre, tutti i numerari devono versare il proprio stipendio al centro in cui vivono e fare testamen-to in favore dell’Opus Dei.

A pag. 89 del suo libro dice che quella dell’Opus Dei è una religiosità “sempre più contraddittoria, incapace di rac-cogliere emozioni e suscitare passioni, sempre più auto-referenziale. E sempre più vincente come religione dell’ar-roganza e del potere”. Come è riuscita a mantenere la fede nonostante l’esperienza devastante vissuta nell’Opus Dei?Sono convinta che Dio mi abbia aiutata a uscire dall’Opera per trovare la vera fede. Non posso parlare per il futuro ma fino ad oggi ho sempre visto Dio nella mia vita. Inoltre, solo ora comincio a scoprire la Chiesa, a distinguerla dall’Opera, a viverla con spirito critico e a cercare il vero insegnamento di Gesù.

Qual è l’obbiettivo che vuole raggiungere con questo libro?Ottenere che le istituzioni governativa ed ecclesiastica svolgano un’indagine con il fine di annullare alcuni articoli degli statuti del 1982 che tanto nuocciono alle prassi di vita interna all’istituzione.

Che vita conduce oggi, a dieci anni dalla sua uscita dall’or-ganizzazione?Nonostante le numerose difficoltà, sono felice di vivere la mia vita, finalmente mia, dopo tanto tempo.

intervista a Mariaclaudiastudentessa di filosofia vicina all’opus dei

Cos’è esattamente l’Opus dei?È una prelatura personale, una diocesi internazionale lega-ta alle persone e non al territorio. Per come la vivo io, è san-tificazione della vita ordinaria: della famiglia, del lavoro,del tempo libero.

Qual è la tua esperienza relativa all’Opera?Non ne faccio parte, non sono una numeraria, ma l’ho fre-quentata in modo molto assiduo, ora un po’ meno anche se continuo a ricevere direzione spirituale da un sacerdote dell’Opera ogni settimana. Frequento ancora la Residen-za Universitaria Viscontea e il centro culturale Arcaia. Ho seguito un circolo di incontri sulla libertà e sono stata con l’Opera alla Giornata Mondiale della Gioventù e all’Uni-vi, durante la Settimana Santa, a Roma. Mi sono accostata all’Opus Dei per una mia esigenza spirituale, non perché i

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miei genitori sono cooperatori e non perché ho frequentato le scuole FAES. Dopo aver letto “Cammino” di Josèmaria escrivà, ho contattato spontaneamente l’Opera per riceve-re direzione spirituale secondo la guida, appunto, di Escri-và. Effettivamente il mio è un caso un po’ particolare perché di solito si viene contattati da persone legate all’Opera, an-che io infatti ho proposto dei contatti ad alcune mie amiche.

Perché molta gente decide di lasciare l’Opus dei?Può essere perché i numerari, molti dei quali poco preparati per ciò che si trovano ad affrontare, vivendo e spesso lavo-rando nelle varie sedi dell’Opus Dei, si sentono sopraffatti dall’ambiente, cosa che però non accade tra i soprannume-rari e gli aggregati o i cooperatori.

Cosa ne pensi dei fuoriusciti?Ne ho parlato con la mia direttrice spirituale perché, vista la positività della mia esperienza, non capivo assolutamen-te la loro situazione. Ora prego per i fuoriusciti, persone che hanno sofferto, vittime di fraintendimenti del messaggio spirituale dell’Opera.

Cosa ne pensi del libro di Emanuela Provera? Credi che sia un’esagerazione, frutto di un’esperienza personale e non condivisibile?Assolutamente sì. Mi dispiace molto per quello che ha do-vuto passare, e come lei anche altri numerari, ma sono dell’idea che sia il frutto di un’esperienza personale nega-tiva mentre io resto molto soddisfatta del mio incontro con l’Opera. Credo nella correzione fraterna: spero che questo libro sia di insegnamento, così che sia possibile, per chi ha sbagliato, per chi ha ferito queste persone fraintendendo il messaggio dell’Opera, correggere il proprio comportamento ed evitare di commettere nuovamente gli stessi errori.

Insomma, l’ Opus Dei non si limita ad essere una Chiesa nel-la Chiesa, è un altro mondo; e Dentro l’Opus Dei non deve essere considerato solo come l’esperienza dell’autrice, ma come la testimonianza dell’esistenza di questo microcosmo dotato di regole proprie, e di chi ha avuto la forza di uscirne.

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foto Anthony M.

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cuoreneroviaggio nella destra radicalea cura di Filippo bernasconi e Giuseppe argenteri

Qualche giorno fa abbiamo conosciuto Marco arioli, il re-sponsabile lombardo di casaPound, una delle più giovani organizzazioni politiche di estrema destra (anche se loro preferiscono farsi chiamare “fascisti del nuovo millennio”). La loro appartenenza politica suscita quel misto di spaven-to e fastidio, comune nei confronti di chi manifesta un pen-siero e un agire radicali. La rivendicazione fascista poi, è ciò che maggiormente offende chi proprio non capisce cosa ci sia di tanto affascinante nel Ventennio, tanto da ispirare indegne celebrazioni. Abbiamo però cercato di mettere da parte i nostri giudizi (o pregiudizi?), ascoltando e cercando di capire.Per quanto riguarda CP, si tratta non tanto e non solo di un riflusso nostalgico verso un passato eroico, quanto piutto-sto del tentativo di “sviluppare in maniera organica un pro-getto e una struttura politica nuova, che proietti nel futuro il patrimonio ideale e umano che il Fascismo italiano ha co-struito con immenso sacrificio”. Il loro simbolo è la tartaru-ga: “l’animale che per eccellenza rappresenta la longevità”.L’associazione nasce a roma nel 2003, con l’occupazione di un edificio che ne diverrà la sede, da parte di alcuni ragazzi, guidati da Simone di Stefano. Oggi l’esponente di riferimen-to è Gianluca Iannone, protagonista dell’esperimento che ha poi ispirato la nascita di CP, Casa Montag, e “teorico delle occupazioni”, oltre che fondatore del gruppo rock ZetaZero-Alfa.L’approdo a Milano, recente, è stato assai travagliato. Prima come cuore nero – ma la sede di Viale Certosa è stata in-cendiata prima dell’inaugurazione, nel 2007, da antagonisti di sinistra – e infine come Casa Pound. Il nome è, ovviamente, un tributo a ezra Pound, uno dei grandi poeti del novecento, impegnato collateralmente nel-lo sviluppo di una teoria economica “contro l’usura”. Ce-lebre la sua prigionia a Pisa, dove fu prima internato in un campo, e poi considerato pazzo grazie ad una perizia trucca-ta proprio per salvargli la vita.Al centro della sua speculazione economica è il cosiddetto “mutuo sociale”, ossia la costruzione da parte dello Stato su terreni pubblici, di case da vendere a prezzo di costo alle fa-miglie, senza passare per il cappio delle banche, l’ambizione è quella di dare una risposta concreta all’emergenza abita-tiva. Altro punto cardinale, la statalizzazione della banche: da quando “l’emissione della moneta è stata scippata alla Comunità Nazionale a favore di gruppi privati” i cittadini sono tenuti “sotto strozzo”, attraverso un calcolato e con-trollato aumento del debito. Si tratta dell’altrimenti detto “signoraggio bancario”, tema non ignoto anche al pensiero radicale di sinistra — fino a qualche tempo fa, era tema an-che degli spettacoli di Beppe Grillo (anche se è considerato da molti una delle maggiori bufale via web).—Comunque la si pensi, non è facile neanche riuscire a par-larne—si lamenta Marco,—ci ho provato nelle scuola, ma il commento alle mie parole era sempre lo stesso: “porco fa-

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foto Anthony M.

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scista!”. L’antifascismo è un mito duro a morire, come dot-trina unica professata dai sedicenti progressisti di sinistra, tolta la quale molto spesso resta il nulla. Siamo pur sempre il paese incapace di fare i conti con la propria storia.

Senza che questo significhi rinunciare all’antifascismo, va loro riconosciuto merito per le iniziative migliori, come la distribuzione della spesa ai poveri o, in Abruzzo, la collaborazione nella ri-costruzione di Poggio Picenze, che ha spinto il sindaco – di centro sinistra – ad affidare loro l’organizzazione di una biblioteca, dedicata, ovviamente, a Ezra Pound. Per l’occasione è stato pen-sato lo slogan: “Libri come mattoni, per ricostruire l’Abruzzo”.

Per colpa di un nostro inveterato pregiudizio, restiamo stu-piti dalla disponibilità di Marco a parlarci di ciò che fanno, e di ciò che pensano. Sembrerà banale, deamicisiano, ma anche il suo entusiasmo stupisce: non sono molte le perso-ne entusiaste del loro impegno politico. Chi avesse il co-raggio di andare oltre l’iniziale rigetto, è proprio su questo che dovrebbe interrogarsi, su come sia possibile spiegare quest’impegno. Va riconosciuta la loro capacità di mobili-tazione, specialmente se confrontata con il nulla di chi, non credendo più in nulla, nulla fa perché un frammento di ciò che non piace cambi.Per sfatare qualche mito, è bene segnalare la loro posizione, non comune (almeno fra le parallele organizzazioni politi-che di destra), favorevole alla regolarizzazione delle coppie gay. Altrettanto degno di nota il loro antirazzismo, lontano da ogni possibile “caccia all’immigrato”. Anche loro, così come il mondo civile, pensano che il problema non sia mai l’uomo bisognoso di aiuto, ma il fenomeno dell’immigra-zione clandestina. Difficile capire se dietro ai bei discorsi corrisponda un reale convincimento, fa comunque piacere sentire parole ragionate.

Alla fine della chiacchierata emerge che l’incompatibili-tà tra le nostre posizioni e quelle del responsabile di Casa Pound su molti temi non ci hanno impedito di ascoltare e di farci ascoltare, e per qualche secondo abbiamo intravisto la possibilità di un dialogo, di un confronto franco, non vio-lento… Non è forse necessario questo per riuscire a realizza-re qualcosa di nuovo e, secondo il motto di Confucio, tanto amato da Pound, rinnovare davvero?

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Fascistiin libreriala cultura di destratra banche, ebrei e poteri occulti

Chi cercasse la “libreria ritter” su internet difficilmente intuirebbe il suo reale ambito di interesse. Osservando il sito infatti è ben nascosta, almeno ad una prima occhiata, ogni allusione al mondo dell’estrema destra. La prima im-pressione è quella di una semplice libreria specializzata in ambito militare, dove i testi più compromettenti sono in-seriti in sottocategorie ambigue, tra nomi edulcorati come “Etnonazionalismo” o il generico “Stili di vita”.Giunti fisicamente sul posto, viene qualche sospetto. Non una sola insegna annuncia la presenza della libreria, e solo seguendo una minuscola targhetta si giunge in una sorta di garage adibito a sala conferenze. Osservando poi i libri sugli scaffali, ogni dubbio cade: X Mas, Repubblica Sociale, cele-brazioni degli Ultrà e addirittura libri di Faurisson e Irving (i teorici del negazionismo), oltre a testi più specialistici in numerose lingue straniere.

La nostra visita è avvenuta durante una conferenza di Ma-rio borghezio, l’europarlamentare leghista e “criptofasci-sta”, noto per aver disinfettato una nigeriana in treno, aver partecipato all’incendio di un campo rom (a suo dire acci-dentale) e altre azioni dettate da quella che lui chiama “una natura ruspante e boschiva”.La sala, piccola ma gremita, era composta da giovani con la testa rasata (pochi), uomini di mezza età con l’aria da intel-lettuale (abbastanza) e anziani nostalgici affetti da un prin-cipio di Alzheimer (molti, specie tra chi poneva domande). Chi, memore dei comizi di Borghezio visti in tv, si immagina uno sproloquio rivolto alle prime fasce di alfabetizzazione, deve però ricredersi. Il discusso avvocato torinese è quello che si sarebbe detto un intellettuale di destra, snocciola te-sti e autori con facilità, facendo sfoggio di letture numerose anche se limitate alla letteratura antagonista (di destra ov-viamente). Il pubblico a volte lo segue, a volte un po’ meno.Il tema è interessante: il mondialismo (ossia la globalizza-zione nel gergo della destra radicale), visto come il genera-le appiattimento su alcuni modelli culturali dominanti. Le tesi, un po’ bizzarre: il fenomeno globale non sarebbe frutto semplicemente del progresso tecnologico e dei nuovi mez-zi di comunicazione, ma di un disegno ordito a tavolino dal nuovo ordine Mondiale, composto dalle solite lobby giu-daiche. Una manciata di banchieri ebrei controllerebbe il potere economico e quindi politico, reggendo le sorti del pianeta durante segretissime riunioni tenute a Gerusalem-me o a New York. Da notare che la prima parte della confe-renza, dove l’attacco è rivolto a Stati Uniti e banche, avrebbe trovato ampi consensi anche tra l’estrema sinistra.Perché allora Borghezio, che si propone come intellettuale sostenitore di battaglie antagoniste, appoggia Berlusconi e fa propaganda da caserma? La domanda, posta dal pubblico, riceve una risposta allarmante, forse la chiave di lettura del successo della Lega: “La propaganda si fa per ottenere il consenso, dicendo alla gente quello che vuole sentirsi dire; poi fra di noi possia-mo dirci cosa pensiamo realmente.”

Filippo Bernasconi

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10 aprile 2010 — vulcano 53

il silenzio rumorosodella mafiaitalianaintervista al procuratore aggiuntoalberto nobilidi Massimo brugnone e Giuditta Grechi

Alberto Nobili, Procuratore Aggiunto del-la Procura della Repubblica presso il Tri-bunale di Milano, ha lavorato a lungo, fin dalla sua costituzione nel 1992, presso la Direzione Distrettuale Antimafia (D.D.A).Vulcano lo ha incontrato per approfondire insieme a lui il problema del difficile contrasto alla mafia e alla criminalità organizzata.

Qual è il campo d’azione specifico della D.D.A.?La materia di cui si occupa la DDA è prevista dal Codice di Procedura Penale, che stabilisce per quali reati c’è la com-petenza esclusiva della DDA. associazione mafiosa, se-questri di persona, traffico nazionale e internazionale di stupefacenti – purché sia configurabile l’associazione per delinquere – e tutta un’altra serie di reati. Di recente sono tornati in auge, sia col fenomeno dell’immigrazione clandestina sia soprattutto con lo sfruttamento della pro-stituzione, anche la riduzione in schiavitù, la tratta degli schiavi e delle bianche.

Ci sono differenze di modalità di indagine fra Nord e Sud?Il contrasto alla mafia è un fenomeno nazionale, cambia for-se la tipologia. Qui al Nord la mafia è più industriale, im-prenditoriale. Traffica in droga, come tutte le mafie, ma in più ricicla gran parte dei proventi nell’industria, che al nord è più sviluppata. Quindi è richiesta una maggiore penetra-zione nel circuito economico per andare a scoprire i gangli del riciclaggio. Ma non dimentichiamo che anche qui abbia-mo le cosche presenti sul territorio, quindi una tipologia di indagine, in questo senso, assolutamente identica a quella che si svolge al Sud.

La D.D.A riesce a stare al passo con i mezzi sempre più sofi-sticati della mafia?I mezzi che noi abbiamo per contrastarla vengono un po’ alla volta ridotti. Avevamo prima un forte fenomeno della colla-borazione con la giustizia – i pentiti. Fenomeno che adesso è molto diminuito, anche per una serie di interventi norma-tivi non sempre condivisibili… vogliono anche restringere il terreno delle intercettazioni telefoniche. E, con questi blocchi agli ambiti investigativi, si rischia di far scappare ancora più avanti la mafia e renderne più duro il contrasto.Non c’è poi quella coesione politica fra tutte le forze istituzionali che ci lascia sperare in una condivisione completa di strategie contro la mafia. Purtroppo oggi la giustizia è un terreno di scontro tra le for-ze politiche, e questo è un regalo che si fa alla mafia, regalo

foto Favrizio Lonzini

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involontario, ma è un regalo.Approfondendo l’aspetto delle intercettazioni, quanto c’è di vero nel problema della perdita di privacy da parte di citta-dini, e quanto sono invece necessarie?Tutto starebbe a rispettare le regole. Solo le telefonate che hanno rilevanza penale dovrebbero essere utilizzate e poi conosciute o rese note. Il problema è che è stata esagerata la turbativa alla privacy per far sì che ve-nisse modificata la legge, che in realtà non va modificata. Caso mai vanno inasprite le pene o vanno sanzionate le fughe di notizie, o le pubblicazioni illegali, che denigrano solo delle persone, ma non hanno rilevanza penale. Ma per l’intercettazione come mezzo di ricerca della prova, quindi come strumento investigativo, a mio avviso sarebbe un de-litto modificare e ridurre il campo di applicazione. Speria-mo che nel dibattito politico che è ancora in corso riaffiori-no le vere esigenze della macchina della giustizia.

Le intercettazioni aprono l’argomento del rapporto con i giornalisti. Quando un procuratore può rendere pubbliche alcune notizie e quali può dare al giornalista?Dunque, per buon senso, ad indagine completata è qua-si dovuto questo atto di informazione al cittadino.È giusto che si sappia che abbiamo dei mafiosi in casa, che c’è chi li contrasta, e che certi contrasti vanno in un certo modo piuttosto che in un altro.

Deleterie sono le fughe di notizia durante l’investigazione, durante l’indagine. E se c’è qualcuno che viene a sapere o a captare qualche indiscrezione, io credo sia solo un danno terribile per chi indaga.

Com’è possibile che alcune persone vengano a sapere delle indagini in corso?È possibile perché abbiamo dei giornalisti che fanno il loro

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mestiere, e spesso è anche difficile fargli capire l’importan-za di non andare a turbare l’ambito investigativo. C’è purtroppo questo mito dello scoop, c’è il terrore di bu-care la notizia, che fa sì che il giornalista, appena ha una notizia che ha un minimo di rilevanza, immediatamente la spara, fregandosene di quelle che sono le nostre esigenze.

Ma c’è un momento un cui il giornalista è utile all’indagine in corso?Il giornalista se è un bravo professionista può anche esse-re utile nel momento in cui non turba la riservatezza che è propria di una certa indagine. Tante indagini sono partite da servizi di Striscia la notizia, delle Iene. Quello è buon giorna-lismo investigativo, purché poi non diventi eccessivamente invadente. Alcune situazioni sono state anche scoperte pro-prio da report, da trasmissioni, così, più di attualità. Però poi, se l’indagine passa alla polizia e alla magistratura, direi che è il momento in cui uno deve un attimo fermarsi, salvo poi avere notizie sull’indagine completata.

E pericolo di infiltrazioni, magari del giornalista che vuole avere lo scoop o del mafioso che vuole sapere delle indagini?C’è di tutto. Abbiamo avuto e abbiamo infiltrati anche qui al Palazzo di Giustizia che carpivano informazioni per dar-le ai giornalisti, o peggio alla mafia. Questo però è un male generalizzato. Noi abbiamo interesse a fare pulizia al no-stro interno perché avere dei collaboratori infedeli e sleali è un danno enorme. Però il rischio è concreto. Nel periodo di Mani Pulite è nata questa familiarizzazione forte con la stampa, che fa sì che i giornalisti siano molto presenti nei nostri corridoi.I due mali maggiori italiani sono la mafia e la corruzione. Purtroppo noi non vediamo un’adeguata attenzione a questi fenomeni. La mafia ha scelto da anni, dopo il periodo delle stragi, quando ha preso i colpi più duri – perché lo Stato non poteva non reagire dopo le stragi del ’91–’93 – la via del si-lenzio. Per chi fa il mio lavoro è un silenzio rumorosissimo. Noi ci accorgiamo della presenza della mafia praticamente a ogni indagine degna di un certo spessore. Questa mancan-za di morti, di stragi, di bombe, di tritolo ha un po’ distratto l’attenzione delle istituzioni, quasi se il fenomeno della ma-fia fosse un fenomeno contenuto. Ed è una cosa molto peri-colosa, perché se un fenomeno pare contenuto sembra che lo si possa tenere sotto controllo. In realtà io non credo che abbiamo questa posizione di supremazia sulla mafia.La mafia avrà vita dura e la contrastere-mo in tutti i modi, ma io temo che stia fa-cendo dei passi avanti importanti, per-ché al silenzio scelto come strategia dalla mafia purtroppo sta corrispondendo an-che un silenzio istituzionale, una disat-tenzione, e questo è un grave rischio.….si fa quel che si può, ma vendiamo cara la pelle!

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Pandora, meraviglioso pianeta azzurro dei Na’vi, affascina e stupisce con la sua maestosa vegetazione e le sue fantasiose creature. Le riprese dall’alto delle immense foreste possono ricordare la foresta tropicale dell’Amazzonia, unico luogo della terra che ancora non è stato modificato troppo dall’in-tervento dell’uomo. Una delle idee più interessanti del film è che ci sia una specie di coscienza che pervade il pianeta, che i Na’vi chiamano “Madre”. Anche una scienziata del progetto Avatar, Grace, scopre du-rante le sue ricerche un legame biochimico tra le radici di ogni albero, che le unisce come fossero sinapsi. I Na’vi ri-volgono le loro preghiere a particolari specie di alberi dove sopravvivono gli spiriti degli antenati che li proteggono fungendo da tramite con la “Madre”. Gli alberi di Pandora hanno molte analogie con una particolare specie di alberi presente in Amazzonia. l’albero samauma, chiamato “Regina della foresta”, è alto fino a 30 metri con un tronco del diametro di tre me-tri, ma la grandezza non è l’unica caratteristica in co-mune, Il Samauma è dotato di grandi radici chiamate “sapopernas”,strettamente intrecciate, che vengono utiliz-zate dagli indigeni per parlare tra loro a distanza percuoten-dole.Ogni tanto nella foresta risuona un battito che nessuno ha provocato.Si narra che creature invisibili e magiche, le Curupiras, pro-teggano la foresta e utilizzino le radici di quest’albero per comunicare. Oggi però il rumore delle motoseghe e delle macchine scavatrici sovrasta il segnale delle Curupiras. La loro antica voce rischia di scomparire del tutto.In pochi decenni abbiamo perso il 40% della foresta amazzonica e in questo momento migliaia di incendi distrug-gono centinaia di ettari di alberi secola-ri per lasciare spazio a sconfinati cam-pi per allevamento e colture intensive. Senza contare gli interessi delle grandi multinazionali del legno e la presenza di miniere d’oro, petrolio e gas naturale. Ma in fondo che male può fare qualche albero in meno?Le foreste pluviali tropicali sono dei re-golatori naturali della temperatura del nostro Pianeta e l’Amazzonia è il polmo-ne verde più grande del mondo, deter-mina l’andamento delle precipitazioni nel Brasile centrale, influenza il clima dell’America meridionale, del Golfo del Messico ed è fondamentale per l’equili-brio climatico mondiale. La foresta amazzonica si estende in Bolivia, Brasile, Colom-bia, Ecuador, Guyana, Guiana Francese, Perù, Suriname, Venezuela. È più grande dell’Europa, ricopre il 30% della superficie delle foreste tropicali del mondo e ospita: 40.000

avatar:cose dell’altro mondo?la foresta amazzonica e i danni all’ecosistema

foto Alexan

der Torren

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specie di piante, 420 specie di mammiferi, 1294 specie di uccelli, 818 specie di rettili, 427 specie di anfibi e 3000 spe-cie di pesci nel Rio delle Amazzoni (un numero di specie su-periore rispetto a quelle che vivono nell’oceano Atlantico). Immaginate i danni che la deforestazio-ne e la pesca insostenibile attuata dalle grandi industrie hanno fatto e possono ancora fare?Il WWF da anni cerca di impedire questo scempio con mol-te iniziative. Ha certificato 500.000 ettari di foresta con il marchio FSC (Forest Stewardship Council) che identifica i prodotti contenenti legno proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici. Il WWF dal 1985 ha realizzato progetti di agricoltura soste-nibile, economia agroforestale, educazione ambientale ed ecoturismo in 35 villaggi vicini alla Riserva di UNA (Brasi-le). Ha creato due riserve naturali nella foresta amazzonica in Perù, per un totale di 60.000 Km2 e, non ultimo, ha lancia-to una campagna per salvare il Samauma.Evidente in Avatar è la tematica eco-logista: i veri nemici sono gli umani che sfruttano il pianeta incuranti del danno che provocano. La speranza è di smuovere un po’ l’opinione pubblica e non solo in America.Noi cosa possiamo fare? Non è colpa nostra se le grandi in-dustrie distruggono il nostro pianeta per profitto. Tanto per cominciare si possono raccogliere alcuni suggerimenti presenti nel sito del WWF (www.wwf.it). Alcuni dicono che queste azioni sono soltanto una goccia nel mare e che in fon-do non possono cambiare la situazione. Magari però, goccia dopo goccia...

A causa della deforestazione ogni minuto perdiamo un’area equivalente a 36 cam-pi da calcio, ogni anno perdiamo 1 milio-ne e 600 ettari di foresta Amazzonica.I Na’vi hanno ingaggiato una guerra disperata contro un ne-mico nettamente più forte di loro per salvare Pandora. Noi cosa siamo disposti a fare?

Elena Sangalli

14 aprile 2010 — vulcano 53

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15aprile 2010 — vulcano 53

“Oh! Are you Italian? I love Italy… I know… Elisabetta Cana-lis, Laura Pausini and, what else? Giampaolo Giuliani!”È successo. Accantonata l’idea che noi italiani ci dilettiamo suonando il mandolino e cantando opera lirica a squarcia-gola, gli stranieri si stanno facendo una nuova immagine del nostro paese. “Italiano” ora non è più sinonimo di “mangia-spaghetti”, ma di persona che si sa godere la vita, insieme alla fidanzata velina che la mattina posa per i calendari ma a pranzo cucina la pizza. Assolutamente incapace di occu-parsi degnamente di faccende serie, come eleggere politici integerrimi (alla Bill Clinton, per intenderci), non sa nem-meno prevedere in anticipo il terremoto in Abruzzo (“Town ignored warning of imminent earthquake” titolava un quo-tidiano inglese il 7 aprile scorso, idolatrando il profeta Giu-liani come un nuovo Galileo).Quali che siano i cliché negativi, poco importa: essere italiani va di moda,e il made in Italy all’estero torna ad essere lodato, imitato e pure plagiato spudoratamente. Un esempio per tutti: il ci-nema. Se nel 2006 gli americani si godevano il film The Last Kiss, dichiaratamente ispirato (leggi: copiato) al nostro L’ul-timo bacio, è da poco uscito il remake musicale del fellinia-no 8 e mezzo, Nine, con Daniel Day Lewis nella parte che fu di Mastroianni. Critiche negative a valanga. Messaggio sot-tointeso: non basta vantare sofia loren nel cast per avere un risultato all’altezza dei più lodati movie italiani anni ’60. Forse migliore sarà il lavoro di un’altra Sofia, la giovane re-gista figlia di Francis Ford Coppola, che pur potendo sceglie-re location come il Kodak Theatre – quello della cerimonia degli Oscar – o i palchi di Broadway, ha deciso di ambientare il suo prossimo film… alla consegna dei telegatti! Con tanto di camei di star nostrane del calibro di Nino Frassica, Va-leria Marini e Simona Ventura, che probabilmente stufa di presentare reality show, vorrebbe approfittare dell’occasio-ne per diventare la nuova Scarlett Johannson. Il cinema hollywoodiano e quello di Cinecittà sono ormai pappa e ciccia. Simbolo di questa unione è la ormai con-solidata love story tra l’attore, regista e uomo più sexy del mondo George “ocean’s eleven” clooney e la ex velina più invidiata del pianeta Elisabetta “Natale a New York” Cana-lis. La loro storia, iniziata come gossip estivo, ha catapultato la conduttrice di TRL sulle riviste di gossip più patinate del globo. Tutti vogliono sapere tutto: chi è, cosa ha fatto nella vita, dove è nata, vissuta e, perché no, se conosce altre con-nazionali disposte a far diventare unioni tra italiane e premi Oscar un trend dilagante. E mentre gli amanti dei pettegolezzi aprono le scommesse su quando i due convoleranno a nozze, sembra ormai certo che lui abbia intenzione di vendere la famosa villa sul lago di Como, causando la diaspora di paparazzi e fan che lì ave-vano messo il nido. Anche se ormai la località lombarda non era più da tempo meta di pellegrinaggi da parte dei fanatici amanti del vip-watching. Nel 2009 questo titolo è da asse-gnare a Montepulciano, caratteristica città toscana che si è prestata a fare da controfigura per la ben più costosa vol-terra, nelle riprese del teen movie sbanca botteghino New Moon. La zona è stata invasa per giorni da amanti della saga Twilight di tutte le età, disposti a qualunque cosa per un po-sto in prima fila nel backstage della scena madre del film.Anche per quanto riguarda la canzone l’Italia conquista un

be italian,it’s cool!

foto Anthony Hevron

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posto di tutto rispetto. Archiviata la causa “Al Bano Carrisi contro Michael Jackson” in cui l’ex naufrago dell’Isola dei Famosi ha cercato di dimostrare che il compianto Princi-pe del Pop l’aveva plagiato, la musica dello Stivale sembra aver fatto la pace con quella d’oltreoceano. L’anno appena trascorso ha visto duettare i Lost con Joel Madden dei Good Charlotte e tiziano Ferro con la ex Destiny’s Child Kelly Rowland. Si spera nell’inizio di un progetto più ampio. Se iniziassero a prenderci la mano, i cantanti potrebbero tira-re fuori accoppiate niente male. Come un pezzo con le regi-ne del televoto Giusy Ferreri e Leona Lewis o con le regine della dance Paola & Chiara & Lady Gaga. Dischi di platino annunciati.Nell’anno in cui squadre di tutto il mondo si preparano a togliere alla Nazionale Italiana la coppa del mondo ai Mon-diali di calcio 2010 e gli amanti degli sport invernali co-minciano a puntare su Carolina Kostner per una medaglia d’oro alle Olimpiadi invernali, si preannunciano dodici mesi in cui all’estero sentiranno parlare dell’Italia, e molto.Potremo pensare con motivi d’orgoglio al nostro paese, sen-za farci ricordare solo perché cafoni e tamarri. Anche se es-serlo sembra andare di moda! È finito da poche settimane il reality show americano The Jersey Shore, in cui quattro ragazzi e quattro ragazze italoamericani, i “guidos” e le “gui-dettes”, sono stati rinchiusi in una casa del New Jersey e ri-presi mentre osteggiavano la loro virilità, prestanza e ocag-gine. Lo show è stato contestato per mesi dalle associazioni di italoamericani, scandalizzate dall’idea falsata e imbaraz-

-zante che viene resa della comunità dei fi-gli di immigrati dal nostro paese. Sarebbe un po’ come se gruppi di giovani scendes-sero in piazza a protestare contro il Grande Fratello sostenendo che i ventenni sanno usare i congiuntivi.In realtà, googlando le immagini del pro-gramma, non si pensa alla casa più filmata d’Italia. Mostrando ragazzi coatti e fieri di esserlo, idolatrati da ragazze spudorate disposte a qualsiasi compromesso o scon-tro fisico per conquistare il loro guido, The Jersey Shore si avvicina semmai a un noto programma quotidiano di Maria de Fi-lippi. Che l’Italia sia finalmente riuscita a piazzare un format?

Elisa Costa

16 aprile 2010 — vulcano 53

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17aprile 2010 — vulcano 53

Nel 1988 tre differenti laboratori, ad Oxford, Tucson e Zu-rigo, hanno effettuato il test del carbonio 14 per datare un campione del tessuto della Sindone. Il risultato complessivo colloca la fabbricazione della presunta reliquia tra il 1260 e il 1390, proprio il periodo in cui nelle cronache medievali appare per la prima volta il misterioso sudario. Se pensia-mo che nella Storia sono circolate una quarantina di altre sindoni, tra le quali la più celebre è quella di besançon, poi distrutta durante la rivoluzione francese, non è difficile pre-supporre l’opera di qualche falsario medievale.Se la questione fosse solo scientifica sarebbe finita qui, ma non è così.

La voglia di credere a tutti i costi di una parte del mondo cattolico (non però della Chiesa, che non riconosce uffi-cialmente l’autenticità del sudario) e la compiacenza di media ben contenti di inseguire le teorie più strampalate, permettono al mito di resistere.

Gli argomenti attraverso i quali i sindonologi ne sostengo-no l’autenticità seguono due principali filoni: la demolizio-ne della prova del Carbonio 14 e la pretesa impossibilità di riprodurre il manufatto. Contro la datazione gli sforzi dei “negazionisti” sono veramente prodigiosi: innanzitutto c’è chi sostiene che dietro ai test vi sia l’immancabile lobby massonica, che avrebbe falsificato deliberatamente i dati, gettando un’ombra sulla lunga querelle tra le sedi candidate alla realizzazione dell’esperimento.Sarebbero poi presenti anche degli errori nei calcoli stati-stici relativi ai dati del laboratorio di Tucson, che potrebbe-ro forse spostare di qualche anno la datazione. Servirebbe però un miracolo, questa volta vero, per retrodatare il risul-tato di 1300 anni.È stata avanzata anche l’ipotesi che il campione prelevato non fosse originale. Margherita d’austria, zia di Carlo V, avrebbe fatto prelevare un lembo della veste, poi sostitui-to con un rattoppo. Disgraziatamente l’equipe di scienziati avrebbe prelevato proprio quel frammento. L’ipotesi, for-malmente plausibile, potrebbe essere facilmente verificata con un nuovo test, ma forse si preferisce mantenere un alo-ne di mistero.

Esistono poi ipotesi pseudoscientifiche veramente gustose: nel 1532 la Sindone è stata sottratta ad un incendio a Cham-bery. Per alcuni il calore delle fiamme ne avrebbe alterato la radioattività. Demolita scientificamente l’ipotesi, rive-latasi completamente infondata, ne è stata partorita subito un’altra: non il fuoco, ma dell’olio di colza usato per ripulire il telo avrebbe aumentato la quantità di carbonio, sfalsando di tredici secoli il risultato. Fatto questo che potrebbe teori-camente succedere, ma solo dopo aver rovesciato litri e litri d’olio sull’immagine dell’unto del signore. Le due ricerche, opera entrambe di due screditati studiosi russi, lo scienzia-to Kouznetsov e l’ex agente del Kgb Fesenko, hanno ricevuto notevole risalto sui media italiani. Peccato però che le loro

eppur ci credola sindone: falso o miracolo?

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foto Delgado Esteban

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smentite siano rimaste relegate alle riviste specializzate.

A prescindere dalla datazione, resta però aperto l’interroga-tivo su come la Sindone sia stata ottenuta. Ancora oggi non esiste una tesi definitiva, tra le molte avanzate, in gra-do di spiegare in modo conclusivo il procedimento usato. Vi sono le tesi più antiche, come quel-la vaporografica, che vede nella Sindo-ne il prodotto di una reazione chimica tra il tessuto e alcuni aromi, comple-tamente demolita da studi più recenti; è stata esclusa da quasi tutti gli studiosi anche l’eventualità che la sagoma umana sia stata dipinta, dopo aver constata-to dopo accurate analisi l’assenza di pigmenti. Più recente-mente è stato proposto il metodo della strinatura, ottenuto bruciando parzialmente il tessuto. Il procedimento permette di riprodurre l’immagine ma non l’effetto tridimensionale.Il progresso più importante nel campo è però stato compiu-to di recente dal professor Garlaschelli dell’Università di Pavia in collaborazione con il Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale) e l’Uaar (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti). Il professore ha realizzato una copia del-la Sindone utilizzando mezzi potenzial-mente accessibili ad un falsario del ’300. Il risultato non poteva essere identico all’originale, ma ne riproduce alcune caratteristiche considerate irriproducibi-li, come l’assenza di pigmento o la tridimensionalità, utiliz-zando il metodo del bassorilievo in gesso, ossia strofinan-do con un tampone cosparso di ocra rossa un telo poggiato sul corpo di un volontario.

In conclusione si può dire che dopo la prova regina della da-tazione del Carbonio 14 ed altre dimostrazioni collaterali la tesi che difende l’autenticità della Sindone sia diventata, scientificamente parlando, completamente insostenibile. Sorprende l’accanimento di alcuni scienziati nel difenderla, soprattutto quando questo genere di miracoli, verso i quali persino la Chiesa si mostra molto prudente, nulla toglie e nulla aggiunge alla Fede del credente.

Filippo Bernasconi

18 aprile 2010 — vulcano 53

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Sim

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19aprile 2010 — vulcano 53

A Milano non abbiamo solo la nebbia, luogo comune molto diffuso, soprattutto negli stadi. Milano ha molti luoghi d’arte, visitati da turisti di ogni sorta e noti a tutti gli universitari. Ma la città nasconde molte altre bellezze, che spesso non vengono notate nel nostro camminare quo-tidiano con lo sguardo rivolto al marciapiede per evitare di pestare qualche portafortuna canino. Il Duomo, la Scala, il Castello, la Basilica di Sant’Ambrogio, la Torre Velasca etc. sono ormai troppo conosciute per esse-re anche solo nominate. Sarebbe bello, invece, fare un giro turistico diverso dai soliti percorsi guidati, accompagnati da discorsi ammorbanti. Per iniziare si potrebbe partire, zaino in spalla da vero turista, dalla nostra università degli studi. Pochi accenni bastano per descrivere la Statale, un tempo sede dell’antico com-plesso della Ca’ Granda come Ospedale Maggiore. L’ateneo di Milano viene istituito nel 1923 nell’ambito della riforma promossa dal ministro Giovanni Gentile; negli anni prece-denti Milano faceva riferimento all’Università di Pavia. Il logo rappresenta la dea Minerva (la Sapienza) e sullo sfondo la città di Milano; la scritta disposta in cerchio recita Uni-versitas Studiorum Mediolanensis. Proseguendo a piedi, a pochi metri, troviamo piazza santo stefano. Qui sorge la chiesa di san bernardino alle ossa, costruita nel 1269 in aggiunta alla camera destinata ad ac-cogliere le ossa provenienti dal cimitero vicino che ai tem-pi l’Ospedale Maggiore era ancora attivo. Le pareti interne dell’Ossario, a pianta quadrata, sono quasi interamente ricoperte di teschi ed ossa, dando all’edificio quel senso di macabro mescolato all’arte Rococò di fregi, porte e cornicioni. In via Francesco sforza è possibile ammirare un edificio poco comune: un tempio! Si tratta del tempio valdese, adattato ad una chiesa co-struita su quel terreno anni prima. I fedeli appartengono ad una confessione protestante, il Valdismo. Dirigendoci verso il Duomo, non si può mancare il passaggio in Piazza sant’alessandro.

Quanto conosci Milano?Passeggiata insolitaper i luoghi solitidel capoluogo meneghino

foto Nico C

avallotto

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La piazza che accoglie la grande chiesa, seppure poco cono-sciuta (ma non dalla maggior parte degli universitari che frequentano la sezione di Studi Linguistici), è uno degli spazi più belli della vecchia Milano, non intaccati dalle rico-struzioni postbelliche. La chiesa viene costruita nel 1601, per volere dell’ordine dei Barnabiti e presenta una pianta centrale a croce greca coperta da cupola cui è aggiunto un secondo corpo minore, anch’esso sovrastato da una cupola, che funge da presbiterio.via torino è poco distante. Famosa più per i negozi e le mandrie del sabato pomeriggio, in realtà questa via nascon-de una perla di rara bellezza. La chiesa di santa Maria presso San Satiro, costruita tra il 1476 e il 1482, a pianta centrale, difetta di un quarto braccio, non costruito per la presenza di una strada assai frequenta-ta (già allora!). Ecco allora il colpo di genio: Bramante decise che il presbiterio dovesse esserci comunque essere e fece co-struire un finto spazio in prospettiva, con una volta in stucco, profondo soltanto 97 centimetri, ma in grado di suggerire una profondità molto maggiore, vero antesignano di tutti gli esem-pi di trompe l’oeil dei successivi sviluppi della storia dell’arte. Se l’inganno ottico vi stuzzica, si può anche vedere il portone del Palazzo al civico 16 di Via Dante, certamente meno raffi-nato di un opera del Bramante, ma degno di attenzione.Percorrendo tutta via Torino, si arriva alle colonne di san lorenzo con relativa Basilica. Luogo molto noto, più per ri-trovarsi a bere una birra in compagnia che per l’arte. All’in-terno della basilica di san lorenzo si può ammirare un ar-caico Cenacolo, nel caso in cui siate impossibilitati a visitare quello in Santa Maria delle Grazie, visto che serve prenota-re mesi prima. Il sito internet della Basilica descrive così questa copia: La pittura fu scoperta alla fine del 1800 men-tre si lavorava alla base della parete per aprirvi una porta. (…) L’affresco, fu ritenuto una copia della Cena di Leonardo o addirittura la prima Cena di Leonardo anteriore, e perciò meno perfetta a quella dipinta per il Convento delle Grazie.

20 aprile 2010 — vulcano 53

Ma queste affermazioni cadono dinnanzi al fatto che Leonardo venne a Milano nel pieno rigoglio della sua attività artistica. Tuttavia il valore di questa pittura rimane elevato. Pur non presentando caratteri di originalità denota nell’ispirazione, nel di-segno, nei mezzi tecnici usati, un fine senso estetico che pone l’ignoto autore fuori dalla mediocrità. Merita il viaggio, anche perché non ci sono code e l’ingresso è gratuito.Se tutta questa arte antica vi ha stancato, ba-sta prendere la Linea 2 della Metropolitana nei pressi delle Colonne (fermata Sant’Am-brogio) e scendere a lambrate. In via Predil, sulla massicciata della stazio-ne è possibile ammirare una bellissima ope-ra di street art realizzata da Blu. Il murales è immenso e si allunga su un muro ribaltando, in modo immaginifico, la gerarchia quotidia-na del traffico cittadino: una marea di picco-le macchine vengono schiacciate dalle ruote di ciclisti ciclopi.

Daniele Colombi

foto Valentina Pasquale

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sottile come i simpson,caustico come south Parkintervista a neri Marcoré, che ci parla di satira, democraziae del suo prossimo film.di laura carli e elisa costa

Ciò che spiazza e colpisce tanto di Neri Marcorè è il suo aspetto low profile: ha un atteggiamento timido, è alto, di-noccolato. Fissa il mondo dal suo metro e 88 con due profon-di occhi scuri e un mezzo sorriso divertito. Sembra un pacifi-co impiegato con una leggera espressione sardonica sul viso. Poi ti sorprende con la sua straordina-ria vivacità intellettuale, che emerge non solo durante gli sketch comici, ma anche quando parla, serafico eppure coinvolto, dell’attualità. Ed è decisamente bravo, uno di quegli artisti polivalenti che molti sognano di essere: recita, canta, imita e, all’occor-renza, fa pure l’accompagnamento con la chitarra. Come ha dimostrato nel suo spettacolo Un certo signor G., omaggio a Giorgio Gaber che lo ha portato in tournèe negli ultimi tre anni e che si è concluso il 2 aprile allo Streheler. “In un qualche modo abbiamo restituito Gaber alla sua Mi-lano” ha commentato Marcorè lo scorso 26 marzo, ospite in Statale per la terza edizione di Lezioni d’artista.Lo abbiamo incontrato nel backstage; dopo aver firmato au-tografi e scattato foto ci ha concesso questa intervista.

La prima domanda è: a chi non piace Neri Marcorè?Anche i soggetti stessi delle tue imitazioni si sono rivelati

tuoi fan, un esempio su tutti Gaspar-ri. Senti per questo in qualche

modo sminuita la portata sati-rica del tuo lavoro?

A parte che non è vero che piaccio a tutti: Capezzone ha detto che ho dato il peg-gio di me nella sua imita-

zione!E di Gasparri che devo

dire? Se uno per convenien-za o per autenticità si di-verte all’imitazione che uno

gli fa, beh, buon per lui e per qualsiasi modo la si voglia ve-

dere.

Ma quindi ti senti artefice di una sorta di irrisione bonaria?

Pensando alla tua recente imi-tazione della Binetti tanto bo-

naria non sembrerebbe...Forse io posso confon-

dere un po’, perché 21

foto Elen

a Torre

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non ho uno stile aggressivo. Ma un conto è essere aggressi-vi e un conto è essere banali. Penso che si possa non essere aggressivi ma allo stesso tempo risultare efficaci, edificanti. È giusto avere dei toni più civili e smor-zati, ma questo non significa essere più banali o democristiani.

Quindi satira graffiante o più bonaria? Insomma, meglio i Simpson o South Park (visto che li hai doppiati entrambi)?Sono due tempi diversi, non si può scegliere, si è al cospetto di due modi intelligenti di fare satira o comicità. Perché in-somma non tutti e due?

Alla manifestazione per la libertà di stampa hai letto un brano molto bello della Democrazia in America di Alexis de Tocqueville, che diceva tra le altre cose: “Moltitudi-ni rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all’universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa, cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi” e qui credo che il collegamento con il presen-te sia lapalissiano. E ancora: “Il padrone non ti dice più: “Pensa come me o morirai”; ma dice: “Sei libero di non pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resterà, ma da questo istante sei uno straniero fra noi”. Puoi dirci qualcosa a proposito di questa citazione?Beh, innanzitutto descrive un ricatto vigliacco perché dice “tu non pagherai per questa cosa ma ne subirai le conse-guenze” che è molto più strisciante e meno diretto. E secon-da cosa: le degenerazioni legate alla democrazia – perché di quello parlava appunto, della dittatura della democrazia – valgono al di là di qualsiasi tempo e di qualsiasi personaggio abbia il potere in quel momento.È ovvio che leggendole adesso pensiamo a berlusconi, però è proprio perché Berlusconi non rappresenta soltanto lui, ma tutte le possibili anomalie. Insomma, questo è un testo che ha 300 anni e quindi… se già a quel tempo o nell’anti-ca Grecia c’erano testi che mettevano in guardia rispetto a queste possibili degenerazioni, vuol dire che questa cosa può succedere, che ci sono degli strumenti, delle dinamiche che fanno sì che questo avvenga e quindi che la Storia deve ancora una volta insegnare, che i saggi e i filosofi ci aiutano a riconoscere meglio le situazioni e ci forniscono un appog-gio per decodificare meglio il presente. E poi dice anche che il popolo a cui si mettano a disposizione beni materiali sarà lui stesso per primo a rinunciare alla propria libertà e indi-pendenza, perché riesce comunque a ottenere la cosa per lui più importante: il benessere. Rinuncia spontaneamente perché dice “c’è qualcuno che provvede a me”.

A proposito di ruolo della cultura. Si parla di chiusura per il tuo programma di Rai 3 di Per un pugno di libri. Confer-mi? Ennesima sconfitta della cultura in televisione?Il programma non chiuderà, almeno non quest’anno. Io non mi sono stufato: l’ho condotto per nove anni, pensavo di far-lo per un altro anno ancora e poi passare il testimone per dedicarmi a qualcosa di nuovo. Ma la rete, per logiche che non sta a me spiegare, mi ha detto che il programma non an-drà avanti a lungo. A ottobre ricominceremo ma quanto pos-sa avere vita non lo so. Personalmente, e parlo anche come spettatore, mi auguro che in TV possano continuare pro-grammi che parlino di letteratura. Per un pugno di libri è un modo non noioso per farlo, spero non lo si voglia cancellare per fare spazio a un nuovo reality perché non ne sentiamo la mancanza!

22 aprile 2010 — vulcano

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Parliamo di cinema. Come attore hai rappresentato ruoli molto diversi: dal Papa all’angelo, passando per l’autistico e il gran seduttore. Come scegli i tuoi ruoli e i personaggi? Un po’ anche in base a quello che non ho fatto. Dopo Il cuo-re altrove, per esempio, (il film del 2003 di Pupi avati che ha rivelato il suo talento drammatico, ndr) mi sono arriva-te molte proposte di personaggi simili. Secondo me sareb-be stato un errore accettarli, anche se potevano essere ben scritti. A fossilizzarsi su un solo tipo di personaggio poi la paghi. Una delle cose a cui cerco di stare più attento è pro-prio quella di smarcarmi, di non mettere mai due cose dello stesso colore vicine. Poi ovviamente decido anche in base a quanto è scritta bene una cosa, guardando non soltanto il mio personaggio ma l’insieme. Un personaggio può avere successo all’interno di un film solo se anche il film è scritto bene e recitato da attori bravi.

Quanto ti senti libero di esprimere il tuo lato comico e il tuo lato drammatico?Non c’è un limite, mi vanno bene entrambi perché come nelle cose della vita, il comico e il drammatico sono sempre mescolati insieme, non ha senso dividerli. Un film eccessi-vamente drammatico sarebbe una noia mortale e uno solo comico sarebbe di una superficialità mortale. È quello che ci insegnavano i grandi maestri della commedia italiana: loro parlavano di un Paese con dei problemi forti, ma vi sapeva-no accostare situazioni leggere e battute. Quella è la nostra tradizione, è il motivo per cui molti film anche adesso hanno successo, perché anche adesso c’è chi sa fare bene questo la-voro.

Hai da poco finito di girare “La scomparsa di Patò”, puoi darci qualche anticipazione?La storia è ambientata nel fine ’800 e io faccio Patò, che scompare all’inizio del film; lo si vede solo in flashback e in pochi minuti all’inizio, ambientato nel presente. Non si sa se sia morto o no, lo si scopre alla fine. Mi è sembrato un progetto interessante, la sceneggiatura era scritta da Camilleri (autore del romanzo da cui è trat-to il film, ndr) e anche col regista Rocco Mortellitti mi sono trovato. Poi ho lavorato con Nino Frassica, Maurizio Casa-grande… è stato un bel modo di coniugare tante cose positive insieme.

Nel rispondere, tra le righe, probabilmente senza nemmeno accorgersene, Neri Marcorè si lascia scappare quale potreb-be essere la condizione del povero Patò. Ma è talmente bravo che lo perdoniamo!

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“La guerra è finita, e io devo andare. I miei quadri saranno esposti nei musei di tutto il mondo.”

Queste le ultime parole pronunciate da uno dei padri dell’Espressionismo austriaco, prima di morire di febbre spagnola nel 1918, neanche trentenne.E infatti dal 24 febbraio al 6 giugno 2010 Palazzo Reale propone a Milano una mostra che, in collaborazione con il Leopold Museum di Vienna, raccoglie quaranta opere del pittore egon schiele e altre di suoi contemporanei quali Klimt, Moser, Gerstl e Kokoschka, del quale è possibile am-mirare il celebre “Autoritratto con mano sul viso”. Le ultime parole del pittore oltre che profetiche sono sintomo di un’importante consapevolezza: egli era cosciente della sua raggiunta maturità artistica e del suo essere divenuto, dopo l’affrancamento dall’esempio di Klimt e della secessione viennese, capo di una nuova scuola artistica proiettata ver-so il futuro. Era il 1918, l’Austria usciva sconfitta dalla guerra,le speranze dell’“epoca delle certez-ze” della Vienna “felix” di fine seco-lo si sgretolavano, e si poteva ormai scorgere l’inquietudine e il disagio di una nuova epoca a cui Schiele non aveva mai avuto timore di guardare senza rimpianti per il passato. All’arte pur inno-vativa ma ancora legata alla tradizione della Secessione si era sostituita la nuova arte dell’Espressionismo.

L’esposizione si pone come obiettivo il far comprendere allo spettatore quale sia il clima in cui si collocano la nascita dell’arte moderna in Austria e in particolare l’elaborazione delle opere di un artista che sapeva dare ai suoi personaggi un “respiro ardente e appassionato”, citando le parole di Rudolf Leopold, curatore della mostra e direttore artistico del Leopold Museum. Il curatissimo allestimento, infatti, proietta il visitatore in una sorta di passeggiata nel tempo e gli permette di rivivere un frammento di storia: quello della Vienna tra ’800 e ’900.Come in un libro dispiegato, una nar-razione di un’altra dimensione spazio-temporale, si affacciano alla percezio-ne dello spettatore fotografie d’epoca, pannelli di contestualizzazione stori-ca, valzer come sottofondo musicale e le opere degli artisti. Il tutto realizzato con motivi grafici e tipografici del nuovo gusto decorativo del primo Novecento viennese, segnato dalla nascita del graphic design e dalle scelte estetiche della Wiener Werkstatte, ditta legata al design, la quale fondeva vari stili, dal Liberty allo Jugendstil alla Secessione, in un nuovo classicismo.

In tale contesto di sperimentazione artistica, letteraria e musicale, permeato di ottimismo e certezze, inizia la sua car-riera Egon Schiele. Il pittore, dopo aver abbandonato l’Acca-demia di Belle Arti, esordisce con uno stile prezioso, di cui è esempio “La danzatrice di Moa” con il suo cromatismo dora-

il tempodi schiele

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to, fortemente influenzato dal maestro Gustav Klimt. Subi-to però l’irrequieto spirito indagatore dell’artista lo spinge a trovare nuovi registri formali, che in-daghino le inquietudini e gli impulsi se-greti della natura umana. Proprio negli stessi anni Freud iniziava la sua ricerca sull’in-conscio e definiva le pulsioni fisiche e sessuali forze deter-minanti per la psiche, e un romanziere come Arthur Schnit-zler dava voce a desideri irrazionali abitualmente respinti dalla società, Schiele comincia a porre sulla tela una sorta di diario intimo. Abbiamo numerosi autoritratti, tra cui ci-tiamo Autoritratto con alchechengi, eseguiti con uno stile scarno, asciutto, composto da pochi tratti drammatici che realizzano il corpo come un organismo sofferente e inquieto, dal volto teso e dai gesti nervosi, attraverso i quali il pittore fa trasparire l’interiorità del soggetto. Il suo sguardo lucido e impietoso si serve spesso dello specchio come strumento d’osservazione, un oggetto ricorrente anche nelle fotografie che ritraggono l’artista. Infine Schiele approda a una fase di erotismo maturo, che ha al centro non la nudità astratta e pacificata dell’arte classica, ma quella legata direttamente alla sessualità, all’eros inteso come realtà quotidiana spesso cruda, affrontando tabù come l’autoerotismo e l’omosessua-lità femminile. La carica provocatoria di queste rappresen-tazioni suscitò uno scandalo che si accompagnò al successo nel momento culminante della carriera del pittore, scandalo che non sembrerebbe in grado di raggiungere lo spettatore di oggi, assuefatto dalla continua vista di immagini legate alla nudità e al sesso. Eppure queste opere hanno un effet-to perturbante e portatore di sotterranei timori: ciò che pro-voca sgomento è la sensazione che l’eros di Schiele tratteggi scenari di follia visionaria, rappresentando non una banale esperienza edonistica consumabile in tranquillità ma pul-sioni incontrollabili che pure muovono la nostra psiche. La bellezza terribile e grottesca di questi corpi turba il nostro intontimento di ordinati e sedati uomini della società civile.

Irene Nava

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Cos’è decisivo per la nostra formazione: ciò che leggiamo o ciò che non leggiamo? Quello che abbiamo visto o quello che non vedremo? Inevitabilmente entrambi concorrono a formare ciò che, in una parola, chiamiamo gusto. Se questo è vero, allora varrà la pena di provare a capire, volta per volta,perché manchiamo certi incontri o oc-casioni, certi libri o film.

Prendiamo il cinema, è semplice: alcuni film nel nostro pae-se non escono. Forse nessuno andrebbe a vederli o quasi, an-che perché è molto probabile che in pochi sarebbero capaci di apprezzarli, ma questo perché?L’anno scorso è uscito 35 rhums (vers. ingl. 35 shots of rum) della regista Claire Denis, osannato ovunque, qui ignorato. Si tratta di una straight story, appa-rentemente facile: un padre che ama la propria figlia: Lionel (Alex Descas), autista della metrò, vedovo, e Josephi-ne (Mati Diop), giovane studentessa di Scienze Politiche e commessa in un ne-gozio di dischi. Attorno alle loro, due altre esistenze, spezzate. Gabrielle (Nicole Dogue), ex di Lionel, taxista, e noé (Grégoire Colin), giovane inquieto, non si sa bene di cosa viva , oltre che assie-me al suo gatto. Vorrebbe partire, lasciare la casa una volta per tutte, senza farlo mai. Un po’ in disparte, rene (Julieth Mars Toussaint), collega di Lionel, costretto a una pensione forzata, indesiderata, che riduce la sua vita a un susseguirsi di giorni difficili da riempire. Gabrielle ama ancora Lionel, lo cerca più di quanto lui sia di-sposto a lasciarsi trovare, Noè scherza, anche se non è chia-ro fino a che punto, con Jo, bellissima eppure indifferente alla sua stessa bellezza (indifferenza che è parte di quello stesso inconsapevole fascino che divide col padre). Una sera sono tutti assieme diretti a un concerto, ma la mac-china di Gabrielle si ferma sotto il diluvio. Nel corso della not-te che segue alcuni frammenti della storia cominciano a ri-comporsi, secondo la comune miscela di casualità e destino. Il film ha la capacità di mostrare al di là delle parole, e al di sotto della superficie degli eventi gli affetti, i sentimenti, le inquietudini, le ansie, e i momenti di felicità dei protagoni-sti, l’evolvere della loro interiorità.Aggiunge preziosità al tutto la colonna sonora dei Tinder-sticks e la splendida fotografia di agnes Godard. Il titolo si riferisce a un rito da compiere in occasione di un momento speciale.

saper raccontare l’amore è forse ciò che più manca al nostro cinema (ma si potrebbe spezzare la frase per tro-vare tre cose di cui ugualmente fa difetto: sapere, racconta-re, amore), come cantava Celentano (ma un rinascimento è forse in vista). Le mancanze degli autori si riflettono poi in quelle del pubblico, che proprio questo tipo di film corre in massa a vedere (cioè, di nuovo, quelli che mal racconta-no l’amore). Ecco allora l’importanza di opere come quella della Denis. L’arte è un continuo studio d’alfabeto. Se la fre-quentiamo è per imparare a leggere meglio tutto ciò che sia-mo, che viviamo, e non per un’incorreggibile bisogno d’esse-re salvati. L’unica consolazione è che non c’è consolazione. E che, nonostante questo, ne vale la pena.

Giuseppe Argenteri

Gli invisibili

35 rhums

26 aprile 2010 — vulcano 53

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Findingmy religion conversando con Paolo saporiti,cantautore milanese.

Paolo è un cantautore folk-rock milanese proveniente dal mondo sempre più prolifico della “indie alternative”. La mu-sica che propone è di grande qualità, emozionante, intimista e soprattutto originale. Arpeggi di chitarre creano uno sfon-do su cui la sua splendida voce crea melodie sottili, ma allo stesso tempo profonde e graffianti. È uscito il 29 gennaio 2010 l’album Alone (Universal Classics & Jazz) arrangiato da Teho Teardo (colonne sonore de La ragazza del lago e de Il Divo). Lo abbiamo incontrato qui a Milano. Questo è un breve estratto della lunga chiacchierata che ci ha concesso.

In un documentario su Neil Young lui, guardando in ca-mera dice: “Ora sono puro, non sono mai stato così puro da trent’anni a oggi”. Quanto questo ti può riguardare? Diventare puro in quello che fai, “farsi nudo”?È il 90% di quello che faccio. Anche il modo di porsi sul pal-co… credo che a un uomo “Universal” interessi il fatto che io sorrida e mi ponga in un certa maniera, tale da non creare contrasto; io credo invece fermamente nell’esatto contrario. Sei in difficoltà con i tuoi problemi, sei in una situazione “umana”, ti manifesti per l’uomo che sei, non per l’uomo che dovresti essere. La guerra che voglio fare è questa qui. Uno che evita di assumere posture e sfruttare quei cliché che alla fine rovinano la musica.

Ho letto su di te: “La musica a volte mi ha aiutato più delle persone”.Beh Jeff buckley è una persona che nella mia vita mi ha aiutato. C’è un aspetto della solitudine che fa parte del percorso dell’uomo e di chi vuole fare arte. È meglio confrontarsi con la solitudine che affrontare la vita “normalmente”, cioè proponendosi verso l’esterno senza mai trovare dei punti di rifles-sione. La musica in questo contribuisce. Se tu ami la musica sai che condivi-derla è un mondo tuo, soprattutto per il genere che faccio io. C’è bisogno di un “te riflessivo”. Ti costruisci il tuo mon-do e la musica ti aiuta a sostenerlo. In più, biograficamente, in alcuni mo-menti, nella difficoltà mi ha

foto J.E. Sm

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dato una grandissima mano. L’idea di famiglia che non ho perché i miei sono divorziati, automaticamente me la sono creata con gli amici musicisti, gli amici scrittori…

Che musica ascoltavi da ragazzo?Sono cresciuto con Crosby, Stills e Nash, Neil Young, Ja-mes Taylor, Cockburn da matti. Ascoltavo in cuffia tantissi-mo; e questo è uno “schema di gioco” importante. Poi Joni Mitchell, Tom Waits anche quello prima maniera: chitarra e voce, e poi pian piano da lì… uno spostamento leggero…

Oggi cosa stai ascoltando? Quest’anno di ogni, perché ho cercato una certa apertura... Ho ascoltato parecchio jazz, mi hanno colpito i trombetti-sti… probabilmente avevo bisogno di una seconda voce: di qualche cosa molto simile al cantato, quindi Miles davis. Mi piace moltissimo questo clifford brown. Ho trovato quelle piccole cose che il mondo indie ti sa dare, cioè la ri-cerca del suono, la ricerca dell’essenza della musica, mica tante note ma tutta roba corposa. Ho ascoltato un po’ di clas-sica, Wagner, che devo dire non conoscevo, e mi è sembrato entusiasmante il Die Prelude.

Entriamo un po’ più nello specifico dell’album ALONE. Conta tanto la presenza-assenza di Dio nelle tue canzoni? Credo che una specie di dialogo in questo senso ci sia. Non so definirmi rispetto a questo. È da poco che sto cercan-do di trovare anche le parole. Sto leggendo Kierkegaard e Nietzsche. Non so dare un nome a quello che provo. Non so nominarlo ancora. Ho una sensazione molto forte che però è legata alla fede, al credere, non a un’entità. È questa la cosa di cui l’uomo ha bisogno o di cui è fatto, non tanto ciò in cui credi, ma il fatto di credere. Lo vuoi chiamare sogno, ideale, passio-ne, l’importante è che un uomo si con-fronti con una cosa più grossa di lui, e poi a quel punto gli puoi dare il nome di Dio o quello che vuoi… è questa cosa qui che secondo me si sente nelle mie canzoni. Credo talmente tanto nell’esserci, nell’esser presente, un “esser presenti” che secondo me deriva da qualcosa di supe-riore, questo senza dubbio.

C’è una specie di filo rosso nel tua lavoro? Il tema della trasformazione, la volontà di lasciarsi andare con nostal-gia per quello che si è lasciato, lasciarsi trasformare dagli eventi e guardare però indietro in modo un po’ spaventato quel che si è perso, una specie di ’in bilico’…È la mia essenza direi. La mia storia biografica soprattutto.

Per esempio leggo “Quando son tornato con tutto quello in cui mi sono trasformato” (da “Look into my eyes”), “Te-netemi così, pulito. Conservatemi nel vuoto. Tenetemi a lungo dove io stesso non ho saputo stare” (“I could die alo-ne”) e poi “Ricorda me e tutto quello che ho perso”. Credo che faccia parte del godere la vita nelle sue difficol-tà. Alla fine sono momenti di crescita, di trasformazione, ma non puoi pensare di non avere uno sguardo sul paradiso perso un istante prima. E quì c’è una poetica enorme. Il suc-cesso come uomo è riuscire a vivere a pieno tutti queste fasi. Cambiando argomento, tu hai scritto la canzone ”We are the fuel”. Mi sono immaginato una specie di orgoglio… una sorta di “cazzo, però noi stiamo qui, ci siamo, e ne sia-mo orgogliosi”…

28 aprile 2010 — vulcano 53

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Ed è proprio così… nel senso “siamo la benzina per il mon-do”, poi dico anche, quando verrà il ’lightning’, il momento dell’illuminazione… sperando in qualche modo di poter con-tribuire alla causa… cioè… sono quei momenti di esaltazio-ne, di coscienza che hai in alcuni istanti. Stava funzionando molto bene il live come sensazione interiore con Francesca al violoncello quindi è…siamo al concerto, stiamo suonan-do… noi siamo la benzina, ed il pubblico è la stessa cosa per noi. C’è veramente la speranza che possa essere la fiammella per qualche cosa… Fino a quel momento ero rimasto molto introspettivo, senza osare una cosa così. Questa è una delle prime canzoni sociali che ho scritto.

Parlaci un po’ della tua nuova esperienza con una casa di-scografica “più importante”.Sì, però ha degli aspetti indie, perché comunque è Universal sezione classica e Jazz. E ha questo grossissimo vantaggio perché loro non sono predisposti a quel tipo di marketing, questo crea dei problemi dal punto di vista delle fattibilità delle cose, nel senso che si devono creare dei nuovi canali, però questi buchi fan sì che tu possa fare. La cosa buona è questa, io mi son trovato in una situazione in fieri.

Cantautore milanese, perché l’inglese?È un riflesso fondamentalmente. Ascolto musica americana da quando ho due anni, e non ho dentro di me i suoni italiani. “Gelo” è un pezzo in italiano, però è come se fosse un ameri-cano che canta in italiano; non hai una sensazione di italia-nità vera e propria, ma non è fastidio verso l’Italia. E mentre io sto cantando al concerto non voglio che la gente capisca tutte le parole che sto dicendo, preferisco che una persona pensi “non ho bisogno di capire quello che canta, sono già dentro a quelle emozioni” Vuol dire avere capito che la vita è fatta di emozioni e di aver voglia di condividerle.

Alessandro Manca

29aprile 2010 — vulcano 53

foto Tiago Ribeiro

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30 aprile 2010 — vulcano 53

I filtri di lettura didascalici e moralistici sono, forse, i più invadenti strati di polvere che possano mai depositarsi sui libri. Delitto e castigo ne è pieno: un po’ come i quaderni del-le scuole elementari abbandonati in soffitta. L’idea di inol-trarsi nella sua lettura può dare la sensazione di un terribile esercizio di vecchiume pedantesco tale da indurre, nel me-dio e comune lettore, all’immediata remissione del propo-sito senza che poi ci si lasci invadere più di tanto da crucci intellettuali. Ma le precomprensioni, si sa, sono all’ordine del giorno in letteratura. E sono tanto più frequenti quanto più chi frain-tende ha letto di meno le opere in questione. E, infatti, inol-trarsi nella lettura di questo grande classico, apre un vasto ed inaspettato mondo.Un giovane brillante ricco di intelli-genza ed energie, Raskolnikov, abban-donati gli studi vive, nella Pietroburgo ottocentesca, in uno stato di estrema indigenza.Abita “una stanzuccia proprio sotto il tetto di un alto casa-mento a cinque piani” che somiglia a un armadio più che a un’abitazione. Intriso di velleità superomistiche, decide di uccidere una disgustosa e avida strozzina e di derubarla. Un delitto, dunque, dai moventi, non soltanto materiali, ma mo-ralistici e, soprattutto, filosofici. Diversi mesi di gestazione – il cuore in panne – il giovane entra nell’abitazione della vecchia e la uccide (insieme alla mite sorella, sopraggiunta improvvisamente sulla scena del delitto) col dorso di una scure.Ma superomismo e volontà di potenza naufragano nei rimorsi e nelle paure dell’animo tormentato di Raskolnikov, manifestandosi nei delirî e nelle febbri del giovane che, or-mai isolato, troverà pace solo grazie alla dolce e remissiva sonia Marmeladova, una giovane e malata prostituta figlia di un funzionario debole e ubriacone, che muore schiacciato dalle ruote di una carrozza.La consapevolezza della propria irriducibile umanità e l’inanità dell’uomo e delle sue azioni sono resi ancor più tra-gici dall’ambientazione desolata, l’estrema povertà in cui vi-vono molti dei personaggi e dalla vita colma di angosce che conducono.Innumerevoli sono i tipi umani che abitano le parole di Dostoevskij, sintomo di un’enorme conoscenza dell’uomo, espressivi della polifonia di un romanzo che naviga tra le pieghe dell’animo umano urtando le più minute piccolezze e sviscerando le miserie più terribili. Un’opera che riesce ad assorbire le idee del suo tempo – Naturalismo, Messiani-smo, Umanitarismo e Nichilismo – senza mai lasciarsi un-gere o intridere.Una di quelle letture, insomma, che possono anche tracciare delle svolte nella vita.

Danilo Aprigliano

da rileggere per la prima volta, 2

delitto e castigodi Fedor dostoevskij

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31aprile 2010 — vulcano 53

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soluzioni del numero precedente

orizzontali: 1 – Rifugio eterno per l’anima dei virtuosi, mol-ti lo considerano un luogo piuttosto noioso. 9- Su facebo-ok viene chiesta da sconosciuti. 10 – Capitale del Marocco. 11 – Sigla della nazista Schutzstaffeln. 12 – Lo si fa con l’ara-tro. 13 – Lo grida in coro il popolo di Silvio alla domanda “Vo-lete voi meno tasse?”. 14 – Nome scientifico della prima fase di digestione del cibo. 15 – Partito neofascista fondato da Rauti nel 2004 (sigla). 16 – La più classica delle congiunzio-ni avversative. 17 – L’Oreste da poco scomparso che doppia-va Woody Allen. 22 – Lo mettono i romani prima del nome. 23 – Quelle “della volgar lingua” sono opera del Bembo

verticali: 1 – Le raccontava Gesù nel Vangelo, ora permet-tono di prendere Sky. 2 – Viene spesso bevuto dopo i pasti. 3 – Insulto in voga tra spadaccini e duellanti. 4 – Parassi-ta presente nella polvere. 5 – La città infernale nella quale Dante entra dopo il sesto cerchio. 6 – Le iniziali dello Za-morano grande giocatore dell’Inter. 7 – La celebre impera-trice d’Austria moglie di Francesco Giuseppe. 8 – Cantano “Wonderwall” e “Champagne Supernova”. 15 – “Libera nos a …” è un libro di Meneghello. 16 – Il “mare” cantato da Char-les Trenet. 18 – Simbolo chimico dell’Iridio. 19 – Romanzo di Banana Yoshimoto. 20 – Iniziali dello scrittore Sciascia. 21 – Dittongo latino, insieme ad –ae, che viene pronunciato -e

Orizzontale: 1 – Avatar. 8 – Maradona. 10 – Ilona. 11 – Or. 12 – Luna. 13 – Ara. 14 – Ita. 15 – Tumb. 16 – Po. 17 – Ab. 18 – Orione. 21 – Vedetta

Verticale: 1 – Amici. 2 – Valutare. 3 – Arona. 4 – Tana. 5 – Ada. 6 – Ro. 7 – Barabba. 9 – Norma. 13 – Au. 15 – Tont. 16 – Poe. 18 – Ov. 19 – Id. 20 - Et

Registrato al Tribunale di Milano, n. 317, 4 mggio 2004.Direttore responsabile: Laura Rio.

Fondato da: Luca Gualtieri, Andrea Modigliani, Andrea Canevazzi.Stampato con il contributo dell’Università degli Studi di Milano,

derivante dal fondo per le attività culturali e sociali,previsti per Legge del 3 agosto 1985, n. 429

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numero 53, Aprile 2010Il mensile dell’Università degli studi di Milanoeditoriale

L’Italia è una gerontocrazia consolidata. È un paese vecchio. Vecchio perché l’età media è elevata. Vecchio perché un elettorato di anziani elegge classi dirigenti a propria imma-gine, che opera scelte conservatrici misurate sulle loro esi-genze. Vecchio perché ha idee vecchie su come affrontare le sfide nuove della contemporaneità. Gli effetti di questa ten-denza sono evidenti: giovani che restano in casa ben oltre i 30 anni, enormi difficoltà ad accedere al mondo del lavoro, possibilità di far carriera solo per grazia ricevuta. Nevrotici e sfiduciati, gli under 30 sempre di più sognano la fuga da un paese che tarpa loro le ali. Un’analisi tanto spietata quanto illuminante di questa tendenza è stata fatta da Elisabetta Ambrosi e Alessandro Rosina nel libro “Non è un paese per giovani” (ed. Marsilio), che mostra come da noi manchi la spinta al rinnovamento, con padri che monopolizzano spazi e risorse senza curarsi del bene comune, e figli sempre più dipendenti dalla famiglia e senza coraggio. Questa mancan-za di audacia ha però tanti alibi. Tanto per dirne una, l’Italia in questi anni ha investito solo poco più dell’1% del proprio PIL in ricerca e sviluppo. In questo modo come può un siste-ma paese pensare di progredire? La classe politica è troppo intenta a sbranarsi nel proprio cortiletto, per potersi accor-gere veramente di questo disagio. Purtroppo l’argomento dell’investimento nell’innovazione funziona molto poco in termini di consenso sulla (ex)casalinga (ora pensionata) di Voghera, la cui principale ansia è sapere di avere 20 euro di tasse in meno all’anno: denaro risparmiato che terrà gelo-samente da parte così da poterlo dare di mancia, a Natale, al proprio adorato nipotino che ormai va all’università. La sfida è: possiamo noi fare qualcosa per non lasciarci trasci-nare via dagli eventi? Beh, possiamo provarci. Di certo non ci riusciremo fuggendo all’estero. Nemmeno umiliandoci nel chiedere l’elemosina ai vecchi. Ma possiamo iniziare ad alzare la testa, pretendere lo spazio che ci spetta. Non pian-gerci addosso ma essere propositivi. Coraggiosi, e non terro-rizzati dal futuro. E dimostrare ai vecchi che abbiamo molto più a cuore di loro le sorti della nostra nazione.

Beniamino Mustodirettore: Laura Carlivicedirettore: Danilo Apriglianocaporedattore: Filippo Bernasconiimpaginazione & Grafica: Alessandro MassoneFotografie originali: Federica Storaci, Francesca Di Vaiovignette e fumetti: Andrea Manninoredazione: Denis Trivellato, Giuditta Grechi, Luisa Morra, Alice Manti, Elisa Costa, Corrado Fumagalli, Michela Giupponi, Tommaso de Brabant, Luca Ricci, Irene Nava, Davide Contu, Massimo Brugnone, Enrico Guerini, Gemma Ghiglia, Elena Sangalli, Francesca Gabbiadini, Giuseppe Argentieri, Daniele Colombi, Alessandro Manca, Anna Perego.collaboratori: Beniamino Musto, Gregorio Romeo, Fabrizio Aurilia, Diana Garrisi, Davide Bonacina, Flavia Marisi, Davide Zucchi, Francesco Zurlo, Chiara Caprio, Marco Bettoni, Dario Augello, Virginia Fiume, Morgana Chittari, Valeria Pallotta, Samuele Lazzaro, Barbara Ferrarini, Daniele Grasso, Alessio Arena, Luca Ottolenghi.responsabile bachecalloggi: Giuditta Grechi – [email protected]

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